Uno Strepitoso Disco Di Blues Acustico, Come Non Se Ne Fanno Quasi Più! Bobby Rush – Rawer Than Raw

bobby rush rawer Than Raw

Bobby Rush – Rawer Than Raw – Deep Rush Records/Thirty Tigers

Nativo della Louisiana, ma residente a Jackson, Mississippi sin dagli anni ‘80, Bobby Rush, 86 anni suonati, è uno strane personaggio del blues americano: a cavallo tra le 12 battute classiche, il soul e il funky, da qualche anno si è inventato un termine per definire la sua musica “Folkfunk”. Personaggio diciamo “minore”, ma non marginale, Rush era apparso anche nella miniserie The Blues, prodotta da Martin Scorsese, sempre in pista e pronto a raccontare aneddoti sulla sua lunga carriera, che lo vede come una sorta di Numero Uno di Alan Ford, uno che nel corso degli ha incontrato e suonato con tutti, “consigliandoli” su cosa fare, da Skip James, Howlin’ Wolf, Sonny Boy Williamson II, Muddy Waters a Elmore James, i cui brani reinterpreta in questo Rawer Than Raw, praticamente tutti i grandi della musica nera, tanto che nelle note si dice dispiaciuto di non avere potuto cimentarsi con brani di Jimmy Reed, John Lee Hooker, Son House e BB King. Già nel 2006 aveva inciso un album Raw, composto solo di rivisitazioni di proprie canzoni e che si concludeva con il brano Bobby Rush For President. Quale è la particolarità di questi album?

Come suggerisce il titolo si tratta di album acustici, nel caso di quest’ultimo, anche in solitaria: solo voce, chitarra ed armonica. Ripreso in copertina tra attrezzi agricoli e galline, e all’interno in varie pose, dove sfoggia la sua tinta di capello sempre corvina, un must per i vecchi bluesmen, il buon Bobby ha ancora una voce potente e squillante, e le sue riletture dei classici, miste ad alcune canzoni a propria firma, sono la prova che il nostro amico conosce la materia e sa come trattarla con classe. Sin dall’apertura con Down In The Mississippi, scritta dallo stesso Rush, si respira un’aria “antica” ma non vetusta, voce e chitarra acustica a ripercorrere i vecchi tracciati del blues del Delta, l’armonica a colorare il suono. D’altronde si intuisce che si tratta, come dicono gli americani, di un “labor di love”, realizzato nel corso del tempo tra Jackson, Ms e Montreal: ascoltatevi il blues primigenio di Hard Times (che sarebbe Hard Times Killing Floor Blues di Skip James) al quale, oltre ad acustica e armonica aggiunge il foot stomp per ricreare il sound dell’originale del 1931 (e lì Rush non era presente). Let Me In Your House è una delle canzoni di Bobby, salace e ironico come deve essere il blues, “If I can’t sleep in your bed, let me sleep on your floor. If I walk in my sleep, you’re the only one who’ll ever know. If I can’t be your full-time lover, let me be your part-time man”, scandito dall’interpretazione quasi danzante del nostro.

Che poi si cimenta con Smokestack Lighting di Howlin’ Wolf, che invece ha conosciuto e incontrato nella sua gioventù, quando si aggirava per locali, con baffi finti per nascondere la sua vera età, versione intensa e vissuta, ora che gli anni sono quelli giusti, e anche Shake It For Me, scritta da Willie Dixon, viene dal repertorio del Lupo, con l’acustica suonata ancora con grande destrezza e la voce sicura in grado di emozionare. In Sometimes I Wonder, sempre farina del suo sacco, dimostra di essere anche un ottimo armonicista, poi cimentandosi anche con uno dei maestri dello strumento Sonny Boy Williamson II nella classica Don’t Me Start Me Talkin’, qui ripresa in una vibrante versione; molto intenso anche un altro originale di Rush come Let’s Make Love Again, che poi lascia spazio al lato più ironico della sua arte nella divertente Garbage Man, un potente lentone dove il testo però è molto scherzoso “of all the men my woman could have left me for, she left me for the garbage man. Every time I see a garbage can, I think of her and the garbage man all the time”, con la sua donna che lo tradisce con lo spazzino. Honey Bee, Sail On è un traditional , ma faceva parte del repertorio di Muddy Waters, che riceve il suo giusto tributo, in un brano che evidenzia ancora la voce splendida di Rush, che poi si cimenta con il super classico Dust My Broom, non nella versione di Robert Johnson (anche lui non lo ha conosciuto), ma in quella di Elmore James, conosciuto invece in un club nel 1947, quando ci si aggirava con i suoi baffi finti appena ricordati, grande versione, come d’altronde tutto l’album, uno dei migliori dischi di blues acustico dell’anno.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica Di Disco Club: Fabrizio Poggi – Quattro Chiacchiere, Ma Anche Di Più, Con Il Blues(man)!

