Una Strana Accoppiata, Anche Il Soggetto, Ma Funziona. Nona Hendrix & Gary Lucas – The World Of Captain Beefheart

nona hendryx & gary lucas the world of captain beefheart

Nona Hendrix & Gary Lucas – The World Of Captain Beefheart – Knitting Factory

Una volta ricordo che la terminologia The World Of veniva usata dalla Decca per le loro antologie economiche, poi mi pare sia stata utilizzata da Morrissey per il titolo di un suo album, ma non è un titolo che ricorre spesso. Ora il chitarrista Gary Lucas lo ha ripescato per questo The World Of Captain Beefheart, un sentito tributo al suo datore di lavoro Don Van Vliet, per il quale Lucas ha suonato negli anni ’80, apparendo come membro della Magic Band nei due ultimi dischi pubblicati dal Capitano, Doc At The Radar Station e Ice Cream For Cow, oltre agli ultimi tour di Beefheart prima del ritiro. Poi Gary Lucas ha iniziato una carriera solista durante la quale ha pubblicato una valanga di album, sempre più o meno ai margini dell’industria discografica, e abbastanza “alternativi” sia come sound che come genere musicale. Ma anche una serie di interessanti collaborazioni, la più nota delle quali è sicuramente quella con Jeff Buckley, di cui Lucas è stato una sorta di mentore nei primi anni, come pure con Peter Hammill, altro artista non facile.

Lucas è stato spesso osannato dalla critica musicale come uno dei migliori chitarristi americani, diciamo di quelli di ambientazione sonora “ostica”, vogliamo dire di avanguardia? Ma ha anche pubblicato o suonato in dischi più fruibili, raramente: questo The World Of Captain Beefheart, stranamente, appartiene, all’incirca, a questa categoria. Intanto la sua compagna di avventura, Nona Hendryx – già nelle Labelle, e poi nel giro Talking Heads del periodo “funky” anni ’80, nonché autrice di alcuni discreti dischi di soul e pop sempre in quell’epoca, scomparsa dalle scene e poi riapparsa nel 2012 con Mutatits Mutandis, un buon disco uscito per l’etichetta di Ani Di Franco – è vocalist di pregio, in possesso di una voce sinuosa ed espressiva, in grado di convogliare, anche a 73 anni suonati, la “diversità” della musica di Beefheart, ma pure l’afflato blues e soul con cui è stata realizzata questa opera, poi Lucas ha saputo tenere a freno le sue spinte più estreme, per rendere omaggio all’opera di Van Vliet, che non era solo il musicista ostico di Trout Mask Replica, ma ha registrato anche diversi album dove spesso il blues era la principale fonte di ispirazione, e genere molto amato dal nostro, come pure dal suo amico Frank Zappa. Nel disco suonano Jess Krakow al basso, che è anche il co-produttore del CD, Richard Dworkin alla batteria e Jordan Shapiro alle tastiere, i primi due con Lucas nei Fast’n’Bulbous e l’ultimo in una tribute band di Zappa, quindi conoscitori dell’argomento: Sun Zoom Spark, tratta da Clear Spot, ha addirittura qualcosa di hendrixiano (di cui Nona Hendryx ha dichiarato essere lontana cugina), comunque un funky-blues furioso con ampio uso di slide, mentre la successiva My Head Is My Only House Unless It Rains, sempre dallo stesso album, è una splendida ballata soul, con tanto di coretti d’epoca, molto tradizionale ma suonata veramente bene.

