Da Cat Stevens A Yusuf E Ritorno, Parte II

cat stevens carly simonyusuf 1979

Seconda Parte.

Tra il 1971 e il 1972 ha una relazione con Carly Simon, che poi opterà per James Taylor, e quindi per consolarsi decide di registrare il suo settimo album

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Catch Bull At Four – 1972 Island/A&M****

Ormai Cat Stevens è una superstar mondiale, ma la qualità dei suoi dischi rimane elevatissima, e quindi prosegue il filotto con un altro disco molto bello, per quanto leggermente inferiore ai due che lo hanno preceduto, arrivando al 1° posto delle classifiche americane, con più di un milione di copie vendute. Squadra vincente non si cambia: solo qualche piccolo ritocco, Jean Russell entra in pianta stabile alle tastiere, come Gerry Conway alla batteria, nuovo bassista Alan James, rimangono il produttore Paul Samwell-Smith, mai citato abbastanza come grande alchimista del suono del nostro, stesso discorso per Alun Davies e per l’arrangiatore Del Newman. Magari non tutte le canzoni sono bellissime, ma alcune sono veramente splendide e tra le mie preferite assolute di Stevens: la dichiarazione di intenti di Sitting, con un sound esplosivo che coniuga lo stile abituale al rock, grazie all’uso delle tastiere di Russell e della batteria di Conway, con lo stesso Cat che nel disco suona una decina di strumenti, chitarre elettriche incluse.

La magnifica Boy with a Moon & Star on His Head, che forse non ha un ritornello vincente come Morning Has Broken, ma una costruzione sonora avvincente di stampo folk, con le consuete improvvise e tipiche esplosioni della sua musica. Angelsea, con un intrigante synth suonato dallo stesso Stevens, ha un andamento incalzante e un suono più moderno, con Conway che impazza alla batteria, e i preziosi coretti di Linda Lewis, con il tutto che non manca del consueto fascino. Silent Sunlight è una seducente ballata pianistica cantata in falsetto, anche se è leggermente inferiore a quanto ascoltato fin qui, Can’t Keep It In, nella consueta alternanza, è un brano più mosso e brillante, quasi impaziente nella sua esuberanza ed impazienza, sostenuto da un mirabile arrangiamento corale, dove brilla tutta la band, seguita da un’altra ballata come 18th Avenue (Kansas City Nightmare), dove piano e tastiere rimpiazzano le consuete chitarre acustiche, e con una bella parte centrale strumentale.

Anche Freezing Steel non soddisfa del tutto, anticipando una certa modernità di suoni che si farà più evidente nei dischi successivi, ma nella successiva O Caritas ci si lancia di nuovo nella musica popolare greca, addirittura cantata in latino, con il ritorno del bouzouki di Andreas Toumazis e la chitarra classica di Jeremy Taylor a dettare i tempi, mentre un coro sottolinea l’arrangiamento affascinante, forse un filo pomposo. Sweet Scarlet è un’altra buona ma non memorabile ballata pianistica, lasciando alla conclusiva Ruins il compito di alzare la qualità complessiva dell’album, un ennesimo esempio della maestria di Stevens nel maneggiare le situazioni elettroacustiche.

Anche per questo album è stata annunciata una versione Deluxe che al momento non conosco. Nel 1973 si trasferisce a Rio De Janeiro, anche lui per sfuggire alle tasse inglesi, benché poi donerà il denaro risparmiato all’Unesco: però a questo punto inizia anche il suo lento declino, con dischi che vendono sempre piuttosto bene, anche se le critiche non sono più costanti e benevole, ma i fans rimangono comunque fedeli, e negli album ci sono comunque motivi di interesse, non a caso per il disco successivo, registrato tra Kingston, Giamaica e New York, il nostro amico si separa da Samwell-Smith per incidere

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Foreigner – 1973 Island/A&M ***

Il problema è che lo fa in un album dove il suono è principalmente basato sulle tastiere, via Alun Davies, dentro vari sessionmen e il suono si fa turgido e “carico”, forse vicino a certo rock progressivo che imperava all’epoca, e fin qui nulla di male, anch’io apprezzo il genere quando è fatto bene, ma come dice un detto lombardo Ofelè fa el to mesté”, ovvero “Pasticciere, fai il tuo mestiere”: mi sono riascoltato il CD dopo anni che non lo facevo e devo dire che continua a non piacermi, intendiamoci non è un brutto album, suonato benissimo, la voce è sempre affascinante, ma la musica meno, la lunga Foreigner Suite, 18 minuti che occupavano la prima facciata del vinile, ha i suoi momenti, ma se devo ascoltare questo tipo di musica, preferisco gli Yes, gli Utopia, i King Crimson e via andare.

Le quattro canzoni brevi mi piacciono anche meno, pur se la tra le coriste impiegate c’è la bravissima Patti Austin e non disdegno certo funky-rock e blue eyed soul, ma forse non fatto da Cat Stevens, magari sbaglio io, comunque tre stellette di stima. Per il successivo album, dopo essere stato uno “Straniero”, in esilio per motivi fiscali, Stevens torna a Londra per registrare, e richiama Paul Samwell-Smith, Alun Davies, Gerry Conway, Jean Roussel, e il risultato è

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Buddha And The Chocolate Box – 1974 Island/A&M ***

Disco che torna in parte alle vecchie sonorità, anche se c’è l’impiego esagerato di decine di backing vocalist di supporto e l’orchestra è molto presente, e la qualità delle canzoni non è la stessa del passato, c’è una maggiore spiritualità ma il sound è fin troppo turgido e tronfio a tratti, prendete l’iniziale Bad Penny, ma anche la successiva, comunque piacevole Ghost Town, che tra armonica, piano, le solite chitarre e la batteria di Conway pare comunque una canzoncina; forse salverei la spirituale Jesus, la conclusiva brillante Sun C-79 e soprattutto Oh Very Young, un ritorno agli splendori del passato, che non dico valga da sola tutto l’album, ma quasi, con un ritornello e una melodia deliziose.

Ma è un fuoco di paglia, perché per il successivo album Stevens parte per il Canada per inciderlo e, come contenuti per una galassia di nome Polygor per realizzare un concept-album, ovvero

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Numbers – 1975 Island/A&M ***

Di cui, anche se ci suonano gli stessi fedeli musicisti del precedente, mi chiedete se mi ricordo una canzone, la risposta è no: però, per dovere di cronaca, sono andato a riascoltarlo, e almeno un paio di canzoni, forse non mi sono dispiaciute, Novim’s Nightmare e Jzero, quindi mezza stelletta in più, è pur sempre Cat Stevens.

