Le Origini Di Una “Grande Band” Di Culto! Silver Jews – Early Times

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Silver Jews – Early Times – Drag City Records 2012

I Silver Jews erano una band “indie-rock” di New York City, fondata nel 1989 da David Berman assieme ai componenti dei Pavement (Stephen Malkmus e Bob Nastanovich), e, purtroppo, scioltasi nel 2009. I Silver Jews sono stati una vera e propria istituzione del panorama “indie” americano (pur venendo considerati erroneamente una “costola” dei menzionati Pavement), diventando una band di “culto”, distaccandosi musicalmente dall’indie- rock lo-fi degli inizi, per diventare, sempre di più, un gruppo solidissimo dalle salde radici nel suono americano. Negli anni, infatti, la creatura di Berman (poeta, narratore, disegnatore, il “genio” e leader indiscusso del gruppo), incide dei meravigliosi dischi come Starlite Walker (94), The Natural Bridge (96), American Water (98), il capolavoro assoluto Bright Flight (2001), Tanglewood Numbers (2005), e  il canto del cigno Lookout Mountain, Lookout Sea (2008).

Ora che il progetto Silver Jews non esiste più. la Drag City ripubblica le prime incisioni uscite sugli EP Dime Map of the Reef (90) e Arizona Record (93) con la line-up degli esordi (vedi sopra). In realtà l’ascolto di queste 14 tracce, con il suono sia pur ripulito. crea un po’ d’imbarazzo, in quanto le canzoni registrate molto probabilmente nella casa di campagna di David, in compagnia di Bob e Stephen, si sviluppano in forma grezza, volutamente lo-fi, e si fa un po’ fatica, ad orecchie non abituate, nell’individuare gemme nascoste quali Canada, I Love the Rights e The Unchained Melody

Probabilmente non importerà niente a nessuno sapere che adesso David Berman (uno capace di reggere quasi il confronto con grandi come Dylan e Cohen) viva tra i campi del Tennessee con la moglie Cassie, e che ha pubblicato lo scorso anno una raccolta di scritti e disegni, forse scriverà un romanzo, perch,é coerentemente con il suo modo di vivere, si sentiva arrivato alla fine della corsa, e ha preferito smettere prima di soccombere alla “routine”.

Per chi conosce e ama la musica dei Silver Jews, questa recensione non servirà a niente, in quanto avranno comprato il CD quando è stato distribuito nei negozi, e ne saranno ormai completamente e irrimediabilmente estasiati e innamorati. Per tutti gli altri, non posso fare altro che dirvi, che gli album dei Silver Jews (quelli menzionati sopra), hanno quel raro potere di “rapire”musicalmentechiunque ne ascolti anche solo una singola nota, e questo semplicemente perché, secondo il parere di chi scrive, Berman è un incredibile musicista, umile e unico, che nelle sue canzoni sa dispensare valori e sentimenti.

Tino Montanari

I “Pupilli” Di Dan Auerbach! Hacienda – Shakedown

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Hacienda – Shakedown – Collective Sounds

Ad un primo ascolto non ero rimasto particolarmente impressionato da questo Shakedown, opera terza degli Hacienda, quartetto di San Antonio, Texas che, come in molti casi della musica, è un affare di famiglia: sono i tre fratelli Villanueva, anche a livello somatico di origini latine. e il cugino, il chitarrista e cantante, Dante Schwebel, ma in effetti cantano anche gli altri tre. “Scoperti” da Dan Auerbach dei Black Keys che ha prodotto anche i due dischi precedenti e li ha utilizzati come backing band nel tour promozionale per l’album solista Keep It Hid, è evidente che ci siano molte analogie con il duo di Akron, Ohio. Se aggiungiamo che in questo disco Auerbach non si è limitato a produrre l’album ma ha firmato con il gruppo anche tutti i dieci brani le analogie si fanno vieppiù evidenti, ma…

Mentre nei Black Keys, almeno agli inizi, il sound era influenzato anche da un blues diciamo “futurista”, mi sembra che negli Hacienda il punto di riferimento sia più la musica pop degli anni ’60 vista attraverso un’ottica wave e rock anni ’80 e poi portata ai giorni nostri. Cerco di spiegarmi con un esempio: il brano di apertura, Veronica, con le sue scansioni quasi dance, mischia un organo Farfisa alla Sir Douglas e coretti pop, con una ritmica marcata alla Black Keys, per un singolo che vuole cercare di imporsi anche alle radio, con un basso molto in evidenza, anche se nell’insieme comunque il brano non brilla per grandi qualità. Let me go, sempre con coretti sixties sullo sfondo, si rifà a certe soluzioni sonore che erano care ai primi Talking Heads, un cantato vagamente schizzato ispirato a Byrne e sempre molto pop sul piatto della bilancia. I pezzi sono tutti abbastanza brevi (l’album dura complessivamente poco meno di 34 minuti) ma cercano di inserire citazioni e riferimenti a molti tipi di musica, per esempio Don’t Turn Out The Light, con la sua chitarrina ficcante e un basso nuovamente molto marcato, può ricordare i Feelies dei primi dischi con Nick Lowe alla voce, quindi quello strano incrocio di musica pop proveniente dalle ultime decadi pari del Novecento. Savage ha, a sua volta, un suono “moderno”, vagamente sintetico, molto simile agli ultimi Black Keys, magari meno rock e più orecchiabili. ma con l’influenza di Auerbach ovviamente stampata sul risultato finale.