Sure ‘Nuff ‘N Yes I Do (da Safe As Milk) è un altro blues potente tagliato in due da una slide veramente tangenziale, con I’m Glad (ancora da Safe) che sembra un pezzo delle Labelle quando accompagnavano Laura Nyro nel suo periodo soul, comunque altra ballata bellissima e coinvolgente, con un assolo di organo alla Billy Preston, The Smithsonian Institute Blues (Or The Big Dig) (da Lick My Decals Off, Baby), che per dirla come il Sacchi di Mai Dire Gol, “è un po’ ostica e anche agnostica”, con ritmi complessi zappiani, sempre graditi, e l’uso tipico del vibrafono, oltre alla chitarra pungente di Lucas sempre in modalità slide. Her Eyes Are A Blue Million Miles, titoli sempre evocativi, viene ancora da Clear Spot, uno degli album più saccheggiati, ed  è una sorta di gospel-soul molto futuribile, con un pianino affascinante, Suction Prints è uno strumentale che era su Shiny Beast, uno dei dischi più recenti, e qui Gary Lucas e la band si scatenano su ritmi vorticosi, poi mediati in un blues più “convenzionale”, si fa per dire, visto che viene da Trout Mask Replica, come Sugar ‘N Spikes. Ancora follia sonora nella sperimentale When Big Joan Sets Up, pure questa tratta da “Replica”, prima di tornare al soul nella delicata e deliziosa Too Much Time, ancora con retrogusti gospel e poi alla complessa When It Blows Its Stacks da The Spotlight Kid, altro limpido esempio del blues angolare e “strano” del miglior Captain Beefheart, con Lucas eccellente alla solista e la Hendryx sua degna compare alla voce. In chiusura un po’ di funky eccentrico in una mossa Tropical Hot Dog Night, ancora da Shiny Beast https://www.youtube.com/watch?v=WQXy3a5ZLgc . Grande musica senza tempo e un bel tributo inatteso..

Bruno Conti

Catalogare Sotto Jam Band, Ma Di Quelle Anomale. ALO – Tangle Of Time

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ALO – Tangle Of Time – Brushfire/Universal Records 

Gli ALO (Animal Liberation Orchestra) sono una jam band anomala, fin dalla discografia: secondo alcuni questo è il nono album di studio della band (più una quantità incredibile di EP e alcune antologie e Live), contando anche i primi titoli pubblicati nel periodo “indipendente” del gruppo californiano e forse conteggiando per due volte Fly Between Falls, uscito prima per la loro etichetta Lagmusic Records e poi ristampato, con aggiunte, dalla Brushfire di Jack Johnson. Proprio con il compagno di etichetta e corregionale californiano, gli ALO condividono la passione per un rock piacevole, solare, con melodie scorrevoli, a tratti influenzate dalla musica caraibica, ma anche dal country e quella patina da jam band, che li avvicina ai Phish più leggeri, agli String Cheese Incident, i primi Rusted Root, ma anche la musica dei cantautori westcoastiani più disincantati e dallo spirito blue-eyed soul. L’attitudine jam viene estrinsecata soprattutto dal vivo, ma anche nei dischi in studio, a turno, i vari musicisti: Zach Gill, leader indiscusso, tastierista, ma pure a banjo, ukulele, fisarmonica (e una pletora di altri strumenti), Dan Lebowitz, alle prese con tutti i tipi di chitarra, e la sezione ritmica di Steve Adams e Dave Brogan, che oltre ai loro strumenti, basso e batteria, sono impegnati parimenti con tastiere e percussioni inusuali, tutti costoro si prendono i loro spazi di improvvisazione, all’interno di canzoni che però raramente superano i cinque minuti di durata, in questo Tangle Of Time, solo tre pezzi, Simple Times, Coast To Coast e The Fire I Kept, superano di poco quel limite.

Però l’idea è quella: per esempio The Ticket, la più lunga, con le sue chitarrine choppate e i suoi ritmi ha un qualcosa del Paul Simon “sudafricano”, ma anche del pop più commerciale dei Vampire Weeekend, raffinato e da classifica, con ampi strati di tastiere, piacevoli melodie e tratti di light funky, per esempio nell’uso di piano elettrico, synth e chitarre “trattate”, nella lunga coda strumentale che potrebbe ricordare anche i Talking Heads più leggeri. Altrove, per esempio in Coast To Coast, firmata dal batterista Dave Brogan, sembra di ascoltare gli Steely Dan anni ’70 o lo Stevie Winwood più scanzonato, mentre nell’iniziale There Was A Time fa capolino quel sound caraibico evocato prima, miscelato con sprazzi di musica della Louisiana, grazie alla fisa di Zach Gill che poi lascia spazio pure alla chitarra di Lebowitz che ci regala ficcanti e limpidi licks di stampo californiano, per poi salire al proscenio in Push, il brano che porta la sua firma e che è un brillante pop-rock dal suono avvolgente, grazie anche alle raffinate armonie vocali del gruppo.

