Tra Fairport Convention E Waterboys Una Piccola Grande Band Folk-Rock Dalla Cornovaglia. Red River Dialect – Abundance Welcoming Ghosts

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Red River Dialect – Abundance Welcoming Ghosts – Paradise Of Bachelors

Da qualche tempo, ma in particolare in questo ultimo anno, c’è stato un grande fermento nel movimento folk (rock) dell’isole britanniche: sia band che artisti solisti hanno pubblicato degli album che stanno rinverdendo gli allori del periodo d’oro del folk-rock, nei quali band come i Fairport Convention, gli Steeleye Span, i Pentangle (e sto ricordando solo i più noti di un fenomeno musicale che  ancora oggi fa sentire i suoi effetti ). Tra le uscite del 2019 come non ricordare i Lankum, Alasdair Roberts, i poco noti ma bravissimi Bird In the Belly, Joan Shelley (ok, è americana, ma il filone è quello), tra l’altro presente come ospite in questo Abundance Welcoming Ghosts, quinto album della band della Cornovaglia Red River Dialect, gruppo che fonde mirabilmente sonorità acustiche ed elettriche, ricordando quello che fecero in passato soprattutto Fairport Convention e Waterboys. Il leader del gruppo David Morris è un tipo “particolare”, seguace del buddismo, dopo avere registrato l’album ai Mwnci  Studios situati nel Galles occidentale, si è trasferito nella abbazia di Gampo, un monastero buddista in Nuova Scozia, Canada, per un ciclo di nove mesi di meditazione.

Diciamo che sono fatti suoi, anche se inquadra il personaggio: il gruppo è un sestetto, Morris incluso, che oltre a cantare e suonare le chitarre, ha composto tutti i nove brani del disco, gli altri componenti si occupano di chitarre elettriche, tastiere, basso e batteria, oltre alla presenza costante del violino. Il risultato finale è affascinante, come testimonia fin dall’inizio Blue Sparks, una canzone che ricorda quelle più epiche dei Waterboys di Mike Scott, anche per la voce passionale e risonante di Morris, partenza con un pianoforte solitario, poi entra una chitarra acustica arpeggiata, la sezione ritmica, la voce, il ritmo che cresce lentamente, arrivano le tastiere avvolgenti, le chitarre, un cello, poi il violino guizzante di Ed Sanders che porta ad una parte strumentale corale, ricca di energia. Two White Carps è un brano più intimo e spirituale con la voce emozionale di David che galleggia tra violino, piano e chitarre varie, nella spaziosità dell’arrangiamento ricco e raffinato; Snowdon è uno dei punti nodali dell’album, ad affiancare la voce di Morris arrivano quelle di Joanne Shelley e Coral Kindred Boothby,  la bassista della band, un attimo e siamo catapultati all’epoca di Liege And Lief dei Fairport Convention, tra melodie malinconiche ed improvvise sferzate elettriche, sempre con il violino in grande spolvero, bellissima.

Forse sono solo citazioni di cose già sentite, ma meglio una musica che rimanda (bene) al passato, piuttosto che sonorità moderne senza costrutto, create solo per colpire l’ascoltatore distratto. Deliziosa anche la dolce e ardente Slow Rush, di nuovo con la voce di Coral a sostenere quella austera e romantica di David, mentre il gruppo imbastisce le sue melodie senza tempo; Salvation, ha un incipit quasi sussurrato, poi la musica si anima, con sferzate elettriche tra wah-wah  e il violino sempre presente, altro brano che rimanda ai Waterboys più vigorosi ed epici https://www.youtube.com/watch?v=OBW-GUE3mNg , Celtic-rock di eccellente fattura. Simon Drinkwater, il chitarrista dei RRD è alle armonie vocali in Red River, una canzone dove il violino si fa a tratti più stridente, il ritmo più marziale, l’atmosfera è più inquietante e meno rassicurante, con qualche rimando appunto per l’uso costante dei violino ai Waterboys; anche nella successiva, lunga e bellissima Piano ci sono analogie con la band di Mike Scott, atmosfera più intima e raccolta, di nuovo con le ottime armonie vocali della Shelley in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=iGRi4FBRc7o . My Friend ha un ritmo più mosso e sbarazzino, la voce al solito piana, quasi alla Bert Jansch, di Morris, si anima e si irrobustisce a tratti, ancora con il supporto della Boothby, mentre la slide dell’ospite Tara Jane O’Neill la rende più evocativa, e a chiudere un eccellente album arriva infine la triste e malinconica BV Kistvaen, di nuovo con il violino di Sanders e le tastiere ad evocare le magiche e misteriose atmosfere delle Highlands.

