Novità Di Luglio Parte I. James Dickinson & North Mississippi Allstars, Rick Estrin, Jimmie Van Zant, Keller Williams, Wyland Blues Planet Band, Chris Smither

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Riprendiamo i nostri appuntamenti con le uscite discografiche, anche se questa prima settimana di luglio non ci riserva grandi nomi e nemmeno molte uscite, mentre sembra più interessante la prossima con le ristampe di Hendrix (Berkeley, per l’ennesima volta), il nuovo Zac Brown, il box di Woody Guthrie, Hank Williams Jr. e qualche altra pubblicazione interessante. Questa settimana escono anche Blasters e Little Feat di cui si è già detto in altre pagine virtuali del Blog. Vediamo comunque le uscite del 3 luglio.

Prima di tutto, pubblicato dalla Memphis Int’l, un ulteriore capitolo delle vicende della famiglia Dickinson. Questa volta si tratta di un disco postumo attribuito a James Luther Dickinson and North Mississippi Allstars, I’m Just Dead I’m Not Gone, registrato dal vivo al New Daisy Theater di Memphis, Tennessee nel 2006, contiene 9 brani scelti tra classici e brani oscuri della musica americana, blues e non. Sul sito della band dice che è il miglior live mai registrato da Jim Dickinson, non so se è umorismo macabro, ma essendo anche l’unico disco dal vivo mai registrato sarebbe difficile credere il contrario. Comunque da quello che ho sentito mi sembra gagliardo, compresa la surreale intro parlata all’iniziale Money Rice di Sir Mack Rice e quando fa viaggiare il pianino indiavolato come nella poderosa Rooster Blues. Dalla copertina deve essere anche in mono, ma il suono è molto buono.

Da quando si sono persi per strada Little Charlie mi sembra che quelli che ora si chiamano Rick Estrin & The Nightcats, giunti al secondo album con la nuova formazione, One Wrong Turn, oltre al chitarrista hanno perso anche un po’ della grinta del passato. Comunque ascolterò meglio e poi vi riferirò, l’etichetta è sempre la Alligator. E il nuovo chitarrista “Kid” Andersen è comunque molto bravo.

Jimmie Vant Zant è il cugino di Ronnie, Donnie e Johnny, ma mi sembra che sia sempre stato il meno dotato della famiglia. Questo Feels Like Freedom, pubblicato dalla MRI, anche se contiene un brano che si intitola Southern Rock mi sembra più che altro rock Americano, AOR non particolarmente brillante, tipo i 38 Special nei loro album più commerciali. D’altronde quando leggi nelle note di presentazione che trattasi di album caratterizzato da un “innovativo suono crossover”, sai già cosa aspettarti. Nulla di buono (nemmemo di tragico per la verità), a meno che non ami il genere, niente in contrario ma come sono uso dire in questi casi “It’s not my cup of tea”! Il singolino del video è uno dei brami migliori del disco, quindi occhio al resto!

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Keller Williams è uno dei musicisti più interessanti che si muovono in quell’area che sta fra Bluegrass e Jam Grass acustico: cantante e polistrumentista, con una quindicina di album pubblicati per la Sci-Fidelity Records, per questo Pick si accompagna alla famiglia bluegrass dei Travelin’ McCourys, che poi sarebbero la Del McCoury Band senza il babbo. Se vi piace il genere assolutamente consigliato.

Dopo il primo capitolo di qualche mese fa, torna la Wyland Blues Planet Band con questo Blues Planet II, su etichetta Rocket Science. Le facce in copertina mi sembrano più o meno le stesse del primo album e visto che si tratta di una trilogia, tutto mi fa pensare che sia stato registrato in un’unica occasione in quel fatidico Maggio 2011 a New Orleans nei famosi Piety Street Recordings Studios e il materiale viene poi pubblicato di volta in volta. Rod Piazza, Taj Mahal, Honey Alexander, Jon Cleary, Johnny Lee Schell, Rusty Zinn e molti altri gli artisti coinvolti in questo progetto ecologico dall’artista Wyland per una buona causa con della buona musica, il Blues. E se vi siete persi il primo.

