La “Cura Ray Davies” Ha Fatto Loro Molto Bene! The Jayhawks – Back Roads And Abandoned Motels

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The Jayhawks – Back Roads And Abandoned Motels – Sony Legacy CD

C’è stato un momento all’inizio degli anni novanta, coinciso con la pubblicazione del capolavoro Hollywood Town Hall (per chi scrive uno dei dieci dischi più belli della decade) e del bellissimo Tomorrow The Green Grass, in cui i Jayhawks erano probabilmente la miglior band di roots-rock e Americana in circolazione. In seguito all’uscita dal gruppo da parte di Mark Olson per contrasti con l’altro leader Gary Louris (che non conosco personalmente ma non mi dà l’idea di essere quella gran simpatia), il gruppo si è spostato poco per volta verso territori più pop con due album, Sound Of Lies e Smile, che non erano neanche lontani parenti dei loro predecessori, né dal punto di vista del suono né da quello delle canzoni. Nel nuovo millennio i nostri hanno poi pubblicato il discreto Rainy Day Music, che si riavvicinava parzialmente alle atmosfere degli esordi, e soprattutto (dopo otto anni di assenza in cui i vari membri si erano dedicati ad altri progetti) l’ottimo Mockingbird Time, nel quale miracolosamente Olson faceva ritorno all’ovile, anche se la pace tra i due leader era più fragile di quella in Medio Oriente, ed infatti Paging Mr. Proust del 2016 vedeva di nuovo Louris da solo al comando https://discoclub.myblog.it/2016/04/26/anche-senza-marc-olson-sempre-quasi-paging-mr-proust/  (ed il disco ne risentiva, in quanto era inferiore al precedente, ma a mio parere anche a Rainy Day Music).

Recensendo di recente il secondo volume della saga Americana di Ray Davies (registrato come il primo episodio proprio con i Jayhawks come backing band https://discoclub.myblog.it/2018/07/07/un-secondo-capitolo-degno-del-primo-ray-davies-our-country-americana-act-ii/ ), avevo auspicato che la vicinanza dell’ex Kinks fosse stata di stimolo e di ispirazione per il quintetto originario di Minneapolis, ma pure con tutto l’ottimismo possibile non avrei mai pensato ad un risultato finale del livello di Back Roads And Abandoned Motels. C’è da dire che Louris e compagni (Marc Pearlman, Tim O’Reagan, Karen Grotberg e John Jackson) non hanno dovuto faticare molto per trovare le canzoni, in quanto hanno deciso di rivolgersi a brani scritti da Louris stesso insieme a musicisti più o meno noti, e già incisi nel recente passato da altri gruppi o solisti, come d’altronde il (bel) titolo del CD lascia intuire (una curiosità: la splendida foto di copertina deriva da uno scatto del noto regista Wim Wenders. Ho detto” noto” e non “grande”, che è l’aggettivo che viene più sovente associato al suo nome, in quanto ho sempre considerato il cineasta tedesco decisamente sopravvalutato, ed autore di pellicole snob, elitarie e di difficile assimilazione. Il vero erede di Antonioni, e non è un complimento. Fine dell’angolo del cinema). In Back Road And Abandoned Motels trovano posto quindi brani originariamente incisi da (e scritti con) Dixie Chicks, Natalie Maines solista, Jakob Dylan, Carrie Rodriguez, Ari Hest e Scott Thomas, oltre ad un pezzo creato in collaborazione con Emerson Hart ed uno con i Wild Feathers, entrambi però mai incisi; proprio alla fine del disco poi le uniche due canzoni nuove di zecca, nate questa volta dalla penna del solo Louris.