 

Veramente una piccola grande band da seguire.

Bruno Conti

The Best Of 2017, Il Meglio Delle Riviste Internazionali: Mojo, Q Magazine E Uncut

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Anche quest’anno, sia pure un po’ in ritardo rispetto al 2016, facciamo un giro nelle proposte di fine anno sui dischi migliori usciti nel corso del 2017, attraverso alcuni post che raggrupperanno diverse delle principali riviste e siti musicali. Devo dire che ormai sempre più spesso mi ritrovo a condividere poco o nulla di queste classifiche (oltre a tutto molto simili tra loro), tanto che la coincidenza tra gli album segnalati sul Blog e quelli che appaiono in queste liste è diventata veramente scarsa. Comunque per tradizione continuo a proporvi le loro scelte, sperando sempre di trovare magari qualche chicca che è sfuggita alle nostre orecchie e che possa essere interessante da approfondire per chi è alla ricerca di prodotti validi e intriganti per i propri ascolti (a quello scopo ho inserito qualche video per i nomi che mi sono sembrati validi o tra i meno peggio), nascosti tra miriadi di rap, hip-hop, dance, musica elettronica, pop vario, coniugato in improbabili nuove definizioni (che cacchio di genere è il “footwork”? Lo so, ma siamo quasi alla follia) e miriadi di “alternative”, rock, indie, folk, R&B, eccetera. Anche la rivista Mojo si è aggregata a questo andazzo e quindi da qualche tempo ho smesso di leggerla con frequenza, giusto qualche capatina di tanto in tanto (infatti solo un titolo di questa classifica ha avuto un Post sul Blog). In ogni caso partiamo con loro: sono i primi 15 dell lista della rivista  su 50 titoli indicati, andando a ritroso fino al primo posto.

MOJO’s Top 15 Albums of 2017

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15. Sparks – Hippopotamus

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14. This Is The Kit – Moonshine Freeze

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13. Ghostpoet – Dark Days + Canapés

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Gli unici di cui abbiamo parlato della lista di Mojo http://discoclub.myblog.it/2017/09/07/musica-indie-di-classe-per-orecchie-mature-the-national-sleep-well-beast/ .
12. The National – Sleep Well Beast

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11. The Moonlandingz – Interplanetary Class Classics

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10. Aldous Harding – Party

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9. Sleaford Mods – English Tapas

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8. Hurray For The Riff Raff – The Navigator

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7. Kendrick Lamar – DAMN.

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6. St. Vincent – MASSEDUCTION

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5. Jane Weaver – Modern Kosmology

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4. A Tribe Called Quest – We got it from Here… Thank You 4 Your service E questo è pure uscito a novembre del 2016

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3. Queens of the Stone Age – Villains

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2. Nadia Reid – Preservation Questa signora mi sembra veramente brava

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1. LCD Soundsystem – American Dream

 

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Q MAGAZINE’S TOP 15 LPS OF 2017

 

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15. Liam Gallagher – As You Were

 

14. Sampha – Process

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13. The Horrors – V
12. Sleaford Mods – English Tapas

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11. Stormzy – Gang Signs & Prayer
10. The National – Sleep Well Beast
9. Queens of the Stone Age – Villains

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8. Baxter Dury – Prince of Tears

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7. Father John Misty – Pure Comedy

6. St. Vincent – MASSEDUCTION

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5. Gorillaz – Humanz

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4. Lorde – Melodrama

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3. Wolf Alice – Visions of a Life

2. LCD Soundsystem – American Dream

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1. Kendrick Lamar – DAMN.

