Caspita Se Picchiano! Two Tons Of Steel – Unraveled

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Two Tons Of Steel – Unraveled – Smith Entertainment CD 2013

Avere uno come Lloyd Maines, cioè il miglior produttore texano, pronto a cancellare qualsiasi impegno pur di produrre un tuo disco non è roba da tutti. E’ ciò che succede ai Two Tons Of Steel, band proveniente da San Antonio, ormai tra le veterane del panorama musicale (sono in giro da diciotto anni), che ha avuto l’onore di avere Maines dietro la consolle in molti dei suoi lavori. Cosa che accade puntualmente anche in questo Unraveled (che esce a quattro anni di distanza da Not That Lucky), nuovo ed elettrizzante capitolo della carriera del quartetto guidato da Kevin Geil (con Brian Duarte, Paul Ward e Jake Marchese).

Non sono molto prolifici, incidono ogni tre-quattro anni, ma state sicuri che raramente sbagliano un colpo: il loro è un hard-rockin’ country vigoroso ed energico, con decisi elementi punk nel dna, un sound diretto e chitarristico che ha portato Maines a definirli una delle migliori band texane in circolazione. Un complimento mica da ridere, vista la moltitudine dei gruppi operanti nel Lone Star State, ma Maines non è certo l’ultimo arrivato, e quando parla lo fa a ragion veduta: Unraveled ci offre la consueta miscela di country-rock ad alto tasso adrenalinico suonato a tutto ritmo; dopo quasi vent’anni Geil e soci si intendono alla perfezione, e la maestria di Maines nel rendere pulito e calibrato il sound è la ciliegina sulla torta. 

Dal vivo, poi, sono una vera bomba.Per la verità l’inizio è un po’ così così: Really Want You è un brano tosto, tra country e punk, decisamente energico ma con poche frecce al sua arco dal punto di vista melodico. Molto meglio Crazy Heart (un brano scritto da Augie Meyers), sempre suonata in modo duro ma con maggior feeling: alla canzone viene tolto l’elemento tex-mex tipico del suo autore e viene aggiunta una robusta dose di cowpunk, ed il tutto funziona. Ease My Mind ha ancora un ritmo alto, ma l’accompagnamento elettroacustico stempera un po’ i toni, dimostrando che i TTOS non sono solo forza ma anche sostanza e cervello; Busted è un celebre brano di Harlan Howard, ma portato al successo da Johnny Cash, un pezzo che qui riceve il tipico trattamento rock’n’country ad opera dei nostri, con ottimi esiti. L’inizio stentato è ormai un ricordo.

Mama è un honky-tonk elettrico e roccato, This Life Of Mine è invece una bellissima cowboy song, decisamente trascinante (ed un po’ sboccata), che dimostra che i TTOS sanno anche scrivere ottime canzoni. No Beer è un divertente hardcore country, nel quale il protagonista, accanito bevitore texano, va all’Oktoberfest a Monaco di Baviera pieno di aspettative e non riesce neanche a farsi una birra; Hell Cat è dura e diretta, senza fronzoli, mentre Pool Cue rievoca in maniera spinta lo spirito di Waylon Jennings.     

L’album termina con la roccata One More Time, in cui i Two Tons adottano quasi uno stile alla John Fogerty, e con Can’t Stop Us Now, un punkabilly dal ritmo indiavolato, degna conclusione di un disco che fa ben pochi prigionieri.

Garantisce Lloyd Maines.

Marco Verdi

Lassù Sulle Montagne, Puro Texas Country! Casey Donahew Band – Standoff

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Casey Donahew Band – Standoff – Almost Country 2013

Passare una vacanza in una ridente località delle Dolomiti (San Martino di Castrozza) è cosa abituale, uscire poi alla sera in cerca di un ritrovo tipico è altrettanto normale, entrare poi in un locale (Ranch Bar), dove tutto profuma di Texas (gestito dai titolari Loris e Giovanni), e sentire a rotazione per tutta la serata dell’ottima musica country, per chi scrive non è tanto abituale. In una di queste serate, sorseggiando del buon Bourbon del Kentucky (Woodford), sentivo scorrere i brani della Casey Donahew Band, una band che negli ultimi dieci anni ha scalato la scena della musica country, conquistandosi faticosamente una nicchia e una solida base di “fans”  che affollano i loro leggendari spettacoli dal vivo.

