Nella Vecchia Fattoria…! Over The Rhine – Live From The Edge Of The World

over the rhine live from the edge of the world

Over The Rhine – Live From The Edge Of The World – Great Speckled Bird – 2 CD Limited Edition

Fin dalla prima volta che li ho visti dal vivo, e precisamente a Chiari (BS), se non ricordo male nel lontano 2001, ho subito pensato che c’era più di una ragione che accomunava gli Over The Rhine ai Cowboy Junkies: ballate lente, malinconiche, costruite su un gioco di coppia complice e silenzioso che, oggi come ieri, sono unicamente nelle corde di due personaggi dalle chiarissime idee musicali, come la brava cantante Karin Bergquist e il bravissimo polistrumentista Linford Detweiler (coppia in arte come pure nella vita), con la differenza che il suono dei primi è fondato sulla voce di Karin e le tastiere di Linford, (più folk), mentre quello dei secondi gira attorno ai fratelli Timmins, la bella Margo e Michael, rispettivamente voce e chitarre (più blues). Gli Over The Rhine sono attivi dall’inizio del ’91, e fino ai giorni nostri hanno prodotto qualcosa come 22 album, di cui sei dal vivo e tre raccolte, tutti lavori che a livello artistico hanno tracciato una parabola in costante ascesa (con una menzione particolare per il doppio Ohio (03), fino ad arrivare ai più recenti The Long Surrender (11) e Meet Me At The Edge Of The World (13), recensiti puntualmente su queste pagine dall’amico Bruno http://discoclub.myblog.it/2013/08/29/a-prescindere-dal-genere-gran-disco-over-the-rhine-meet-me-a/ . Per festeggiare i venticinque anni del loro sodalizio, la bionda Karin e il marito Linford hanno radunato nella loro fattoria dell’Ohio un gruppo di musicisti, definiti The Band Of Sweethearts, composto da Jay Bellerose alla batteria e percussioni, Jennifer Condos al basso, Eric Heywood alla chitarra elettrica e pedal steel e Bradley Meinerding alle chitarre elettriche e acustiche e mandolino, per registrare due esibizioni fatte nel corso di un week-end e tenute nel fienile di famiglia il 24 e 26 Maggio del 2015, dando così vita ad un concerto straordinario che tende vieppiù a caratterizzare le sonorità elettroacustiche della band e la voce della bionda Karin.

Idealmente diviso in due parti, il concerto parte con un set prevalentemente più “rootsy,” con brani tratti prevalentemente dall’ultimo album in studio Meet Me At The Edge Of The World, a partire dalla title track, una magnifica ballata country-folk d’atmosfera, seguita dall’ispirata melodia di Sacred Ground, con il mandolino di Bradley ad accompagnare la voce di Karin, il breve folk acido dello strumentale Cuyahoga, il ritmo sincopato di Gonna Let My Soul Catch My Body, rifatta in una bella versione unplugged, e una Suitcase (recuperata dal capolavoro Ohio), con un arrangiamento ridotto all’osso. Con la strepitosa ballata soul Called Home si alza decisamente il livello del concerto, seguita ancora dalla dolce I’d Want You, dove ritornano le atmosfere “agresti”, per poi andare a rivisitare brani datati e poco eseguiti in concerto, come la travolgente All I Need Is Everything (da Good Dog, Bad Dog), farci sempre commuovere con la melodia vincente di una ballata come Born (la potete trovare su Drunkard’s Prayer), introdotta dalle note del pianoforte di Linford, e cantata con la straordinaria voce di Karin, e rispolverare, sempre da un grande album come il citato Good Dog, Bad Dog, una delicata Poughkeepsie che viene eseguita come una sorta di “ninna nanna” country.