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Però nello stesso anno esce anche il fantastico Greatest Hits – 1975 Island/A&M *****, quattro “zilioni” di copie vendute nel mondo e di cui ricordo ancora il numero di catalogo del disco ILPS 9310. Nel 1974 era uscito, solo per il mercato giapponese, dove il disco era stato registrato a Tokyo, l’eccellente Saturnight – 1974 A&M Japan ****, anche questo non lo ascoltavo da anni, ma devo dire che è veramente bello, con la chicca della cover di Another Saturday Night di Sam Cooke, poi inserita nel Greatest Hits.

Nel 1976 il nostro amico fa un tour mondiale e nelle date americane viene registrato un altro disco dal vivo Majikat2004 Eagle ***1/2, che però verrà pubblicato solo circa 40 anni dopo. Dopo la parentesi concertistica Cat Stevens decide di incidere un nuovo disco, registrato in giro per il mondo tra settembre del 1976 e marzo del 1977, con la partecipazione di una miriade di musicisti, e il risultato è

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Izitso – 1977 Island/A&M ***

Peggio di Numbers non si poteva fare, ma non è che questo disco rimarrà negli annali della musica: tra sintetizzatori a go-go e un suono tra rock elettronico e synthpop, nel disco si salvano il blue eyed soul del duetto con Elkie Brooks (Remember the Days of the) Old Schoolyard e l’autobiografica (I Never Wanted) To Be a Star, tre stellette, ma solo di stima. Alla fine dell’album prende una decisione che stava meditando da tempo e decide di convertirsi all’Islam e nel luglio del 1978 Steven Georgiou cambia il suo nome in Yusuf Islam, ma prima pubblica ancora un album come Cat Stevens, che esce a dicembre del 1978

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Back To Earth – 1978 Island/A&M ***

Di cui in questo periodo, estate 2020, dopo una lunga e travagliata vicenda è stato pubblicato un cofanetto commemorativo su etichetta BMG Rights Management, di cui in altra parte potete leggere la recensione dell’amico Marco Verdi e che quindi trovate qui https://discoclub.myblog.it/2020/08/08/e-finalmente-uscito-il-cofanetto-piu-rimandato-della-storia-cat-stevens-back-to-earth-super-deluxe-edition/

Inteludio 2 1979-2020 Da Cat Stevens a Yusuf/Cat Stevens

Discograficamente salterei la produzione religiosa e anche le canzoni per bambini, perché sinceramte non ho mai sentito i dischi. Del periodo ricorderei alcune infelici dichiarazioni su Salman Rushdie, poi riabilitate, in seguito all’attacco alle Torri Gemelle del 2001, in cui apparve al Concert For New York City, condannando il tragico evento e cantando accapella dal vivo, per la prima volta dopo oltre venti anni, la sua Peace Train. Nel 2004 gli viene negato il visto per entrare negli Stati Uniti, dove però torna nel 2006 per alcuni eventi radiofonici e nello stesso anno, a marzo registra il suo primo album dopo la lunga pausa e il dodicesimo della carriera.

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Yusuf – An Other Cup – 2006 Polydor/Atlantic*** un album discreto, dove si apprezza la sua voce, rimasta sempre uguale, in una serie di canzoni estremamente piacevoli; disco replicato tre anni dopo con Roadsinger – 2009 Island/A&M ***1/2 una sorta di ritorno alle sonorità migliori del passato, cosa che gli vale una mezza stelletta in più, tra i brani spicca Everytime I Dream, canzone in cui rievoca i fatti della vicenda di Rushdie.

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Nel 2007 era uscito in DVD anche Yusuf’s Cafe Session ***1/2 dove appare alle prese con un misto ci canzoni nuove e classici del passato, e nel 2010 Roadsinger Live In Australia. Come Yusuf/Cat Stevens pubblica Tell ‘Em I’m Gone – 2014 Legacy Recordings***, un discreto disco prodotto da Rick Rubin, con parecchie cover, e infine

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The Laughing Apple – 2017 Decca ***1/2, probabilmente il miglior disco dopo il ritorno, non a caso co-prodotto da Cat Stevens (mi è scappato) con Paul Samwell-Smith (e la presenza di Alun Davies), anche con alcune nuove versioni di canzoni apparse su New Masters il disco del 1967.

Per chiudere il cerchio, sempre con Samwell-Smith e Davies, in questi giorni esce la già ricordata nuova versione per il 50° Anniversario di Tea For The Tillerman2.. Per ora è tutto, ma non si esclude un To Be Continued…proprio con l’Appendice che vi poporrò a breve con i due cofanetti per i 50 anni di Mona Bone Jakon e Tea For The Tillerman.

Bruno Conti

Da Cat Stevens A Yusuf E Ritorno, Parte I.

cat stevens 1970

Anzi a volere essere ancora più precisi: da Steven Demetre Georgiou a Cat Stevens fino al 1978, poi dopo la sua conversione alla religione musulmana, prima Yusuf Islam, e poi in una concessione al suo passato Yusuf/Cat Stevens. Per me, ad essere sinceri, rimarrà sempre Cat Stevens, almeno a livello musicale: quel ragazzo di origine greco-cipriota che nella Swingin’ London degli anni ‘60 inizia una carriera (e proprio a voler essere addirittura pignoli, quando inizia ad esibirsi nel 1965, sceglie il nome d’arte Steve Adams). E già in quell’anno deposita il suo primo demo come autore, ovvero The First Cut Is The Deepest. Nel contempo, diventato Cat Stevens, inizia ad esibirsi nei pub e nelle coffee houses: e sviluppa anche questa passione, magari un po’ interessata per l’uso di nomignoli e poi titoli di canzoni, e infine dischi, che hanno a che fare con gli animali. Viene notato a 18 anni, nel 1966, dal manager Mike Hurst (ex degli Springfields, il gruppo della sorella Dusty), che gli fa avere un contratto la Deram, sussidiaria della Decca, che all’inizio aveva rifiutato i Beatles, ma poi non poteva continuare così, prima i Rolling Stones, e poi altri talenti del nascente panorama pop (e rock) britannico firmano con loro.

1967-1969 Le origini.