Fabrizio Poggi foto di Riccardo Piccirillo 1

Foto di Riccardo Piccirillo

Credo che tutti quelli che leggono questo Blog sappiano chi sia Fabrizio Poggi, cantante, armonicista, soprattutto, ma non solo, un bluesman completo: Fabrizio è anche un divulgatore che ha scritto diversi libri sull’armonica, sul blues e sulla musica folk, è in attività da molti anni, ha inciso venti album (anzi ventuno), sotto varie “ragioni sociali” e ha suonato in Italia con Eugenio Finardi, Enrico Ruggeri, Gang, Luigi Grechi De Gregori, Danilo Sacco (Nomadi), Francesco Baccini e tanti altri. Ha anche svolto una fitta attività negli Stati Uniti, dove ha inciso parecchi dischi incrociando la sua strada con gente come i Blind Boys of Alabama, Charlie Musselwhite, Little Feat, Ronnie Earl, Kim Wilson, Marcia Ball, John Hammond, Sonny Landreth, Garth Hudson  della Band, Ruthie Foster, Guy Davis, Eric Bibb, Otis Taylor, Mike Zito, Bob Margolin, Flaco Jiménez, David Bromberg, Zachary Richard, Jerry Jeff Walker, Bob Brozman, e potremmo proseguire ad libitum, molti usciti a nome Chicken Mambo. All’inizio dell’anno, in seguito alla pubblicazione dell’ultimo disco Fabrizio Poggi And The Amazing Texas Blues Voices, si è recato di nuovo negli States dove ha suonato sulla nave della Legendary Blues Cruise, in coppia con Guy Davis, e a fianco di grandi artisti come Ruthie Foster, Taj Mahal, Lee Oskar, tra i tantissimi in azione durante la crociera. E poi, sempre con Davis, alla Carnegie Hall, per una serata speciale dedicata a Lead Belly. Il suo disco del 2016 http://discoclub.myblog.it/2016/08/31/piccolo-aiuto-dai-amici-gran-bel-disco-fabrizio-poggi-and-the-amazing-texas-blues-voices/ ha vinto il premio come miglior album internazionale negli ultimi JIMI Award (gli Oscar della prestigiosa rivista Blues411) e in passato è stato insignito del Premio Oscar Hohner Harmonicas e candidato ai Blues Music Awards (gli Oscar del Blues). Insomma non il primo che passa per strada, probabilmente il più conosciuto bluesman italiano negli Stati Uniti.

Per una volta vorrei partire addirittura da prima di quello che tu stesso hai definito il tuo “ammalarsi di blues”, sindrome che tu dici ti ha colpito da oltre 40 anni , in pratica quando eri un ragazzino, ma, andando ancora più indietro, proprio ai primordi della tua carriera di ascoltatore, ci sarà stata anche dell’altra musica che sentivi quando eri giovane? Cosa girava per casa, c’erano altri appassionati di musica in famiglia, o sei una sorta di “autodidatta”?

Vengo da una famiglia operaia povera e numerosa di una piccola e grigia città di provincia come ce ne sono tante nel mondo e la musica non era certo tra le cose prioritarie in casa mia. Non sono mai girati dischi e la musica che sentivo era quella leggera degli anni Sessanta che trasmettevano alla radio. Io non me ne ricordo ma mia madre dice che ho sempre comunque mostrato interesse per la musica tanto che seguivo la hit parade di Luttazzi battendo sulle pentole della cucina. Ho cominciato ad ascoltare la musica americana e i nostri cantautori attraverso i miei compagni delle medie “benestanti” che potevano permettersi di comprare dischi e bontà loro mi facevano le mitiche cassette. Non ho mai preso lezioni di nulla e sono completamente autodidatta tanto che c’ho messo anni ad avere informazioni su come suonare l’armonica. Ai miei tempi non c’era nulla e i pochi che avevano qualche informazione se la tenevano ben stretta, tanto che per tantissimi anni ho pensato che qui in Italia non vendessero le stesse armoniche che vendevano negli States e con cui sicuramente sarebbe stato più facile suonare il blues. A quattordici anni cominciai a lavorare in fabbrica, un amico mi prestò il primo disco dei Santana e così decisi di suonare le percussioni. Andai a Milano e mi comprai un paio di congas e altre piccole percussioni per poi accorgermi che nelle cantine dove si suonava, la musica che andava per la maggiore era l’hard rock e che quindi di me non sapevano che farsene. Vendetti tutto e a militare imparai a suonare la chitarra. All’epoca mi piacevano soprattutto i cantautori italiani e quelli americani. Guccini, De Gregori, Dylan, Neil Young e tutti gli altri. O almeno quelli che si riuscivano a trovare. Poi scoprii la chitarra jazz e Wes Montgomery e studiavo per conto mio la notte per suonare come lui. Un incidente in fabbrica mi lesionò la mano destra e dovetti abbandonare la chitarra. Fu un momento di grande tristezza e un’armonica che avevo in un cassetto mi aiutò molto in quel periodo. Avevo vent’otto anni e lì scoprii quasi senza rendermene conto che l’armonica e il blues erano la lingua più naturale per esprimere ciò che non riuscivo a dire con le parole.

Fabrizio Poggi foto di Mario Rota 1

Foto di Mario Rota

In altre interviste hai detto che è stata l’armonica a sceglierti, più che viceversa, e che uno degli elementi scatenanti è stata la visione del film “Last Waltz” e in particolare l’apparizione di Muddy Waters e il suono dell’armonica di Paul Butterfield, confermi, o c’erano stati altri prodromi, indizi premonitori, che quella sarebbe stata la tua strada maestra e la mouth harp il tuo strumento?

