Uno Strepitoso Disco Di Blues Acustico, Come Non Se Ne Fanno Quasi Più! Bobby Rush – Rawer Than Raw

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Bobby Rush – Rawer Than Raw – Deep Rush Records/Thirty Tigers

Nativo della Louisiana, ma residente a Jackson, Mississippi sin dagli anni ‘80, Bobby Rush, 86 anni suonati, è uno strane personaggio del blues americano: a cavallo tra le 12 battute classiche, il soul e il funky, da qualche anno si è inventato un termine per definire la sua musica “Folkfunk”. Personaggio diciamo “minore”, ma non marginale, Rush era apparso anche nella miniserie The Blues, prodotta da Martin Scorsese, sempre in pista e pronto a raccontare aneddoti sulla sua lunga carriera, che lo vede come una sorta di Numero Uno di Alan Ford, uno che nel corso degli ha incontrato e suonato con tutti, “consigliandoli” su cosa fare, da Skip James, Howlin’ Wolf, Sonny Boy Williamson II, Muddy Waters a Elmore James, i cui brani reinterpreta in questo Rawer Than Raw, praticamente tutti i grandi della musica nera, tanto che nelle note si dice dispiaciuto di non avere potuto cimentarsi con brani di Jimmy Reed, John Lee Hooker, Son House e BB King. Già nel 2006 aveva inciso un album Raw, composto solo di rivisitazioni di proprie canzoni e che si concludeva con il brano Bobby Rush For President. Quale è la particolarità di questi album?

Come suggerisce il titolo si tratta di album acustici, nel caso di quest’ultimo, anche in solitaria: solo voce, chitarra ed armonica. Ripreso in copertina tra attrezzi agricoli e galline, e all’interno in varie pose, dove sfoggia la sua tinta di capello sempre corvina, un must per i vecchi bluesmen, il buon Bobby ha ancora una voce potente e squillante, e le sue riletture dei classici, miste ad alcune canzoni a propria firma, sono la prova che il nostro amico conosce la materia e sa come trattarla con classe. Sin dall’apertura con Down In The Mississippi, scritta dallo stesso Rush, si respira un’aria “antica” ma non vetusta, voce e chitarra acustica a ripercorrere i vecchi tracciati del blues del Delta, l’armonica a colorare il suono. D’altronde si intuisce che si tratta, come dicono gli americani, di un “labor di love”, realizzato nel corso del tempo tra Jackson, Ms e Montreal: ascoltatevi il blues primigenio di Hard Times (che sarebbe Hard Times Killing Floor Blues di Skip James) al quale, oltre ad acustica e armonica aggiunge il foot stomp per ricreare il sound dell’originale del 1931 (e lì Rush non era presente). Let Me In Your House è una delle canzoni di Bobby, salace e ironico come deve essere il blues, “If I can’t sleep in your bed, let me sleep on your floor. If I walk in my sleep, you’re the only one who’ll ever know. If I can’t be your full-time lover, let me be your part-time man”, scandito dall’interpretazione quasi danzante del nostro.

Che poi si cimenta con Smokestack Lighting di Howlin’ Wolf, che invece ha conosciuto e incontrato nella sua gioventù, quando si aggirava per locali, con baffi finti per nascondere la sua vera età, versione intensa e vissuta, ora che gli anni sono quelli giusti, e anche Shake It For Me, scritta da Willie Dixon, viene dal repertorio del Lupo, con l’acustica suonata ancora con grande destrezza e la voce sicura in grado di emozionare. In Sometimes I Wonder, sempre farina del suo sacco, dimostra di essere anche un ottimo armonicista, poi cimentandosi anche con uno dei maestri dello strumento Sonny Boy Williamson II nella classica Don’t Me Start Me Talkin’, qui ripresa in una vibrante versione; molto intenso anche un altro originale di Rush come Let’s Make Love Again, che poi lascia spazio al lato più ironico della sua arte nella divertente Garbage Man, un potente lentone dove il testo però è molto scherzoso “of all the men my woman could have left me for, she left me for the garbage man. Every time I see a garbage can, I think of her and the garbage man all the time”, con la sua donna che lo tradisce con lo spazzino. Honey Bee, Sail On è un traditional , ma faceva parte del repertorio di Muddy Waters, che riceve il suo giusto tributo, in un brano che evidenzia ancora la voce splendida di Rush, che poi si cimenta con il super classico Dust My Broom, non nella versione di Robert Johnson (anche lui non lo ha conosciuto), ma in quella di Elmore James, conosciuto invece in un club nel 1947, quando ci si aggirava con i suoi baffi finti appena ricordati, grande versione, come d’altronde tutto l’album, uno dei migliori dischi di blues acustico dell’anno.