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Già a fine settembre del 1966 pubblica il primo singolo I Love My Dog (era già ecumenico sin dall’inizio). In seguito ammetterà che aveva solo aggiunto il testo ad un brano del jazzista Yuseef Lateef The Plum Blossom, musicista a cui poi pagherà sempre le royalties e che apparirà anche come coautore della canzone; il lato B Portobello Road viceversa ha il testo di Kim Fowley e musica di Stevens. Comunque il 45 giri è un successo che entra al 28° posto delle classifiche. Entrambi i brani vengono inseriti in

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Matthew And Son – 1967 Deram ***

Il primo album, prodotto proprio da Hurst, si avvale dell’utilizzo di orchestrali vari e musicisti di studio, tra cui spiccano John Paul Jones al basso e Nicky Hopkins alle tastiere nella title track Matthew And Son, che addirittura raggiunge il 2° posto nelle charts, e l’album complessivamente al n°7. Mica male per un debutto. Ovviamente negli anni il disco è uscito anche in CD, aggiungendo di volta in volta parecchi brani nelle varie riedizioni, quella del 2003 arriva a 22 pezzi. Niente per cui strapparsi le vesti, gli arrangiamenti con archi e fiati sono a tratti invadenti, però il singolo di Matthew And Son ha una bella grinta R&B con il marcato groove del basso di JP Jones, la voce di Cat Stevens che è già quella profonda e risonante che conosciamo, un tipico buon 45 giri dell’epoca, come pure I Love My Dog, arrangiamenti, ridondanti ma non irritanti, a parte, ha una bella melodia, arpeggi di chitarra acustica, a cura dello stesso Cat.

Anche Here Comes My Baby (un successo per i Tremeloes sui due lati dell’oceano) è un gradevole esempio di pop britannico dell’epoca, mentre in altre canzoni ci sono influenze sudamericane ed in altre di cantautori americani ammirati come Dylan e Paul Simon, per esempio, fischiettata a parte, nelle chitarre arpeggiate di Portobello Road. A marzo, esce un altro singolo non incluso nell’album, ma nella riedizione in CD, I’m Gonna Get Me A Gun ,che raggiunge il sesto posto delle classifiche: un buon esordio, è nata una stella. Stevens gira l’Inghilterra con Engelbert Humperdinck e Jimi Hendrix, e la casa discografica lo spedisce in studio a registrare un seguito

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New Masters -1967 Deram **1/2

Che però si rivela un clamoroso flop commerciale, anche se contiene The First Cut Is The Deepest, che sarà un grande successo per P.P. Arnold e qualche anno dopo per Rod Stewart. La canzone obiettivamente è bella, anche nella versione di Cat Stevens, un pezzo folk-pop con una melodia immediata, anche se al solito molto orchestrata: lo stesso non si può dire del resto dell’album, registrato ai Decca Studios e pubblicato a dicembre 1967. Il singolo Kitty è allegrotto, ma non particolarmente memorabile, appena meglio A Bad Night aggiunto all’edizione in CD, ma anche questo fa molto Eurovision Song Contest, insomma si fatica a ricordare qualche canzone, forse la delicata Blackness Of The Night, e nonostante il costante touring anche durante tutto il 1968, nulla succede.

1970-1978 Gli Anni Del Grande Successo

All’inizio del 1969 Stevens contrae la tubercolosi, va vicino alla morte, rimane a lungo in ospedale e poi durante una lunga convalescenza si dà alla meditazione, allo yoga, agli studi di metafisica e di altre religioni, diventa vegetariano, ed avendo molto tempo a disposizione scrive circa 40 canzoni, che poi appariranno sui suoi album nel corso degli anni successivi, e decide per un cambio totale del suo stile musicale e dei contenuti letterari dei testi: dopo una audizione con Chris Blackwell viene messo sotto contratto per la Island, che lo affida al produttore Paul Samwell-Smith, ex bassista degli Yardbirds, che per lui avrà la stessa importanza di Chas Chandler per Jimi Hendrix, e gli cuce addosso uno stile folk-rock, affiancandogli il chitarrista acustico Alun Davies, che sarebbe dovuto rimanere per un solo album, ma sarà fedele compagno ed amico in tutta la prima parte della carriera di Cat: registrato a gennaio e febbraio del 1970 tra Olympic Studios e Abbey Road arriva

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Mona Bone Jakon – 1970 Island/A&M ****

L’ho già ricordato nella recensione dell’ultimo album https://discoclub.myblog.it/2020/10/19/anche-questo-disco-compie-50-anni-facciamolo-di-nuovo-cat-stevensyusuf-tea-for-the-tillerman2/ , ma così ci togliamo il pensiero sullo strano titolo dell’album, lo ha detto lui stesso, era un nomignolo per il suo pene, che ci vogliamo fare? Venendo a cose più serie Cat Stevens firma un contratto per pubblicare i suoi album anche negli Usa con la A&M: la prima canzone del disco, e il primo singolo a uscire è Lady D’Arbanville, dedicata alla sua “vecchia” fidanzata, la modella e attrice Patty D’Arbanville, si tratta di una delicata e sognante ballata, tutta giocata sulla chitarra acustica arpeggiata in fingerpicking di Davies, ma anche sulle percussioni di Harvey Burns e il contrabbasso di John Ryan, oltre alle tastiere e alla chitarra suonate dallo stesso Stevens che inaugura quello stile particolare dove la sua voce ora sussurra, ora si arrampica, mantenendo comunque quel timbro profondo e risonante, tipico del suo stile vocale.

Come ribadisce la bellissima Maybe You’re Right dove le improvvise esplosioni della voce ben si amalgamano anche con i sobri arrangiamenti orchestrali di Del Newman, nulla a che vedere con quelli pomposi del periodo Deram. In Pop Star ci sono anche retrogusti vagamente white soul con la voce che sale e scende di continuo, sottolineata dal basso e dall’acustica e da improvvisi coretti. Nella mossa e pianistica I Think I See The Light il ritmo si fa più incalzante, con improvvise accelerazioni che ricordano come arrangiamenti quello che sull’altro lato dell’oceano stavano facendo Carole King e altri cantautori e cantautrici allora nascenti come movimento.