Forse un segno premonitore c’era stato e lo racconto in una mia vecchia canzone che si chiama Just a cowboy che credo si trovi facilmente in rete. Avevo su per giù dieci anni, quando mio padre mi regalò una bellissima pistola da cowboy. Era stupenda, aveva il manico di madreperla e costava un sacco di soldi. Come ho già scritto la mia famiglia non nuotava certo nell’oro, ma io avevo insistito così tanto che mio padre, tra mille sacrifici, me la comprò. Nel pomeriggio dello stesso giorno andai fuori a giocare, ed incontrai un ragazzino zingaro, che  seduto su una panchina suonava una vecchia armonica arrugginita. Mi innamorai subito di quel magico suono e gli chiesi se volesse scambiarla con la mia pistola nuova di zecca. Naturalmente lui disse subito di sì. Mio padre si arrabbiò molto, ma forse lì cominciò a succedere qualcosa dentro di me. Un mio amico texano a cui avevo raccontato questa storia un giorno mi disse: ”Forse sei solo un cowboy nato nel posto sbagliato, il tuo cavallo è un sogno, la tua pistola una canzone. A volte capita.” E da lì nacque quella canzone.

Parlando di armonica ho visto che citi tra i tuoi preferiti alcuni nomi direi immancabili, come i due Sonny Boy Williamson, James Cotton, Paul Butterfield e Charlie Musselwhite, ma non per esempio Little Walter e Big Walter Horton, che molti considerano i più importanti, a favore di nomi “oscuri” come Jazz Gillum e Noah Lewis (che però gli appassionati dei Grateful Dead conoscono perché è quello che ha scritto “New, New Minglewood Blues” e “Viola Lee Blues”. So che ce ne sono decine di altri bravissimi, ma si tratta di una scelta precisa o solo una mera dimenticanza?

Nessuna delle due, quello è solo un elenco assolutamente parziale di armonicisti che mi hanno particolarmente influenzato. Forse perché la maggior parte di loro suonava l’armonica acustica che prediligo. Ho ascoltato tantissimo Little e Big Walter e tutti quelli che sono venuti prima e dopo di loro. Tutti gli armonicisti sono importanti quando ci si avvicina all’armonica e tutti danno il loro contributo. Credo di aver espresso piuttosto compiutamente il mio rapporto con i grandi dell’armonica blues nel mio libro “Il soffio dell’anima” che ho scritto proprio per colmare un vuoto immenso che c’era e c’è intorno all’armonica nel nostro paese. E’ piuttosto curioso e interessante notare che appunto Lewis e Gillum che sono stati dei capiscuola, tanto che Little e Big Walter hanno dichiarato più volte di essere stati influenzati da loro, oggi siano pressoché dimenticati. E’ un peccato e anche un po’ ingiusto perché hanno avuto un ruolo importantissimo per lo strumento. Consiglio a chi mastica un po’ di inglese di leggere la bellissima biografia di Little Walter uscita qualche anno fa per scoprire cose assolutamente inaspettate.

Tornando a Noah Lewis, una curiosità: questo signore era famoso anche perché era in grado di suonare due armoniche contemporaneamente, una con la bocca e una con il naso, ci hai mai provato, magari con gravi risultati per la tua salute?

C’erano tanti armonicisti che all’epoca dei “medicine show” suonavano l’armonica usando naso e bocca contemporaneamente. Secondo la leggenda, lo facevano anche i due Sonny Boy, Walter Horton, Peg Leg Sam e tantissimi altri. Io non c’ho mai provato ma non mi stupirei se ancora oggi ci fosse qualcuno anche nel nostro paese che lo fa. Erano “trucchi del mestiere” come quelli dei chitarristi che suonavano la chitarra dietro la schiena o facendo la spaccata e che servivano ad attrarre anche coloro che non erano interessati alla musica.

Fabrizio Poggi foto di John Bull 1

Foto di John Bull

Un altro armonicista importante, che ho astutamente saltato, è Sonny Terry: insieme al suo socio Brownie McGhee, è stato uno degli esponenti più importanti del blues acustico, vogliamo chiamarlo folk blues? I due hanno suonato insieme per quasi quarant’anni, fino al 1980, e nella mia qualità di “diversamente giovane” li ho visti proprio quell’anno, all’Anteo di Milano, in un concerto diciamo non memorabile in quanto i due non si parlavano praticamente più. Quindi tu, e la tua consorte Angelina, avete deciso di realizzare, in loro onore e insieme a Guy Davis, quello che è il tuo ultimo disco ( e di cui leggete a parte http://discoclub.myblog.it/2017/06/08/se-amate-il-blues-quasi-una-coppia-di-fatto-guy-davis-fabrizio-poggi-sonny-brownies-last-train/ ), intitolato  “SONNY & BROWNIE’S LAST TRAIN”. Come è nata l’idea?

Vidi anch’io Sonny e Brownie durante quel tour (credo che fosse l’aprile del 1980) in un piccolo cinema perso tra la nebbia delle risaie della Lomellina. Per me fu una grande esperienza. All’epoca non suonavo ancora l’armonica blues. Avrei voluto avvicinarli solamente per stringere loro la mano e ringraziarli per ciò che avevano dato alla musica, ma ero troppo giovane e timido per farlo. E poi all’epoca  conoscevo l’inglese a malapena. Il destino che, come non mi stancherò mai di dire, mi ha riservato una carriera al di sopra di ogni più rosea aspettativa, ha voluto che incontrassi in Guy Davis la persona giusta per “ringraziare” ora e finalmente dopo quasi quarant’anni Sonny & Brownie per ciò che hanno fatto per il blues e la musica in generale in un momento in cui il blues acustico è stato un po’ messo da parte. La mia compagna Angelina che è sempre stata parte fondamentale di tutti i miei percorsi aveva notato che quando ero on the road con Guy parlavamo spesso di questi due giganti del passato e di quanto sia io che Guy fossimo stati profondamente influenzati da loro. Angelina ci ha detto che era nostro “dovere” fare un disco per ricordarli e così abbiamo fatto. L’anno scorso ci siamo chiusi due giorni in uno studio a Milano e suonando dal vivo ma soprattutto improvvisando sul momento canzoni che non avevamo mai suonato è venuto fuori questo album in cui spero che lo spirito di Sonny e Brownie venga fuori con la debita riconoscenza che tutto il mondo del blues deve loro. Guy dice che è una “lettera d’amore” e io sono d’accordo con lui. Come canta nella prima canzone del disco e che dà il titolo all’album “Goodbye Sonny, Goodbye Brownie see you on the other side”.

