Il Terzo Episodio Di Una Saga Lunga Mezzo Secolo. Paul McCartney – McCartney III

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Paul McCartney – McCartney III – Capitol/Universal CD

Quest’anno è scattato il cinquantenario di parecchi capolavori della nostra musica (ed alcuni verranno celebrati nel 2021 causa Covid), ma sono trascorse anche cinque decadi dall’esordio solista di Paul McCartney, cioè quel McCartney con la famosa copertina con la ciotola di amarene e che musicalmente aveva spiazzato non poco critici e fans che si aspettavano un disco pieno di pop songs arrangiate con tutti i crismi ed invece si ritrovarono una serie di bozzetti in gran parte acustici ed in cui Paul suonava da solo tutti gli strumenti. Dieci anni dopo, esaurita l’epopea degli Wings, Paul aveva bissato il suo esordio appunto con McCartney II, altro lavoro in cui l’ex Beatle faceva tutto da solo ma con una maggiore propensione alle sperimentazioni ed ai suoni moderni (anche se non mancavano un paio di ballate acustiche vecchio stile). Nel 2020 non era previsto un nuovo album da parte di Paul, anche perché l’ultimo Egypt Station era ancora “caldo” grazie anche a tutte le versioni deluxe e super deluxe uscite dopo, ma il nostro ha deciso di occupare il tempo trascorso durante il lockdown (o “rockdown”, come lo ha ribattezzato lui) nella sua fattoria nel Sussex incidendo una manciata di nuove canzoni nel suo studio casalingo in perfetta solitudine, cosa che gli ha fatto venire l’idea di pubblicare un nuovo episodio della trilogia solista (complice anche il fatto che siamo in un anno che finisce con lo zero).

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Ecco quindi disponibile da pochi giorni McCartney III, un vero e proprio nuovo album che si collega direttamente ai suoi due predecessori, in particolare al primo per le foto di carattere bucolico-familiare del booklet interno, mentre dal punto di vista musicale abbiamo una via di mezzo tra i due, con il McCartney autore di canzoni pop immediate e di intense ballate acustiche e pianistiche che ogni tanto cede il passo allo sperimentatore, pur senza stranezze del tipo Temporary Secretary o Bogey Music. Dopo un paio di attenti ascolti posso affermare che McCartney III è un buon disco, diciamo un tre stelle pieno tendente alle tre e mezza, che riflette lo standard del nostro degli ultimi vent’anni, ma con due o tre zampate che confermano che non ha perso del tutto il suo “magic touch”, cosa che peraltro era avvenuta anche in Egypt Station che era il suo miglior disco da Flaming Pie in poi nonostante qualche lungaggine di troppo. Il McCartney del 2020 è quindi un artista che forse non ha più nelle corde il capolavoro, e che si difende comunque con tonnellate di mestiere, e che dal punto di vista compositivo è limitato dal dover comporre canzoni adatte al suo range vocale attuale, che non è più quello di un tempo: per dirla in breve, che senso avrebbe scrivere brani come Oh! Darling, Venus & Mars/Rockshow o Tug Of War (ammesso che sia ancora in grado di farlo) se poi non li riesce più a cantare?

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Prima di passare alla disamina dettagliata, due parole sulla cervellotica strategia di marketing del disco, che vanta ben nove versioni diverse in LP con differente colore del dado in copertina e vinile di conseguenza (compresa una ultra-limitata di 333 copie in vinile giallo-nero messo in vendita dalla Third Man Records di Jack White ed esaurita quasi subito), e cinque in CD, cioè quella standard e quattro in vendita solo sul sito dell’artista (con dado bianco, giallo, rosso e blu), ognuna delle quali con una bonus track esclusiva diversa! (NDM: non escludo, visto il soggetto ed i precedenti, che il prossimo anno “spunti” una edizione super deluxe con tutte le quattro bonus tracks più magari qualcos’altro…)