Not Old Yet del bassista Steve Adams, che se la canta, è un’altra confezione sonora ben arrangiata, vagamente bluesy e sudista e Sugar On Your Tongue, sempre con l’accordion di Gill in evidenza, mescola leggeri sapori e tempi zydeco con solari armonie da cantautore alla Jimmy Buffett e spruzzate di chitarra che possono ricordare i Grateful Dead o i Phish di studio, quelli più rifiniti e meno improvvisati, per quanto…Non manca la ballata romantica, molto sunny California, come nel caso di Simple Times, dove si apprezza la bella voce di Zach Gill, che non fa rimpiangere certe cose degli Eagles o del James Taylor di metà carriera, con un pianino insinuante che guida le danze e una pedal steel che si “lamenta” sullo sfondo. Keep On, di nuovo di Adams, è molto leggerina e vagamente danzereccia e trascurabile, con Undertow che viaggia su un blue-eyed soul scuola Boz Scaggs, Marc Jordan, Bill LaBounty, Robbie Dupree, lo stesso Donald Fagen, “pigro” e raffinato, mentre A Fire I Kept è una ulteriore variazione su questi temi musicali, giocati in punta di strumenti, forse poca sostanza ma notevole classe ed eleganza formale. Chiude la breve, acustica e sognante Strange Days, altra confezione sonora apprezzabile per la sua complessità, tra dobro e tastiere che ben si amalgamano con il resto della strumentazione e che piacerà agli amanti del pop e del rock più raffinato, come peraltro tutto il resto del disco.

Bruno Conti    

Tra Le Migliori Jam Band In Circolazione. The String Cheese Incident – Song In My Head

string cheese incident song in my head

The String Cheese Incident – Song In My Head – SCI Fidelity Records

Si tratta del primo disco in studio da nove anni a questa parte, solo il quinto della loro discografia (live e collaborazioni a parte), esce per festeggiare il 20° Anniversario di attività degli String Cheese Incident ed è prodotto da Jerry Harrison, si proprio lui, quello dei Talking Heads! Elaboriamo partendo da questi dati. Dieci brani nuovi, o almeno mai registrati in studio in precedenza, visto che parecchi erano già stati testati in concerto in questi ultimi dieci anni. I nomi principali della band, per fortuna, sono i soliti: Bill Nershi, il leader, chitarrista e cantante, Michael Kang, mandolino, violino, chitarra e anche lui vocalist, Kyle Hollingsworth, alle tastiere (come vedremo molto presenti in questo disco) e al canto, sezione ritmica con Keith Moseley al basso, e all’armonica quando serve nei brani country, Michael Travis, batteria e Jason Hann alle percussioni, ospite al banjo Chris Pandolfi.

Globalmente formano una delle migliori Jam bands presenti sul territorio americano. Diciamo che in questa ultima decade Jerry Harrison non si è dannato l’anima con il suo lavoro di produttore: ricordiamo l’album dei Rides lo scorso anno, i vari dischi di Kenny Wayne Shepherd antecedenti all’ultimo e il mega successo dei Lumineers, ma in questo disco si sente la sua impronta. In Song In My Head troviamo dieci brani, tutti abbastanza lunghi, ma non lunghissimi, tra i quattro e i sette minuti la durata, e tutti completamente diversi come genere l’uno dall’altro: il bluegrass ed il country che erano due degli elementi distintivi da cui partivano le idee per le lunghe jam presenti nei loro concerti e relativi dischi dal vivo, oltre a quelli “normali” qualche decina di titoli nella serie On The Road, sembrano abbastanza scomparsi, a favore di un approccio più eclettico e ritmico, comunque sempre presente nelle variazioni rock, psichedeliche, progressive e jazzate della loro carriera.