Mi ricollego a quanto appena detto, citando il titolo di una canzone scritta da Muddy Waters, proprio con Brownie McGhee, “The Blues Had A Baby And They Named It Rock and Roll”, per ricordare che comunque i tuoi concerti dal vivo (di cui leggete un esempio sotto, a fine intervista), con i Chicken Mambo, hanno una forte componente “elettrica”, la band tira di brutto, versioni lunghissime dei pezzi, grande interazione con il pubblico e quindi anche il lato R&R della tua personalità musicale viene a galla, è vero?

Il blues è davvero la madre, la radice di tutto ciò che è venuto dopo. E’ quello che canto nel “nuovo” testo che ho scritto per “the blues is alright”. Il rock è nel mio DNA ed è la musica che ha fatto da colonna sonora alla mia adolescenza in cui amavo perdermi nei lunghi assoli di Duane Allman e Mike Bloomfield ed è un altro aspetto della mia personalità. Ho sempre ascoltato tutta la musica senza confini di genere. Parlando con molti dei miei eroi giovanili che ora sono diventati miei eroi ho scoperto che anche loro facevano la stessa cosa anche se poi magari si sono dedicati a un genere particolare. Anche i grandi bluesmen itineranti del passato non hanno mai suonato solamente blues ma tutto ciò che gli permetteva di far dimenticare alle persone almeno per un po’ il male di vivere. L’interazione con il pubblico è un importante aspetto del blues che ho imparato proprio in Mississippi, là dove il blues è nato. Lì davvero come dico spesso palco e platea non esistono. C’è una connessione quasi magica tra chi suona e chi ascolta. E quindi spesso si battono le mani e si canta tutti insieme. E’ un rito liberatorio, quasi salvifico. D’altronde blues e spiritual sono facce della stessa medaglia e davvero il blues è peccato e redenzione.

Ancora un paio di domande, la prima sul tuo passato anche in un ambito più folk, con i Turututela: è possibile che avrà ancora futuri sviluppi questa altra passione?

Molti considerano il blues la sola musica autoctona americana. Il loro folk più autentico, ed è probabilmente vero. Quindi diciamo che in realtà non ho mai smesso in di suonare musica folk. Per ora sono sceso dal treno della musica popolare, ma l’esperienza è stata davvero eccitante seppur dolorosa considerando lo scarso interesse che c’è intorno al genere e non è detto che un giorno, magari in un’altra vita, possa tornare a bordo.

E infine l’ultima, immancabile, sui classici cinque dischi da portare sull’isola deserta?

Domanda difficilissima anche perché cambio continuamente e domani l’elenco potrebbe essere completamente diverso. Ecco quello di oggi:

Muddy Waters (qualcuno dei suoi primi dischi)

Rolling Stones Exile on Main St.

The Band The Last Waltz

Bob Dylan The Freewheelin’

Sonny Boy Williamson II (le incisioni della Chess)

WEB-270x278-POGGI locandina concerto febbraio 2017

Il Concerto, Spazio Teatro 89 – Milano – Sabato 18 Febbraio 2017

Dal vivo Fabrizio Poggi e i suoi compagni Chicken Mambo sono una vera macchina da blues, ma hanno anche tante connotazioni rock e un irrefrenabile spinta verso l’improvvisazione, tenete conto che nel corso della serata, durata circa due ore, hanno eseguito “solo” nove brani, quindi la lunghezza di ogni pezzo viene dilatata dalla capacità dei vari solisti di lanciare i loro strumenti in continui assoli e rilanci, ma anche dal dialogo tra Fabrizio e il pubblico, con incitamenti a tenere il tempo, battere le mani, cantare, insomma interagire con i musicisti sul palco, nella migliore tradizione delle 12 battute, ma anche un tiro e una potenza tipiche delle band rock (blues), questa sera ingigantita dalla presenza a sorpresa di Claudio Bazzari, alla seconda chitarra solista, a fianco del “titolare” Danny De Stefani, i due ingaggiano alcuni duetti poderosi che mi hanno ricordato quasi la verve degli Allman Brothers dei tempi d’oro (ho esagerato? Non credo!), ben sostenuti dall’organo di Claudio Noseda e dalla sezione ritmica di Tino Cappelletti, che pompa imperturbabile sul suo basso e Gino Carravieri, preciso e grintoso alla batteria, in più Fabrizio estrae dalla sua immancabile valigetta una serie quasi inesauribile di armoniche, aneddoti e storie di blues, a partire da una ritmata e scandita  Hole in Your Soul, che contiene nel testo uno dei motti di Poggi, ovvero “Chi non ama il blues ha un buco nell’anima”, trovata sul muro di un negozietto nel Mississippi, nel corso dei suoi viaggi americani. Checkin’ Up On My Baby scritta da Sonny Boy Williamson II, nel suo incedere ricorda molto Mastro Muddy e si avvale di un ottimo solo di De Stefani, che già nel precedente brano aveva scaldato l’attrezzo, in alternanza con l’organo di Noseda.