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L’iniziale Long Tailed Winter Bird è aperta da un suggestivo e prolungato fraseggio chitarristico, ed il brano è in pratica uno strumentale con Paul che si limita a qualche breve vocalizzo, e quando entra la sezione ritmica il tutto acquista solidità e grinta. Find My Way è il primo singolo, un pop-rock elettrico e vivace dalle sonorità moderne ed un motivo di base piacevole nonostante la voce del leader non sia più quella di una volta: forse non un pezzo di cui ci si ricorderà in futuro, ma il suo lo fa https://www.youtube.com/watch?v=2oSmP3GtOBk . Pretty Boys è una discreta ballata elettroacustica, ben costruita e con una linea melodica non scontata, anche se Paul è in grado di fare di meglio, come per esempio la seguente Women And Wives, uno slow pianistico decisamente fluido ed eseguito in maniera impeccabile, con Paul che canta con la sua voce “alla Lady Madonna” https://www.youtube.com/watch?v=csh97_r1jwQ , mentre Lavatory Lil è un rock’n’roll piacevole che scorre via liscio senza lasciare troppe tracce, uno di quei divertissement che in questi album “fai da te” di Macca non mancano mai. Per contro Deep Deep Feeling è uno dei brani centrali, ben otto minuti che partono attendisti con Paul che sperimenta coi suoni e gioca con gli strumenti senza però mai perdere di vista il motivo di fondo, riuscendo nell’intento di darci qualcosa di non prevedibile e riportando alla memoria certe cose del periodo Ram https://www.youtube.com/watch?v=c1Ph4MD4EIo .

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Slidin’ è una canzone roccata e chitarristica incisa con l’aiuto dei suoi abituali collaboratori Rusty Anderson alla chitarra ed Abe Laboriel Jr. alla batteria (ma non doveva fare tutto da solo? Ahi ahi ahi…) ed una parte di basso molto potente, anche se dal punto di vista del songwriting il pezzo non ha molto da offrire ed è il meno interessante del lavoro https://www.youtube.com/watch?v=Vvwqt9YvgeA ; meglio The Kiss Of Venus, un delizioso bozzetto acustico che purtroppo risente del timbro di voce di Paul che dimostra tutti i suoi 78 anni (bello però l’intervento di clavicembalo) https://www.youtube.com/watch?v=Z7ZOoyIWOkE . Decisamente riuscita invece Seize The Day, una pop song che ci restituisce il miglior McCartney (stavolta anche dal punto di vista vocale), con una melodia di quelle che solo Paul sa scrivere in questo modo: forse il brano che preferisco insieme all’ultimo che però, come vedremo tra poco, è fuori concorso  . Finale con la cadenzata e https://www.youtube.com/watch?v=Cid0reVAfI0discreta Deep Down, dal sapore soul-errebi moderno, e con il medley Winter Bird/When Winter Comes, che unisce una breve ripresa strumentale del brano iniziale ad una squisita ballata acustica tra le più belle sentite da Paul negli ultimi anni: peccato che si tratti di un’incisione del 1992 (e si capisce anche dalla voce), e quindi non sia molto attinente al resto del disco https://www.youtube.com/watch?v=GmF1H_vUhbc .

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In definitiva McCartney III è né più né meno al livello che mi aspettavo, ma visto che è un album in un certo senso piovuto dal cielo (senza la pandemia probabilmente non sarebbe esistito) e che difficilmente in futuro avremo un McCartney IV, lo accetto di buon grado e lo giudico positivamente.