Altra canzone splendida di questo album è Trouble, sempre con un arrangiamento complesso e ricercato, senza rinunciare alla immediatezza delle melodie del nostro. Mona Bone Jakon, con la voce raddoppiata e minacciosa, e sapendo ora il significato del termine, potrebbe essere anche triviale, ma d’altronde pure Chuck Berry ha dedicato un brano al suo Ding-A-Ling e i bluesmem ci sguazzavano nei doppi sensi. Tre brani del disco tra l’altro vennero inseriti nella colonna sonora della commedia nera Harold e Maude, due appena ricordate e la terza, l’altrettanto bella I Wish, I Wish, una ennesima prova dell’ispirazione che lo sorreggeva in quel periodo, altro pezzo affascinante anche a livello strumentale con la chitarra di Alun Davies e il piano del nostro in bella evidenza, oltre ad intricati passaggi vocali.

La soffusa Katmandu prevede la presenza di un giovane Peter Gabriel al flauto, la breveTime, con la classiche pennate dell’acustica in primo piano, precede Fill My Eyes, un altro classico esempio del folk cantautorale sviluppato da Stevens e soci per questo album, che si chiude sulle note di Lillywhite, un’altra delle sue eteree canzoni d’amore dove gli archi di Newman sono protagonisti di un superbo lavoro di coloritura. Proprio in questi giorni è annunciata una nuova Deluxe Edition in 2 CD, di cui però non so i contenuti (ma li troverete nell’appendice di questo articolo). All’inizio l’album non sfonda subito a livello commerciale ma poi lentamente diventa disco di platino in tutto il mondo e spiana la strada per

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Tea For The Tillerman – 1970 Island/A&M *****

Il classico disco da 5 stellette, a parte per il critico del Village Voice Robert Christgau che lo definì monotono, ma il giornalista di New York era uno specialista nello stroncare i dischi (non sempre). I musicisti sono gli stessi del disco precedente, ma l’album contiene alcune canzoni che sono diventate degli standard assoluti della canzone d’autore, a partire da Father And Son una canzone sui conflitti generazionali che ancora oggi rimane il brano più popolare della discografia di Cat Stevens, come peraltro tutto l’album, tanto che come Yusuf/Cat Stevens lo ha voluto re-incidere in una nuova versione targata 2020 (ma la versione originale rimane insuperata) e la cui recensione avete letto in altre pagine virtuali del Blog.

Per cui, visto che le canzoni sono tutte famosissime e molto belle, qui le indico: Where Do The Children Play?, un capolavoro di equilibri sonori, con un testo splendido dove Stevens si interroga sul progresso e il futuro della tecnologia, il tutto cantato in modo impeccabile da Cat, che poi si supera in Hard Headed Woman dove la sua voce raggiunge vette incredibili di bellezza, mentre gli archi, la batteria, la chitarra, si intrecciano ai limiti della perfezione, molto bella Wild World la storia di un amore fallito che viene coniugata ad una musica struggente ed ad una parte cantata sempre superba, oltre che ad una melodia indimenticabile.

 E anche Sad Lisa potrebbe trattare della stessa ragazza che lo ha lasciato, ma il tema sonoro, sottolineato dal pianoforte, è più malinconico, addirittura triste a tratti, con la voce sempre più espressiva del nostro amico a sottolineare il pathos del brano. Miles From Nowhere ancora magnifica con un crescendo superbo, la voce che si erge autoritaria sull’arrangiamento avvolgente da moderno gospel, seguita dalla breve But I Might Die Tonight dove tratta il tema del futuro e del lavoro mal pagato, con un impeto e una rabbia quasi incredula. Longer Boats parte con un fade-in degno dell’afflato di certi brani di Harry Belafonte e poi si sviluppa in un’altra solenne melodia, che lascia spazio nella successiva Into White ad arditi versi porti con una musicalitàpiù intima e profonda sulle ali di un violino solista.

On The Road To Find Out con i consueti arpeggi iniziali di Davies rimandano alle origini della musica greca, sempre presente nel vocabolario sonoro della musica di Stevens, qui unite all’uso delle voci sullo sfondo per sottolineare le improvvise esplosioni della musica attraverso la batteria di Burns, di Father And Son abbiamo detto, magari vorrei sottolineare le due tonalità usate da Cat per il padre, più maturo e saggio, ed il figlio, più impetuoso ed impaziente, con un registro più alto, fino all’ingresso a metà brano anche di quella di Alun Davies, che sottolinea il testo, superba. Chiude la breve title track, la pianistica Tea For The Tillerman dedicata al “Timoniere”, effigiato anche nella copertina dell’album, disegnata dallo stesso Cat. Dell’album esiste anche una versione doppia Deluxe in CD, che vi consiglio vivamente, visto che riporta anche un paio di demo e molto materiale dal vivo (in ttesa di quell nuova in uscita al 4 dicembre). Ad ottobre del 1971, quindi sempre sulla spinta ispirativa che lo percorre senza requie, ma già registrato a partire da luglio 1970, fino a marzo dell’anno successivo, una parte in Inghilterra e parte in California, viene pubblicato, sulle ali dell’enorme successo, il terzo album di questa ideale trilogia

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Teaser And The Firecat – 1971 Island/A&M****1/2

Forse mezza stelletta in meno, ma un altro album favoloso. Oltre a Davies e Burns che rimangono, si aggiungono il bassista Larry Steele e il batterista Gerry Conway, oltre al tastierista Jean Roussel, originario delle isole Mauritius, in tre brani, e tre o quattro ospiti solo in un brano ciascuno, rimane anche Del Newman per la parte orchestrale.

Dieci brani, ancora tutti di grande spessore: apertura con The Wind, breve canzone delicata sempre costruita intorno all’interplay delle due acustiche di Stevens e Davies, a seguire, nell’alternanza dei temi e dei tempi musicali, la deliziosa Rubylove, registrata a Los Angeles, dove appaiono i due bouzouki di Andreas Toumazis e Angelos Hatzipavli a conferire un frizzante aroma greco alla musica, confermato anche da un verso cantato in lingua ellenica dal nostro, bellissimi anche gli intrecci vocali.

If I Laugh è un’altra di quelle perle acustiche che fluivano senza sforzo dalla penna di Cat, sempre abbellite da piccoli ma suggestivi interventi degli altri musicisti, in questo caso il contrabbasso e le percussioni appena accennate, oltre ai coretti dello stesso Stevens; Changes IV, uno dei brani più mossi, dove alle chitarre strimpellate si alternano le consuete esplosioni percussive della batteria, rafforzate anche dal battito di mani, mentre il testo ha quell’impeto di proselitismo di alcune sue canzoni più impegnate, estrinsecato anche nell’uso corale delle varie voci.