Entrambi protagonisti nuovamente in una pimpante rivisitazione di You Gotta Move (era su Mercy), al crocicchio tra Rev. Gary Davis, Fred McDowell e gli Stones, ovvero il blues e il rock più genuino. Poi sale sul palco anche Bazzari per una lunghissima Midnight Train, preceduta dagli sbuffi di armonica che ricreano lo stantuffo del treno, e con l’ottimo Claudio, armato di una Stratocaster, che ci regala un solo di tecnica e gusto squisito, in un continuo crescendo della sua solista. Bazzari rimane sul palco anche per la successiva I’m On The Road Again, che appare in diversi album di Fabrizio Poggi, e illustra il suo amore pure per la canzone Americana, rivista in questa occasione in una chiave più grintosa e tirata, che è il mood della serata, ma anche in generale dei concerti del nostro, che continua ad incitare il pubblico e i suoi musicisti a dare il meglio. Nobody’s Fault But Mine è l’unico brano tratto dal suo più recente album Amazing Texas Blues Voices, e il buon Fabrizio cerca di non far rimpiangere Carolyn Wonderland che la cantava sul CD. Nel corso della serata Poggi scende anche tra il pubblico del Teatro per un lungo e coinvolgente assolo di armonica non amplificata, per poi omaggiare la sua compagna di viaggio (in tutti i sensi) con una dolce e sentita ballata come Song For Angelina, deliziosa nella sua melodia. Torna Bazzari per il gran finale, prima con una chilometrica, vorticosa e scandita The Blues Is Alright, dove Claudio e Danny De Stefani si “affrontano” a colpi di chitarra, con Noseda che strapazza la sua tastiera da tutte le posizioni, mentre Fabrizio dirige le operazioni, presenta la band ripetutamente, sempre soffiando con forza nella sua armonica, prima di lasciare il palcoscenico alla band, per un finale strumentale di rara potenza, con assoli dei vari protagonisti, anche la sezione ritmica Le luci sembrano accendersi, ma, c’è ancora tempo per una fantastica Bye Bye Bird, ancora di Sonny Boy II, il testo è minimo, ma la musica è nuovamente vorticosa, con armonica, chitarre, organo a scatenarsi in continui soli e la ritmica, con Cappelletti (autore anche di simpatici siparietti con Fabrizio nel corso della serata) e Carravieri a legare il tutto, con classe e grande abilità. Insomma un grande showman, una band coesa e di rara efficacia, che non ha nulla d invidiare alle migliori formazioni americane, per una serata di blues che sarebbe stato un peccato non vedere. Se capitano dalle vostre parti non mancate, lo spettacolo è assicurato, e anche la musica.

Bruno Conti    

P.S Mi scuso per il ritardo con cui è stata postata, in effetti l’intervista avrebbe dovuto essere pubblicata qualche tempo fa, ma poi per vari motivi ci sono stati dei ritardi, quindi eccola alla fine, e comunque se volete altre informazioni, sulla discografia, anche sulle date dei concerti e in generale sull’attività di Fabrizio Poggi, potete andare qui http://www.chickenmambo.com/ nel suo bellissimo sito.

E Anche Uno Degli Ultimi Grandi Del Blues Ci Ha Lasciato! E’ Morto James Cotton, Aveva 81 Anni.

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Se ne è andato ieri anche James Henry Cotton da Tunica, Mississippi, aveva 81 anni. E’ morto per i postumi di una polmonite al centro medico di Austin, Texas. E’ stato uno degli ultimi grandi del Blues, a lungo con Muddy Waters, ma anche con una carriera solista ricca di ottimi esempi. Non a caso il suo penultimo album si chiamava Giant. Visto che a maggio del 2013 era uscito il suo ultimo disco in assoluto Cotton Mouth Man, ho pensato di ripubblicare (con qualche piccolo ritocco) quanto avevo scritto per l’occasione, in tributo alla sua memoria, che Riposi In Pace anche lui.

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Il lungo titolo del Post nel-frattempo-la-alligator-continua-a-non-sbagliare-un-disco  è un composito tra un album di Luca Carboni e un film della Wertmuller, ma il contenuto è inequivocabilmente 100% Cotton, come riportava il titolo di uno dei suoi dischi migliori. Il vecchio leone del Mississippi può anche avere perso la voce per i problemi di salute legati ad un cancro alla gola contratto alla fine degli anni ’90, e l’ultima esecuzione vocale “seria” risale al 2000, ma come armonicista è nella categoria Giant, come ci ricordava anche il suo penultimo disco, e primo per la Alligator, del 2010.

James Cotton è stato sicuramente una delle ultime “leggende del blues”: nativo di Tunica, Mississippi, è stato però una delle colonne portanti del blues di Chicago dall’inizio degli anni ’50, prima con Howlin’ Wolf e poi, in alternanza con Little Walter, ma anche da solo, l’armonicista della band di Muddy Waters, nel periodo migliore di McKinley Morganfield, all’incirca fino a metà anni ’60. Tra il 1966 e il ’67 ha iniziato la sua carriera solista, mantenendo comunque una fittissima agenda di impegni (anche un ritorno con Waters per Hard Again) che gli permette di contare la bellezza di 914 credits nella lista delle collaborazioni su AllMusic (non saranno tutti veri perché non sempre il portale musicale è precisissimo ma rimane un numero ragguardevole)!

