Trova Le Differenze! Le 500 Più Grandi Canzoni di Tutti I Tempi Secondo La Rivista Rolling Stone

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In questi giorni ne hanno parlato tutti, giornali, televisioni, radio. Questa classifica della rivista Rolling Stone edizione italiana ha creato molto interesse (per nulla?). In fondo si tratta della ripubblicazione di una classifica che era già uscita nell’edizione americana della rivista nel 2004 e di cui vi avevo reso edotti in una serie di dieci Post pubblicati tra la fine del 2009 e il gennaio del 2010 che erano stati l’occasione per parlare di alcune delle più belle canzoni della storia della musica rock (e pop e soul….). In America era già stata ripubblicata da qualche mese questa edizione riveduta e corretta con la presentazione di Jay Z?!? e i pareri aggiunti di cento musicisti e addetti ai lavori i cui giudizi sommati a quelli della precedente versione e fatte le dovute comparazioni, così dicono, hanno decretato (per la serie, appunto, Trova Le Differenze della Settimana Enigmistica) che nelle prime 100 posizioni, fino alla 99^ tutto rimaneva invariato, poi l’unica variazione.

Al n°100!!! non c’è più You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones…

ma al suo posto viene inserita Crazy dei Gnarls Barkley…

Alla faccia della classica montagna che ha partorito il topolino. Va bene il “rinnovamento” ma…

Complimenti vivissimi!

Se volete controllare le prime 100 (commentate) le trovate da qui le-500-piu-grandi-canzoni-secondo-la-rivista-rolling-stone.html a qui le-500-piu-grandi-canzoni-di-tutti-i-tempi-secondo-la-rivist.html

Bruno Conti

Chi E’ Quella Brava Dei Due? 2 – Jenny & Johnny – I’m Having Fun Now

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Jenny And Johnny – I’m Having Fun Now – Warner Bros

Anche se Chrissie Hynde (come ribadito nel post di ieri) non ha nessuna intenzione di appendere la chitarra al chiodo, una delle possibili eredi potrebbe essere Jenny Lewis.

Dopo una infanzia passata nel nativo Nevada si è trasferita in California dove per molti anni della sua adolescenza e gioventù è stata una piccola stella della televisione partecipando a innumerevoli sitcom e serie televisive. Poi, alla fine degli anni ’90, ha formato il suo primo gruppo professionale, quei Rilo Kiley dove tutt’ora milita e che hanno pubblicato 5 album (un paio veramente deliziosi), ma ha anche pubblicato due dischi solisti, di cui il primo, quello con le Watson Twins Rabbit Fur Coat è sicuramente la sua prova migliore, degna della signora citata in apertura.

Ma da alcuni anni Jenny Lewis ha anche una vita sentimentale (e artistica) in comune con Johnathan Rice altro belloccio con talento della scena alternativa americana. I due hanno scritto spesso canzoni insieme scambiandosele nei rispettivi album e lui suona anche nella band di lei dal vivo, ma, diciamocelo, pur se il rapporto è quasi paritario quella “brava” (o più brava) dei due è chiaramente lei.

Questo loro disco d’esordio come Jenny & Johnny (solo ordine alfabetico?) si chiama I’m Having Fun Now e, come da titolo, è chiaramente musica solare, power pop-rock influenzato dal suono anni ’70-80 mentre i testi sono una sorta di “baruffe chiozzotte” tra innamorati, o se preferite “l’amore non è bello se non è litigarello” per citare sia il “sacro” che il “profano”.

Risultato? Direi più che buono! In Inghilterra sono addirittura entusiasti, 4 stellette sia Mojo che Uncut (ma entrambe le riviste hanno una sorta di predilezione per Jenny Lewis), in America un po’ più contenuti ma sempre giudizi positivi dai vari Rolling Stone, Spin, Pitchfork, Los Angeles Times, New York Times  con voti che oscillano tra il 7 e le 3 stellette.

Io mi schiero con gli americani: disco molto piacevole, scorrevole che si ascolta tutto di un fiato ma non particolarmente memorabile anche se ha un suo fascino. Vediamo in dettaglio, brevemente.