You Just Don’t Know sempre con il basso protagonista del lato ritmico del brano, sembra, allo stesso tempo, più e meno derivativa, ovvero meno dai Keys e più da quella scuola pop anni ’80 dove si trovano suoni alla Bowie dell’epoca, gli Human Switchboard (ricordate?), qualcosa dei Blondie, i primi B-52’s. Se trasportate il riff di You Really Got Me ai giorni nostri, lo rallentate appena e ci aggiungete quell’organetto Farfisa tipico degli Hacienda probabilmente otterrete questa Don’t Keep Me Waiting. Sempre per continuare il gioco delle citazioni (che è ovviamente personale, ognuno ci vede o ci sente quello che vuole), se prendete le chitarre “circolari” dei Television, ma meno cerebrali e le mescolate con il riff iniziale di With A Girl Like You dei Troggs, una delle migliori e più convinte prestazioni vocali dei Villanueva (o sarà Schwebel?), otteniamo questo patchwork sonoro che si chiama Natural Life, uno dei brani peraltro migliori del CD.

Anche Doomsday, nuovamente con il solito basso grintoso che, come già ho ricordato, è spesso lo strumento guida del suono del gruppo, ha sapori più rock, con la chitarra che si fa “sentire” a momenti. E pure nella successiva Don’t You Ever, il riff di chitarra viene di filato dagli anni ’60, sembra estratto a viva forza da And Your Bird Can Sing dei Beatles, evidentemente i nostri amici hanno una bella collezione di dischi da dove gli spunti, secondo me, non vengono cercati volutamente, ma “aleggiano” nell’aria, sono frammenti sonori che ricadono casualmente nelle canzoni. Per esempio la conclusiva Pilot In The Sky, una delle tracce migliori di questo Shakedown, ha ancora mille rimandi a soluzioni sonore del passato, questa volta viste in un’ottica leggermente psichedelica, per un frullato sonoro che ha mille influenze ma nessun padre certo e alla fine risulta molto piacevole, senza essere particolarmente geniale. Che è un po’ il leitmotiv di tutto l’album, se vi piacciono i Black Keys più pop trascorrerete una mezzoretta piacevole anche se magari non memorabile, come è capitato al sottoscritto!

Bruno Conti

Onde Radio Dall’Inghilterra. Levellers – Static On The Airwaves

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Levellers – Static On The Airwaves – OTF Recordings 2012

Devo ammettere che ho sempre avuto un debole per i Levellers, band folk-punk-rock di Brighton (Sud Inghilterra) sulla breccia ormai da più di un ventennio, che tengo in considerazione sin dal loro folgorante esordio “ufficiale” Levelling The Land (91), un vero e proprio “bestseller” del genere folk rock, tanto da rimanere nelle classifiche dei dischi più venduti in Inghilterra addirittura per anni. Il sottoscritto ha conosciuto i Levellers verso la fine del ’92, in un “torrido” concerto tenuto in un locale di San Colombano Al Lambro (purtroppo di fronte a poche persone), e questi “folletti” sul palco esprimevano la forza, la grinta, l’aggressività della generazione che rappresentavano (e tuttora rappresentano), il rispetto e la conoscenza della tradizione musicale nella quale era inserita. Infatti il gruppo ha mosso i primi passi della propria carriera artistica in piena era “punk-folk”, e a differenza di altri esponenti di quel periodo, ha subito dato delle connotazioni molto più elettriche al proprio suono, lasciando quasi esclusivamente all’incredibile violino di Jon Sevink le sfumature di un “sound” tradizionale, anche se va detto che il “nostro” usa generalmente lo strumento come una sciabola, cavandone sonorità che hanno poco di tradizionale e molto di “punk-rock”.

 

L’attuale “line-up” della band è composta oltre che dal citato Sevink al violino, da Mark Chadwick il cantante anche alle chitarre, Jeremy Cunningham al basso, Charlie Heather alla batteria, Matt Savage alle tastiere, e da Simon Friend al mandolino e banjo, e sotto la produzione di Sean Lakeman (fratello del più noto cantautore Seth), i Levellers con questo lavoro dimostrano musicalmente di restare fedeli alle proprie radici, dove le chitarre sono sempre sferraglianti, la sezione ritmica sembra scolpita nel granito tanto è vigorosa e solida ed il violino è sempre naturalmente al suo posto, più indiavolato che mai, ma capace anche di sfumature dolci e melodiose. I testi delle canzoni di Static On The Airwaves si riflettono sull’attuale politica estera britannica, partendo dal brano iniziale We Are All Gunmen dal ritmo saltellante, con una batteria pulsante e il violino a punteggiare la melodia, mentre la seguente Truth Is non conosce mezze misure, viaggia a tutto gas con il violino di Jon che si impossessa degli stacchi strumentali, e ricama veloci assoli. After The Hurricane è una ballata piuttosto dolce con un refrain indovinato, segue un pezzo solido come Our Forgotten Towns con un’apertura indiavolata nella forma classica della “fiddle tune”,  e ancora sempre a seguire una No Barriers dalla struttura analoga, con una arrabbiata base strumentale.

Un cenno a parte lo merita sicuramente Alone In This Darkness, un’oasi acustica in cui rivedo i Levellers che più ho amato, con un prezioso lavoro dell’immancabile violino, uno degli episodi migliori del lavoro. Si prosegue con l’irruenza e l’aggressività che pervadono Raft Of The Medusa, pezzo duro e tosto, mentre Mutiny ci porta verso lidi danzerecci, marchio di fabbrica dei primi album. Un arpeggio di chitarra introduce la splendida ballata folk Traveller, con sottofondo di piano, violino,chitarra acustica e armonie vocali, l’opposto di Second Life forse il pezzo meno riuscito del CD. Chiude il tradizionale The Recruiting Sergeant,arrangiato alla maniera dei mai dimenticati Pogues dello “sdentato” Shane MacGowan. Coinvolgente e appassionato Static On The Airwaves sprigiona un grande vigore, incanta nelle canzoni d’atmosfera e diverte negli episodi più orecchiabili, insomma, un’ottima occasione per entrare in contatto con la musica dei Levellers, sempre in bilico tra rock e folk, destinato non solo a chi ancora non li conosce, ma anche ai fans di vecchia data. Esuberante.

Tino Montanari

Father And Sons. James Luther Dickinson And North Mississippi Allstars – I’M Not Dead I’M Just Gone

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James Luther Dickinson and North Mississippi Allstars – I’m Just Dead I’m Not Gone – Memphis Int. Rec.