 

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Uncut’s Top 15 Albums of 2017

E nella classifica di Uncut devo ammettere che ne ho trovati parecchi di album validi, magari non i miei preferiti assoluti ma insomma ci può stare, in parte.

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15. Joshua Abrams & Natural Information Society – Simultonality

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14. Julie Byrne – Not Even Happiness

13. Father John Misty – Pure Comedy

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12. Peter Perrett – How The West Was Won Al sottoscritto questo è piaciuto moltissimo http://discoclub.myblog.it/2017/08/25/un-brillante-ritorno-a-sorpresa-inatteso-e-gradito-peter-perrett-how-the-west-was-won/ .

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11. Slowdive – Slowdive
10. Hurray For The Riff Raff – The Navigator
9. St. Vincent – MASSEDUCTION

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8. Courtney Barnett & Kurt Vile – Lotta Sea Lice Bella canzone e bellissimo video.

7. The National – Sleep Well Beast

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6. Richard Dawson – Peasant

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5. Joan Shelley – Joan Shelley

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4. The Weather Station – The Weather Station veramente un bel disco http://discoclub.myblog.it/2017/11/10/una-sorta-di-novella-joni-mitchell-2-0-weather-station-weather-station/

3. Kendrick Lamar – DAMN.

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2. The War on Drugs – A Deeper Understanding

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1. LCD Soundsystem – American Dream

Per oggi è tutto, nei prossimi giorni altre liste.

Bruno Conti

Recuperi (E Sorprese) Di Inizio Anno 4. Due Voci Femminili Da Scoprire: Olivia Chaney & Joan Shelley

Olivia Chaney The Longest Riverjoan shelley over and even

Proseguendo nei recuperi ecco due cantautrici assolutamente da (ri)scoprire, una inglese ed una americana, accomunate da comuni inflessioni folk: della prima Olivia Chaney, vi avevo già parlato brevemente nella rubrica delle anticipazioni discografiche, mentre di Joan Shelley vi avevo fatto un breve accenno nelle varie liste di fine anno delle migliori uscite discografiche del 2015: partiamo proprio con lei.

Joan Shelley – Over And Even – No Quarter

Questo è già il quarto album pubblicato dalla folksinger americana, ma i primi due, pubblicati a livello autogestito, sono praticamente introvabili, mentre il precedente Electric Ursa, leggermente più complesso, pubblicato sempre dall’etichetta No Quarter (quella di Doug Paisley, Bob Carpenter Endless Boogie) nel 2014 è disponibile sul mercato americano, anche se non di facilissima reperibilità. Joan Shelley viene dai pressi di Louisville, Kentucky, dove a gennaio dello scorso anno è stato registrato questo Over And Even, con Daniel Martin Moore, produttore ed ingegnere del suono, il suo collaboratore fisso, l’ottimo Nathan Salsburg alle chitarre, la stessa Joan anche lei chitarre e banjo, ed un manipolo di collaboratori esterni impegnati ad abbellire il sound in alcuni pezzi. Ma fondamentalmente si tratta di un album di folk di vecchio stile, quello classico, il migliore, che oltre alle chitarre del duo gira soprattutto intorno alla bellissima ed espressiva voce della Shelley:un contralto in grado di virare al soprano, una tonalità calda ed accogliente, quasi piana, ma con improvvise impennate che rendono piacevole l’ascolto dell’album. Prendete l’iniziale Brighter Than The Blues, le due chitarre acustiche a fronteggiarsi, un tamburello, suonato da James Elkington, che è il jolly del disco, in questo brano impegnato anche all’harmonium e alla steel, pochi giri di accordi, ma una musica che ti entra subito in circolo.