Anche se per la verità quando una infila il CD nel lettore parte una Colorado Blue Sky, tutta banjo, mandolini, chitarre, armonie vocali, puro bluegrass/country, sembrano i Poco, se non i Dillards o qualsiasi grande band country-rock dei primi anni ’70, l’organo di Hollingsworth in agguato, ma poi parte l’improvvisazione, i migliori Grateful Dead sono dietro l’angolo, le chitarre elettriche di Nershi (che firma il brano) e Kang disegnano linee strumentali di grande fascino ma anche virtuosismi a iosa, senza perdere di vista la quota acustica e vocale, entrambe curatissime, un inizio fantastico Poi parte Betray The Dark, firmata da Michael Chang, e ti viene da controllare il lettore, un attimo di distrazione e ho infilato Abraxas o Santana 3 nel lettore? Con Santana, Shrieve e Gregg Rolie, più tutti i percussionisti indaffaratissimi! No, confermo, sono proprio gli String Cheese Incident e il brano è pure molto bello, con l’aspetto ritmico della migliore Santana Band molto presente, e anche l’assolo di organo di Hollingsworth bellissimo, non ne sentivo uno così coinvolgente da quei tempi gloriosi, una meraviglia e poi quando partono le chitarre, una vera goduria https://www.youtube.com/watch?v=j5cf6Rsag4k . A questo punto cosa devo aspettarmi per il terzo brano? Let’s Go Outside, è un bel funky-rock alla Sly & Family Stone o per restare in tempi moderni tipo Vampire Weekend, chitarre choppate e tastiere analogiche si fanno strada tra il notevole lavoro dei vari cantanti prima del breve intermezzo quasi radiofonico della parte centrale, ma con una raffinatezza che è quasi sconosciuta nel pop moderno, e qui si vede lo zampino di Harrison. Song In My Head parte acustica ma poi diventa un boogie-rock degno di una grande jam band quale gli SCI sono, dal vivo dovrebbe fare sfracelli, con tastiere e chitarre pronte a sfidarsi con le evoluzioni vocali del gruppo.

Struggling Angel porta un ulteriore cambio di atmosfere, sembra un brano degli Eagles più country, quelli di Desperado o On The Border, con tanto di armonica. A questo punto cosa dobbiamo aspettarci, i Talking Heads? Partendo dai ritmi caraibici che ricordano certe cose sempre dei Vampire Weekend o del Paul Simon più scanzonato, ma anche un pizzico di Jimmy Buffett e un giro di basso irresistibile, Can’t Wait Another Day ci porta da quelle parti, ma ci arriviamo lentamente e nella successiva Rosie, che potrebbe uscire indifferentemente da Fear of Music (I Zimbra) dei Talking Heads o da qualche ritmo afro alla Fela Kuti, con densi strati di tastiere e percussioni https://www.youtube.com/watch?v=2gXx50gy8_M . In mezzo c’è So Far From Home, un pezzo rock divertente ma più scontato, non male comunque, con i soliti tocchi country-bluegrass tipici del loro stile, ideali per le improvvisazioni dal vivo, ma organo e chitarra “viaggiano” anche nella versione in studio https://www.youtube.com/watch?v=Xl5FTMmCMrg . Stay Through, una collaborazione tra Chang e Jim Lauderdale (?), con il suo groove tra reggae e R&B mi convince meno, un po’ buttata lì, più Tom Tom Club che Talking Heads, non particolarmente memorabile anche se sempre ben suonata. Conclude la lunga Colliding, un’altra sferzata di rock ad alta densità percussiva, con tastiere, anche synth e chitarre molto trattate che aggiungono un tocco di modernità alle procedure del disco di studio, senza cedere troppo ad un suono commerciale. Nell’insieme piace, anche se non si può gridare al capolavoro, ma secondo me un bel 7 in pagella, e non in condotta, se lo merita. E il 24 giugno esce Fuego, il nuovo album di studio dei Phish!