Questo raro incontro discografico (“unico” nella discografia di Jim Dickinson), tra padre e figli, vede la musica, senza voler essere blasfemi, nella parte dello “Spirito Santo”. Registrato il 2 giugno del 2006 al New Daisy Theater di Memphis, Tennessee, in Beale Street, la via del Blues per antonomasia, questo concerto viene pubblicato solo oggi, a tre anni di distanza dalla scomparsa di Mudboy.

Si tratta di un concerto gagliardo, esuberante, dove non solo il Blues, ma tutte le “radici” della musica della famiglia Dickinson vengono rivisitate: registrato in Mono, ma con un ottimo suono, il concerto, per rimanere in tema religioso, è preceduto da un breve sermone anti Bush (era l’epoca) del Rev. Dickinson, ma poi si dipana con un sound che ricorda i suoi vecchi datori di lavoro, gli Stones dell’epoca Exile, quelli più “caattivi” (doppia a) e pericolosi. Dall’apertura tosta di Money Talks, un vecchio brano di Sir Mack Rice, con le sue sonorità viziose, attraversate dalle sciabolate della slide di Luther “Keith’n’Mick” Dickinson, si viaggia subito sulle traiettorie del miglior rock ad alta gradazione blues, quello più genuino e ruspante. Uno che introduce il brano successivo, Ax Sweet Mama come, “scritto dal mio vecchio amico Sleepy John Estes”, come lo definisci se non leggendario – Morto ma non andato! – la sua musica vive in questo suono “paludoso” e volutamente grezzo e in questo brano che cita anche Leaving Trunk e Sloppy Drunk, rivive il mito del blues e del rock più sapido, suonato dal pianino di Jim e dalla chitarra di Luther e cantato con una voce, non bella, ma che, a chi scrive, sembra quella di un John Mayall più incazzato, se mi permettete l’analogia, un altro però che ha fatto di questa musica una religione.

Pure nella successiva cover di Codine, un grande brano di Buffy Sainte-Marie, la voce è rotta, quasi spezzata, ma percorsa da una grinta che sfiora la missione: i North Mississippi Allstars, Luther, Cody alla batteria e il bassista Chris Chew, suonano con un fervore incredibile, degni alunni della lezione di vita e di musica insegnata loro dal grande musicista di Memphis, che si cimenta da par suo al piano. Dopo una breve presentazione dei suoi tre figli, due veri e uno spirituale, ci si rituffa nella musica con una Red Neck, Blue Collar di Bob Frank, che è puro Outlaw Country, le armonie vocali sono di Jimmy Davis. Il concerto è composto solo da nove brani, dura poco più di 42 minuti, ma ha una intensità incredibile, non c’è grasso che cola, solo musica di qualità, non è questa la casa del virtuosismo, anche se i musicisti sono di gran spessore, niente lunghi assolo, solo il minimo indispensabile, con i due Luther che si dividono i brevi spazi solisti e la band che segue con vigore, come nella cover di Kassie Jones, Pt.1 di Furry Lewis, un altro che ha fatto la storia di questa musica, Jim declama Blues e Luther lo segue con la sua slide.

Anche quando fa rollare il suo pianino a tutta birra, come nella cover scatenata a tempo di R&R di Rooster Blues, un vecchio brano scritto da Jerry West, che era uno dei cavalli di battaglia di Lightnin’ Slim, senti che c’è tanta passione e competenza nella musica, e questa versione accelerata è presa dal repertorio di Ronnie Hawkins che viene ringraziato nel finale con un “Dio Benedica Ronnie Hawkins!” molto sentito. Quando i musicisti rendono omaggio al B.B. King D.O.C. di Never Make Your Move Too Soon si percepisce un piacere, una gioia irrefrenabile nel suonare questa musica, essere sul palco e divertirti e suonare la musica che ami, cosa puoi volere di più?  Se poi il tutto è suonato con questa classe e nonchalance l’ascoltatore percepisce quel quid indefinibile che divide i grandi musicisti (di culto) dalle mezze calzette. Di nuovo il country scalcagnato ma irresistibile di Truck Drivin’ Man con la seconda voce di Davis e il pianino di Jim Dickinson in overdrive prima del finale sontuoso con una Down In Mississippi quasi solenne che omaggia la loro terra e la loro musica e permette, per una volta, a Luther Dickinson di lasciarsi andare a una improvvisazione chitarristica leggermente più estesa, sotto l’occhio benevolo e benedicente del babbo che ha lasciato il testimone in mani esperte. Se questo deve essere l’ultimo commiato, il vecchio Mudboy ci lascia alla grande!

Bruno Conti   

L’Ultimo Grande Festival Degli Anni ’70 – Bickershaw Festival 1972 – 40Th Anniversary Box Set

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Bickershaw Festival – Ozit Morph Records – 6CD + 2 DVD + Libro 208 pagine + 10 cartoline + poster

40 anni fa, tra il 5 e il 7 maggio del 1972 si teneva quello che viene considerato l’ultimo grande Festival all’aperto degli anni ’70, in quel di Bickershaw, un piccolo villaggio vicino a Wigan nel Lancashire (ricordarsi la location!).

Gli ingredienti, come in molti degli eventi che si tennero (e si tengono tuttora in Inghilterra, vedasi i recenti concerti all’isola di Wight) furono, oltre alla buona musica, tempo di merda, fango e condizioni ai limiti della sopportazione umana con qualche sprazzo di sole. Ma a noi, per fortuna, interessa la musica e quindi esaminiamo questo cofanetto pubblicato dalla Ozit: intanto il prezzo che si aggira intorno ai 150 euro non è incoraggiante. Poi non dimentichiamo che la stessa etichetta negli anni passati ha già pubblicato un paio di DVD dedicati all’evento, con selezioni di materiale tratto dalle esibizioni dei grandi gruppi che si sono succeduti sul palco.