Si parte alla grande con Scissor Runner con le sue celestiali armonie vocali e le voci che si rincorrono gioiosamente, che rievocano il meglio del rock Californiano ma anche i Lemonheads di Evan Dando nei loro momenti di maggior gloria (ad esempio i duetti con Juliana Hatfield), una piccola sciccheria. Giova al tutto anche la brillante produzione di Mike Mogis dei Bright Eyes che evidenzia voci e strumenti: tutto fatto in casa, lui le chitarre lei il basso (ma sono interscambiabili dal vivo) con un aiuto del batterista dei Rilo Kiley Jason Boesel. My Pet Snakes ci catapulta in ritmi sincopati più anni ’80, ma l’intreccio delle voci, prima lei, poi lui, insieme ad armonizzare democraticamente è perfetto, anche quelle chitarre leggermente fuzzy completano l’opera. Switchblade, ballata dolce e romantica con la voce di Rice in primo piano e lei che canta all’unisono è un altro quadretto sonoro, questa volta semiacustico con il suo intrecciarsi di chitarre e tastiere.

Big wave ricorda le Bangles spensierate degli esordi quando erano le “cocche” del nascente Paisley Underground che ricreava la California degli anni d’oro watch?v=BwtV7L5bxtk. While Men Are Dreaming, una specie di ninna nanna futurista con le voci “trattate” in sottofondo è un episodio meno riuscito. Animal, cantata da Rice con una voce che mi ricorda un qualcosa che non riesco a definire (forse i R.e.m. degli anni ’90), è pop di grana raffinata. Just Like Zeus è un’altra power pop song, piacevole ma non essenziale mentre New Yorker Cartoon potrebbe venire dal repertorio di Simon & Garfunkel o dei Mamas & Papas (o in tempi più recenti Tom Petty & Stevie Nicks) molto bella comunque.

Straight Edge Of The Blade cantata con la voce più bella di Jenny Lewis (tra le tante nel suo spettro sonoro), un contralto vagamente alla Hynde e con un ritmo incalzante è semplicemente “una bella canzone”, merce sempre più rara anche se fortunamente ancora disponibile. Slavedriver e Committed sono due brani minori (meglio la seconda, più tirata) che concludono un disco complessivamente più che positivo, leggero ma non privo di sostanza. Lei potrebbe regalarci altre belle sorprese in futuro ma anche lui è “bravo”!

Bruno Conti

Chi E’ Quella Brava Dei Due? JP, Chrissie & The Fairground Boys

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JP, Chrissie & The Fairground Boys – Fidelity – Ear Music/Edel

Ovviamente quella brava è Chrissie Hynde nella sua prima avventura discografica al di fuori dal nome Pretenders (anche se a guardare bene è sempre stata lei con degli “altri musicisti” ma il nome funzionava sia come “copertina di Linus” sia per attirare i fan fedeli alla ragione sociale). Lui è John Paul Jones (non quello dei Led Zeppelin, ovviamente, anche se visti i trascorsi di Chrissie con Jim Kerr e Ray Davies non era così certo): questo JP Jones è un musicista gallese ex leader e vocalist dei Grace che parte della stampa inglese aveva definito come un incrocio tra i Coldplay e gli Oasis.

Perché ve ne parlo? Perché il Buscadero con cui collaboro lo ha stroncato di brutto e invece secondo me (e anche altri giornali musicali italiani) non è niente male. Non è quel capolavoro che hanno dipinto Uncut e altre riviste inglesi ed americane ma il miglior disco della signora Hynde da molti anni a questa parte.

Sarebbe molto meglio se non ci fosse il JP in questione, ma visto che è la ragione principale, affettiva ed artistica, per cui questo album esiste, ce lo teniamo. Quando canta per conto suo in alcuni brani è anche bravo: Leave Me If You Must potrebbe essere una outtake di Leonard Cohen, mentre Christmas Soon è un bel pezzo di blue collar rock vagamente springsteeniano cantato con grande convinzione e trasporto, prima lui e poi lei ma ognuno per i fatti suoi.

Ma è quando si sovrappone con le armonie vocali o duetta con la Hynde che rompe un po’ le balle: capisco che il disco è una collaborazione ma un brano come l’iniziale Perfect Lover, uno di quei bellissimi valzeroni rock tipici dei Pretenders con la voce inconfondibile di Chrissie che viene interrotta da un vocione che è un incrocio tra Tom Waits con la raucedine, ancora Leonard Cohen (ma ubriaco) e Axl Rose non in uno dei suoi giorni migliori (cioè sempre) ti verrebbe la voglia di abbatterlo lì sul posto. Peccato perché il brano è delizioso e ha un testo significativo: “I’ve found my perfect lover but he’s only half my age/ He was learning how to stand when I was wearing my first wedding band”!