E sapete una cosa, secondo me, questo Cotton Mouth Man si inserisce nella Top 5 dei suoi migliori lavori all time. Tom Hambrige, il batterista, autore e produttore (anche di questo CD), che negli ultimi anni ha lavorato proficuamente con Joe Louis Walker, George Thorogood e Buddy Guy, confermandosi una sorta di Willie Dixon bianco, ha realizzato un piccolo capolavoro con questo album. Concepito come una sorta di concept album sulla vita di Cotton, questo escamotage permette di incorporare nella musica, che è tutta scritta ex novo, anche molti riff e fraseggi dai classici del blues, senza rischiare la denuncia per plagio. Lo stesso Cotton, Richard Fleming, Gary Nicholson e Delbert McClinton hanno collaborato come co-autori, ma il cuore dell’album risiede nell’opera di Hambridge. L’armonica di James, ancora in grandissima forma al suo strumento, ha un ruolo fondamentale, così come la presenza di un vero who’s who della musica tra gli ospiti che si alternano nel disco.

La partenza è fulminante: su un groove trascinante ordito dalla coppia Hambridge-Tommy McDonald, la voce dell’ottimo Darrell Nulisch e l’armonica poderosa di Cotton, la chitarra di Joe Bonamassa confeziona uno dei migliori solo della sua carriera, conciso ma fulminante come poche volte, l’epitome perfetta del blues(rock). Dopo una breve introduzione di quella che fu la voce del nostro amico, riparte un train sonoro inarrestabile, non per nulla Midnight Train, dove si ricompone la coppia Gregg Allman voce (efficace ma non fantastico per l’occasione) e Chuck Leavell al piano Wurlitzer, ben sorretta da due delle colonne portanti della band dello stesso Cotton, il chitarrista Tom Holland e il bassista Noel Neal. Leavell rimane, al piano acustico, per un sentito omaggio a Waters, Mississippi Mud, uno slow blues che ci permette di apprezzare quello che è, quando vuole, uno dei più grandi cantanti del blues contemporaneo, Keb’ Mo’, eccellente in questo brano. Anche nell’altro resoconto della vita di Cotton nella Chicago anni ’50, He Was There, possiamo ascoltare la James Cotton Blues Band al completo in questo caso, con Jerry Porter che si reimpossessa (per un brano) del seggiolino della batteria a scapito di Hambridge, Nulisch alla voce solista, Holland alla chitarra e l’ospite Leavell al piano, un blues “duro e puro”.

Fantastica è la tiratissima Something For Me con un drive alla Allman Brothers dei tempi di Duane garantito da un assatanato Warren Haynes alla chitarra slide e voce e con Cotton che soffia nella sua armonica come se non avesse i 78 anni che ha! Wrapped Around My Heart con Chuck Leavell che passa all’organo per l’occasione e Rob McNelley alla solista è un gagliardo slow blues cantato alla grande da Ruthie Foster, il sound ricorda quello dei migliori brani dell’ultimo Robert Cray, ben tipizzati dal recente Nothin But Love, di cui questo Cotton Mouth Man si candida come successore per il miglior disco blues elettrico contemporaneo del 2013, e che voce ragazzi, la Ruthie! Ancora Darell Nulisch si difende con classe in una vigorosa Saint On Sunday, dove la chitarra di Rob McNelley (una delle sorprese del disco, è il solista della band di McClinton, ma suona anche in un miliardo di dischi country, di quelli buoni) e l’armonica di Cotton hanno modo di mettersi in evidenza e anche il datore di lavoro di McNelley, ovvero Delbert McClinton, si conferma uno dei migliori cantanti bianchi tuttora in circolazione nella sapida Hard Sometimes, mentre l’armonica di Cotton giganteggia sul tutto.

I ritmi latin blues in apertura di Young Bold Women alleggeriscono per un attimo il mood del disco e si alternano con atmosfere più tirate in una gustosa varietà. Bird Nest On The Ground è l’unica cover del disco, un Muddy Waters minore, come notorietà della canzone, ma non per l’intensità dell’esecuzione, sempre garantita dalla house band del disco, senza ospiti in questo caso, se si esclude Leavell al piano (peraltro presente in quasi tutti i brani, meno due). L’unico ospite che non lascia ma raddoppia è l’ottimo Keb’ Mo’, anche alla chitarra, in una soffusa e leggermente vellutata Wasn’t My Time To Go. Vigorosa viceversa la atmosfera da puro electric Chicago Blues che si respira in Blues Is Good For You, quasi un manifesto di intenti, mentre la conclusione, in tono minore, è affidata al duetto tra James Cotton, anche alla voce, spezzata e vissuta, oltre che all’armonica e Colin Linden alla Resonator Guitar in Bonnie Blue.

La data di uscita ufficiale sarebbe il 7 maggio ma per i misteri del mercato discografico è già in circolazione nelle nostre lande. Un ottimo disco di blues, da 4 stellette nei primi 5 brani, ma eccellente nella sua totalità, candidato già fin d’ora alle liste dei migliori di fine anno e degno epilogo, se così sarà, ma non è detto, della carriera di uno dei più grandi armonicisti della storia del Blues, degno erede del suo mentore Sonny Boy Williamson!