L’esordio risale al 2006 con l’omonmo Casey Donahew Band e Lost Days, due album autoprodotti come il seguente live Raw- Real In The Ville (2008) che li hanno portati ad avere una certa visibilità tra gli “addetti ai lavori”. Messi sotto contratto da una piccola etichetta come la Almost Country, incidono Moving On (2009) e sfondano finalmente con Double Wide Dream (2011) che entra nella Top Ten della classifica dei dischi country della “bibbia” del settore Billboard. La band è composta dal leader Casey Donahew (il Tex Willer della situazione), e i suoi fidati “pards” rispondono al nome di JJ Soto e AC Copeland alle chitarre, Dante “Taz” Gates alla batteria, Steve Stone al basso e Josh Moore al violino, che in questo ultimo lavoro, fanno del sano country-roots rock ruspante, marchio di fabbrica del Lone Star State.

I titoli iniziali (di questo film musicale Standoff) partono con l’elettrica Lovin Out Of  Control dal ritornello efficace, e proseguono con il singolo Whiskey Baby, mentre Pretending She’s You è una ballata con il pianoforte ed il violino in evidenza, che vede la bella e brava Kimberly Kelly ai cori.

Il tempo di far abbeverare i cavalli e la cavalcata riprende con Not Ready To Say Goodnight , Small Town Love e Sorry, perfetti brani di rockin’ country texano, dove la sezione ritmica picchia duro. Dopo una sosta al “saloon”, la marcia riprende con Homecoming Queen, una rock-song solida e vibrante (mi ricorda gente come Pat Green e Cory Morrow), mentre Missing You è una ballata acustica, introdotta e valorizzata dal violino di Josh e cantata in duetto con Kimberly, e a seguire la divertente Loser scritta a quattro mani con JB Patterson (JB and The Moonshine Band) e-i-risultati-si-vedono-ma-soprattutto-si-sentono-jb-and-the.html. Ci si avvia ai titoli di coda (come nei film del grande Sergio Leone) con un’altra “ballad” di spessore come Put The Bottle Down (una delle più belle scritte da Casey) con il dolce apporto vocale di Jaime Pierce, per poi correre a perdifiato verso il Grand Canyon con il country-boogie di Go To Hell. The End.

Come si intuisce dalla splendida copertina (in stile locandina da film western), Standoff  spara delle robuste pallottole di autentico “Texas sound”, per una band in impressionante crescita, che ormai è una sicurezza, ha trovato il filone giusto, con uno zoccolo duro di fans che la segue nelle date “live” in giro per gli States, e vogliono che le loro canzoni, trasudino di “sangue, dolore e polvere da sparo”.

NDT: Se passate da San Martino di Castrozza, entrate al Ranch Bar, è un oasi per tutti coloro che amano la cultura americana, che deve essere come le Dolomiti, patrimonio dell’umanità. (P&P – Pubblicità e Progresso)!

Tino Montanari

**P.s del titolare del Blog.

Non c’entra nulla con la recensione di cui sopra ma visto che ci sono dei problemi con la funzione “Commenti” del Blog e il buon Marco Verdi “scalpita” (per rimanere in tema con il disco di cui avete appena letto e del quale non casualmente, o forse sì, Marco aveva scritto la recensione per il Buscadero, così potete confrontare i pareri) per rispondere a Corrado che gli ha posto un quesito su Dylan, aggiungo la sua risposta qui di seguito:

Ciao Corrado, grazie per aver condiviso il mio pensiero. In aggiunta a quanto scritto vorrei aggiungere che mi sarebbe piaciuto avere nel BS10 un quinto CD “omaggio” (si fa per dire, con quello che costa) con il disco “Dylan” del 1973 (fatto proprio di scarti da Self Portrait) che la Columbia pubblicò come rappresaglia per il fatto che Bob fosse andato ad incidere per Geffen alla Asylum: un disco tra l’altro mai stampato in CD che aveva alcune cose ottime (Lily Of The West, Mr. Bojangles) ed altre buone(Can’t Help Falling In Love, Big Yellow Taxi).
Riguardo a Dave Alvin, ecco lo stralcio di un’intervista proprio di Dave che parla di queste incisioni:
Eventually, Dave was asked to a session in ’86 for Dylan. “I don’t think it was my greatest musical contribution to the world. I was in awe of just being in the same room with the guy. I’m still looking for a tape of that session too.” These songs were recorded for two Dylan albums called Knocked Out
Loaded and Down in the Groove. None of the songs Dave played on were released. “I saw him a few months after the recording session” Dave recalls, “Dylan was playing with Tom Petty at the L.A. Forum. I was with John Doe and Exene and my girlfriend. We were hanging out at this backstage bar, and Dylan’s road manager came and brought me backstage. We talked for awhile about Sonny Burgess and stuff like that. It was a wild scene in his dressing room. He’s more remote now.”
Quindi parrebbe una di quelle sessions “sparse” tipiche del Dylan anni ’80, che diedero vita ai due Self Portrait di quel periodo (Knocked Out Loaded e Down In The Groove), forse nulla di imperdibile tutto sommato…
Ciao,
Marco