Marco Verdi

“Liquido” Ma Anche Solido, Soprattutto Dal Vivo Un Vero Virtuoso Della 6 Corde. Michael Landau – Liquid Quartet Live

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Michael Landau – Liquid Quartet Live – Players Club/Mascot Label Group

Altro album chiaramente indirizzato agli appassionati della chitarra, dopo quello recente, sempre dal vivo, pubblicato da David Grissom https://discoclub.myblog.it/2020/06/13/per-la-gioia-degli-appassionati-della-chitarra-se-riescono-a-trovarlo-david-grissom-trio-live-2020/ , o quello uscito alcuni mesi fa di Sonny Landreth https://discoclub.myblog.it/2020/02/23/e-intanto-sonny-landreth-non-sbaglia-un-disco-sonny-landreth-blacktop-run/ : tre virtuosi assoluti, perché anche Michael Landau ha un passato (e anche un presente, visto il recente Rock Bottom del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/02/23/sempre-a-proposito-di-chitarristi-michael-landau-rock-bottom/ ) di dischi dove l’utilizzo della chitarra elettrica è elevato a livelli quasi “sublimi”, ovviamente per chi ama questo tipo di approccio molto sofisticato alla musica, che per quanto abbia importanti sfumature jazz, però non manca di nerbo e di una varietà di tematiche musicali ispirate da tutta la lunga carriera musicale di Landau, che negli ultimi anni lo avevano portato anche a formare una band con Robben Ford, i Renegade Creation, dove i due stili convivevano appunto alla perfezione https://discoclub.myblog.it/2010/12/27/posso-solo-confermare-michael-landau-robben-ford-jimmy-hasli/ .

Come mi è capitato di dire in passato il buon Michael è una sorta di “chitarrista dei chitarristi” e nei suoi dischi come titolare ama mettere in mostra tutta la tecnica imparata in oltre 45 anni di onorata carriera, suonando di tutto, con tutti. Ma in questo disco dal vivo ha voluto privilegiare soprattutto la componente jazz(rock) della propria musica: nel disco troviamo, come nel precedente CD del 2018, il vecchio amico David Frazee, cantante e chitarrista aggiunto, già con lui nei Burning Water sin dagli anni ‘90, ma anche una nuova sezione ritmica con due pezzi da 90 come il batterista Abe Laboriel Jr (nella band di Paul McCartney da quasi 20 anni) e Jimmy Johnson, bassista nei dischi del compianto Allan Holdsworth da metà anni ‘80 in avanti. La presenza di questi musicisti naturalmente alza l’asticella dei contenuti tecnici della musica a livelli molto alti. Aiuta anche il fatto chi il CD sia stato registrato, lo scorso novembre, in un piccolo locale, il Baked Potato Jazz Club di Los Angeles, famoso per i suoi intimi concerti dove il pubblico presente può apprezzare nitidamente nei dettagli il fluire della musica che viene dispensata agli appassionati presenti.

La serata si apre con Can’t Buy My Way Home, un pezzo quasi after hours del repertorio dei Burning Water, dove rock, blues e jazz convivono mirabilmente nella “musicalità” dei vari componenti la band che si scambiano da subito acrobatici interscambi sonori con nonchalanche ma anche con impeto, interagendo tra loro in modo quasi telepatico, con Landau che lavora di fino su timbriche e sonorità quasi al limite dell’impossibile, per non parlare di Greedy Life un brano dei Renegade Creation dove Landau riproduce la sua parte e quella di Robben Ford in una vorticosa jam da power trio, dove Laboriel e Johnson creano un tappeto ritmico in crescendo da sentire per credere. Well Let’s Just See è uno dei brani nuovi, dove rock hendrixiano e sonorità alla Allan Holdsworth si intrecciano goduriosamente, con Killing Time che rivisita nuovamente il repertorio dei Burning Water in una ballata spaziale e delicata dove si apprezza una volta di più la tecnica prodigiosa del musicista californiano, un vero maestro della chitarra.

