Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Ora Anche In CD. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

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Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony/Warner CD

Lo scorso 10 luglio Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) rendendolo inizialmente disponibile solo come download, ma ora possiamo a tutti gli effetti parlare di “disco” in quanto è stato finalmente pubblicato anche su CD. Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (anche se comunque la Welch è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti). Il dubbio che Gillian soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto.

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A parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti dalla folksinger, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione, e se ne sono accorti anche ai recenti Grammy in quanto All The Good Times è stato premiato come miglior disco folk del 2020. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita https://www.youtube.com/watch?v=knr3G8HLITw , e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura https://www.youtube.com/watch?v=CcHo_BtAO0o .

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Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solita e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale pur con l’uso parco della strumentazione https://www.youtube.com/watch?v=W2j_P_m7_sM , e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos https://www.youtube.com/watch?v=Ay3gdEQlV70 , mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante https://www.youtube.com/watch?v=HYt4rRgx5OU ; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso. Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine) https://www.youtube.com/watch?v=hVKMw0owfEI .

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Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo, che ora possiamo goderci anche su CD.

Marco Verdi

Un’Ottima Band Che Porta Avanti Le Tradizioni Montanare. Appalachian Road Show – Tribulations

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Appalachian Road Show – Tribulations – Billy Blue Records/New Day CD

Ormai quella delle string bands (ovvero quei gruppi che rielaborano la tradizione folk e bluegrass utilizzando perlopiù strumenti a corda acustici) è diventata una delle nicchie più importanti della musica roots americana, data la grande quantità di nuovi nomi che quasi mensilmente decidono di seguire le orme di Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e colleghi vari. Ma se nella maggior parte dei casi i gruppi in questione adattano quel tipo di suono alle loro esigenze aggiungendo talvolta dosi di country-rock e perfino di pop, ce ne sono altri che decidono di non muoversi dalle sonorità di 70-80 anni fa. Tra questi un posto di primo piano lo occupano certamente gli Appalachian Road Show, un quintetto che ha esordito due anni fa con l’album omonimo e che ora decide di concedere il bis con Tribulations. Gli ARS non sono però una band di novellini, bensì una sorta di supergruppo formato da tre sessiomen che forse diranno poco al grande pubblico ma hanno suonato con gente del calibro di Dolly Parton, Josh Turner e Rhonda Vincent e hanno vinto anche alcuni Grammy: si tratta del banjoista e cantante Barry Abernathy, del mandolinista e cantante Darrell Webb e del violinista Jim VanCleve (completano il quintetto il bassista Todd Phillips, in passato membro del David Grisman Quintet, e del giovane chitarrista Zeb Snyder, che per la sua abilità con lo strumento è stato paragonato addirittura a Doc Watson e Norman Blake).

Il nome del gruppo non è casuale, in primo caso perché i tre componenti principali provengono tutti dai Monti Appalachi (Abernathy dal versante georgiano, VanCleve da quello del North Carolina e Webb dal West Virginia), ma soprattutto in quanto il loro repertorio è basato esclusivamente su brani della tradizione montanara con canzoni che vanno indietro anche di più di un secolo, ed anche i pochi pezzi originali si basano sullo stesso tema. Tribulations è quindi una sorta di concept album con tanto di parti narrate qua e là nel quale i nostri raccontano a modo loro le tradizioni degli Appalachi e le storie inerenti a quella zona geografica, e dal punto di vista musicale è un album da godere dalla prima all’ultima nota. I cinque sono infatti dei virtuosi dei rispettivi strumenti (pare che le loro esibizioni live siano imperdibili), ma la loro tecnica non è fine a sé stessa bensì messa al servizio delle canzoni scelte, con montagne (tanto per stare in tema) di feeling e passione. Non cercate in questo lavoro contaminazioni rock e pop: qui c’è solo purissima musica bluegrass, folk e country, con qualche elemento gospel qua e là.

Il disco si apre, dopo una breve introduzione narrata, con il noto traditional Don’t Want To Die In The Storm, che inizia a cappella e poi si rivela un godibilissimo folk-grass che sembra uscito da un disco di ottanta anni fa, con ottimi intrecci strumentali. In Goin’ To Bring Her Back (scritta da VanCleve, ma la melodia è tradizionale al 100%) i nostri cominciano a suonare a velocità supersonica, con chitarra, banjo e mandolino che vanno talmente spediti che sembra che qualcuno abbia accelerato il nastro; Sales Tax On The Women (brano degli anni trenta dei Dixon Brothers) è un pezzo decisamente allegro e ritmato pur in assenza di batteria, un brano ricco di swing che si pone tra i più riusciti, mentre Wish The Wars Were All Over è intensa, drammatica e dal sapore irlandese, con il violino protagonista (ed è uno dei brani più moderni, essendo stato scritto da Tim Eriksen e pubblicato anche da Joan Baez nel suo ultimo Whistle Down The Wind). Goin’ Across The Mountain è un traditional della guerra civile inciso in passato anche da Pete Seeger, e qui è una deliziosa folk tune, pura e cristallina come appunto l’acqua di montagna, brano che sfocia nella magnifica The Appalachian Road, uno strumentale bluegrass originale che però si rifà chiaramente a modelli antichi, con assoli che si sprecano di tutti gli strumenti tranne il basso (e con Snyder che si conferma un chitarrista provetto).

Gospel Train è un canto del 1800 dalle origini afroamericane che qui viene eseguito interamente a cappella, Beneath The Willow Tree (conosciuta anche come Bury Me Beneath The Willow) ha una strumentazione countreggiante che si contrappone alla melodia tesa e drammatica, con il mandolino a dettare legge; con 99 Years And One Dark Day (di Jesse Fuller) siamo ancora in territori bluegrass, un pezzo orecchiabile e diretto eseguito in maniera scintillante e con il violino che fa i numeri, mentre Hard Times Come Again No More è una delle più note canzoni del songbook americano e gli ARS la rileggono con un accompagnamento scarno volto ad evidenziare la splendida melodia: bella versione, sentita e profonda. L’album si chiude con la lenta title track, un brano fluido e limpido che è il degno finale di un disco che mantiene alta la bandiera della tradizione folk e bluegrass, dando finalmente visibilità ad un gruppo di sessionmen dalle notevoli capacità.

Marco Verdi