Anche If You Let me è un gagliardo pezzo rock cantato in coppia (qui Jp meglio) con una chitarra tagliente e la divina Chrissie in grande spolvero ma fatto da sola secondo me sarebbe stato anche meglio. Non ci risparmia anche il falsetto in Fairground Luck: ma benedetto uomo (come direbbe qualcuno) hai Chrissie Hynde nel tuo gruppo e lasciala cantare. Quando riesce, parzialmente. a trattenere i suoi istinti come nella solare Australia, incanalandoli verso tonalità alla Ian Hunter l’alchimia tra i due funziona.

Se poi riesce a cantare da sola come nella ballatona Misty Valleys ci sono perfini echi dell’antico splendore pop dei Pretenders. Anche Courage sarebbe un’altra bella power ballad ma ritorna quella vocalità alla Axl Rose che JP ogni tanto ci propina e un po’ rompe l’equilibrio ( e le balle).

Meanwhile è un altro brano romantico e melodico solo per la Hynde, niente di trascendentale ma è sempre un piacere sentire quella bellissima voce, qualcuno ha detto vulnerabile ma allo stesso tempo di acciaio, una delle più espressive della musica rock (se ve lo state chiedendo, c’è, ma poco). Molto piacevole anche Your Fairground, già sentita (ma cosa non lo è) ma non scontata.

Niente male anche Never Drink Again, sempre molto cantabile e orecchiabile, la nostra amica non ha perso quel talento per creare la (quasi) perfetta canzone pop. Agli inizi di carriera non c’era quel quasi ma ci si accontenta. In questo senso Fidelity è perfetta senza se e senza ma, uno di quei brani che vorresti sentire alla radio se non fosse inflazionata dalle Rhianne, Lady Gaghe e Madonne della situazione. Accontantevi di sentirla sul CD. Di Christmas Soon abbiamo già detto. Nell’edizione Deluxe Enhanced ci sono due tracce dal vivo in più e il video di If You let me.

C’è in giro molto di peggio spacciato per oro, questo è dell’onesta musica pop (e rock).

Bruno Conti

Il Migliore Dei Vecchi “Nuovi Dylan” Ancora In Circolazione – Elliott Murphy

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Elliott Murphy – “Elliott Murphy” – Blue Rose/Ird

Agli inizi degli anni ’70 la stampa americana inventò quel gioco al massacro che era la creazione o meglio l’investitura di un “Nuovo Bob Dylan”. Se proprio vogliamo guardare, in effetti non è che il buon Dylan in quegli anni facesse proprio dei bei dischi, qualcuno ha detto Starportrait? E quindi i giornalisti cominciavano a guardarsi intorno: vado a memoria ma mi sembra di ricordare che il primo in ordine cronologico fu Loudon Wainwright, seguito a breve da John Prine. Massacrati i primi due (perché era veramente come metterti una fune intorno al collo con pietra annessa, buttarti in acqua e poi dirti ” e adesso nuota) nel 1973 la rivista Rolling Stone pubblicò un articolo dedicato a Ellott Murphy che esordiva con Aquashow e Bruce Springsteen che pubblicava The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle, entrambi erano presentati come i “Migliori Dylan dal 1968” e vai col massacro. Poi Bob Dylan “ritornerà”, prima con Planet Waves poi Blood On the Tracks e Desire e quindi il nuovo Dylan non serviva più visto che c’era di nuovo quello vecchio.

Ma l’effetto, e le aspettative, per quei due album, peraltro entrambi bellissimi fu devastante. Poi Bruce Springsteen diventerà “Bruuce” o il “Boss” ma Elliott Murphy, un talento quasi alla pari con il coetaneo dei New Jersey, e con 30 album alle spalle (live e compilations incluse) è diventato un artista di culto, un cantautore e rocker di grande talento ma non sempre, specie negli ultimi anni, con dischi degni della sua fama. Questo nuovo album lo riporta ai fasti del passato, ai tempi di Lost Generation, Night Lights e Just A Story From America, ma anche il successivo Murph The Surph. Una giusta miscela di R&R, ballate ariose e canzone d’autore con qualche eco Dylaniano ma anche tutta la storia del miglior rock contenuta nelle sue canzoni.