Un Vero Costruttore…Di Musica! Kevin Deal – There Goes The Neighborood

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Kevin Deal – There Goes The Neighborhood – Blindfellow Records

Ottavo album, a ben quattro (* sarebbero tre) di distanza dal precedente Seven, per il texano Kevin Deal, uno che abbiamo sempre seguito con piacere fin dal suo esordio nel 2000 con Honky Tonk’n’Churches. Deal è un texano di quelli giusti, in tredici anni non si è mai piegato alle leggi del marketing, ha sempre fatto la sua musica nei tempi che ha voluto: un rockin’country decisamente diretto e godibile, ma nello stesso tempo di spessore e ben lontano da certa paccottiglia che viene prodotta a Nashville. Particolare da non sottovalutare (e che si collega al titolo del post): Kevin ha ancora meno problemi a fare una musica che vende poco, solo per il piacere di farla, dato che la sua principale fonte di guadagno è l’azienda Deal Masonry, fondata dal padre e della quale è titolare, una ditta edile che si occupa della costruzione di ville e chiese in pietra (e quindi il titolo del suo primo CD non era casuale), un’attività a quanto pare molto ben avviata.

There Goes The Neighborhood, la sua nuova fatica, prosegue il discorso avviato con i precedenti lavori, stavolta però con una maggiore attenzione verso la musica bluegrass e gospel: non è però un disco a tema, la base di partenza è sì la musica d’altri tempi, ma filtrata ed elaborata secondo i canoni di Kevin, ed il risultato è uno dei lavori più riusciti del nostro. Intanto sono tutti brani originali (tranne uno), è poi il trattamento di Deal e della sua band (Bob Penhall, Miles Penhall, Jim Bownds e Rick Hood) è tipicamente texano, quella miscela di country e rock piena di ritmo e feeling, nobilitata oltremodo dalla produzione (e partecipazione come membro aggiunto della band) del grande Lloyd Maines, che come tutti sapete è il miglior produttore del Lone Star State ed in dischi come questo ci sguazza.

La title track apre l’album, un bluegrass tune che più classico non si può, vivace e godibile, con banjo e dobro protagonisti e la voce di Kevin perfettamente in parte. Cosmic Accident è invece un puro honky-tonk texano, con un bel motivo di fondo ed un train sonoro diretto ed evocativo al tempo stesso. La mossa e godibile I Need Revival è country d’altri tempi, ancora con elementi bluegrass e Kevin calato alla perfezione nel suo elemento; l’annerita Big Prayer è invece un gospel-blues a forti tinte swamp, una canzone che non t’aspetti. Le sorprese continuano con un’intrigante versione del superclassico gospel Amazing Grace, arrangiata però come una rock ballad alla Joe Ely, con il passo tipico del grande texano di Amarillo ed uno splendido assolo di armonica: una versione spiazzante, ma di grande bellezza.

Gideon riprende il discorso country-grass, con il Texas che esce ad ogni nota: gran bella canzone, suonata e cantata alla grande (e la presenza di Maines si sente, eccome); Finish Well è una cowboy ballad coi controfiocchi, dove non mancano echi di Robert Earl Keen (sempre in Texas siamo), mentre la ritmata When Your Name Is Called è puro country di una volta, ricorda quasi certe sonorità dei primi anni settanta della Nitty Gritty Dirt Band. La bucolica A Long Time Ago anticipa l’intensa (più di sei minuti) Just Another Poet, un racconto western che potrebbe essere uscito dalla penna di Guy Clark (NDB. In uscita fra una decina di giorni con il nuovo album, My Favorite Picture Of You). Chiudono un ottimo album la bella King Jesus, un country-rock molto piacevole, ancora con Ely tra le note, e la lunga This Old Cross Around My Neck, elettrica, sfiorata dal blues, con un suggestivo crescendo che ce la fa gustare per tutti i suoi sette minuti abbondanti. Bravo Kevin, ancora un bel disco.

Marco Verdi

*NDB Anche questo, come i Field Report recensito ieri, in effetti è uscito all’incirca un annetto fa, luglio 2012, comunque rimane bello!

Questi Vanno Tenuti D’Occhio: Warren Hood Band!

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The Warren Hood Band -The Warren Hood Band – Red Parlor CD

Ecco un gruppo veramente bravo.