Bruno Conti

Una Delle “Signore” Del Blues Bianco. Rory Block – Keepin’ Outta Trouble: A Tribute To Bukka White

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Rory Block – Keepin’ Outta Trouble: A Tribute To Bukka White — Stony Plain/Ird                          

Rory Block è certamente una delle “signore” del Blues bianco, ma è anche una delle più rigorose e fervide portatrici della tradizione delle 12 battute, tra coloro che più si battono per preservarne la memoria tra gli ascoltatori e gli appassionati. Ormai non più giovanissima (come Springsteen è del 1949), ma dalla foto di copertina i suoi 67 anni li porta veramente bene, ciò non di meno è sulle scene dal 1965 circa, quando poco più che quindicenne decise che quella sarebbe stata la sua musica: prima frequentando i locali dove si esibivano gli ultimi giganti del folk blues acustico, gente come Mississippi John Hurt, Reverend Gary Davis, Son House, Skip James, Mississippi Fred McDowell,  a cui ha dedicato i suoi album della cosiddetta “Mentor Series”, incentrata su questi grandi e che ora si arricchisce di un nuovo capitolo, sempre pubblicato dalla Stony Plain, ma in precedenza la Block aveva inciso The Lady And Mr. Johnson, dedicato a Robert Johnson. Come al solito questo Keepin’ Outta Trouble è registrato in solitaria da Rory Block, voce e chitarra acustica (e qualche percussione sparsa), caratteristica che è il grande pregio di tutta la serie, rigorosa e filologica, ma in parte ne è anche il “piccolo” difetto, se uno non è un grande fan del Country Blues, alla fine potrebbe trovare i vari volumi ripetitivi e un filo noiosi.

Potrebbe, ma non è detto, perché comunque la nostra amica è in possesso di una bella voce (temprata da oltre 50 anni di dischi, il primo uscito nel lontano 1967) e a fianco dei vari brani pescati dal repertorio di questi grandi bluesmen, inserisce sempre qualche canzone scritta da lei e ispirata dalle storie di questi musicisti. Nel caso di Bukka White, forse uno dei meno conosciuti tra quelli citati finora, sono le prime due tracce, una sorta di preludio alle canzoni originali: Keepin’ Outta Trouble e Bukka’s Day sono delle piccole biografie in musica, su cui poi si innestano Parchman Farm Blues e Fixin’ To Die, quest’ultima riscoperta da Bob Dylan nel suo primo album (sia pure come sempre riadattata a modo suo) e poi ripresa, sotto varie forme, dai Led Zeppelin, da Plant come solista, dagli Avett Brothers in una collaborazione con G Love, e da altri. Tra i brani celebri mancano Shake ‘Em On Down, che nell’interpretazione di Eddie Taylor diventerà Ride ‘Em On Down, e appare anche nel nuovo degli Stones, come pure Po’ Boy, che con il titolo Poor Boy  e similari, è stata incisa in decine di versioni, prima e dopo quella di White. Rory Block si conferma chitarrista sopraffina, anche nell’uso della slide acustica, come nell’iniziale Keepin’ Outta Trouble, oltre che vocalist superba, una voce temprata dal tempo, ma sempre limpida e fresca come quella di una ragazzina, ottima narratrice di storie, in grado di arrangiare i suoi brani in solitaria, con un tocco di modernità, anche grazie al multitracking di sé stessa. Voce che tocca anche falsetti deliziosi, quasi di stampo gospel o soul, come nella successiva Bukka’s Day.