Nell’affascinante e deliziosa Over And Even, il corregionale Will Oldham (o se preferite Bonnie “Prince” Billy) è la voce duettante in un’intrigante canzone di stampo country-folk, mentre una chitarra elettrica colora il suono sullo sfondo, e la voce della Shelley è quasi mitchelliana nei suoi timbri. La title-track Over And Even aggiunge organo e piano elettrico Fender Rhodes, suonati dal poliedrico Elkington e miscelati alla quasi twangy elettrica di Salsburg (i due, come chitarristi, duettano anche nel recente CD Ambsace, uno dei quattro dischi strumentali a nome di Nathan Salsburg), mentre la voce sale e scende tra accenti sempre tra la Mitchell e certo folk britannico, penso a Linda Thompson. Bellissima anche la ballata pianistica Not Over By Half, dove il piano di Rachel Grimes affianca le immancabili chitarre in fingerpicking e la voce di supporto alle armonie è quella di Glen Dentinger. Nella breve e riflessiva Ariadne’s Gone Dan Dorff, uno dei vari tastieristi impiegati è al pocket piano, mentre la Shelley quasi scandisce i versi di questo suggestivo brano. Più elettrica No More Shelter dove l’organo di Elkington e la chitarra di Salsburg tracciano magiche traiettorie che consentono alla voce di Joan di brillare ancora di più.

Easy Now è una traccia dal sound quasi californiano anni ’70, quelle canzoni che Jackson Browne e James Taylor, ma anche la stessa Joni Mitchell o la misconosciuta Judee Sill, sfornavano ai tempi quasi a getto continuo, e l’intreccio tra piano e chitarre acustiche è sempre piacevolissimo. Lure And Line, brevissima, quasi un intramuscolo, sognante ed eterea, sulle note di una steel spettrale, sempre di Elkington, e della vocalità intima della Shelley, viaggia in territori che possono ricordare il Nick Drake più malinconico (cioè quello di qualsiasi brano), anche grazie al glockenspiel di Dorff, mentre Jenny Come In, di nuovo con la seconda voce di Oldham a rendere più affascinante lo spettro sonoro della canzone, impreziosita dagli interventi al piano di Dorff, è un altro dei migliori episodi di un album che non ha momenti di debolezza. Wine And Honey ritorna alla formula più semplice delle due chitarre più la voce della Shelley, ma si gusta sempre con lo stesso piacere, come pure My Only Trouble, dove la voce provoca brividi di piacere all’ascoltatore, prima di congedarlo con la conclusiva Subtle Love, dove il piano della Grimes e le armonie vocali di Will Oldham sono gli elementi aggiunti, peraltro non indispensabili, benché sempre graditi, ad una tavolozza di colori, semplice ma classica nei suoi risultati finali. Un nome da segnarsi con la matita rossa tra quelli da seguire.

 

Olivia Chaney – The Longest River – Nonesuch

Se i nomi di riferimento che vengono alla mente (almeno a chi scrive) per Joan Shelley, sono Joni MItchell e Linda Thompson, ma non solonel caso di Olivia Chaney, cantante e polistrumentista inglese (ma che incide per una etichetta americana importante come la Nonesuch, casa di Natalie Merchant, tra i tanti), il nome che mi è balenato subito, anche per la costruzione sonora del disco, è quello di Sandy Denny (e in parte anche della sua erede, la appena citata Natalie Merchant), senza dimenticare l’immancabile Joni Mitchell, di cui tutti da anni, intravedono la potenziale erede, un po’ come ai tempi si cercava il nuovo Dylan https://www.youtube.com/watch?v=VipgQCfu824. La Chaney è al suo album di esordio completo, questo The Longest River, ma già nel 2010 aveva pubblicato un EP  e in seguito ha partecipato a un paio di compilations pubblicate dalla Folk Police Records, oltre ai lavori di colleghi inglesi come Alasdair Roberts Seth Lakeman, con cui condivide la passione per gente come Bert Jansch e i Fairport Convention, ma anche Bob Dylan, grazie alla collezione di dischi del padre, dove si trovavano molti altri illustri cantautori che hanno contribuito alla sua formazione musicale. La nostra amica, è solo una curiosità, nasce in Italia, a Firenze, nel 1982 ed è diplomata alla Royal Academy Of Music di Londra, oltre ad essere più che proficiente a piano, chitarra, harmonium e cello, tutti strumenti che padroneggia con abilità e suona nel disco, si disimpegna anche a dobro, organo, synth, glass harmonica, piano elettrico Wurlitzer e ha curato gli arrangiamenti per archi dell’album, e pure la co-produzione con Leo Abrahams, anche chitarrista in questo The Longest River. Quindi un piccolo genio. Se aggiungiamo che ha pure una bellissima voce, era difficile che il risultato non fosse più che soddisfacente, come è stato.