Per finire, il nuovo album di Chris Smither, Hundred Dollar Valentine, Crs/Signature records. Dovremmo essere a una quindicina di album di studio più 6 o 7 dal vivo per questo veterano della scena blues-folk in attività da una quarantina di anni, con qualche pausa discografica. Negli anni ’90 quando ha pubblicato i suoi dischi migliori mi piaceva moltissimo e anche a Bonnie Raitt che lo ha sempre considerato una specie di controparte maschile e pure a Emmylou Harris, John Mayall, Diana Krall e molti altri che hanno inciso i suoi brani. Negli ultimi dischi soprattutto acustici e in solitaria ha accentuato sempre più la quota Blues a scapito di quella cantautorale ma, come dimostra questo album, la voce è sempre bella, lo stile chitarristico rimane notevole e sono presenti anche, il violino in molti brani e la slide di David Goodrich che è il produttore del disco. C’è pure un batterista in quasi tutti i brani (ma niente basso), il cello di Kris Delmhorst e la seconda voce femminile di Anita Suhanin. Così vi ho fatto una spece di mini-recensione se non avrò il tempo di tornarci più dettagliatamente. 10 brani + la classica hidden track Rosalie, annunciata nel libretto. Non ho mai capito se la traccia deve essere “nascosta” perché l’annunciano sui CD. Mistero!

Alla prossima!

Bruno Conti

La (Seconda) Migliore Rock And Roll Band Al Mondo! Tom Petty And The Heartbreakers

NDB. Come avrebbero detto ai tempi d’oro di “Tutto Il Calcio Minuto Per Minuto”, la parola ad uno dei nostri radiocronisti, da Lucca, Marco Verdi!

Tom Petty And The Heartbreakers – Lucca, Piazza Napoleone – 29 Giugno 2012

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Eh già, “solo” la seconda, in quanto considero di poco superiori Bruce Springsteen & The E Street Band (con tante scuse ai Rolling Stones, ma il terzo posto è comunque un gran bel risultato), che forse non hanno al loro interno musicisti di grandissima tecnica (esclusi forse Lofgren, Bittan e Weinberg), ma hanno una maggior capacità di coinvolgere il pubblico, merito sicuramente del Boss, un animale da palcoscenico di quelli che ne nascono uno ogni cento anni.

E comunque ribadisco che ho sempre considerato Tom Petty & The Heartbreakers di poco inferiori, avendo avuto modo negli anni di vederli all’opera purtroppo solo in DVD, anche se ho ancora un vago ricordo dell’unica volta che suonarono in Italia, nel lontano 1987, come backing band di Bob Dylan: li vidi a Milano, all’Arena Civica (era il mio primo concerto in assoluto), e già allora mi lasciarono senza fiato anche se non conoscevo assolutamente il loro repertorio, mi piacquero quasi più di Dylan, all’epoca al minimo storico in termini di comunicativa col pubblico. Poi per anni, il buio: poche tournée in Europa (mi ricordo quella del 1992, avevo un bootleg inciso, male, a Basilea), ed il nostro paese regolarmente ignorato, anche se qualche anno fa sembrava che Tom dovesse fare una serata al Forum di Assago (ma poi non successe nulla). Quindi quest’anno, quando ho visto che Petty ed i suoi erano in cartellone al Lucca Summer Festival, non ci ho pensato neppure un minuto e mi sono accaparrato subito i biglietti (per me ed un altro mio amico “carbonaro”), anche se il capoluogo toscano non è proprio dietro l’angolo rispetto a dove abito (tre ore di macchina, ma mi sono preso mezza giornata di ferie, ed il fatto che il 29 Giugno sia un venerdì aiuta parecchio, in quanto mi posso fermare a dormire una notte sul posto). Tom Petty non posso proprio perdermelo, e quando lo ribecco!