How Can I Tell You viceversa è una delle sue consuete dolci canzoni d’amore, impreziosita dalle armonie vocali della brava Linda Lewis (un po’ di gossip, anche lei una delle sue varie “fidanzate” dell’epoca?), ottima anche Tuesday’s Dead, con il suo sound caraibico, groove di basso irresistibile, percussioni come piovesse, l’organo Hammond di Roussel, una esplosione di pura gioia, Poi arrivano i pezzi forti dell’album (non che gli altri siano brutti): Morning Has Broken, un brano tradizionale, arrangiato ed adattato da Cat, il pianoforte fluente è suonato da Rick Wakeman, non accreditato, è una incantevole ode al giorno che si affaccia, cantata con grande trasporto da un ispirato Stevens.

Incantevole anche l’esuberante Bitterblue dove Cat Stevens ci regala un’altra grande interpretazione vocale, come ha detto qualcuno, e concordo anch’io, forse non poteva competere con la potenza vocale di un Van Morrison o con lo charme di James Taylor tra i suoi concorrenti dell’epoca, ma anche lui aveva un suo perché. Moonshadow è un altro dei grandissimi successi dell’album, oltre ad essere una canzone di notevole fascino, con un crescendo strepitoso, fino al falsetto finale e il terzo ed ultimo singolo estratto dall’album è la superba Peace Train, che traccia l’impegno sociale e spirituale crescente del suo autore, che sul ritmo incalzante della sua band rilascia una ennesima prestazione vocale di prima qualità, sorretta dai coretti gospel avvolgenti, dal lavoro discreto ma fondamentale degli archi, dalle esplosioni della batteria, e dal lavoro immancabile delle chitarre, un piccolo capolavoro.

Come per il disco precedente esiste una versione Deluxe in due CD, con demo e brani dal vivo anche registrati anni dopo, che poi sarebbe quella da avere.

Fine prima parte, segue…

Bruno Conti

Anche Questo Disco Compie 50 Anni, Facciamolo Di Nuovo! Cat Stevens/Yusuf – Tea For The Tillerman2

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Cat Stevens/Yusuf – Tea For The Tillerman2 – Decca/UMC/Universal

Nel novembre del 1970, quando esce Tea For The Tillerman, Cat Stevens ventiduenne cantautore di belle speranze, nato a Londra, ma di chiare origini greche, aveva già pubblicato tre album, due ancora da teenager nel 1967 per la Deram, dischi che avevano avuto un certo successo, Matthew And Son era entrato nella Top 10 britannica, e il secondo New Masters conteneva una canzone, The First Cut Is The Deepest, venduta per 30 sterline a P.P. Arnold, e negli anni a venire una hit per Rod Stewart, anche se il suo repertorio veniva considerato leggero e disimpegnato. Poi nel 1969 contrae la tubercolosi, e nel lungo periodo di convalescenza ha tempo per meditare e ripensare a come impostare la sua carriera. Intanto un nuovo contratto per la Island, poi la scelta di un nuovo produttore, nella persona dell’ex Yardbirds Paul Samwell-Smith, e infine la scelta di uno stile musicale, diciamo folk rock, che gira attorno al suono delle chitarre di Cat e Alun Davies. Già ad aprile esce un primo disco molto bello Mona Bone Jakon (che sarà mai? Il suo pene), con il giovane Peter Gabriel, anche lui in rampa di lancio, al flauto in Katmandu, ma contiene anche Lady D’Arbanville e Trouble: discreto successo, ma niente di più.

Il nostro insiste e appunto a novembre esce Tea For The Tillerman, copertina suggestiva ed una serie di canzoni splendide, che non citiamo perché ne parliamo fra un attimo. A 50 anni dal disco originale Stevens, poi diventato Yusuf, e di nuovo Cat, decide, su sollecitazione anche del figlio, di riprendere in mano il vecchio album e inciderlo ex novo: nella copertina Tillerman (Il Timoniere) indossa un casco spaziale, e i due bambini ascoltano musica con le cuffiette e si scambiamo messaggi via cellulare. Il mondo è diventato più scuro e burrascoso, ma Stevens cerca di renderlo migliore riproponendoci temi universali di speranza, amore e condivisione, che erano alla base del progetto originale. Per farlo richiama in Francia, nell’estate pre-Covid del 2019, il produttore originario Samwell-Smith, Alun Davies, ed una serie di musicisti della live band di Yusuf: il bassista Bruce Lynch, membro della band dalla metà degli anni ‘70, il chitarrista Eric Appapoulay e il polistrumentista Kwame Yeboah, oltre al chitarrista Jim Cregan, (ex Family e Rod Stewart). Il disco si chiama Tea For The Tillerman2, anzi, al cubo, e ripropone la stessa sequenza dell’album originale, con la sola variazione della canzone Wild World, un enorme successo anche per Jimmy Cliff, che diventa Wild World Rag.

Anche il suono e gli arrangiamenti sono molto simili, e la voce di Cat Stevens/Yusuf non ha perso un briciolo del suo fascino, sempre profonda e risonante, ovviamente più vissuta e matura. Quindi niente ricerche di nuove strade sonore, solo un “aggiornamento” alle moderne tecnologie di registrazione: si parte con Where Do The Children The Play?, sempre di estrema attualità, un piano elettrico e le chitarre acustiche ci riconducono alla splendida melodia, poi entra quella voce inconfondibile, tra nuovi intrecci vocali e orchestrali, e parte il viaggio di riscoperta, si spera, anche per le nuove generazioni, magari munite di cuffiette. L’album lo conosciamo, e quindi ecco arrivare Hard Headed Woman, in un florilegio di acustiche arpeggiate, tastiere accarezzate e una elettrica che rafforza la coralità della musica, Wild World Rag è rallentata in un inconsueto tempo di ragtime con un clarinetto e una fisarmonica, oltre al piano, che virano verso atmosfere old time jazz. Sad Lisa è sempre malinconica, tenue ed intima, la voce che naviga sul piano elettrico è più fragile; Miles From Nowhere viceversa ha la forza della versione originale, sempre irrorata da sapori gospel ben evidenziati dai cori di contrappunto e anche un bel piglio elettrico, mentre But I Might Die Tonight con una chitarrina tintinnante ha un bel nuovo complesso arrangiamento orchestrale con retrogusti quasi orientaleggianti.