Bruno Conti

I “Pupilli” Di Dan Auerbach! Hacienda – Shakedown

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Hacienda – Shakedown – Collective Sounds

Ad un primo ascolto non ero rimasto particolarmente impressionato da questo Shakedown, opera terza degli Hacienda, quartetto di San Antonio, Texas che, come in molti casi della musica, è un affare di famiglia: sono i tre fratelli Villanueva, anche a livello somatico di origini latine. e il cugino, il chitarrista e cantante, Dante Schwebel, ma in effetti cantano anche gli altri tre. “Scoperti” da Dan Auerbach dei Black Keys che ha prodotto anche i due dischi precedenti e li ha utilizzati come backing band nel tour promozionale per l’album solista Keep It Hid, è evidente che ci siano molte analogie con il duo di Akron, Ohio. Se aggiungiamo che in questo disco Auerbach non si è limitato a produrre l’album ma ha firmato con il gruppo anche tutti i dieci brani le analogie si fanno vieppiù evidenti, ma…

Mentre nei Black Keys, almeno agli inizi, il sound era influenzato anche da un blues diciamo “futurista”, mi sembra che negli Hacienda il punto di riferimento sia più la musica pop degli anni ’60 vista attraverso un’ottica wave e rock anni ’80 e poi portata ai giorni nostri. Cerco di spiegarmi con un esempio: il brano di apertura, Veronica, con le sue scansioni quasi dance, mischia un organo Farfisa alla Sir Douglas e coretti pop, con una ritmica marcata alla Black Keys, per un singolo che vuole cercare di imporsi anche alle radio, con un basso molto in evidenza, anche se nell’insieme comunque il brano non brilla per grandi qualità. Let me go, sempre con coretti sixties sullo sfondo, si rifà a certe soluzioni sonore che erano care ai primi Talking Heads, un cantato vagamente schizzato ispirato a Byrne e sempre molto pop sul piatto della bilancia. I pezzi sono tutti abbastanza brevi (l’album dura complessivamente poco meno di 34 minuti) ma cercano di inserire citazioni e riferimenti a molti tipi di musica, per esempio Don’t Turn Out The Light, con la sua chitarrina ficcante e un basso nuovamente molto marcato, può ricordare i Feelies dei primi dischi con Nick Lowe alla voce, quindi quello strano incrocio di musica pop proveniente dalle ultime decadi pari del Novecento. Savage ha, a sua volta, un suono “moderno”, vagamente sintetico, molto simile agli ultimi Black Keys, magari meno rock e più orecchiabili. ma con l’influenza di Auerbach ovviamente stampata sul risultato finale.

You Just Don’t Know sempre con il basso protagonista del lato ritmico del brano, sembra, allo stesso tempo, più e meno derivativa, ovvero meno dai Keys e più da quella scuola pop anni ’80 dove si trovano suoni alla Bowie dell’epoca, gli Human Switchboard (ricordate?), qualcosa dei Blondie, i primi B-52’s. Se trasportate il riff di You Really Got Me ai giorni nostri, lo rallentate appena e ci aggiungete quell’organetto Farfisa tipico degli Hacienda probabilmente otterrete questa Don’t Keep Me Waiting. Sempre per continuare il gioco delle citazioni (che è ovviamente personale, ognuno ci vede o ci sente quello che vuole), se prendete le chitarre “circolari” dei Television, ma meno cerebrali e le mescolate con il riff iniziale di With A Girl Like You dei Troggs, una delle migliori e più convinte prestazioni vocali dei Villanueva (o sarà Schwebel?), otteniamo questo patchwork sonoro che si chiama Natural Life, uno dei brani peraltro migliori del CD.

Anche Doomsday, nuovamente con il solito basso grintoso che, come già ho ricordato, è spesso lo strumento guida del suono del gruppo, ha sapori più rock, con la chitarra che si fa “sentire” a momenti. E pure nella successiva Don’t You Ever, il riff di chitarra viene di filato dagli anni ’60, sembra estratto a viva forza da And Your Bird Can Sing dei Beatles, evidentemente i nostri amici hanno una bella collezione di dischi da dove gli spunti, secondo me, non vengono cercati volutamente, ma “aleggiano” nell’aria, sono frammenti sonori che ricadono casualmente nelle canzoni. Per esempio la conclusiva Pilot In The Sky, una delle tracce migliori di questo Shakedown, ha ancora mille rimandi a soluzioni sonore del passato, questa volta viste in un’ottica leggermente psichedelica, per un frullato sonoro che ha mille influenze ma nessun padre certo e alla fine risulta molto piacevole, senza essere particolarmente geniale. Che è un po’ il leitmotiv di tutto l’album, se vi piacciono i Black Keys più pop trascorrerete una mezzoretta piacevole anche se magari non memorabile, come è capitato al sottoscritto!