Ma ciò che colpisce maggiormente in questo disco è la bellezza della musica, la perfezione del suono e la perizia delle armonie vocali (da sempre un fiore all’occhiello della band), un cocktail irresistibile che dà vita al miglior disco dei Jayhawks da moltissimi anni a questa parte, superiore forse anche a Mockingbird Time, e di sicuro il loro miglior lavoro tra quelli senza Olson: quindi la risposta finale è sì, la vicinanza di Ray Davies ha fatto benissimo ai nostri. Come Cryin’ To Me, che vede per la prima volta la Grotberg voce solista su un album dei Jayhawks (mentre con Davies aveva già duettato) è una rock song cadenzata e deliziosa, dalla melodia fluida, un bell’uso del piano elettrico da parte della stessa Karen, un refrain decisamente immediato ed una sezione fiati ad impreziosire il suono, che ha anche elementi riconducibili a Tom Petty. Everybody Knows è persino meglio, un brano folk-rock splendido, dal motivo terso ed immediatamente fruibile, che rimanda ai primi dischi del gruppo, anzi mi spingo a dire che anche in Hollywood Town Hall avrebbe fatto la sua porca figura: una meraviglia. Gonna Be A Darkness, scritta con Dylan Jr., è una ballata davvero intensa, guidata da piano e mandolino, dotata di una lunga introduzione strumentale ed affidata alla voce di O’Reagan, altro pezzo di livello notevole.

Bitter End è un altro bellissimo slow di chiaro stampo roots, che conferma che questo disco ci fa ritrovare i Jayhawks che amiamo di più, ed in “forma Champions”: particolarmente squisite le armonie vocali in questo brano. Con Backwards Women i nostri ci regalano un country-rock dal ritmo spedito e dall’impasto vocale eccellente, oltre ad un uso ottimo del pianoforte ed il consueto refrain di prim’ordine. La tenue Long Time Ago è un lentaccio elettroacustico dal sapore bucolico e con un retrogusto pop, che conferma che Louris e soci sono anche dei beatlesiani https://www.youtube.com/watch?v=fImUho4Ahec ; Need You Tonight, ancora con O’Reagan alla voce solista, doppiato dalla Grotberg, è un folk di stampo cantautorale con Gram Parsons come influenza principale (ottimo al solito il piano), mentre El Dorado, cantata ancora da Karen, è suonata in maniera impeccabile ma le manca qualcosina per essere al livello delle precedenti, ed il suono è più pop e meno roots. La delicata Bird Never Flies, contraddistinta da un bellissimo fingerpicking, è una folk song in purezza che precede i due brani nuovi: la liquida ballata pianistica Carry You To Safety, bella e dal suono molto classico, e l’emozionante Leaving Detroit, davvero raffinata e con i soliti cori da brivido. Back Roads And Abandoned Motels è uno dei migliori dischi di quest’anno, e devo dire che prima di ascoltarlo non ci avrei scommesso più di tanto.

Marco Verdi

Dal Vivo Sono Veramente Bravi! Wild Feathers – Live At The Ryman

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The Wild Feathers  – Live At The Ryman – 2 CD Warner/Maverick               

Al primo album, quello omonimo del 2013, non dico che avevo gridato al miracolo http://discoclub.myblog.it/2013/09/15/ho-visto-il-futuro-del-rock-n-roll-e-il-suo-nome-e-the-wild/ , ma mi erano parsi una delle nuove band più fresche ed eccitanti in circolazione, tra quelle che meglio di altre erano state in grado di mischiare il rock classico, con ampie spruzzate country, echi di Stones, Allman, Jayhawks, Ryan Adams, Tom Petty, anche gli Avett Brothers, poi con il secondo album, Lonely Is A Liifetime, prodotto sempre da Joy Joyce, l’asticella del suono si era spostata in parte verso un approccio più bombastico, commerciale, fatto in serie, simile ai passi falsi recenti di formazioni tipo Mumford And Sons, The Head And The Heart (sempre con Joyce dietro la consolle), pur mantenendo comunque alcune caratteristiche del proprio sound, tipo l’approccio R&R, le belle armonie vocali e una capacità di scrivere brani dalle melodie consistenti http://discoclub.myblog.it/2016/05/26/presente-passato-del-rock-and-roll-the-wild-feathers-lonely-is-lifetime/ . Quindi li attendevo con curiosità alla prova del doppio dal vivo, prova quasi infallibile per un artista o una band che vuole dimostrate le proprie qualità e la capacità di stare su un palco (dico quasi, perché per esempio di recente i NEEDTOBREATHE, che nel 2015 avevano pubblicato un ottimo doppio Live From The Woods, lo hanno seguito con una tavanata galattica come il recente Hard Love http://discoclub.myblog.it/2016/11/08/invece-veramente-brutto-needtobreathe-hard-love/ ).