I favorevoli e gli ottimisti giustamente dicono: ma nella parte audio, i primi 4 dei 6 CD c’è l’esibizione completa dei Grateful Dead nella giornata del 7 maggio. Vero! Ma come noteranno i più attenti il 1972 è l’anno del tour europeo dei Dead e quindi il materiale è già compreso nel boxone Europe ’72 – The Complete Recordings come Live At Wigan (!), sempre 4 CD; non solo, questo materiale era già uscito anche come Steppin’ Out With The Grateful Dead: England ’72. Perché va bene comprare sempre la stessa roba ma almeno saperlo. Rimangono 2 DVD con 5 ore e mezzo di materiale non sempre di qualità eccelsa, per usare un eufemismo, da quello che ricordo di avere visto nei dischetti usciti in precedenza (e le copertine dei dvd contenuti nel box sono simili in modo sospetto a quelle delle uscite precedenti). Riprese che oscillano tra “l’interessante”, il buono (quando sono dal palco) e lo “storico”, per usare un aggettivo che incoraggia.

Certo, su quel palco si alternarono Captain Beefheart, New Riders Of the Purple Sage, Dr. John, Country Joe McDonald, Pacific Gas and Electric, Cheech and Chong (due comici stand-up americani, molto popolari in quegli anni, di cui non si sentiva la mancanza), Flamin’ Groovies, Kinks, Donovan, Incredible String Band, Family, Linda Lewis, Hawkwind, Wishbone Ash, Captain Beyond, Brinsley Schwarz, Stackridge, Maynard Ferguson, Mike Westbrook e Haydock Brass Band. A parte gli ultimi, che non conosco, una line-up di tutto rispetto, per un Festival dove la “leggenda” narra che tra il pubblico ci fossero anche i giovani Joe Strummer e Elvis Costello. Pubblico stimato in 40.000 presenze che furono portate a 60.000 per l’esibizione finale dei Grateful Dead quando ventimila “locali” furono fatti entrare gratis per aumentare le presenze.

Quindi sicuramente un evento storico come documentato anche dal libro di 208 pagine, ma la qualità delle registrazioni che oscilla tra il soundboard e quelle fatte con mezzi di fortuna dell’epoca mi fanno pensare che sia un prodotto più che per collezionisti, per completisti.

Ci sono un paio di documenti audio inseriti nel Post, se volete verificare!

Bruno Conti

Novità Di Luglio Parte II. Jimi Hendrix, Strawbs, Kathryn Roberts & Sean Lakeman, Hank Williams Jr., Cassandra Wilson, Jerry Douglas, Robert Plant, Rhonda Vincent, Eccetera

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Questi sono i titoli in uscita martedì 10 luglio e qualche “recupero” di album sfuggiti al primo giro.

Partiamo con un paio di DVD e la ristampa in CD di Hendrix.

Robert Plant ha concluso la sua avventura con i Band Of Joy ma mentre è in tour con il nuovo gruppo dei Sensational Space Shifters (la formazione comprende Patty Griffin e alcuni membri dei “vecchi” Strange Sensation), esce questo DVD (o Blu-ray) registrato nel febbraio del 2011 al War Memorial Auditorium di Nashville, Tennesse, Live From The Artists Den della durata di 77 minuti che accanto ad alcuni dei brani tratti dal disco della band propone anche 6 cover dei Led Zeppelin. Oltre a Plant e alla Griffin sono della partita anche Buddy Miller, Darrell Scott e Marco Giovino. Regista Jojo Pennebaker (parente?) per questo eccellente concerto registrato in una fredda e nevosa serata. Etichetta Decca/Universal.

Jimi Hendrix Live at Berkeley o Plays at Berkeley, come preferite chiamarlo era già uscito in CD e DVD nel 2003 per la Universal.  Il CD, 2nd Show 10PM, è del tutto identico (ok, cambia il marchietto, c’è scritto Sony/BMG) per cui mi sembra superfluo, per il DVD o Blu-ray in effetti, oltre ad una nuova digitalizzazione dal negativo del 16mm originale, si passa dagli originali 56 minuti a 72 minuti, con ben 15 minuti extra di documentario e frammenti di brani (anche se è difficile pensare che Voodoo Child (slight Return), Hear My Train A-Comin’ e Machine Gun completi durino solo quindici minuti circa, però…). Se non lo avete preso al primo giro, si tratta di uno dei concerti più famosi di Jimi Hendrix con gli Experience seconda edizione, in caso contrario tenete conto che DVD e Blu-ray contengono anche nelle Special Features il concerto completo audio del 2° spettacolo, quello di 67 minuti che esce anche come CD a parte. Anche se leggendo le note del “vecchio” DVD, che ho appena controllato, il concerto audio Bonus c’è pure in quello e i tre brani citati come extra appaiono pure nell’edizione 2003, mah. La durata riportata sul DVD è addirittura 49 minuti, mistero! Vedremo, ma occhio alla penna e ai soldi!

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Sempre a proposito di “fregature”, direi che i tipi che hanno pubblicato questo doppio CD The Lowdown dei Counting Crows, si sono superati. Già il nome dell’etichetta, Sexy Intellectual, è un programma, se poi aggiungiamo che si tratta di un doppio che contiene nel primo dischetto una biografia del gruppo recitata da una voce femminile e nel secondo varie interviste non saprei dire a chi possa essere indirizzato questo prodotto. Loro dicono che è destinato ai fans e ai collezionisti!

Un paio di titoli già usciti ma che erano “saltati” (dimenticati) dalla rubrica delle novità.