Bruno Conti

A Volte I Primi Ascolti Ingannano. Gran Disco! Alejandro Escovedo – Big Station

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Alejandro Escovedo – Big Station – Fantasy/Universal – 05-06-2012

Un paio di giorni fa vi avevo espresso delle perplessità parziali ad un primo ascolto del nuovo album di Alejandro Escovedo Big Station. Ritiro tutto, a volte i primi ascolti ingannano, specie se fatti con una copia promo incisa a basso volume ed ascoltata su un CD walkman. Nella giusta prospettiva di ascolto il disco ri(acquista) tutta la dignità di un buon/ottimo prodotto.

Escovedo è in pista dal 1978, il suo primo gruppo i Nuns aprì l’ultima data del tour americano dei Sex Pistols di quell’anno e i Rank and File e i True Believers, le band successive, hanno, più o meno, rispettivamente, “inventato” il country punk, l’Americana e il Paisley Rock/Neo Psichedelia. Senza contare undici album da solista, compreso questo Big Station. Che è prodotto da Tony Visconti (confermato dai precedenti dischi) e scritto e suonato con Chuck Prophet, anche lui confermato: quello che ad un primo ascolto mi sembrava un fastidioso suono elettronico (soprattutto nella batteria) è il classico sound del grande produttore inglese, molto attento al suono del basso e di una batteria “cavernosa” ma anche alle chitarre ed ai particolari degli arrangiamenti in generale.

L’accoppiata Visconti/Escovedo questa volta non è arricchita, come in Street Songs Of Love, dalla presenza di pezzi da novanta come “l’amico” Springsteen o Ian Hunter, che però sono presenti idealmente nell’approccio musicale del disco. A fianco di una scarica di adrenalina come l’iniziale Man Of The World che potrebbe essere la versione riveduta e corretta di Summertime Blues come la farebbero Petty e Springsteen in una improvvisata jam, ci sono brani come la title-track Big Station che suona come un incrocio tra il sound dei primi Talking Heads, il “vecchio” Bowie e i coretti sixties dei New York Dolls delle origini, probabilmente Karla Manzur e Gina Holton sono le voci femminili che si aggiungono ai Sensitive Boys che suonano nel disco, tiro a indovinare visto che non ho letto il libretto del CD. Sally Was A Cop è una minacciosa ballata futuribile sulle battaglie tra i cartelli della droga nel Messico attuale, con un ritmo incalzante, interventi di una tromba con il “mute” e del sax, piccole percussioni: la nipote Sheila E.? In un’intervista ha detto che vorrebbe collaborare di più con lei! Ma nella stessa intervista si è proposto ai Thievery Corporation per eventuali remix. Lascia perdere Alejandro. Se ognuno ha un suo pubblico una ragione ci sarà!

Bottom Of The World sembra, a chi scrive, una versione moderna di Eve Of Destruction cantata da Bob Dylan ma anche da Petty, Hunter o Springsteen che sono tre grandi ammiratori del citato Bob oltre che punti di riferimento per Escovedo, quindi tutto torna. Anche la tromba “mutata” e il sax tornano in Can’t Make me Run che ha quel groove alla Streets Of Philadelphia, meno minaccioso, più scandito con echi spagnoleggianti e anche un dejà vu sonoro personale di uno dei tanti “new Dylan” di inizio anni ’70, quell’Elliott Murphy che tanto ci (mi) piace. San Antonio Rain è uno di quei brani tipicamente texani che potrebbe provenire dalla penna di Escovedo, come è il caso, ma potrebbero averlo scritto anche Joe Ely o Tom Russell, comunque la si giri una bellissima e struggente ballata con un evocativo controcanto femminile, interventi di violino e di una chitarra vecchio stile, anni ’50, di Chuck Prophet, gran bella musica.