Into The White propone di nuovo l’interscambio delizioso tra le acustiche di Stevens e Davies, e la voce raddoppiata di Cat. On The Road To Find Out, tra percussioni, elettriche insinuanti e tastiere immanenti suona più moderna e lavorata, quasi inquietante e sembra una di quelle più cambiate rispetto alla versione del 1970, a mio parere molto più bella; a seguire il capolavoro assoluto del disco, quella Father And Son che rimane uno dei più affascinanti inni intergenerazionali di sempre, oggi come ieri, con un nuova breve intro con uso di lap steel, poi vieni preso da quella sublime melodia che si insinua sottopelle e ti trasporta. Chiude la breve e pianistica Tea For The Tillerman, un riassunto in meno di un minuto dei temi dell’album. Se volete un parere personale, meno bello dell’originale, ma comunque sempre un buon album, non solo per fan.

Bruno Conti

E’ Finalmente Uscito Il Cofanetto Più Rimandato Della Storia! Cat Stevens – Back To Earth Super Deluxe Edition

cat stevens back to earth box

Cat Stevens – Back To Earth Super Deluxe Edition – BMG Rights Management/Warner 5CD/BluRay/2LP Box Set

Doveva uscire nel 2018 in una edizione finanziata con il crowfunding e gestita da Pledge Music: poi la piattaforma ha avuto vari problemi finanziari e alla fine ne è stato annunciato il fallimento, con grande scorno di tutti coloro che avevano pagato anticipatamente per avere il Box. Dopo qualche mese di incertezza è intervenuto direttamente il sito di Yusuf/Cat Stevens che ha annunciato, in accordo con la casa discografica, che il progetto sarebbe stato portato a termine e chi aveva ordinato il cofanetto avrebbe ricevuto la Superdeluxe Edition. A questo punto si era arrivati alla fine del 2019 e tutti coloro che avevano aderito hanno ricevuto una mail in cui veniva annunciato che al più presto possibile sarebbero stati evasi tutti gli ordini in sospeso. E a dimostrazione della buona volontà il 25 ottobre dello scorso anno è stata pubblicata la ristampa rimasterizzata di Back To Earth in versione singolo CD o LP. Poi, mentre veniva annunciata per il 10 aprile l’uscita del cofanetto, è scoppiata la pandemia e l’uscita del box era stata rinviata a data da destinarsi, verso la fine del 2020: però, a sorpresa, in quel periodo è stata spedita a tutti coloro che avevano effettuato il crowfunding l’edizione speciale per i sottoscrittori, che in più rispetto a quella che verrà rilasciata sul mercato aveva un T-Shirt speciale, un 45 giri e un certìficato di garanzia.

Per la serie “meglio tardi che mai” ecco finalmente tra le mie mani la pluririmandata edizione Super Deluxe di Back To Earth, album del 1978 di Cat Stevens, un cofanetto le cui peripezie sono state esposte con estrema chiarezza qua sopra da Bruno. Vorrei solo aggiungere una personale considerazione sulla bizzarria che, come primo album al quale riservare tale trattamento, non sia stato scelto uno dei due capolavori del 1971 Tea For The Tillerman (del quale a settembre uscirà la versione reincisa ex novo) o Teaser And The Firecat, entrambi fermi alla ristampa “solo” doppia del 2008, ma bensì quello che per ben 28 anni rimarrà l’ultimo disco di musica “occidentale” del musicista britannico di origine greca. Anzi, se fosse stato per Stevens probabilmente Back To Earth non sarebbe neppure uscito, dato che all’epoca il nostro si era già convertito alla religione musulmana assumendo il nome di Yusuf Islam (oggi abbreviato in Yusuf per chiare regioni di marketing) ma per contratto doveva ancora un album alla Island, sua etichetta di allora. Al momento dell’uscita il disco fu anche criticato, ma secondo me ingiustamente: pur non essendo un capolavoro infatti Back To Earth segnava fin dal titolo un ritorno di Cat alle atmosfere semi-acustiche di inizio decade, con una qualità media di canzoni superiore alle sue ultime pubbllicazioni, una boccata d’aria fresca dopo il pasticciato Isitzo dell’anno prima ma anche meglio sia di Buddha And The Chocolate Box e Numbers e forse anche dell’ambizioso Foreigner (in poche parole, il migliore da Catch Bull At Four del 1972).

Peccato che per sentire di nuovo la voce del songwriter inglese su un disco non a carattere islamico bisognerà poi aspettare fino al 2006. L’album segnava anche il ritorno alla produzione dopo quattro anni d’assenza di Paul Samwell-Smith, e vedeva Stevens a capo di una solida band guidata come sempre dal chitarrista Alun Davies, con nomi di spicco soprattutto tra i batteristi (Dave Mattacks, Gerry Conway e Steve Jordan) ed un uso più parco dei sintetizzatori rispetto alle ultime uscite. L’album presenta tre fra le migliori ballate del nostro, cioè la splendida Just Another Night e le toccanti Last Love Song e Never (due canzoni d’amore finito, interpretabili anche come un addio ai suoi fans), ma anche la pianistica Randy non è affatto male nonostante un lieve eccesso di zucchero. Non mancano brani più vivaci, come l’elettrica e roccata Bad Breaks e la pimpante ed orecchiabile New York Times; completano il quadro la tenue Daytime, la discreta funky ballad Father ed un paio di strumentali non imperdibili, The Artist e Nascimento. Il cofanetto appena uscito, molto ricco di contenuti (bellissimo il libro incluso, rilegato in velluto verde), presenta sul primo CD l’album originale con una nuova rimasterizzazione, mentre sul secondo troviamo lo stesso disco nel missaggio del 1978 (e, tanto per non ripetersi, anche il primo dei due vinili e la parte audio del BluRay presentano il medesimo lavoro).

Il terzo dischetto, intitolato Unearthed, è quello più interessante insieme al quinto, dal momento che presenta inediti ed altre chicche; l’apertura è riservata a due brani mai sentiti incisi all’epoca e poi lasciati da parte: Butterfly è una discreta ballata, leggermente mossa e caratterizzata da un’orchestrazione tipica di fine anni settanta, mentre è nettamente meglio Toy Heart, un folk-rock elettrificato nel classico stile gentile del nostro, con melodia ed accompagnamento decisamente belli (e mi chiedo perché non fosse finito sul disco originale). Ci sono poi due interessanti missaggi alternati di New York Times e Last Love Song, una godibile versione strumentale di Bad Brakes, una Nascimento diversa (non di molto) ed un bel demo di Just Another Night. Particolarmente gradita la presenza di quattro ottime ed ispirate riletture dal vivo di Daytime, Bad Brakes, Last Love Song e Just Another Night, tutte inedite e registrate in anni recenti, tra il 2009 ed il 2017. Il quarto CD presenta una selezione di brani da Alpha Omega (A Musical Revolution), un doppio album uscito nel 1979 ed accreditato al compositore ed arrangiatore David Gordon, che altri non è che il fratello di Cat (il quale produce il disco e compare come voce solista in un brano).