Quello di Jerry Douglas, Traveler, su etichetta Entertainment One Music/Membran/Koch, direi che è imprescindibile per gli amanti della buona musica. Il grande dobroista e pluristrumentista americano che per la prima volta si cimenta anche come vocalist nel brano d’apertura On A Monday, un brano molto ry cooderiano, ha radunato una serie di musicisti strepitosi: Eric Clapton, nella versione super rallentata di Something You Got, un brano di Chris Kenner che cantava ai tempi anche Wilson Pickett, l’accoppiata Mumford & Sons e Paul Simon per una versione strepitosa di The Boxer, Keb’ Mo’ con Dr.John al seguito per un salto a New Orleans con High Blood Pressure, un ispirato Marc Cohn nella bella ballata Right on Time, gli Spain nell’ottima American Tune e ancora Alison Krauss e gli Union Station per Frozen Fields. Aggiungete Bela Fleck e Omar Hakim e molti altri ottimi musicisti per una serie di vorticosi brani strumentali. Un vero gioiellino. Prodotto da Russ Titelman.

Stessa etichetta per il nuovo album di Cassandra Wilson, Another Country. Registrato in quel di Firenze, sotto la guida del chitarrista italiano Fabrizio Sotti e con la partecipazione di Mino Cinelu, Lekan Babaiola, Nicola Sorato, Julien Labro oltre al Nocca Center Choir, un gruppo vocale originario di New Orleans. 18° album, il primo per una etichetta indipendente dopo 8 dischi per la Blue Note, si tratta di un CD prevalentemente acustico ma non solo, molto intimo, con la chitarra acustica in evidenza e nove composizioni originali di Cassandra Wilson e una sola cover, una versione di O’ Sole Mio che è molto meglio di quello che paventavo.

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Un altro trio di uscite interessanti.

Kathryn Roberts & Sean Lakeman sono marito e moglie. Lui è anche il fratello del più famoso Seth Lakeman, altro ottimo cantante di area folk. Tutti e tre, con l’aggiunta di Kate Rusby, che però se ne era già andata prima della pubblicazione del loro unico album Hazy Daze, facevano parte degli Equation, un piacevole gruppo di folk-pop che incideva per la Blanco Y Negro nella seconda metà degli anni ’90. La Roberts, a 20 anni, nel 1995, aveva anche pubblicato un album omonimo in coppia proprio con Kate Rusby. La voce e lo stile musicale sono in quel filone folk, bella voce tra l’altro, un po’ alla Mary Black, di quelle chiare e limpide e in questo Hidden People che esce per la Navigator Records (?!?) ci sono anche una valanga di ospiti: Seth Lakeman ovviamente, Cara Dillon, il cantante dei Levellers Mark Chadwick, la brava cantante americana Caroline Herring, Greta Bondesson che è una delle svedesi Baskery, Dave Burland, uno dei nomi storici del folk britannico e molti altri. A prescindere da tutto, il disco, a un primo veloce ascolto, mi pare ottimo per gli amanti del genere e non solo.

Sul versante americano esce un nuovo CD di Rhonda Vincent, “The New Queen Of Bluegrass” come l’ha definita il Wall Street Journal (ma chi era la vecchia regina?). Questo Sunday Mornin’ Singin’ è un disco dal vivo, edito dalla INGROOVES per il mercato americano, dove in 16 brani, accompagnata dal suo gruppo The Rage, la Vincent si dedica ad un repertorio di marca gospel. Se vi piacciono Alison Krauss o le “Old Queens” come Emmylou Harris o Dolly Parton, quando fanno bluegrass o country acustico, qui c’è Trips For Cats, trippa per gatti!

Sempre in ambito country ecco il nuovo album di Hank Williams Jr, questo Old School New Rules esce per la sua etichetta Bocephus (che è anche il suo soprannome) con la distribuzione WarnerMusic Nashville negli Usa. In questa riuscita miscela tra vecchio e nuovo country ci sono anche un duetto con Brad Paisley I’m Gonna Get Drunk And Play Hank Williams (che era il babbo) e uno con Merle Haggard, sempre a proposito di bevute, I Think I’ll Just Sit Here And Drink. Per il resto, solito country robusto ed elettrico con venature southern. Ho perso il conto ma secondo me, tra album di studio, live e compilations, deve avere pubblicato una settantina di dischi, c’era un periodo negli anni ’60 che ne uscivano anche tre all’anno.

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Oltre alla sua attività con gli Spectrum Road, Jack Bruce, che l’anno prossimo compirà 70 anni, si divide anche con la His Big Blues Band con la quale pubblica questo doppio CD dal vivo Live 2012, che peraltro era già uscito come instant live nel mese di marzo. Registrato allo Stables di Milton Keynes il 19 marzo di quest’anno, in effetti il concerto avrebbe dovuto essere quello del giorno prima ma per problemi tecnici non si era potuto fare. Visto che copertine e materiale erano già pronti, sulla confezione è rimasta la data del 18 marzo. Nella formazione a otto c’è anche il chitarrista Tony Remy, una sezione fiati e, per non farsi mancare nulla, un secondo bassista quando Bruce passa al piano. Questa versione esce sempre per la Concert Live.Tra le sue attività ci sono anche i Cuicoland Express e nei ritagli di tempo incide anche con Robin Trower. Son ragazzi!

Dopo la collaborazione con Bjork nel progetto benefico di Mount Wittenberg Orca, tornano i Dirty Projectors con un nuovo album, Swing Lo Magellan, sempre per la Domino Records. Non c’è la controparte femminile di Dave Longstreth per questo progetto, Angel Deradoorian che si è presa un periodo sabbatico e il suono del gruppo sembra quasi più pop e soul del solito ma i vecchi fans saranno comunque contenti (o no ?).

Per finire, un tuffo nel passato. Dave Cousins nella sua continua ricerca negli archivi della band, questa volta ha fatto saltar fuori un intero album inedito registrato nel periodo a cavallo tra il 1967 dell’album degli Strawbs con Sandy Denny, All Our Own Work e il primo, omonimo, del 1969 per la A&M. Questo Of A Time, oltre al trio originale, e con la produzione di Gus Dudgeon e Tony Visconti, vede la partecipazione di John Paul Jones, Nicky Hopkins e Ray Cooper. In aggiunta ai 12 dodici brani originali ci sono anche altre 12 tracce con versioni alternative, singoli dell’epoca (mai usciti) e remix vari. Il tutto per la loro etichetta, la Witchwood Media.