Lucca è una bella cittadina, anche se ci sono altre città e borghi in Toscana che preferisco, ma Piazza Napoleone è di gran lunga la miglior location possibile: circondata da palazzi storici, in mezzo al verde, sembra proprio nata per farci degli spettacoli. Incontro altra gente delle mie parti che conosco (noi “carbonari” siamo sempre gli stessi), ed insieme andiamo a mangiare qualcosa per poi dirigerci ai cancelli, che apriranno alle 19.30: fa un caldo terrificante, ancora più che da noi al Nord, con l’aggravante di un’umidità spaventosa, che inciderà non poco sulla tenuta fisica del pubblico e della band stessa. Alle 20.30 sale sul palco Jonathan Wilson con la sua band, un giovane musicista della Carolina del Nord che propone un’interessante miscela di rock californiano in stile CSN&Y e di psichedelia alla Pink Floyd: circa tre quarti d’ora di musica, pochi brani e molto dilatati, di buona qualità, che il pubblico mostra di apprezzare non poco (la piazza è sufficientemente gremita direi).

Ma siamo tutti qui per Tom Petty, il quale sale sul palco, finalmente, solo verso le 22.00, dopo un interminabile instrument check da parte dei roadies: volto sorridente, barba lunga, vestito con un completo gessato (ma si libererà quasi subito della giacca), accompagnato come al solito dai fidi Mike Campbell (treccine lunghe e camicia rossa sgargiante), Benmont Tench, Ron Blair, il colossale Steve Ferrone e Scott Thurston. Tom imbraccia subito la sua Rickenbacker 12 corde (ma tra lui e Campbell cambieranno almeno 15 chitarre a testa nel corso della serata) ed attacca con Listen To Her Heart, uno dei brani più byrdsiani del primo periodo della sua carriera (era sul secondo album, You’re Gonna Get It!): il pubblico è subito caldo (in tutti i sensi) e gli Heartbreakers sembrano stupiti dell’accoglienza.

You Wreck Me è un rock’n’roll che il popolo di Lucca mostra di conoscere bene, una versione bella tirata con Campbell, che sarà il protagonista della serata, che comincia a fare i numeri. I Won’t Back Down è uno dei brani più belli e famosi tra quelli scritti con Jeff Lynne, ed il pubblico la canta parola per parola con Tom, rendendola quasi una celebrazione, come d’altronde la seguente Here Comes My Girl, un vero classico che viene accolto alla grande.Handle With Care è il brano più noto dei Traveling Wilburys, e Tom la ripropone spesso come omaggio all’amico George Harrison: Thurston canta come voce solista la parte che era di Roy Orbison e Campbell rilascia un delizioso assolo di slide. Petty ha già la serata in mano, e con Good Enough (il primo dei due brani tratti dal recente Mojo) iniziano le jam: Campbell si dimostra un mostro di tecnica e feeling, ma anche Tom inizia a far sentire la voce della sua solista (non la suona spessissimo, preferisce la ritmica, ma la stoffa ce l’ha eccome).

Oh Well è un brano dei Fleetwood Mac periodo Peter Green: Tom alla voce e maracas, mentre Mike è il vero protagonista del brano con una serie di assoli strepitosi. Il pubblico è in visibilio, anche se il caldo inizia a mietere le prime vittime (nel senso che si nota una certa staticità), ed anche i ragazzi sul palco hanno un po’ di fiatone. Something Big è un brano poco noto, ma bello, dall’arrangiamento quasi alla John Fogerty, uno swamp-rock molto elettrico e ritmato, mentre Don’t Come Around Here No More è come al solito quasi un pretesto per il finale pirotecnico, nel quale Campbell mette tutti al tappeto con la sua tecnica chitarristica da urlo.Free Fallin’ viene accolta da un boato, ed è un vero e proprio singalong collettivo; la lunga It’s Good To Be King (versione strepitosa di un brano che in studio sembra normale, ma stasera gli assoli di Mike e Tom la rendono monumentale) ed una cover diretta e molto rock’n’roll di Carol di Chuck Berry (nella quale il protagonista è Benmont Tench, pianista coi controfiocchi) ci portano al momento semiacustico del concerto: Learning To Fly è un altro capolavoro pettyano, e questo arrangiamento intimo (già ascoltato sulla Live Anthology) la nobilita, mentre la divertente Yer So Bad non la si sente spesso in un concerto di Tom. La breve ed elettrica I Should Have Known It porta allo strepitoso uno-due finale di Refugee e Runnin’ Down A Dream, due delle più grandi canzoni rock del nostro (specie la prima, un classico assoluto), nelle quali Tom e i suoi non fanno prigionieri, ridando vita anche alla parte di pubblico ammazzato dal caldo.