Bad Friend viene da Rock Bottom, un brano grintoso e tempestoso cantato a due voci da Michael e Frazee, sempre con la ritmica che imperversa e anche nell’altra canzone nuova Can’t Walk Away From It Now, più flessuosa e sinuosa, Landau esplora i toni e i vibrati della sua chitarra in maniera magistrale e in Renegade Creation quello più carnale e vicino al rock più “riffato” e tradizionale, si fa per dire visto che la chitarra viaggia a velocità supersoniche sostenibili per pochi. One Tear Away è l’altro pezzo estratto da Rock Bottom, un’altra ballata “astrale” di una raffinatezza e sciccheria nuovamente sublimi che mi ha ricordato certe cose dei King Crimson dell’epoca di Adrian Belew. Il concerto si chiude con due brani strumentali Tunnel 88 e Dust Bowl dove Michael Landau esplora sentieri quasi sperimentali con la chitarra in viaggio verso la stratosfera nel primo brano e nelle volute del jazz nel secondo. Che dire? “Cazzarola” se è bravo! Esce al 21 agosto.

Bruno Conti

7 Settembre 2018: Il Giorno Dei Paul! Parte 2: Paul McCartney – Egypt Station

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Paul McCartney – Egypt Station – Capitol/Universal CD – 2LP

Ecco la seconda parte di un doppio post dedicato ai due più famosi Paul del rock, dopo quello su Paul Simon di ieri.

A cinque anni dalla sua ultima fatica, New, torna Paul McCartney con il suo nuovo lavoro, Egypt Station, annunciato già da qualche mese. Nel mio ultimo post dedicato a Paul Simon, ho scritto che il piccolo cantautore dei Queens non fa un grande disco dal 1986 (Graceland), e questa, oltre al nome di battesimo, è una considerazione che può andar bene anche per l’ex Beatle, il quale però l’ultimo lavoro veramente degno di nota lo ha prodotto nel 1997 (Flaming Pie). Da allora, Paul ha pubblicato solo quattro album di materiale originale (più due di cover, Run Devil Run, ottimo, e Kisses On The Bottom, discreto): Driving Rain (2001) era lungo, noioso e pretenzioso, mentre i suoi ultimi due, Memory Almost Full ed appunto New avevano qualche buona canzone ma alla fine risultavano del tutto dimenticabili. Forse l’unico con qualche possibilità di essere elevato al rango di bel disco era Chaos And Creation In The Backyard, sia per la solidità di varie composizioni che per il fatto che fosse prodotto alla grande da Nigel Godrich. Egypt Station, che esce con una copertina disegnata dallo stesso Paul (non bellissima peraltro, ed in più mi ricorda non poco quella di Gone Troppo dell’ex amico e collega George Harrison), ha anch’esso un produttore di grido, Greg Kurstin, uno che però ha un curriculum non proprio impeccabile per i lettori di questo blog: Adele, Beck (e fin qui ci siamo ancora), Sia, Pink, Foo Fighters, All Saints, Kylie Minogue, Shakira e Kesha.

Nomi che mi fanno tremare i polsi, dunque, ma devo dire che in questo album Greg ha fatto un ottimo lavoro, dando ai brani un suono pulito, quasi essenziale, e nello stesso tempo moderno senza essere troppo tecnologico. Il resto lo ha fatto Paul, scrivendo alcuni tra i suoi migliori brani degli ultimi vent’anni, e confezionando un album che, pur non essendo un capolavoro, surclassa facilmente i due precedenti e si posiziona nella zona medio-alta di un’ipotetica classifica dei suoi dischi. Egypt Station è pensato come un viaggio in treno, con una stazione di partenza ed una di arrivo, dove ogni canzone è una diversa fermata, anche se le tematiche sono differenti e non me la sento di definirlo un concept: la maggior parte degli strumenti è suonata da Paul stesso (è sempre stato un eccellente polistrumentista), con interventi della sua ormai collaudata road band (Paul Wickens, Abe Laboriel Jr, Rusty Anderson e Brian Ray), dello stesso Kurstin e di una sezione fiati. Stranamente non sono previste edizioni speciali per il momento (ma la Target per gli USA e la HMV per il Regno Unito hanno una versione con due bonus tracks, Get Started e Nothing For Free), ma all’orizzonte c’è un’inquietante Super Deluxe Edition, sembra in uscita ad Ottobre, il cui contenuto è al momento segreto (ma vedrete che il buon Macca farà di tutto per farci comprare lo stesso disco due volte in due mesi). Dopo una breve introduzione d’atmosfera con Opening Station, ecco subito i due pezzi già noti da qualche mese in quanto usciti su singolo: I Don’t Know è una bella canzone, una ballata pianistica tipica del suo autore, dal ritmo cadenzato e melodia fluida e squisita, un pezzo di stampo classico che potrebbe essere stato scritto anche negli anni settanta (fa impressione invece la voce di Paul, invecchiatissima rispetto anche all’album precedente), mentre Come On To Me è un uptempo elettrico tra pop e rock e dal riff insistito, abbastanza coinvolgente anche se forse si sente la mancanza di un ritornello.