Vocalmente, specie nei brani più mossi, come nella Rock ‘n Roll ‘n Rock ‘n Roll (tanto per rendere chiaro il concetto), contenuta in questo CD, la tonalità ricorda molto quella del Bowie rocker dei primi anni, mentre musicalmente si potrebbe tracciare un parallelo con i primi Mott The Hoople, quelli prima dell’epoca glam, quando già facevano dei bellissimi album assai vari nei loro contenuti. Elliott Murphy è sicuramente più morbido nelle sue sonorità ma quando c’è da rockare non è uno che si tira indietro. Nei suoi dischi negli anni ha suonato gente come Mick Taylor, Phil Collins, Billy Joel, Sonny Landreth, David Johansen, i Violent Femmes, Shawn Collins e, naturalmente, l’amico Bruce. Nei suoi gruppi si sono alternati fior di musicisti ma da quando, da una ventina di anni, Murphy è diventato “Un Americano a Parigi” il suo collaboratore fisso è l’immancabile chitarrista Olivier Durand, un musicista molto valido e il perfetto contraltare per Elliott. Non sempre tutto funziona a dovere, non sempre i brani contenuti nei dischi sono all’altezza della fama ma in questo Elliott Murphy tutto fila alla perfezione.

Dall’iniziale Poise ‘n Grace dove, questa volta sì, Elliott Murphy sfoggia una voce Dylaniana, grave e vissuta e la musica, caratterizzata dalla slide di Durand e dalle tastiere di Kenny Margolis (uno dei Mink DeVille dei primi tempi) e con le armonie vocali dove spicca la voce di Lisa Lowell altra Springsteeniana doc, questa musica ricorda molto il miglior Dylan, evocativa anche nei testi che ci portano dall’Alaska al Madagascar attraverso Detroit e da Milano ad Amarillo per arrivare a Honolulu e Asbury Park dove risuona la Johnny 99 di Nebraska. Brano bellissimo che non si può descrivere (ci ho provato) ma è da sentire.

Ottima pure la successiva Maybe You Were laughing, anche con una bella sezione di fiati e di nuovo la chitarra di Durand in grande spolvero ed una produzione precisa e meticolosa che mette in evidenza tutti gli strumenti e la voce caratteristica di Murphy. E sapete chi è l’autore di questo piccolo miracolo di equilibri? T-Bone Burnett, Don Was, Joe Henry o Rick Rubin? Ma proprio per niente: è il figlio ventenne del buon Elliott, Gaspard Murphy, che forse ispirato dall’incontro ravvicinato con Springsteen un paio di anni fa sul palco dello stadio di Parigi, si rivela produttore attento e meticoloso, forse il migliore per mettere in evidenza i grandi meriti di quel musicista che è anche il suo papà.

Le canzoni si susseguono, una più bella dell’altra, dalla malinconica Counterclockwise alla scatenata e già citata Rock ‘n Roll ‘n Rock ‘n Roll, vero manifesto sonoro di tutto quello che è valido nella musica rock “The Gospel according to Elvis” come dice nel testo del brano.

Gone, gone, gone molto seventies nella sua costruzione sonora, lenta e confidenziale nella sua andatura soffusa, la sincopata With This Ring con le tastiere di Margolis in primo piano e ancora la bellissima ballata Take That Devil Out Of Me e le atmosfere notturne quasi LouReediane di The Day After You ( i due sono concittadini, entrambi newyorkesi), dove una voce femminile contrappunta dolcemente quella di Elliott Murphy. Rain, rain, rain giocosa e scatenata ricorda il Boss più ludico quello che ama gli anni ’50 e quelle atmosfere spensierate con l’organo di Margolis a condurre le danze.

La conclusione è affidata alla lunga Train Kept A Rolling (nulla a che vedere con il brano dello stesso titolo): il nostro amico ha tenuto il meglio per la fine (e non è che il resto fosse scarso, tutt’altro), una lunga canzone poetica e descrittiva che si dipana su un ritmo sospeso, la voce quasi sussurrata e gli strumenti e le voci di supporto quasi centellinate su un tappeto di percussioni molto presente e sullo sfondo una chitarra elettrica che ricorda vagamente il suono di quella di The End dei Doors, minacciosa e quasi irrisolta. Ottimo finale e ottimo disco!

Well done mister Elliott Murphy.

Bruno Conti