Una breve pausa, poi i bis: Mary Jane’s Last Dance è una grande canzone rock, e per me questa ascoltata stasera è la versione definitiva: splendida, tesa, chitarristica, con un finale stratosferico nel quale le twin guitars di Tom e Mike si incrociano in una serie di assoli pazzeschi. Alla fine tutti esausti, ma che versione!Il concerto termina del tutto con un brano nuovo presentato in anteprima, dal titolo Two Men Talking (un blues abbastanza canonico, sullo stile di certe cose di Mojo) ed il superclassico American Girl, breve come sempre ma decisamente intensa e piena di feeling.Ora è proprio finita, Tom e i suoi Spezzacuori salutano felici (Petty ha anche promesso che tornerà presto, vedremo…) e sfiancati dal gran caldo (Campbell sta letteralmente boccheggiando), lasciando un pubblico in visibilio. Anch’io fisicamente sono provato, ma sono conscio di avere assistito ad una grande serata di rock, per merito di un gruppo che non ha eguali sulla faccia della terra.Da ricordare questo 2012: Bruce Springsteen e Tom Petty nello stesso mese…e quando mi ricapita?

Marco Verdi

Sembrano Quasi I Little Feat! Rooster Rag, Il Nuovo Album

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Little Feat – Rooster Rag – Rounder/Universal

E anche un po’ la Band, in riferimento al titolo. D’altronde Little Feat e Band si possono considerare tra gli inventori di quello che un tempo veniva definito “rock americano” e poi negli anni, via via, roots rock, Americana o come diavolo volete chiamarlo, quello stile che riunisce un po’ tutto gli stili e il meglio della musica rock intesa nel senso più nobile. Se andate a leggere su Wikipedia quale sia il loro genere, trovate: southern rock, blues rock, roots rock, R&B, Funk Rock, jazz funk, jazz rock, boogie rock, jam rock, country rock, Americana. Praticamente cosa manca? Folk e klezmer, mi pare, gli altri generi sono rappresentati tutti e li suonano tutti alla grande. Sembrano “quasi” i Little Feat, perchè dal 1979 Lowell George ci ha lasciati e nel 2010 è scomparso anche il batterista Richie Hayward. Shaun Murphy, l’ottima vocalist che aveva fatto parte del gruppo dal 1993 al 2009 nella terza fase (in sostituzione di Craig Fuller) parzialmente invisa a una fetta dei fans del gruppo, se ne è andata anche lei, mentre Fred Tackett, confermatissimo nella formazione, assume un ruolo più evidente sia a livello compositivo che vocale (e lui ormai fa parte del gruppo dal 1987). Il nuovo batterista è il bravo Gabe Ford, un membro della nuova generazione della grande famiglia Ford (quella di Patrick, il babbo, anche lui batterista e dello zio Robben Ford).

Il risultato finale è questo Rooster Rag, uno dei migliori album in studio della band in assoluto, il loro sedicesimo. Join The Band del 2008 era stato un eccellente disco ma conteneva vecchio materiale, una serie di collaborazioni e duetti con grandi musicisti alle prese con molte rivisitazioni dal loro repertorio. Questo album, a parte due cover, poste in apertura e chiusura del CD, è forse il loro disco più bello dagli anni ’70, sorprendentemente mi viene da aggiungere, per la consistenza e la continuità qualitativa del materiale presente nel disco. Dischi brutti non ne hanno mai fatti, ma non sempre tutti i brani erano all’altezza della loro fama, questa volta invece tutto gira alla perfezione.