Dopo i due brani composti per l’occasione dalla nostra amica si passa a Aberdeen Mississippi Blues il primo dei classici di Bukka White (che forse molti non sanno, era cugino di B.B. King), dedicato alla sua città natale, un classico country blues rurale incalzante e ricco di variazioni chitarristiche, a seguire Fixin’ To Die Blues, il brano che più di tutti rimane legato al mito di Booker White, un complesso, elegante ed intenso brano, classico Delta blues, con le percussioni, suonate dalla stessa Block che fanno le veci del washboard, mentre Rory la canta con grande forza ed intensità, sempre con eccellente uso della slide acustica (che nell’originale del 1940 era quella presa in prestito da Big Bill Broonzy). Ottima versione anche del talkin’ blues Panama Limited, mentre Parchman Farm Blues narra della detenzione di Bukka nel famoso (e famigerato) penitenziario dello Stato del Mississippi, dove il nostro passò circa due anni e mezzo, prima di essere rilasciato, proprio nel 1940, in occasione delle sue registrazioni a Chicago di quell’anno. La versione della Block è una delle più vivide ed intense del disco, sempre con lo splendido dualismo tra voce e slide acustica, come pure per la successiva tambureggiante Spooky Rhythm. New Frisco Train è tra le prime registrazioni del bluesman nero, viene dalle incisioni per la RCA Victor del 1930, quindi molto prima di Robert Johnson, e la versione della musicista di NY è sempre rigorosa, ma comunque ricca di variazioni e vitale. Anche le ultime due tracce, Gonna Be Some Walkin’ Done e soprattutto Back To Memphis, confermano il valore e la bravura di questa paladina del country blues che si è presa, come dice lei stessa nelle note, l’impegno di diffondere l’eredità di questa musica che è in parte cantare, in parte “parlare”, ma anche testimoniare e danzare. E forse, a dispetto di quanto detto da chi scrive, meriterebbe un giudizio ancora più favorevole, per quanto  limitato agli “adepti”. Tanto di cappello!

Bruno Conti         

Il Jukebox “Personale” Di Joe Camilleri! Black Sorrows – Endless Sleep

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Black Sorrows – Endless Sleep/One More Time – Roosty Music/Ird – 2 CD

Lo confesso, sono di parte, ma per chi scrive Joe Camilleri, cantante, compositore, chitarrista e sassofonista, è uno dei più grandi “losers” di cui è piena la storia del rock, ma lui dopo più di cinquanta anni di carriera musicale se ne infischia e prosegue inossidabile per la sua strada. Una strada che negli anni lo vede prima comprimario e poi protagonista e leader di varie formazioni, di cui le più importanti sono certamente stati i Jo Jo Zep And The Falcons (nel primo periodo), i Relevators con James Black e Joe Creighton, e infine la sua creatura preferita, i formidabili Black Sorrows (giunti con questo disco al 18° album). Questo nuovo lavoro è composto da due CD: il primo, Endless Sleep raccoglie 14 nuove tracce che sono delle cover degli eroi musicali di Joe (una operazione simile se ben ricordo era stata già fatta con i Relevators con Amazing Stories il disco del ’93)), mentre One More Time è un Bonus CD che raccoglie in tredici brani i grandi successi di questa grande band australiana.

Per togliersi questo sfizio, il buon Joe porta negli studi Woodstock & Black Pearl di Melbourne la sua attuale line-up, composta da John McAll alle tastiere, Claude Carranza alle chitarre, Angus Burchall alla batteria, Mark Gray al basso, la sua corista preferita, la bravissima Vika Bull,  con l’apporto di una “squadra di turnisti” del posto che risponde ai nomi di Jeff Burstin, Eric Budd, Paul Williamson, Ed Bates, Paddy McMullin, Matt Amy, Nui Moon, Johnny Salerno, Phillip Rex, Danny Spencer, e ovviamente il leader indiscusso Joe Camilleri voce, chitarre e sassofono.