Happy With You come da titolo è una gioiosa e saltellante ballata acustica, un altro genere di brani che nei dischi di Paul non manca (quasi) mai, Who Cares parte con una chitarra distorta, poi arriva una ritmica sostenuta ed un motivo diretto e piacevolissimo, un rock’n’roll di presa immediata e tra le più riuscite del CD; la bizzarra Fuh You (l’unica non prodotta da Kurstin, ma da Ryan Tedder) sembra una filastrocca pop, ha un arrangiamento molto moderno ma non artefatto, basato sul pianoforte: non è tipica di Paul ma si lascia ascoltare con piacere, grazie anche ad un refrain che si canticchia fin dal primo ascolto. Una chitarra acustica cristallina introduce Confidante, altro esempio tipico di come il nostro sia ancora in grado di costruire melodie semplici e piacevoli nello stesso tempo; People Want Peace è introdotta da un piano che sembra preso da Obladì-Obladà, poi entrano gli altri strumenti ed il brano si fa più serio, anche se è un gradino sotto i precedenti. Splendida per contro Hand In Hand, una scintillante ballata pianistica classica, con una leggera orchestrazione ed una linea melodica notevole, resa ancora più toccante da un assolo di flauto e dalla voce quasi fragile di Macca; di ottimo livello anche Dominoes, altra squisita pop song di classe e dal ritmo vivace, mentre Back In Brazil se la poteva anche risparmiare, in quanto è una sorta di samba-pop moderna dalla consistenza di una piuma, e pure un po’ irritante.

Il disco però si riprende subito con Do It Now, altro pezzo lento per voce, piano e poco altro (vorrei dire beatlesiano ma mi astengo), ma Ceasar Rock, seppur cantata con la tipica voce grintosa “da rocker” di Paul, è un po’ pasticciata. Despite Repeated Warnings, che dura sette minuti, è invece una rock ballad sontuosa, che inizia ancora pianistica per poi arricchirsi strumentalmente a poco a poco, ed è servita da un motivo limpido: ad un certo punto cambia ritmo e melodia e diventa un pop-rock chitarristico e solare di grande immediatezza, per tornare sul finale al tema iniziale. Insieme a Hand In Hand, il brano più bello del CD. Un altro breve strumentale (Station II) porta alla conclusiva Hunt You Down/Naked/C-Link, un medley che parte come un rock’n’roll elettrico e potente (con fiati), prosegue come una pop song fluida ancora guidata dal piano e termina come una rock song lenta e dal suggestivo assolo di chitarra. Un buon ritorno quindi per Paul McCartney: Egypt Station, pur non essendo di certo paragonabile a Band On The Run (ma nemmeno a Tug Of War), è un bel disco, di quelli tra l’altro destinati a crescere ascolto dopo ascolto. Un CD che consente al Baronetto di vincere l’ideale duello tra Paul, anche perché rispetto a Simon il musicista britannico si è affidato a materiale nuovo di zecca.

Marco Verdi