Il “Solito” Bravo Musicista Texano. Matthew Austin Hunt

matthew austin hunt

Matthew Austin Hunt – Matthew Austin Hunt – Edgewater CD

Uno degli ultimi nomi usciti da quell’inesauribile fucina di talenti che è il Texas è quello di Matthew Austin Hunt, giovane musicista dell’area di Houston che ha appena pubblicato in maniera rigorosamente indipendente il suo album di esordio. Nipote di un musicista di Los Angeles degli anni quaranta, Matthew è cresciuto ascoltando i dischi del nonno (più che altro crooner del calibro di Perry Como, Bing Crosby e Johnny Mathis) e del padre (cose decisamente più texane, come Waylon, Willie e Jerry Jeff Walker) aggiungendo a tutto ciò le sue influenze dirette che vanno da Lyle Lovett a Jackson Browne passando per James Taylor. Il risultato di cotanto bagaglio è appunto l’omonimo Matthew Austin Hunt, un album che non è country come si potrebbe pensare ma una miscela di vari stili che comprendono anche rock, folk e musica cantautorale, il tutto riassumibile con il solito termine “Americana”.

Il country fa certamente parte del suo background, ma Hunt aggiunge spesso e volentieri generose dosi di rock coniugando molto bene un suono forte e chitarristico ad una vena compositiva degna di nota, grazie anche all’apporto di una solida band che va dritta al bersaglio, i cui membri più in vista sono il polistrumentista Derek Hames (che produce anche il disco), il chitarrista John Shelton, l’energica sezione ritmica formata da Mark Riddell al basso e Isaias Gil alla batteria e la violinista Ellen Melissa Story. Puro rock made in Texas quindi, intenso e godibile allo stesso tempo. L’iniziale American Made è un robusto rockin’ country elettrico dal ritmo sostenuto e suono potente, che parte dalla lezione di Waylon per aggiungere ulteriori dosi di rock, con le chitarre in gran spolvero e l’organo a tessere sullo sfondo: un avvio solido e coinvolgente.

Anche Open Book si apre con una bella schitarrata, ma poi il brano si rivela una ballata distesa di pregevole fattura con un motivo che si snoda fluido, anche se il tasso elettrico resta elevato; molto bella Bye London Bye, uno slow elettroacustico dalla melodia toccante ed uno sviluppo strumentale arioso e non privo di pathos, mentre Drip By Drip è una rock song rocciosa con il solito importante apporto di Shelton alla solista ed una sezione ritmica granitica: non solo muscoli però, in quanto anche il songwriting è decisamente valido. Close To Me è gentile, attendista e quasi rarefatta (e spuntano violino e mandolino) a differenza di We Can Dream che è pur sempre una ballata ma parte con un riff molto potente e sanguigno, anche se Matthew conserva quel suo modo gentile di porgere il brano.

The Day I Met You è l’ennesimo pezzo lento, ma il nostro sa scrivere e riesce a trovare la veste sonora adeguata ad ogni canzone senza pertanto risultare noioso: qui il sound è aperto, terso e vibrante, con violino e chitarra elettrica in decisa evidenza. L’incalzante rock ballad Let Me Breathe (ottimo l’uso dell’organo) e la tenue e leggiadra Shade Of Gray portano alla conclusiva My Dear Friend, intensa ed emozionante ballatona tra country e musica d’autore, tra le migliori del CD. Matthew Austin Hunt ha sicuramente grossi margini di miglioramento, ma il suo omonimo debut album rappresenta comunque una base di partenza più che buona.

Marco Verdi

Dalle Tragedie Personali Possono Nascere Anche Bei Dischi. Kevin Daniel – Things I Don’t See

kevin daniel things i don't see

Kevin Daniel – Things I Don’t See – Kevin Daniel CD

Album di debutto da parte di un musicista originario della Carolina del Nord, ma spostatosi prima a Washington e poi definitivamente a New York, e che ha cominciato ad incidere professionalmente dopo la tragica scomparsa avvenuta nel 2013 dei suoi genitori in un incidente aereo, un fatto che gli ha cambiato la vita e che lo ha ispirato a cominciare a scrivere canzoni su canzoni (fino a quel momento aveva suonato soltanto in band informali tra amici e compagni di università). Il suo esordio è stato un EP, Fly, uscito nel 2014, al quale ne ha fatto seguito un altro intitolato Myself Through You nel 2017, ma solo ora si è deciso a compiere il passo decisivo ed a pubblicare il suo primo album. E Things I Don’t See è un lavoro sorprendente (e totalmente autogestito) in cui troviamo una serie di canzoni che sembrano uscite dalla penna di un autore esperto con anni di carriera alle spalle, una miscela stimolante e riuscita di rock, country e soul, il tutto con l’impronta tipica di un musicista del Sud (ed il North Carolina, nonostante il nome, non è certo a nord).

Undici brani piacevoli, diretti, ben scritti ed ottimamente eseguiti da un manipolo di sessionmen poco conosciuti, tra cui segnalerei il chitarrista Anthony Krizan (forse il più noto essendo un ex Spin Doctors), il batterista Lee Falco, il bassista Muddy Shews, l’ottimo steel guitarist Dan Lead ed i produttori Ben Rice e Kenny Siegel. L’iniziale City That Saves è un intrigante brano dall’incedere cadenzato, con un ritornello coinvolgente ed una strumentazione calda che comprende anche tromba e trombone a dare un sapore Dixie. La spedita Feelin’ Good è puro country & western, ancora con i fiati a dare più spessore ed un motivo immediato e gradevole; Used To Be, introdotta dalla bella slide di Krizan, è un solido brano southern soul, ispirato al suono classico dei gruppi degli anni settanta e con un organo che dona ancora più calore: un pezzo eccellente. La title track è quella più influenzata dalla perdita dei genitori, ed è una rock ballad profonda ed intensa, di nuovo con tutti e due i piedi ben piantati al sud ed un notevole crescendo melodico ed emotivo.

Pour Me A Drink è un altro slow stavolta sfiorato dal country con un bel pianoforte, ancora la slide ed un ottimo refrain corale, mentre Jupiter è ancora sul versante country, ma l’atmosfera è anni sessanta e tornano anche i fiati a colorare il sound. 22 è diversa, in quanto vede il nostro e la sua chitarra accompagnati da un quartetto d’archi, una soluzione inattesa ma non disprezzabile, anche se Xanax, Cocaine & Whiskey, una deliziosa country ballad in puro stile valzer texano (una via di mezzo tra Waylon e Willie), riporta subito il disco su territori più familiari. L’album termina con Name Of Fame, godibile bluegrass suonato full band pur mantenendo l’impianto acustico, la folkeggiante Time To Rise e la mossa All I Need, country-rock dal ritmo sostenuto punteggiato dall’ottima steel di Lead. Proprio un bel dischetto questo Things I Don’t See, peccato solo che sia nato in conseguenza di un evento tragico.

Marco Verdi