Dalla “ripresa” iniziale della celebre Candy Man Blues dal repertorio di Mississippi John Hurt, cantata da Paul Barrere, tutti gli elementi del loro sound classico sono subito al loro posto, le due chitarre che si intersecano sinuosamente, con la slide ora nelle mani esperte di Barrere, il piano e l’organo di Payne che si insinuano nelle pieghe della sezione ritmica, con il basso inamovibile di Kenny Gradney ad ancorare il suono con la batteria di Ford e le percussioni di Sam Clayton ad aggiungere quella patina New Orleans al tutto. Rooster Rag, il primo brano firmato dalla nuova coppia Bill Payne/Robert Hunter è un perfetto connubio tra le sonorità classiche dei Feat e quell’andatura da “rag” della Band, il violino aggiunto di Larry Campbell, il mandolino di Fred Tackett e le tastiere di Payne conferiscono un andatura “paesana” alla canzone che ha tutto il fascino delle cose migliori del gruppo. Church Falling Down è il primo brano scritto e cantato da Tackett, in questo album, una ballata meravigliosa ed esoterica, con le tastiere di Payne che, come dice lui nella presentazione dell’album, hanno qualcosa del “gris-gris” di Dr.John, mandolino, slide acustica e un bel solo del piano acustico di Payne nella parte centrale confermano questa vena ritrovata per il “suono particolare” inserito in un ensemble formidabile.

Salome, un altro brano dell’accoppiata Payne/Hunter (il paroliere dei Grateful Dead), sembra un brano uscito come per magia dai solchi dei vinili storici dei Little Feat degli anni ’70, il violino dì Campbell è ancora una volta valore aggiunto per la riuscita perfetta della canzone, bellissima anche la parte slide, inconfondibile. One Breath At A Time è uno dei loro classici “funkacci”, con slide, solista e organo e la sezione fiati dei Texicali Horns (Darrell Leonard & Joe Sublet) che impazzano sulle voci di Tackett, l’autore, Clayton e Barrere che si “scambiano” i versi del brano con il solito gusto inimitabile, mentre la sezione ritmica inventa musica senza tempo. Just A Fever è uno di quei pezzi R&R, che è altrettanto nel loro DNA, ritmi tirati, riff di chitarra a volontà per un brano scritto da Paul Barrere con il recentemente scomparso Stephen Bruton, altro grande chitarrista.

Rag Top Down, un altro dei brani firmati da Payne con Hunter ha nuovamente punti di aggancio con il suono della Band di Robertson e Helm, quel gumbo di sapori sonori che solo i più grandi gruppi della musica americana hanno saputo creare. Stessa coppia di autori per la successiva Way Down Under, che ci riporta nei territori sonori più riconoscibili dei Little Feat, con quegli interscambi fantastici tra chitarre e tastiere che sono stati sempre il loro marchio di fabbrica, quando i tempi accelerano anche il godimento aumenta. Jamaica Will Break Your Heart, nuovamente di Tackett, come detto molto più presente come autore e cantante in questo disco, ha quei ritmi caraibici indolenti nella parte iniziale, ma subito potenziati dalla sezione fiati nuovamente in pista e dal drive ritmico inarrrestabile del gruppo.

Tattooed, l’ultimo brano di Tackett, è una morbida ballata tra jazz e blue eyed soul, con tromba e chitarra a dividersi le parti soliste con il piano elettrico di Payne, ed è forse l’unico brano che non mi soddisfa a pieno, uno su dodici ci può stare, bello ma un po’ turgido, il lato più edonista della band che non sempre mi ha entusiasmato. Ma nel finale torniamo al suono più ruspante del gruppo, prima una The Blues Keep Comin’, firmata da Payne con il batterista Ford, che è una dichiarazione di intenti fin dal nome del brano, le radici del loro suono poi ribadite in una turbinosa Mellow Down Easy, un brano che Willie Dixon aveva scritto per Little Walter, e che il percussionista Sam Clayton canta alla grande con il suo vocione, con l’aggiunta dell’armonica di Kim Wilson a duettare con le chitarre di Barrere e Tackett e tutta la band che tira come un diretto. E tutto finisce come era cominciato, sia nel disco che nella storia del gruppo, “vera musica americana”!

Bruno Conti