Dopo una breve pausa che viene usata, si presume, per gustare la produzione della fattoria (pane, salumi e uova con del buon vino e birra), si riparte con una deliziosa Making Pictures cantata a due voci da Karin e Linford, per poi rivoltare come un calzino Baby If This Is Nowhere, che viene rifatta in una versione country-blues, nonché riproporre uno dei brani più belli della coppia, I Want You To Be My Love (cercatela sempre su Drunkard’s Prayer), una ballata sorretta dalla scansione ritmica di una chitarra acustica, con la voce suadente della cantante ad intonare una melodia profonda ed emozionante, mentre la seguente Trouble (da The Trumpet Child) è una briosa divagazione in chiave jazz, e passare alle atmosfere sospese fra lounge e jazz della lunga e bellissima All My Favorite People (da The Long Surrender), dove si manifesta ancora una volta la bravura al piano di Detweiler. Nella parte finale del concerto vengono proposte un paio di “cover”, a cominciare dalla notissima It Makes No Difference (di Robbie Robertson della Band), riproposta in versione delicata e notturna, mentre la seguente  The Laught Of Recognition, viene ripescata dall’ottimo The Long Surrender, una meravigliosa ballata folk come The Laugh Of Recognition, con la pedal-steel di Eric Heywood in evidenza, prendere ancora dai solchi di Ohio una nuovamente notturna e “jazzata” Cruel And Pretty, con un piano che suona come ce si trovasse a New Orleans, omaggiare alla grandissima il Neil Young dei primi tempi con una grintosa Everybody Knows This Is Nowhere, e andare a chiudere il concerto, come era iniziato, con una versione solenne e struggente di una ballata stratosferica come Wait, (che era anche il brano di chiusura del citato Meet Me At The Edge Of The World), dove la voce della Bergquist raggiunge vette emotive di grande pathos.

Commozione e applausi nel fienile della fattoria Over The Rhine. Inutile dire che la carta vincente del gruppo è Karen Bergquist che possiede una voce tra le più duttili ed importanti del cantautorato americano (anche se pure Detweiler è un musicista di vaglia), e che riesce ad interpretare con grande classe liriche intense e musica profonda, entrambe costruite su temi melodici e drammatici, malinconici ed evocativi. Come in questo ultimo lavoro live, ma anche di fronte ad ogni disco degli Over The Rhine, viene da chiedersi perché questa band continua ad essere poco considerata e con CD tanto difficilmente reperibili ( in questo caso ancora più degli altri), un disco da non perdere assolutamente, sia per chi già li segue e li conosce, sia per chi non ha ancora avuto questa fortuna:  un approccio ed uno stile per chi ama la musica soffusa e intensa, quindi, come detto poc’anzi, per chi ama il suono onirico alla Cowboy Junkies, una musica per palati ed orecchie fini, ma anche per gli amanti delle atmosfere notturne dalle melodie intense, magari da gustare un po’ alla volta e con ascolti ripetuti, meglio se a notte fonda e in dolce compagnia. Un altro regalo dall’America e dalla fattoria targata  Over The Rhine dove la musica, anzi, per la precisione, la buona musica, è ancora un patrimonio culturale.

Tino Montanari

Degna Figlia Di Tanto Padre, Parte Seconda! Saluti Da Pieta Brown – Postcards

pieta brown postcards

 Pieta Brown  – Postcards  – Lustre Records

Titolo già usato in passato per il Post dedicato a Amy Helm, ma sempre valido anche per questo disco.

La musica evidentemente per Pieta Brown  è stato sempre un affare di famiglia (non dimentichiamo che è la figlia del grande Greg Brown, uno dei  migliori cantautori americani e tra i miei preferiti assoluti, che non pubblica nulla dal 2012, ma nel frattempo ci pensa la nuova moglie Iris DeMent), tanto da sposarsi pure Bo Ramsey, per anni sodale proprio di Greg, grande chitarrista e produttore in proprio, che come dote si è portato pure i figli, grandi musicisti nel gruppo The Pines. Come se non bastasse, Pieta in questo nuovo album, Postcards (che arriva a tre anni dal precedente Paradise Outlaw ed è stato concepito, come ha confessato lei stessa, in giro per stanze d’albergo sparse per gli States) si è anche circondata di grandi musicisti, incontrati nel suo peregrinare per spettacoli e dischi altrui: e così nel disco troviamo gente “importante” come i Calexico, Mike Lewis, Mason Jennings, Mark Knopfler, Carrie Rodriguez, Chad Cromwell, David Lindley, Eric Heywood & Caitlin Canty, e, quasi inevitabilmente, i Pines. Ognuno presente in un brano del nuovo album, dove il ruolo principale della costruzione sonora è affidato a Bo Ramsey e alla stessa Pieta, che hanno registrato le parti basilari di voce e chitarra nel piccolo studio-garage di casa e poi, come piccole cartoline sonore, le hanno spedite ai vari artisti perché aggiungessero le loro parti.