Un concept album di impianto teatrale, tipo musical, con alcune canzoni di buon livello ed altre meno riuscite, e diversi vocalist tra i quali, Cat a parte, l’unico un po’ famoso è David Essex. Lo stile in certi momenti può ricordare quello delle ballate dell’Alan Parsons Project, ed i pezzi migliori rispondono ai titoli di I Who Am I, I See That Face, Dreamer e World; discorso a parte per la splendida Child For A Day, una deliziosa ballata pianistica che è di gran lunga il brano migliore e che ovviamente è quella scelta da Stevens per sé stesso. E veniamo al quinto ed ultimo CD (il cui contenuto è replicato nel secondo LP e nella parte video del BluRay), che presenta la partecipazione di Stevens al concerto benefico per l’Unicef Year Of The Child tenutosi alla Wembley Arena di Londra il 22 novembre del 1979, una serata durante la quale Cat divideva il cartellone, tra gli altri, ancora con Essex, Gary Numan ed i Wishbone Ash.

Lo show è importante in quanto è l’ultimo che vede il nostro esibirsi come Cat Stevens, ed il suo ultimo concerto “rock” per quasi tre decadi. Otto canzoni splendide eseguite con accompagnamento elettroacustico ma senza batteria, che da sole valgono buona parte del prezzo richiesto per il cofanetto: Back To Earth è rappresentato solo dall’immancabile Just Another Night e da Daytime (quest’ultima in medley con la nota e bellissima Where Do The Children Play?), ma poi possiamo ascoltare eccellenti riprese di classici assoluti come The Wind, On The Road To Find Out e le mitiche Father And Son, Morning Has Broken e Peace Train; chiusura con una strepitosa rilettura di Child For A Day in compagnia di Essex e, soprattutto, Richard Thompson, che non faceva parte del cast della serata ma aveva voluto raggiungere lo stesso il nostro sul palco.

Un cofanetto che non posso definire imperdibile dal momento che celebra un disco che non fa parte degli album leggendari del passato (e poi non costa pochissimo), ma che offre una serie di contenuti aggiuntivi davvero interessanti e difficili da ignorare per i fans del “Gatto”.

Marco Verdi

Gli Piace Vincere Facile! Cat Stevens – The Laughing Apple

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Cat Stevens/Yusuf – The Laughing Apple – Cat-O-Log/Decca/Universal CD

So a cosa state pensando: che questo disco in realtà è accreditato a Yusuf, cioè lo pseudonimo che il cantautore inglese nato Steven Demetre Georgiou si scelse nel 1978 quando si convertì alla religione musulmana (il “cognome” Islam non viene mai menzionato per chiare ragioni di marketing), ma sfido chiunque a trovare anche un solo fan del nostro che non si riferisca a lui con il nome con il quale è diventato celebre, cioè Cat Stevens. Da quando il “Gatto” ha riposto il Corano e ripreso in mano la chitarra ha pubblicato tre album, nessuno dei quali va detto è all’altezza dei suoi capolavori degli anni settanta (ma forse meglio di Izitso sì), cioè il buon An Other Cup del 2006 ed i discreti Roadsinger (2009) e Tell’Em I’m Gone (2014); quest’anno cadono i cinquant’anni dal suo debutto (nel 1967 uscirono i suoi primi due lavori, Matthew & Son e New Masters), e Cat decide di celebrarli con The Laughing Apple. Il disco è infatti un omaggio sia ai suoi esordi, dai quali vengono riprese quattro canzoni (Blackness Of The Night, The Laughing Apple, Northern Wind e I’m So Sleepy, tutte tratte da New Masters), sia al suo periodo più classico, richiamato fin dalla copertina (che ricorda volutamente quelle dei celebri Tea For The Tillerman e Teaser And The Firecat), ma anche dagli arrangiamenti semplici e folk, in contrasto con il suono dei suoi primi due album che erano di genere pop con orchestrazioni un po’ ridondanti, anche se contenevano classici assoluti come Matthew And Son, Here Comes My Baby e The First Cut Is The Deepest.

E per completare il richiamo al passato, Cat ha richiamato il produttore dei suoi dischi migliori, cioè Paul Samwell-Smith (già membro fondatore degli Yardbirds) ed anche il suo chitarrista preferito, Alun Davies (completano il ristretto gruppo di musicisti l’ex bassista dei Fairport Convention, Maartin Allcock, ed il batterista ghanese Kwame Yeboah). The Laughing Apple è quindi un disco volutamente nostalgico, autocitazionista, al limite del ruffiano (da qui il titolo del post), ma anche il miglior album di Cat/Yusuf da quando ha ripreso a fare musica, ispirato e suonato con forza: se non fosse per la voce leggermente invecchiata (ma non più di tanto), sembrerebbe quasi di avere tra le mani un disco inedito dell’epoca, risalente magari al periodo tra Catch Bull At Four e Foreigner: Il CD si apre con la nuova versione di Blackness Of The Night, la più nota tra le quattro canzoni riprese: sempre splendida, più lenta e con un arrangiamento leggero e sobrio, che mette in primo piano la melodia, accompagnata solo dalla chitarra, la sezione ritmica ed una spolverata di organo. Forse meglio dell’originale. See What Love Did To Me è vivace e solare, la chitarra è suonata con molta forza ed a metà canzone spunta un intermezzo orientaleggiante; la title track ha un’atmosfera quasi rinascimentale, un motivo decisamente evocativo ed anche qui un’interessante fusione con la musica araba, mentre la delicata Olive Hill è una filastrocca dal sapore folk, chiudete gli occhi e vi sembrerà di tornare indietro di più di quarant’anni (anche se il brano è nuovo).