In realtà un trio, la Warren Hood Band proviene da Austin, Texas, ed è formata appunto da Warren Hood (violino, chitarra, mandolino e voce solista), Willie Pipkin (chitarra solista) ed Emily Gimble (piano ed organo, veramente brava, e d’altronde è la nipote del leggendario Johnny Gimble, violinista dei Texas Playboys di Bob Wills).

Anche Warren è nella musica da parecchi anni: suona il violino da quando ne ha nove, e, prima di formare un suo gruppo, ha collaborato con fior di artisti, come Emmylou Harris, Lyle Lovett, Little Feat, Elvis Costello e Gillian Welch, pure lui figlio d’arte, il babbo era Champ Hood, collaboratore a lungo di Lyle Lovett (anche nella Large Band) e Toni Price, nonché nella Uncle Walt’s Band  con Walter Haytt, tra i tanti, scomparso prematuramente nel 2001.

Esperienze importanti, direi decisive per maturare un background musicale di tutto rispetto, che viene rivelato in questo album di debutto, intitolato semplicemente The Warren Hood Band, che vede, tra i vari musicisti di supporto, il grande Lloyd Maines, e per produrre il quale si è scomodato addirittura Charlie Sexton, uno che negli ultimi anni ha spesso suonato la lead guitar on the road per Bob Dylan (nuovamente dal 2009, in sostituzione di Danny Freeman) oltre che essere un bravissimo musicista di suo.

Non male per un disco di debutto.

E Warren (già con i Waybacks) che scrive nove delle undici canzoni dell’album, dimostra di avere non poco talento: possiamo dire di trovarci di fronte ad un texano atipico, in quanto non fa semplicemente del country-rock diretto ed elettrico come molti suoi colleghi, ma fonde nel suono elementi sudisti, country, folk, pop, soul, cantautorali e bluegrass, riuscendo a non risultare caotico, ma bensì fornendoci una manciata di brani davvero intriganti. I suoi compagni, Pipkin e la Gimble, sono molto bravi ad accompagnarlo (soprattutto lei), e quindi il disco che ne risulta non può che essere uno dei debutti più positivi degli ultimi tempi.

Apre Alright, che è anche il primo singolo e forse la più texana del lotto, un rock’n’roll frizzante, tra roots e country ma con un tocco di pop, ed una bella slide ad occuparsi delle parti soliste.

You’ve Got It Easy continua con il mix tra rock e pop, strumenti al posto giusto, melodia solare ed una bella personalità (ottimo anche il lavoro di Sexton alla consolle, ma questo non lo scopriamo oggi). Pear Blossom Highway, con la Gimble voce solista (il primo di tre brani con lei come lead vocalist), è una ballata d’altri tempi, sfiorata dal country e nobilitata da ottimi assoli di violino (Hood) e steel (Maines); la mossa Where Have You Gone ha un gradevole sapore white soul, come se fosse stata scritta da Dan Penn.

La corale The More I See You è puro country, semplice e vivace, con violino e piano protagonisti ed una melodia decisamente buona; Songbird è praticamente un brano folk, sempre sostenuto da un motivo di prim’ordine, mentre Take Me By The Hand è più rarefatta e forse meno immediata, ma musicalmente molto interessante, sembra quasi che nell’arrangiamento ci abbia messo le mani Van Morrison. Motor City Man, sostenuta dal piano, ha per contro un motivo molto diretto, Last One To Know è quasi una bluegrass tune, suonata in maniera volutamente sghemba.

L’album si chiude con la lenta e soulful This River, quasi una ballata alla Delaney & Bonnie, e con What Everybody Wants, saltellante e gioiosa, sempre con la Gimble sugli scudi.

Warren Hood ed i suoi compagni possiedono un sicuro talento: speriamo non lo disperdano strada facendo.

Bel disco.

Marco Verdi

Alla Fine Soddisfatti! Joe Ely – Satisfied At Last

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Joe Ely – Satisfied At Last – Rack’em Records

Ovviamente quelli soddisfatti sono gli ascoltatori, ma anche Joe Ely deve esserlo. Ha realizzato uno dei migliori album della sua carriera (il 24° se non ho fatto male i conti, antologie e dischi con i Flatlanders eclusi) e anche uno dei migliori album dell’anno. Non male per un signore di 64 anni che in una quarantina di anni di onorata di carriera è entrato solo tre volte nelle classifiche americane (ai tempi della sua liaison con i Clash), e oltre il 150° posto o giù di lì. Quindi se dovessimo giudicare la sua carriera secondo questi parametri dovremmo parlare di un disastro. E invece siamo di fronte a uno dei migliori cantautori attualmente in attività: io lo inserirei nella Top Ten dei migliori (magari considerando fuori classifica i “Grandi Vecchi”). Il genere è quello solito, ovvero non c’è genere: un misto di rock, country, roots music, folk, Americana ma tutti rigorosamente del ramo Texano, anche se poi il risultato finale è universale, vale a dire belle canzoni, scritte (o scelte quando non sono sue) con grande cura, cantate benissimo, suonate alla grande da fior di musicisti (quando può e vuole).