Ma questo rimane nel futuro,  concentriamoci sul presente, ovvero questo doppio CD dal vivo, registrato in uno dei templi riconosciuti e deputati della country music, il mitico Ryman Theatre di Nashvile, che negli ultimi anni ospita spesso anche formazioni rock. Il quartetto texano si presenta sul palco con una ampia selezioni di brani tratti dai due dischi precedenti, diciassette canzoni in tutto: l’apertura è affidata ad una splendida Help Me Out, tratta del recente Lonely Is A Lifetime, con i loro eccellenti incroci vocali, sia a livello armonie, sia delle diverse voci soliste che si intrecciano, mentre il jingle jangle e gli assoli ripetuti delle chitarre fanno dimenticare l’arrangiamento pomposo del disco di studio. Overnight, il brano di apertura del secondo album, ricordava molto il sound dei Jayhawks, e nella dimensione live conferma la sua validità, riff e ritmi coinvolgenti, grande country-rock della vecchia scuola, anche un approccio “antemico”, ma nella migliore accezione del termine, guitar music della più bell’acqua, e pure Backwoods Company, dal primo album,a livello riff non scherza, una via dei mezzo tra Petty e gli Allman, grinta e sostanza. If You Don’t Love è la prima pausa di riflessione nel concerto, una pop ballad molto raffinata, che ricorda i primi U2, mossa e con un ritornello facile da ricordare, seguita da Don’t Ask Me To Change, sempre ricca di sfumature pop-rock di gran classe, mentre Got It Wrong è un’altra tipica canzone del loro repertorio, “cantabile” e con un approccio avvolgente e assai godibile, con i soliti controcanti corali di grande effetto.

Hard Times è uno dei brani oltre i sei minuti dove la band mostra il proprio spirito più R&R, con chitarre e tastiere in libertà, in continuo crescendo, e questi suonano, ragazzi. Sleepers è un altro dei pezzi del secondo album che viene liberato da quel “big sound” fasullo a favore di una maggiore freschezza, poi gli oltre otto minuti di Goodbye Sound, uno dei pezzi migliori dell’ultimo disco, come dicevo nella recensione del CD mi ricorda le cose migliori di Blue Rodeo o Jayhawks, intrecci di chitarre e tastiere, oltre alle voci che armonizzano in modo perfetto, una pedal steel aggiunta e una gran coda strumentale a chiudere il cerchio. Molto piacevoli e consistenti anche Into The Sun e Happy Again, soprattutto la seconda, veramente tirata e con un gran riff; per non parlare di Left My Woman un’altra delle loro classiche ballate elettroacustiche in crescendo.. E siamo solo al terzo brano del secondo CD, a questo punto tocca a American, altro notevole brano dal flavor anni ’70, con chitarre e ritmiche galoppanti quasi stonesiane, poi a Lonely Is A Lifetime, un pezzo solo voci e chitarre acustiche, prima del gran finale che si apre con How, un altro dei brani dell’ultimo album che cresce nella vibrante versione Live, come pure la splendida The Ceiling in una versione monstre di oltre sette minuti, con chitarre e voci che girano a mille, prima di congedarci con la poderosa Hard Wind, altro brano R&R ricco di sostanza ed energia. Per il momento basta e avanza, dal vivo sono veramente bravi, per il futuro vedremo!

Bruno Conti

Tra Presente E Passato Del Rock And Roll! The Wild Feathers – Lonely Is A Lifetime

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The Wild Feathers – Lonely Is A Lifetime – Warner Bros