Il “jukebox” dei ricordi si apre con due pezzi da novanta, una Devil In Disguise di J.J. Cale, che viene rivoltata come un calzino, in una versione rock’n’roll, e la mitica Dirty Boulevard di Lou Reed, rifatta con il marchio di fabbrica del gruppo, per poi passare al gospel-blues di God Don’t Like It di Blind Willie McTell, mentre That’s A Pretty Good Love è cantata da Vika Bull, che sale in cattedra la sua bellissima voce, per poi lasciare il passo ad una gioiosa Excitable Boy del compianto Warren Zevon. Dopo il rifornimento di monete, il Jukebox riparte con la title track Endless Sleep di Jody Reynolds (un cantante di Rockabilly degli anni ’60), una sofferta e bella versione di un brano tra i più celebri di Hank Williams I’m So Lonesome I Could Cry (è stata cantata fra i tanti anche da Elvis Presley e Johnny Cash), passando ancora per il blues di Hard Time Killing Flor di Skip James, la rilettura jazz di un classico di John Coltrane Lonnie’s Lament solo pianoforte e sax del duo McAll-Camilleri, mentre Better Days Ahead è un brano di grande atmosfera uscito dalla penna di Gil Scott-Heron, cantato e suonato al meglio da tutta la band. Inseriti gli ultimi spiccioli nel Jukebox andiamo alla scoperta di un pioniere del blues, il cantante-chitarrista Fred “Mississippi” McDowell per una torrida versione di una 61 Highway dove spicca la slide-guitar di Carranza, passando per Baby Let Me Kiss You un pezzo del cantante soul King Floyd, stravolto in una versione funky, omaggiare il grande Willy DeVille con una stratosferica versione di StoryBook Love (la trovate nella Colonna Sonora di The Princess Bride), e chiudere con un altro grande loser della musica, Eddie Hinton e la sua Just Like The Fool That I Was, chiaramente in chiave “soul”.

One More Time recupera brani di successo tratti dai loro innumerevoli album, e forse si poteva fare una selezione migliore, riproponendo canzoni bellissime che hanno avuto meno fortuna come Hold It Up To The Mirror, che trovate su Harley & Rose (90),(un disco da avere assolutamente), in ogni caso è sempre un bel sentire, a partire dai ritmi folk-soul di Lover’s Story, la storica Hold On To Me, ballate classiche del gruppo come Chosen Ones e la bellezza incontaminata di Ain’t Love The Strangest Thing cantata e suonata al meglio (voce e sax) da Camilleri, e non poteva mancare la musica di frontiera di Harley & Rose, per chiudere con le fisarmoniche ariose e il canto seducente di A Fool And The Moon.

 

Con Endless Sleep lo scopo di Joe è perfettamente riuscito, recuperare un gruppo di canzoni da sempre amate, scritte da autori da sempre considerati come propri punti di riferimento, incisi con i suoi amati Black Sorrows, interpretate e suonate in maniera del tutto originale, mescolando il rock al soul, il country al folk, il blues al reggae, spingendosi fino al jazz e gospel, con lo scopo dichiarato di dare nuova vita ad una manciata di piccole “gemme” più o meno dimenticate.

Tino Montanari

Per Amanti Della Chitarra, In Astinenza! Dudley Taft – Screaming In The Wind

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Dudley Taft – Screaming In The Wind –  American Blues Artist Group

Non è il primo album (e non è neppure recentissimo) per Dudley Daft: nativo di Washington, D.C., ma residente da tempo a Cincinnati nell’Ohio, con un inizio di carriera, tantissimi anni fa, ai tempi della High School, parliamo degli anni ’80, condiviso con il futuro Phish, Trey Anastasio, in una band chiamata Space Antelope (che non ha lasciato nessun segno nella storia del rock), poi a Seattle negli anni dell’esplosione del grunge con una band chiamata Sweet Water (dove Taft era uno dei chitarristi), tutt’ora in attività, autrice di due album pubblicati dall’Atlantic, e poi nei Second Coming, altra band dal suono duro e roccioso, e anche in questo caso un album per la Capitol, sempre nei ‘90. Quindi una carriera abbastanza “importante”, anche se non memorabile. Avete memorizzato tutto? Benissimo, adesso scordatevelo, perché nel 2007, in un primo momento a Seattle, inizia una sorta di conversione verso il blues-rock, che culmina in un trittico di CD, Left For Dead del 2010, Deep Deep Blue del 2013 e ora questo Screaming In The Wind, finanziato con l’aiuto dei fans, come è ormai usanza consolidata https://www.youtube.com/watch?v=vssUk7p0iQA .