Bruno Conti

Ne’ Moderno, Ne’ Antico, Solo Blues Sopraffino! Howell Devine – Modern Sounds Of Ancient Juju

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Howell Devine – Modern Sounds Of Ancient Juju – Arhoolie/Ird

Terzo album per questa inconsueta band americana, che prende il nome dai due componenti principali della formazione, Joshua Howell, cantante, chitarrista ed armonicista, e Pete Devine, batterista e percussionista, proponendoci la loro particolare visione del blues, che sembra provenire, grazie a qualche primitiva macchina del tempo, dalle origini di questa musica, intorno agli anni ’20 o ’30, in un qualche juke joint lungo le rive o il Delta del Mississippi, però attenzione stiamo parlando di una band contemporanea, composta da tre musicisti dei giorni nostri, bianchi per di più. Il loro secondo album (e primo per la Aarhoolie, che non metteva sotto contratto un musicista nuovo da una infinità di tempo) aveva un titolo perfetto per definire il tipo di musica, Jumps, Boogies & Wobbles https://www.youtube.com/watch?v=BPXI4ejS7jc , ma anche questo nuovo non scherza, Modern Sounds Of Ancient Juju  (e anche le copertine sono suggestive)! Joshua Howell, il leader, si divide tra chitarra, slide, armonica e canta con un voce spesso laconica e rilassata, ma allo stesso tempo precisa ed espressiva, Pete Devine, utilizza un kit di batteria molto ridotto, ma che gli permette di mostrare comunque una tecnica raffinatissima, sentite cosa non riesce a combinare nella sua composizione, Woogie Man, uno strumentale fantastico dove lui e il nuovo contrabbassista Joe Kyle jr, fanno i numeri ai rispettivi strumenti, mentre Howell lavora di fino all’armonica.

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Quindi musica semplice e primordiale, se vogliamo, come possiamo riscontrare ad esempio nella bellissima cover di I Can’t Be Satisfied di Mastro Muddy Waters, posta in apertura dell’album, forse poco elettrica nella strumentazione, ma elettrizzante nei risultati, con la slide di Howell che guizza e serpeggia alla grande https://www.youtube.com/watch?v=HPArJOgtGCs , se vogliamo fare un paragone forse può ricordare l’R.L. Burnside dei dischi anni novanta per la Fat Possum, meno selvaggio e più misurato, ma ricco di  feeling. Ci sono un paio di brani a firma Frank Stokes, uno dei bluesmen delle origini, It Won’t Be Long Now, dove Devine passa al washboard (come in parecchi brani dell’album) e il suono si fa ancora più minimale, qui si viaggia su sonorità alla Mississippi Fred McDowell o tipo i primissimi Hot Tuna, quelli acustici. Anche la cover di She Brought Life Back To The Dead, scritta da Sonny Boy Williamson II, ha questo suono scarno e primigenio, con un tipo di approccio vocale che potrebbe ricordare i pionieri bianchi del primissimo british blues, Cyril Davies, Alexis Korner e pure il John Mayall degli esordi, grazie all’uso continuo dell’armonica (un altro armonicista che non ha bisogno di presentazioni, Charlie Musselwhite, firma le brevi note di copertina, mentre anche Maria Muldaur ha espresso la sua ammirazione per questa band).

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Si prosegue con un brano originale di Joshua Howell, Let You Go, che comunque suona esattamente come le cover, con la chitarra acustica che sostituisce l’armonica https://www.youtube.com/watch?v=39IML7JMrZA . Quando passa all’elettrica, per l’altra cover di Stokes, Sweet To Mama, il suono rimane laconico ed essenziale ma sempre di grande efficacia, con il piedino che si muove a tempo con il ritmo, detto di Woogie Man, anche House In Field, firmato dall’accoppiata Howell/Devine, potrebbe venire dal repertorio di qualche oscuro bluesman degli anni ’20, mentre Shake ‘Em Down è proprio quella di Bukka White, e qui il sound si fa più elettrico, parte il boogie  https://www.youtube.com/watch?v=8uN6wdBaTmo , sembra quasi di ascoltare i primi Canned Heat o Hound Dog Taylor, con l’amplificazione ridotta al minimo, ma Howell e soci lavorano di fino, la chitarra slide viaggia alla grande e la band dimostra tutto il proprio valore con una grinta notevole. It’s Too Late Brother è un vecchio brano anni ’50, scritto dal batterista della Chess Al Duncan per il suo datore di lavoro Little Walter, ed è un altro tour de force per Howell, altrettanto bravo all’armonica quanto alla chitarra, Rollin’ In Her Arms è un altro brano originale del buon Joshua che dice di essersi ispirato a Howlin’ Wolf, un altro secco blues di grande impatto https://www.youtube.com/watch?v=uPzSNjjNt5s . Chiude la spettacolare Railroad Stomp, registrata dal vivo in un club di Richmond, California, la terra da dove proviene questo trio di musicisti, una classica “train tune” di quelle vorticose https://www.youtube.com/watch?v=15S_ElxpPz4 , con armonica, batteria e contrabbasso che partono per un viaggio nella stratosfera del country-blues. In una parola, bravissimi!