Un approccio quindi diverso dal precedente Paradise Outlaw, che pure era un signor album, e prevedeva la presenza di alcuni ospiti, Justin Vernon, Amos Lee e il babbo Greg Brown (che ultimamente si ritaglia queste partecipazioni, oltre alla figlia e alla moglie, anche Jeff Bridges, The Pines e qualche tempo fa Anais Mitchell), più uno sforzo d’assieme, concepito negli studi di Bon Iver, mentre questo album è stato assemblato mettendo insieme le diverse parti, ma ascoltandolo non si direbbe perché l’album sembra veramente molto unitario, con alcune punte di eccellenza. La Brown, scrivendo i brani, aveva già pensato ai musicisti con i quali le sarebbe piaciuto collaborare, e li ha costruiti pensando alle loro caratteristiche: ed ecco quindi nell’iniziale In The Light, cantata con voce suadente da Pieta, il sound raffinato e “desertico” dei Calexico, che hanno aggiunto prima batteria e vibrafono, e poi in un secondo tempo, da un’altra località, basso e armonie vocali, il risultato è splendido, una ballata sospesa e sognante, quasi una ninna nanna futuristica. Non mancano i Bon Iver, questa volta nella persona di Mike Lewis, che in Rosine, una canzone nata da un sogno su Bill Monroe (?!?), ha aggiunto le sue parti fiatistiche, leggere e sobrie, ma molto efficaci, quasi folk-prog; brano seguito dalla collaborazione con David Mansfield, che ha inserito magici tocchi di mandolino e chitarra Weissenborn alla splendida Once Again, dove si sente pure il tocco di Ramsey, per una folk tune di grande sensibilità e dolcezza. Niente male, per usare un  eufemismo, anche How Soon, dove il bravissimo cantautore Mason Jennings, ha sommato le sue parti di batteria, basso e tastiere, oltre ad eccellenti armonie vocali, per un brano che, in un leggero crescendo, ha un suono quasi da gruppo folk-rock.

E una piccola meraviglia è anche la canzone Street Tracker, dove si ascolta la magica chitarra di Mark Knopfler (registrata in quel di Londra): i due si erano conosciuti in un tour del musicista inglese e l’alchimia funziona sempre alla perfezione, un suono intimo e raccolto che vale più di mille pezzi rock. In Stopped My World Carrie Rodriguez ha incorporato il suo guizzante violino e le armonie vocali, per un delizioso brano country-folk, dove si ascolta anche il clawhammer banjo della stessa Pieta Brown. Nella successiva Station Blues, Chad Cromwell aggiunge la batteria che ricrea il rombo di in treno in avvicinamento, sulle evocative note di una bottleneck, forse la stessa Brown, che ci fa tuffare nelle 12 battute più classiche. Di nuovo le slide protagoniste nella successiva Take Home, e chi meglio di uno dei maestri dello strumento come David Lindley poteva svolgere questo compito (ma mi pare che pure Ramsey non scherzi), e il risultato è una ballata splendida che evoca paesaggi infiniti e un viaggio verso casa, ho già detto splendida? On Your Way prevede la presenza di Eric Heywood, impegnato alla pedal steel e all’e-bow, come pure della bravissima Caitlin Canty, una delle voci emergenti più interessanti della scena country-Americana di Nashville, altro brano prezioso e di una dolcezza infinita. A chiudere il tutto arriva il brano con il resto della famiglia Ramsey, ovvero i “figliastri” The Pines, presenti in una scintillante, benché sempre raccolta All The Roads, che chiude in gloria quello che è veramente un piccolo gioiellino di album confezionato da una “artigiana” di rara bravura come si dimostra Pieta Brown in questo suo invio di Postcards veramente gradite!

Bruno Conti