Diciamo che il folk-rock britannico degli anni ’70 è l’elemento guida, su cui si inseriscono tutte le influenze citate. False Bride, per iniziare, è proprio un brano folk tradizionale, come quelli che si incontravano nei dischi degli artisti citati, con la voce cristallina della Chaney accompagnata solo da una chitarra acustica arpeggiata con grande maestria, su cui poi si inserisce un elegante arrangiamento di archi che ci permettono di gustare la voce della titolare, splendido inizio. Imperfections è una bellissima ballata pianistica che ricorda uno sfortunato soggiorno in quel di New York, ancora con la splendida voce di Olivia che ricorda sia Sandy che Joni e la canzone che nel finale si arricchisce ulteriormente con l’arrivo degli archi e dell’harmonium. Waxwing scritta dal talentuoso Alasdair Roberts ci rimanda addirittura ai leggendari dischi di Shirley Dolly Collins (sarà l’harmonium?), con la seconda voce di Jordan Hunt, che è anche l’autore, insieme alla Chaney, dei bellissimi arrangiamenti orchestrali, oltre a suonare il violino. Loose Change è un’altra piccola perla, in questo caso solo la voce, accompagnata da una rintoccante chitarra elettrica e da un piano in sottofondo. Swimming In The Longest River, nuovamente con l’accompagnamento minimale dei un piano, ci rimanda alla Michell di Blue, racconta di amori, anche carnali ed erotici, con una intensità che è difficile riscontrare in molti dischi moderni. Leggiadra addirittura The King’s Horses, sempre quella voce cristallina che si libra sugli arpeggi di una solitaria chitarra acustica, con Too Social, pianistica e più “americana” nella costruzione sonora, grazie anche al lavoro dell’ingegnere del suono Jerry Boys, uno che ha lavorato con i grandi del folk inglese che hanno influenzato la musica della Chaney, e sa come metterne in evidenza la voce, raddoppiandola qui e là, come in questo caso.

La Jardinera, un brano cileno di Violeta Parra, ricorda addirittura certe escursioni di Joan Baez nella musica popolare sudamericana, di nuovo con il multitracking a rendere ancora più magica l’atmosfera e There’s Not A Swaim scomoda il compositore classico Henry Purcell per volare verso virtuosismi vocali che lasciano a bocca aperta anche per la grande naturalezza con cui vengono eseguiti e con un arrangiamento musicale complesso e ricco di improvvisi crescendi. Holiday è una ballata pianistica più formale, dalla struttura avvolgente, con un mood malinconico che rieccheggia certe canzoni bellissime della migliore Sandy Denny, con Blessed Instant che ai apre con uno strumento a corda pizzicato e la voce solitaria della Chaney, poi il violino e gli archi si aprono e il brano scritto da Sidsel Indresen, una cantante norvegese che mi dicono molto brava ma non conosco, diventa più complesso e raffinato, quasi orchestrale, ma sempre in linea con il tessuto sonoro di questo bellissimo album, che si chiude con Cassiopeia, una ulteriore affascinante ballata pianistica che illustra i talenti di questa “esordiente” di lusso!

Se amate il rock e la musica orecchiabile meglio non farvi tentare da questi due album, gli altri potrebbero avere delle piacevoli sorprese.

Bruno Conti