Bruno Conti    

Dei Bluesmen Austriaci Non Ne Vogliamo Parlare? Mojo Blues Band – Walk The Bridge

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Mojo Blues Band – Walk The Bridge – 2CD Styx Records

CD 1

  1. Wild Wild Woman
  2. She’s A Hot Mamacita
  3. FB Blues (Facebook Blues)
  4. The Crawl
  5. Give Me a J-45
  6. Walk The Bridge
  7. I’m Coming Home
  8. Paul’s Shuffle
  9. Your Funeral And My Trial
  10. Allmony, Allmony
  11. You Must Be Travelling On
  12. I’ll It Through
  13. I Ain’t Funny That Way
  14. I Wish I Could
  15. Waddlin’ Duck

CD 2

  1. My Heart Goes Diddely Bum
  2. The Blues Is All I Wanna Sing
  3. You Turned My World Around
  4. Black Train
  5. I Feel Like Going Home
  6. Movin’ Out Of Town
  7. She’s A Hot Mamacita
  8. I’m New Orleans Bound
  9. High Blood Pressure Boogie
  10. Please, Stay As Long As You Can
  11. Whale Of A Time
  12. Siggi’s Lap Steel Blues
  13. Blue Guitar Stomp
  14. Put Yourself In My Place
  15. Walk The Bridge – Radio Edit

In altra parte del Blog abbiamo archiviato la pratica del blues svedese http://discoclub.myblog.it/2014/05/03/anche-il-blues-svedese-mancava-allappello-t-bear-and-the-dukes-ice-machine/ , ma di quello austriaco non vogliamo parlarne? Certo che sì! Quando la Mojo Blues Band, nel lontano 1978, pubblicava il primo album, Shake That Boogie, addirittura non esisteva una scena blues locale, c’erano solo loro in Austria e quindi oltre a pubblicare i propri dischi accompagnavano, già dall’anno prima,  tutti i bluesmen americani in tour in quel paese, Charlie Musselwhite, Jb Hutto, Johnny Shines, Lousiana Red, Champion Jack Dupree e tantissimi altri. Dal 1980, per un breve periodo, sono stati anche la backing band della brava cantante inglese di R&B, Dana Gillespie, e tra un cambio di formazione e l’altro, con questo Walk The Bridge siamo intorno al 20° disco https://www.youtube.com/watch?v=LJ8_PTjBYhg . L’unico componente della formazione originale e fondatore della stessa è Erik Trauner, l’eminenza grigia del blues austriaco (che nel frattempo ha ampliato i suoi orizzonti, anche grazie alla diaspora dei vari componenti della MBB), vocalist, chitarra solista e slide, anche all’armonica, strumento imparato una ventina di anni fa per sostituire il titolare della formazione ai tempi e mai più abbandonato. https://www.youtube.com/watch?v=42XCFUOO0fI Hanno girato anche per gli Stati Uniti e nella zona di Chicago, dove godono di una buona reputazione, con il loro repertorio che fonde blues elettrico urbano, R&B e qualche spruzzata di musica della Lousiana, come dimostra anche questo doppio CD.

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Trenta brani, molto materiale originale, qualche pezzo strumentale e alcune cover, scelte tra materiale quantomeno inconsueto e non pescando tra i super classici, forse con l’eccezione di una bella versione di I Feel Like Going Home di Charlie Rich. Per i contenuti potremmo parlare di una sorta di Fabulous Thunderbirds mitteleuropei, molto revivalisti, con un sound vecchio stampo, dove il sax dell’ospite Paul Chuey si integra con il pianino di Charlie Furthner e le chitarre di Trauner e Fassi per creare un sound fine anni ’50, inizi ’60, come nell’iniziale Wild, Wild Woman, che molto ricorda le ultime prove discografiche di Jimmie Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=1fbSENquy98 . O nell’honky boogie blues She’s A Hot Mamacita, proposta addirittura in due differenti versioni nel dischetto. FB Blues, che sta per Facebook Blues, perché la “modernità”, almeno nei testi, sembrerebbe giungere anche in questo tipo di blues, è poi in effetti un blues cadenzato con uso di slide, molto Chicago, The Crawl di Lonnie Brooks, sta tra rockabilly e blues, come i T-Birds o ai limiti i Blasters, anche se con meno classe, ma una ammirevole grinta. In Give Me A J-45 Trauner sfodera la sua armonica per un ennesimo shuffle (come tempo siamo sempre più o meno da quelle parti).

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Ma qualche eccezione c’è: Walk The Bridge è una bellissima ballata di stampo country, come il citato brano di Charlie Rich, con piano e Fassi alla pedal steel e un terzetto di voci femminili di supporto, assai gradevole, I’m Coming Home di Clifton Chenier, con la fisarmonica di Furthner in bella evidenza potrebbe essere un brano di Zachary Richard, scuola New Orleans, così come I’m New Orleans Bouund. Your Funeral And My Trial di Rice Miller (che sta per Sonny Boy Williamson II) è un blues primigenio, Alimony, alimony, fin dal titolo e con la sua slide insinuante potrebbe stare nel repertorio di Ry Cooder, come pure la lunga You Must Be Travelling On, cantata in duetto con una voce femminile ( se non ci sono, nel repertorio di Cooder, una ragione ci sarà). Per il resto molto divertimento, boogie, rockabilly, jump, tutti i vecchi stili convergono nel suono di questa Mojo Blues Band. Diciamo che come “modernità” del suono, in alcuni brani, al massimo possiamo arrivare dalle parti del blues fine ’60 di Bluesbreakers, Fleetwood Mac di Peter Green e soci. Anche in questo caso quindi niente di nuovo o di particolarmente eccelso, ma gli appassionati di blues avranno motivo di che rallegrarsi.

Bruno Conti