Forse nei seventies Stevens non avrebbe intitolato una canzone Grandsons, ma l’unica cosa che la distingue da quel periodo sono giusto il titolo ed il testo, dato che il resto mantiene lo stesso sapore, con in più un leggero quanto suggestivo intervento orchestrale. Mighty Peace è un brano scritto all’epoca della colonna sonora di Harold & Maude ma mai inciso, ed è la quintessenza del classico suono del nostro, un piano, due chitarre, un basso e la voce profonda del Gatto; con Mary And The Little Lamb Stevens prende spunto dalla nota canzone popolare per scrivere un bellissimo pezzo nel quale per l’occasione Davies imbraccia una chitarra elettrica dal suono jingle-jangle e l’orchestra commenta ancora con estrema finezza: una delle più riuscite del lavoro. La saltellante e parzialmente elettrica You Can Do (Whatever), ancora molto gradevole, precede Northern Wind, più cupa delle altre, anche se di una cupezza all’acqua di rose. Il CD termina con le tenui Don’t Blame Them e I’m So Sleepy, la prima nuova e l’altra antica, ma legate insieme dal suono classico e folkeggiante. Ho qualche dubbio che Cat Stevens abbia ancora nelle sue corde un grande disco sui livelli della prima metà degli anni settanta, ma è indubbio che The Laughing Apple è finora il miglior lavoro della sua “seconda” carriera di cantautore.

Marco Verdi

Anche Per Loro Son 50 (O Quasi)! Yarbirds – Making Tracks Live On Tour 2010-2011

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Yardbirds – Making Tracks On Tour 2010-2011 – Wienerworld

Quando il gruppo inglese iniziò a muovere i primi passi nella scena musicale londinese correva la primavera del 1963, quindi anche per gli Yardbirds quest’anno si festeggia il 50° Anniversario (con varie interruzioni nel corso degli anni)! Della formazione originale facevano parte il cantante ed armonicista Keith Relf (che poi con la sorella Jane avrebbe fondato i Renaissance e in seguitol’ottima hard rock band degli Armageddon), il bassista Paul Samwell-Smith (che negli anni ‘70 avrebbe prodotto i dischi più belli di Cat Stevens), il chitarrista ritmico e bassista Chris Dreja e il batterista Jim McCarty. Questi ultimi sono presenti nella registrazione live di questo CD (che esiste anche come doppio DVD, con un dischetto aggiunto in forma di documentario http://www.youtube.com/watch?v=hw2yNS1SKFU): nel frattempo, per motivi di salute, Dreja è stato rimpiazzato dal chitarrista originale Top Topham.

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Già i chitarristi degli Yardbirds! Nell’ottobre del 1963 arriva Eric Clapton, quando se ne va arriva Jeff Beck  http://www.youtube.com/watch?v=aZELHPTIIiE, per un breve periodo suonano insieme Beck e Jimmy Page (amici e nemici), che poi porterà la band da New Yardbirds a trasformarsi in Led Zeppelin. Quindi i tre più grandi chitarristi di rock e blues inglesi sono passati per questo gruppo, e pertanto se non avete nulla della band vi consiglierei di rimediare con alcuni degli album fondamentali di quegli anni, Five Live, l’unico con Clapton, i tre con Jeff Beck,  Having A Rave Up, Yardbirds conosciuto anche Roger the Engineer e Over Under Sideways Down, rigorosamente nelle versioni americane che contenevano anche i singoli, per finire con Little Games, l’unico con Page. Aggiungendo anche For Your Love, il primo disco uscito per la Epic Usa che conteneva anche Five Live, oltre ai singoli dell’epoca, per non parlare del mitico disco dal vivo Yardbirds Live, che ha circolato agli inizi come bootleg o counterfeit dopo essere stato ritirato dalla vendita quasi immediatamente e il disco registrato in coppia con Sonny Boy Williamson durante il suo tour inglese del 1963.

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A parte quello del vivo, che circola sempre in edizioni più o meno ufficiali, gli altri li trovate in CD su Repertoire, in edizioni rimasterizzate e con bonus aggiunte. Oppure anche il favoloso box Glimpses. Come dite, li avete già tutti? Ah, perbacco, allora posso consigliarvi tranquillamente questo Making Tracks, che non è per nulla malaccio, per gli altri meglio partire dalle origini. Il gruppo è stato una delle formazioni più influenti sulla scena musicale americana rock degli anni a venire, il (rock)blues, la psichedelia, la chitarra distorta e lavorata dei seguaci di Beck, gli Aerosmith degli inizi (che facevano una The Train Kept A-Rollin’ strepitosa) http://www.youtube.com/watch?v=_hhnv2qb-i0 vengono tutti da qui, per non parlare dei Led Zeppelin, dei quali Dazed and Confused nasceva come brano nei concerti del 1968. E in questo Making Tracks c’è tutto, non lasciatevi ingannare da altre operazioni nostalgia (anche degli Yardbirds stessi in precedenza), qui siamo di fronte ad un disco dal vivo grintoso e brillante, ben suonato, Andy Mitchell è un cantante di tutto rispetto e un buon armonicista, nella migliore tradizione del British Blues, Ben King è un chitarrista di ottimo valore (anche se quei tre…), in grado di spaziare anche alla slide e al wah-wah, fornendo soli tecnicamente ineccepibili, bene anche la ritmica di Dave Smale con il “vecchio” Jim McCarty (da non confondere con l’omonimo chitarrista americano di Cactus e Detroit Wheels) che quei brani li conosce a memoria.

Eh sì perché le canzoni sono formidabili: Tinker Tailor Soldier Sailor, Lost Woman, uno dei cavalli di battaglia di Beck ( e della James Gang di Joe Walsh che ne faceva una versione formidabile nel disco In Concert), Heart Full Of Soul, Shapes Of Things, The Nazz Are Blue, il bluesone Five Long Years http://www.youtube.com/watch?v=4L2h4bam3-w e poi, nella parte finale del concerto, Over Under Sideways Down, Smokestack Lightning, For Your Love, Happenings Ten Years Time Ago. Fortunamente non sono quei concerti dove il gruppo annuncia “e ora i nostri nuovi brani!”, ma ci sono tutti i classici (oltre a qualche rarità di pregio), quasi fossero una cover band di sé stessi, e lo fanno molto bene. Si finisce con due strepitose tracce, una Dazed and Confused dove Mitchell e King danno il meglio e una poderosa I’m A Man dall’incedere irresistibile http://www.youtube.com/watch?v=a7MaV60K_xY. Non saranno gli “originali” (adesso ci sono anche gli Strypes),  ma neppure una delle moltissime”fregature” in circolazione: se amate il genere, acquistate con fiducia.

Bruno Conti