Anche per oggi è tutto.

Bruno Conti

It’s Only Country-Rock (E Un Pizzico di Southern), But I Like It! Zac Brown Band – Uncaged

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Zac Brown Band – Uncaged – Atlantic Records – 10-07-2012

E per essere precisi e tassonomici, anche qualche tocco di bluegrass, reggae e jam rock (soprattutto dal vivo), ma fondamentalmente la Zac Brown Band fa del sano, onesto, country-southern-rock, come dicono peraltro loro stessi. Questo Uncaged è il loro quinto album di studio (il terzo per una major) a cui aggiungiamo tre dischi dal vivo, tra cui lo strepitoso Pass The Jar. Non saranno originalissimi (ma come dico spesso, chi lo è ultimamente?) però suonano con una freschezza, una grinta, una voglia di divertire e divertirsi, e soprattutto una bravura, invidiabili.

La formazione si è ampliata nel corso degli anni fino a stabilizzarsi nell’attuale settetto che vede violino e percussioni affiancarsi alle classiche tre chitarre del southern rock, ma Clay Cook e Coy Bowles, i due solisti con Brown, si alternano anche alle tastiere e a vari strumenti a corda, soprattutto nei tuffi nel country o nel bluegrass più classico. E in più c’è la voce di Zac Brown, una di quelle voci tipiche del country-rock della più bell’acqua, alla Richie Furay o Paul Cotton dei Poco più commerciali (ma sempre di gran classe, gruppo che ho amato molto), ma a chi scrive ricorda anche Kenny Loggins o il Craig Fuller dei Pure Prairie League, quel timbro arioso che consente di passare dal country al rock nello spazio di una battuta.

Anche questo Uncaged ha tutto gli elementi per piacere agli appassionati del classico suono americano: dalle arie scanzonate ed orecchiabili (nel senso più nobile del termine) dell’iniziale Jump Right In, scritta in coppia con Jason Mraz, con elementi caraibici e country miscelati con le consuete perfette armonie vocali si passa al rock sudista della tirata Uncaged con l’organo che si aggiunge al muro di chitarre e un suono che ricorda i classici di Marshall Tucker o Charlie Daniels Band, i due gruppi che meglio sapevano fondere il country e il rock nel filone southern. Goodbye In Her Eyes è una lunga ballata, l’unico brano che supera i cinque minuti, in un crescendo irresistibile, con gli strumenti che entrano nel tessuto acustico del brano, di volta in volta, chitarre acustiche, poi il violino, le fantastiche armonie vocali, le percussioni, fino all’ingresso di basso e batteria e la struttura aperta del brano che promette lunghissime jam strumentali, come d’uso, nei loro concerti dal vivo, il brano migliore del disco.

The Wind è un bluegrass elettrico frizzante, con violini, mandolini, chitarre, organo che si incrociano vorticosamente con le voci del gruppo per un intermezzo di puro country delizioso. Island Song (di Nic Cowan, l’unico brano non firmato da Brown con qualche componente della band, a rotazione), già dal titolo è una reggae song, genere che non amo particolarmente, ma in questo esercizio di white reggae rock si ascolta con piacere in questa calura estiva. Sweet Annie ha una apertura di organo alla Joe Cocker a Woodstock che poi diventa una ballata country mid-tempo con qualche retrogusto gospel, violino, steel e chitarre a contendersi il proscenio con le voci all’unisono dei componenti della band e la bella voce di Zac Brown che guida con autorevolezza le operazioni. Ancora l’organo in apertura di Natural Disaster che poi diventa una country song in crescendo con qualche reminiscenza con la Travelin’ Prayer del primo Billy Joel. Overnight è una trasferta virtuale in quel di New Orleans, una soul ballad morbida ed insinuante con la partecipazione di Trombone Shorty, sia a livello vocale che al suo strumento  di pertinenza, forse un tantino di melassa di troppo ma le classifiche e le radio hanno le loro esigenze (un piccolo peccatuccio ci può stare).

Lance’s Song rimette a posto le cose, una bella slow song malinconica con il violino e la steel a duettare con gli strumenti acustici a corda della band mentre Zac, con il consueto aiuto a livello armonie vocali dal resto del gruppo ci regala una bella performance in perfetto stile country. Day That I Die è un altro bel duetto, questa volta con Amos Lee, una canzone dalla atmosfere ariose e molto piacevoli che sfociano in un sound più commerciale senza mai essere troppo fastidiose, anzi, fatte per piacere a tutti (la Zac Brown Band vende moltissimo negli States) e se vogliamo è forse l’unico fattore negativo di questo album che è serbatoio di nuove canzoni per il repertorio Live della formazione e, nelle parole del chitarrista Clay Cook, il primo disco concepito come una costruzione unica e non un semplice insieme di canzoni. Io non ho colto queste finezze rispetto agli album precedenti, comunque nell’insieme l’album (come da titolo Post) mi è piaciuto e la conclusiva Last But Not Least, dal titolo quanto mai esplicativo, firmata in società con Mac McAnally, è una degna conclusione, nuovamente in territori decisamente country, per questo Uncaged.