Parlando del precedente omonimo album dei Wild Feathers http://discoclub.myblog.it/2013/09/15/ho-visto-il-futuro-del-rock-n-roll-e-il-suo-nome-e-the-wild/ , uscito tre anni fa nel 2013, scherzando, ma non troppo, avevo parlato di futuro e presente del R&R optando poi per un salomonico: “ho visto una band tra presente e passato del rock and roll, si chiamano le Piume Selvagge”! E per quel album, grazie alla sua fusione di suoni che ricordavano, senza essere troppo pedissequi, gente come Allman Brothers, Tom Petty, la Band, Jayhawks, Stones, Neil Young e molti altri, ci stava. Perché poi il sound era fresco e piacevole, gli intrecci vocali riusciti, anche grazie alla brillante produzione di Jay Joyce  e quindi il tutto, senza sfiorare il plagio diretto, aveva una piacevole sensazione di déja vu, o già sentito. Ma poi l’album ha faticato ad arrivare nei primi 100 posti delle classifiche di Billboard, non riuscendoci, e la band (texana, ma di stanza a Nashville), incidendo per una major come la Warner e dovendo affrontare “il difficile secondo album” ha ceduto un po’ al compromesso, schiacciando in alcuni brani il pedale su un mix di suoni più aggressivi, quell’insieme più “bombastico” da alternative-indie rock da classifica che impera sul mercato americano, e il produttore Joyce, che nel primo album era stato meno “commerciale”, ha indugiato troppo in sonorità più cariche di tastiere, tipo l’ultimo Zac Brown Band, Carrie Underwood o Eric Church, che sono stati i suoi ultimi clienti.

Poi i nostri amici, in particolare Ricky Young, Taylor Burns e Joel King, che scrivono tutti i brani, e si alternano come voci soliste e armonizzano spesso anche insieme, con gusto e classe, sono comunque freschi e vivaci, e brani come l’iniziale Overnight, sono piacevolissimi e coinvolgenti, con un risultato che ricorda quello appunto dei Jayhawks più scanzonati o di gente come Toad The Wet Sprocket, Band Of Horses, Delta Spirit, i primi Kings Of Leon (ma a tratti anche gli ultimi), persino gli Avett Brothers più elettrici, i continui rilanci e soli di chitarre elettriche nel brano, sono, beh, “elettrizzanti”! Sleepers è già più “lavorata”, con quel big sound ricordato, tastiere avvolgenti, voci cariche di eco ed effetti, tipo anche gli ultimi Mumford And Sons, come pretende l’industria discografica, musica da macchina o da ascoltare sull’Ipod (se lo avete), ma che mantiene, a fatica, una sua certa dignità grazie agli ottimi intrecci vocali del gruppo, che non è uno di quelli creati a tavolino nei talent show. La lunghissima Goodbye Song, oltre 8 minuti, risolleva le sorti, con una bella intro di organo e chitarre acustiche, su cui si inserisce una pedal steel avvolgente, suonata da Preston Wimberly, un pezzo che ricorda le migliori cose, di nuovo, dei già citati Jayhawks, grazie all’eccellente lavoro vocale dei membri della band, e ai continui e ficcanti inserti chitarristici che hanno addirittura un retrogusto alla David Gilmour nella lunga parte strumentale, veramente bella, che ricorda pure i migliori Blue Rodeo.

Don’t Ask Me To Change, sempre godibile e frizzante, è più melodica e con inserti pop, ma di quello di buona grana, anche se a momenti si affacciano gli U2 o i Kings Of Leon più commerciali, ma c’è molto di peggio in giro, e comunque le chitarre sono sempre presenti a rivitalizzare le canzoni. Nell’alternanza tra brani più commerciali e pezzi più rock, Happy Again appartiene alla seconda categoria, un bel groove tirato, le solite chitarre che viaggiano e quell’aria country-rock, con rimandi a Petty, Ryan Adams e alla buona musica americana in generale. Niente male anche Leave Your Light On, sempre grintosa e “riffata”, per quanto con quei tocchi commerciali che rischiano di rovinare il tiro poderoso del sound, mentre la corale Help Me Out soccombe in parte al big sound più volte evocato, con la batteria che scandisce fin troppo il tempo, con la title-track, la dolce Lonely Is A Lifetime, solo voci e chitarre acustiche, che è un’oasi di tranquillità nei ritmi rock dell’album. Molto piacevole anche On My Way, sempre con quel suono a tratti troppo carico e forse più “omologato” rispetto al disco precedente. Gli ultimi due brani, Into The Sun, non brutta ma sentita mille volte e Hallelujah, con batteria e tastiere elettroniche ad affiancare una solitaria chitarra acustica, molto di maniera nel suo andamento pop, frenano gli slanci rockistici del resto dell’album. Diciamo promossi, ma con riserva: al di là del proclama “This Is Rock and Roll” con cui vengono pompati sul mercato americano!

Bruno Conti