 

Questa volta ha voluto e il risultato è eccellente: 10 brani per una quarantina di musica, secondo alcuni la durata e il numero di brani perfetto per un disco, Satisfied At Last si avvale di dell’operato di alcuni musicisti “storici” nella musica di Joe Ely. C’è l’amico Butch Hancock che gli ha scritto due brani anche se non appare nel CD, Joel Guzman alle tastiere principalmente ma alla fisarmonica nel brano che conta, Teye alla chitarra flamenco anche lui solo in un brano così come David Grissom (che ha condiviso con Ely e Mellencamp alcuni dei loro dischi migliori) alla solista, Lloyd Maines alla steel guitar e poi il suo gruppo in cui spiccano il bassista Glen Fukunaga (o Fukanaga a seconda di come girava a chi ha digitato il suo nome nelle note) e una schiera di chitarristi, elettricisti e acustici, tutti bravissimi, Mitch Watkins, Rob Gjersoe, Fred Stitz, David Holt, Keith Davis, Joel Plankenhorn e alla batteria, principalmente, Pat Manske.

I nomi non sono solo uno sfoggio di nozionismo ma contano nell’economia di un disco (non sempre ma contano) e quindi saperlo aiuta a capire a cosa ci troveremo di fronte. E qui ci troviamo di fronte a un signor disco che si apre sulle note rock dell’iniziale The Highway Is My Home (perchè Ely è uno che dà del tu anche alla musica rock) con percussioni, organo e tastiere che danno un bel drive al brano, al resto pensano la voce e la chitarra di Joe, oltre alle sue storie, bell’inizio. Not That Much Has Changed è anche meglio, uno di quelle sue classiche hard ballads texane, con la steel di Maynes e la chitarra di Teye che gli danno quello spirito di “frontera”, quel tocco esotico e inconfondibile dei brani migliori di Joe Ely.

 

Satisfied At Last è l’altro rocker intemerato di questo CD, con tre chitarre soliste all’opera oltre alla slide di Ely, con quella di Grissom che guida le operazioni, grinta e melodia, come ai tempi migliori, a conferma che questo è il suo disco migliore da un secolo a questo parte, dai tempi di Letter to Laredo del 1995 anche se Twistin’ In The Wind e Streets Of Sin erano fior di dischi. Mockingbird Hill è un’altra bella ballata, che è il tempo musicale prediletto da Ely, che qui si cimenta alla Spanish Guitar che conferisce ancora quelle sonorità inconfondibili alla canzone, abbellita da florilegi vari delle tastiere di Guzman e della chitarra di Gjersoe, veramente bella.

 

You Can Bet I’m Gone è un bel country-honky-tonk dall’andatura saltellante, mid-tempo con l’ottimo lavoro della chitarra twangy di David Holt, altro centro. Leo And Leona è il primo dei due brani a firma Butch Hancock, e il Bob Dylan texano tiene fede alla sua fama di “raccontatore” di grande storie con una canzone epica ed evocativa che calza a pennello alla voce di Joe Ely che le rende onore con una interpretazione da manuale, con la chitarra classica, questa volta di Plankenhorn, in evidenza, e fanno sei!

 

Difficile fare meglio direte voi. E invece Joe Ely cava il coniglio dal cilindro, in questo caso una versione stupenda del classico di Billy Joe Shaver Live Forever con la fisarmonica (accordian, pardon, c’è scritto così nel libretto ma presumo si intenda accordion) di Joel Guzman sugli scudi. Molto, molto bella. Roll Again è uno strano brano country a tempo di reggae con la slide di Ely che gli conferisce sapore, buona ma non eccelsa, forse la canzone meno significativa anche se tutt’altro che brutta. I’m A Man Now è una sorta di country-blues elettrico molto ritmato con chitarre e tastiere che contendono a Ely la guida del brano. La conclusione è affidata all’altra composizione di Butch Hancock, Circumstance altra country ballad dall’andatura ondeggiante che conclude in gloria e soddisfazione per tutti questo eccellente disco che si candida autorevolmente alla lista dei migliori dell’anno. Per chi ama il genere, ovviamente e siete in tanti (sempre relativamente parlando, non per nulla “siamo” nella Categoria Carbonari)!

Bruno Conti