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Bisogna dire che Dudley Taft ha fatto buon uso del denaro, scegliendosi un produttore come Tom Hambridge, nuovo Re Mida del Blues, registrando in due studi di Nashville, con l’aiuto di Reese Wynans alle tastiere, aggiunto agli abituali collaboratori, John Kessler al basso e Jason Patterson alla batteria. Hambridge, che è un tuttofare (ottimo batterista, ma non in questo caso), ha firmato anche i testi di sei brani, lasciando l’apertura del disco affidata a due cover. Prima di addentrarci nel disco, vorrei dire, come Ferrini a Quelli della Notte, che “non capisco ma mi adeguo”, nel senso che ho letto alcune recensioni entusiastiche del disco, chi lo paragona a Robin Trower, per il passato, chi a Frank Marino o ai primi ZZ Top (e ci sta tutto), chi a Kenny Wayne Shepherd, tra gli artisti più recenti: per chi scrive è un buon chitarrista, anche ottimo volendo https://www.youtube.com/watch?v=YDR5HnBhIVA , un appena discreto cantante, ma con una tendenza troppo marcata verso il suo passato hard, che viene mediata dalla produzione nitida e precisa di Hambridge, che evidenzia spesso il lavoro della solista e filtra la voce per nascondere eventuali magagne.

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Non per nulla due dei brani migliori sono proprio le cover: Hard Times Killing Floor, un classico di Skip James, in versione power trio, tra Hendrix e Trower (fate voi) https://www.youtube.com/watch?v=7BP-sk0Jd5A  e Pack It Up, un brano funky, con tanto di fiati aggiunti, a firma Chandler/Gonzalez, che viene dal disco omonimo di tali Gonzalez del 2000, con un bel lavoro di Taft alla solista ed un arrangiamento che ricorda certe cose dell’ultimo Bonamassa. Non male anche Red Line che ha il tiro boogie-rock degli ZZ Top più ingrifati, misto all’hard rock marca Nugent, Marino e dei sudisti più cattivi https://www.youtube.com/watch?v=PeXlNvChyds . Quello che si apprezza più spesso nel disco è il suono della chitarra di Dudley, sempre potente e ricca di tecnica con soli taglienti e ricchi di continue variazioni sul tema, meno la qualità complessiva dei brani, per quanto Screaming In The Wind, ancora hendrixiana e con il valore aggiunto dell’organo di Wynans, si lasci apprezzare https://www.youtube.com/watch?v=8hceIChr4sw . Però alla lunga ci si ripete, 3DHD ruba il riff iniziale da If Six Was Nine, ma poi di buono ha solo la chitarra lancinante e qualche apertura melodica, I Keep My Eyes On You sembra un po’ moscia, The Reason Why, è un discreto slow blues con uso d’organo, ma ne abbiamo sentiti centinaia di migliori, e anche Hambridge più di tanto con la voce di Taft non può, rimane la solita chitarra.

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In Rise Above It si gioca anche la carta di un misto grunge-hard abbastanza risaputo, magari sbaglio io, Barrio tenta la strada della ballata elettroacustica, ma per quanto le vocalist di supporto, le ottime McCrary Sisters, si impegnino, la voce del nostro è quella che è e anche la canzone non è particolarmente memorabile. L’uso dell’acustica dà una maggiore profondità di suono che, unita ad una solista pervasiva, rende più pungente Sleeping In The Sunlight, ma niente per cui stracciarsi le vesti https://www.youtube.com/watch?v=juy5F_DzV4Q .Tears In Rain, più sognante e leggermente “prog” vira verso atmosfere più ricercate, ma il blues (rock), da un po’ di brani, è latitante. Say You Will, dal ritmo cadenzato, ha dei momenti zeppeliniani, ma anche di stanca, con la chitarra, rivoltata come un calzino, pure con sonorità esagerate alla Tom Morello, che cerca di salvare baracca e burattini. Ho provato ad adeguarmi, ma continuo a non capire l’entusiasmo di molti per questo signore: gran bravo chitarrista https://www.youtube.com/watch?v=YDR5HnBhIVA , comunque.

Bruno Conti