Bruno Conti

Non Un Capolavoro…Ma Neppure Un Brutto Disco! Joe Walsh – Analog Man

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Joe Walsh – Analog Man – Fantasy/Universal – Deluxe CD + DVD

Non sono mai stato un grandissimo fan di Joe Walsh, l’ho sempre considerato per quello che in realtà è: un ottimo chitarrista, un buon animale da palcoscenico (talvolta al limite del clownesco), ma dal punto di vista vocale e del songwriting un personaggio di seconda, o forse anche di terza fascia. Musicista di secondo piano negli anni settanta (anche se con la James Gang ha fatto la sua figura), deve senz’altro la sua popolarità al fatto di essere stato chiamato negli Eagles come sostituto di Bernie Leadon, e di avere esordito con loro proprio in Hotel California, cioè in uno degli album più famosi di tutti i tempi. Ma da solista non ha mai combinato granché di buono (come tutte le Aquile d’altronde, escluso forse Don Henley), con l’eccezione dei due dischi a nome Barnstorm,  quello omonimo e l’ottimo The Smoker You Drink… e a parte un altro paio di album discreti negli anni settanta, vivendo sempre di rendita su vecchie canzoni come Life’s Been Good, Rocky Mountain Way o In The City. In più, Analog Man arriva a ben vent’anni di distanza dalla sua ultima fatica, quel Songs For A Dying Planet che non aveva certo fatto gridare al miracolo, per usare un eufemismo.

Quindi, direte voi, perché questo post? Perché il produttore (solo in cinque brani su dodici, parlo della “solita” versione deluxe, quella normale ne ha dieci) è un mio autentico pallino: Jeff Lynne, negli ultimi anni poco attivo ma a cavallo tra gli ottanta ed i novanta era un vero produttore deluxe, avendo collaborato con il gotha della musica rock mondiale.

Solo per fare qualche nome (ma la lista sarebbe lunghissima): George Harrison (che lo ha “sdoganato” dopo che la critica di mezzo mondo lo odiava per il fatto di essere il leader della Electric Light Orchestra), Roy Orbison, Tom Petty (forse il suo apice come produttore e co-autore), Traveling Wilburys, Paul McCartney, Randy Newman, Del Shannon, oltre ai riuniti Beatles e a Brian Wilson (che è uno che ha probabilmente bisogno di tante cose, ma non certo di un produttore). E comunque, Lynne a parte (che, ripeto, agisce in meno del 50% del disco, ma guarda caso i tre brani migliori vedono lui alla consolle), Analog Man è, contro ogni previsione, un buon disco di classico rock californiano: Walsh si è preso il suo tempo, ma ha messo a punto una serie di canzoni che, pur non essendo dei capolavori, non deludono (tranne un paio di casi, ma temevo peggio!), la voce è sempre quella che è, ma la grinta c’è e la tecnica chitarristica la conosciamo tutti. E poi, per fortuna, le cose meno riuscite Joe le ha lasciate quasi alla fine del disco.

Oltre a Lynne, nell’album sono presenti nomi altisonanti come Ringo Starr (che se non lo sapete è il cognato di Joe, in quanto Walsh ha sposato Marjorie Bach, sorella di Barbara), il bassista dei Crazy Horse Rick Rosas, oltre a David Crosby e Graham Nash ai cori in Family.

Joe parte bene con la title track (nella quale ci rivela essere un nostalgico delle vecchie tecnologie e di diffidare delle nuove), un potente rock dei suoi, ma anche orecchiabile, con la mano di Lynne che si sente eccome, specie nel suono della batteria, nella nitidezza della strumentazione e nel suo tipico big sound). Ancora meglio Wrecking Ball (titolo un po’ inflazionato ultimamente…), dotata di un ritornello estremamente piacevole, un bell’assolo di slide e Lynne che suona tutti gli strumenti tranne la lead guitar e canta i cori. L’ex ELO deve aver lasciato il segno, in quanto anche Lucky That Way, pur se prodotta dal solo Walsh, risente palesemente dell’influenza del barbuto inglese: una bella ballata solare californiana, cantata bene da Joe e con il giusto campionario di chitarre acustiche e riverberi; Spanish Dancer sembra davvero un brano dell’ultimo periodo della ELO, se non fosse per un paio di intermezzi chitarristici tipici di Joe. Band Played On, dal sound orientaleggiante, non è un granché, anche se il bel finale chitarristico la risolleva, mentre Family è una discreta slow ballad (genere nel quale Joe non ha mai eccelso), nobilitata dalle inconfondibili voci di Crosby & Nash, anche se il synth di sottofondo ce lo potevano risparmiare.

One Day At A Time, che vede il ritorno di Lynne in consolle, è una canzone che gli Eagles hanno già proposto dal vivo negli anni più recenti: una bella canzone, sul genere delle cose migliori di Joe, ed il tocco di Jeff non può che farle bene (anche se qui sembra più Wilburys che Eagles). Di certo il brano migliore del CD. Hi-Roller Baby scivola via gradevole ma innocua, Funk 50, seguito palese della celebre Funk # 49, mostra più muscoli che cervello, mentre India è uno strumentale abbastanza assurdo, un brano ambient-techno-dance senza né capo né coda. Una schifezza, in poche parole.

Per fortuna arriva Lynne a rimettere le cose a posto con Fishbone, che non è un capolavoro ma almeno ha i suoni in ordine, mentre l’ultimo brano è del tutto particolare: But I Try è infatti frutto di una jam inedita, incisa nei primi anni settanta, dalla James Gang con Little Richard (che è anche il cantante solista), un buon brano di rock classico, abbastanza lontano dallo stile tipico del rocker di colore, ma con uno splendido duello finale tra il suo pianoforte e la chitarra di Walsh.

Quindi un buon disco, almeno per tre quarti, che non dovrebbe comunque far rimpiangere i soldi spesi: Joe Walsh non è un fenomeno (e lo sa), ma stavolta è riuscito a non strafare (India a parte) e quindi direi che si merita la promozione, anche se alla lode forse non ci arriverà mai.

Marco Verdi

P.S: per la precisione, la versione deluxe contiene anche un DVD con il making of e tre brani dal vivo.

*NDB (Nota del Blogger o del Bruno, come preferite). Oggi doppia razione, appena sotto trovate un’altra recensione. Quando non vedete la mia firma ma quella di uno dei graditi ospiti del Blog, non sto riposando in panciolle ma devo comunque “preparare” i Post che poi leggete, munendoli di foto, filmati e quant’altro. Buona lettura!

“Una Signora Americana”. Shawn Colvin – All Fall Down

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Shawn Colvin – All Fall Down – Nonesuch Records 2012

Shawn Colvin originaria di Vermillion (South Dakota), è stata in gioventù una delle più celebrate cantautrici uscite dalla cosiddetta prima ondata del “new folk” (iniziata negli anni ottanta), un movimento che ha portato alla luce, fra gli altri, i talenti di Suzanne Vega e Jack Hardy. Nel 1989 con Steady On seppe meritarsi un Grammy (l’Oscar americano della musica) nella categoria di miglior esordio in ambito folk, un altro lo vincerà nel 1998 con il singolo Sunny Came Home, contenuto nell’album A Few Small Repairs, come miglior canzone dell’anno. In seguito con una stampa sempre favorevole, ha prodotto dischi di valore assoluto come Fat City (92), Cover Girl (94) uno splendido album di “cover”, il già menzionato A Few Small Repairs (95), e il più recente These Four Walls (2006).  

Il nuovo lavoro della dolce cantautrice, All Fall Down, è molto ambizioso: per confezionarlo la Colvin ha chiamato a raccolta uno stuolo di grandi nomi del rock (ma soprattutto amici), sotto il patrocinio di Buddy Miller, produttore del disco, presso lo studio del medesimo a Nashville. Shawn saggiamente ha approfittato della amicizia e disponibilità a partecipare alle sessioni di artisti come Jakob Dylan, Alison Krauss, Patty Griffin, Emmylou Harris, Bill Frisell, e musicisti del valore di Stuart Duncan al violino, Viktor Krauss al basso, Brian Blade alla batteria, Julie Miller (moglie del produttore) e le sorelle McCrary ai cori. Buddy Miller è un produttore molto esperto (ha lavorato praticamente con tutti ed è ricercato da tutti) e in questa occasione ha costruito attorno alle canzoni della sua “amica” un suono molto morbido e suadente che rispetta la natura acustica del suo “songwriting”, ma che non manca di soluzioni elettriche.

L’iniziale “title track” All Fall Down è scritta col suo partner e produttore di lunga data John Leventhal, un brano elettrico dove la voce ricorda quella di Sheryl Crow, mentre la seguente American Jerusalem, pescata dal repertorio di Rod MacDonald,  tocca il cuore, mettendo in evidenza la chitarra di Bill Frisell e il controcanto di Emmylou Harris, uno dei punti più alti del disco. Si riparte con Knowing What I Know Now, delicato brano punteggiato dal violino di Duncan, seguito da Seven Times The Charm firmato con Jakob Dylan e con Alison Krauss vocalist aggiunta. Anne of the Thousand Days è una ballata romantica che vede come autore Frisell e lo si nota per l’elegante gusto dell’arrangiamento, mentre The Neon Light of the Saints (scritta appositamente per la serie TV Treme) ha ritmo e un ritornello dinamico, con  tutte le coriste in spolvero.

Change Is on the Way scritta a due mani con Patty Griffin è un’altra delle perle del CD, una ballata sognante, e la Colvin si supera con una “performance” notevole, su un tessuto sonoro che si sviluppa con la pedal steel e il violino di Stuart. I Don’t Know You e Fall of Rome sono canzoni folkie, dalla accurata struttura armonica, con il suono magico delle chitarre di Bill Frisell e Buddy Miller. Con Up on That Hill di Mick Flannery si arriva al terzo momento “caldo” del disco (e devo dire con una certa sorpresa), in quanto Shawn va a pescare nel songbook di uno dei miei cantautori preferiti del momento (recensito sul blog la settimana scorsa in-irlanda-un-numero-1-grande-talento-mick-flannery-red-to-b.html), un brano di una bellezza disarmante (tratto da Red To Blue), una versione incantevole, un gioiello preso in prestito. La chiusura è affidata a On My Own un brano dove la Colvin ricorda persino la miglior Suzanne Vega (con cui ha condiviso gli esordi), una ballata dal suono morbido e romantico.

Ne ha fatta di strada Shawn Colvin e non sarei sorpreso se All Fall Down prendesse una “nomination” per i Grammy del prossimo anno, perché dischi coltivati e suonati con tanto amore, non possono passare inosservati alle orecchie più sensibili. Se cercate una degna “epigona” di Joni Mitchell, difficile in questo momento trovare di meglio.

Tino Montanari

Il 31 Luglio Escono I Primi 12: Torna La Discografia Di Zappa In CD

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Questi i primi 12 titoli in uscita il 31 luglio della discografia di Zappa & Mothers Of Invention. Si tratta delle versioni originali rimasterizzate (alcune rifatte per l’occasione, altre le stesse delle ristampe Rykodisc): secondo la politica delle ultime ri-edizioni curate da Zappa prima della sua morte non ci sono bonus, ma si tratta degli album originali così come erano usciti in vinile ai tempi!

Frank Zappa, 2012 Reissue Campaign (Universal Music Enterprises)

1.Freak Out! (1966)
2.Absolutely Free (1967)
3.Lumpy Gravy (1967)
4.We’re Only In It For The Money (1968) (Original Cover)
5.Cruising with Ruben & the Jets (1968)
6.Uncle Meat (1969) (2 CD)
7.Hot Rats (1969)
8.Burnt Weeny Sandwich (1970)
9.Weasels Ripped My Flesh (1970)
10.Chunga’s Revenge (1970)
11.Fillmore East – June 1971 (1971)
12.Just Another Band From LA (1971)

Il mio preferito in assoluto!

Nella cronologia mancherebbero Mothermania che era una antologia del 1969 e il doppio 200 Motels uscito nell’ottobre del 1971 (però per un’altra casa, la United Artists), prima di Just Another Band From L.A che effettivamente fu pubblicato nel marzo 1972 (anche se registrato nell’agosto 1971). Tutti i CD usciranno ad un, diciamo, anche se è un ossimoro, “medio prezzo alto”.

Bruno Conti