Quando è partita Headstrong Crazy Fools mi sono detto “da dove è uscita questa cover di Tom Petty”, su che disco era? Con citazioni dylaniane nel testo, un ritmo quasi dance, ma allo stesso tempo rock, una volta nelle discoteche si ballava il rock, pensate ai vecchi brani di Bowie! Common Mistake, oltre ad essere quello che stavo commettendo verso questo disco, potrebbe essere un brano tratto dal primo Talking Heads, sincopato e leggermente schizzato fino al cantato alla David Byrne prima maniera. Never Stood a Chance con il “chitarrone” di Prophet a dettare il tema musicale è un’altra ballata atmosferica di grande fascino mentre Party People è una qualche outtake di Bowie che Tony Visconti aveva nel cassetto. Too Many Tears ancora con questo melange di sonorità moderne tra Bowie, echi morriconiani ma anche dei Wall Of Woodoo/Stan Ridgway e il suono dell’ultimo Steve Wynn imbevuti dalle sferzate chitarristiche di Prophet che impazza per tutto il brano. La conclusione, anomala, è affidata a una rivisitazione di Sabor A Mi, la prima volta di Alejandro Escovedo in un brano cantato in spagnolo, un brano di Alvaro Carrillo del 1959 che sarà anche della grande tradizione melodica messicana ma non c’entra molto con il resto, comunque non inficia il giudizio più che positivo per questa nuova fatica del rocker texano: 60 anni, portati molto bene!

Per essere irriverente (citando un grande Lui) non ho avuto neppure bisogno che mi “corigeste”, me se ne sono accorto da solo che era bello.

Bruno Conti

Non E’ Mai Troppo Tardi! Arcade Fire – (Scenes From) The Suburbs

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Arcade Fire – (Scene From) The Suburbs – Merge/Mercury/Universal CD+DVD

Ve lo segnalo solo perché temo quello che potrei dire. Il 2 agosto dello scorso anno usciva The Suburbs degli Arcade Fire uno dei dischi più belli e di maggior successo dello scorso anno.

Ora, “giustamente”, a quasi un anno di distanza, esce una nuova versione Deluxe con DVD diretto da Spike Jonze incorporato così ve lo potete ricomprare di nuovo (io rinuncio, comincio a rompermi i Maroni sempre di più di questa politica delle case). In ogni caso c’è anche una versione di Speaking in tongues dei Talking Heads con la partecipazione di David Byrne. Lo so, sono sadico, vi indico le notizie interessanti così vi tento. Questa è la tracking list completa della nuova edizione:

CD: The Suburbs album, plus a new extended version of album track Wasted Hours and 2x bonus new tracks Speaking In Tongues and Culture War; and a 76 page booklet.

DVD: “Scenes From The Suburbs” (30 mins, colour) plus “Behind The Scenes” documentary

Deluxe edition tracklist: 
01 The Suburbs, 02 Ready to Start, 03 Modern Man, 04 Rococo, 05 Empty Room, 06 City With No Children, 07 Half Light I, 08 Half Light II (No Celebration), 09 Suburban War, 10 Month of May, 11 Wasted Hours, 12 Deep Blue, 13 We Used to Wait, 14 Sprawl I (Flatland), 15 Sprawl II (Mountains Beyond Mountains), 16 The Suburbs (continued), 17 Culture War, 18 Speaking in Tongues

La lista dei contenuti è “volutamente” tratta dal loro sito perché evidentemente non è solo una idea della casa discografia. Almeno costa come un singolo CD (mah, quasi quasi…scherzo!)

Bruno Conti

Una Canadese Tira L’Altra! Il Ritorno Di k.d. lang and the Siss Boom Bang – Sing It Loud

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k.d. lang and the Siss Boom Gang – Sing It Loud – Warner/Nonesuch

E’ ovvio che non stiamo parlando di tende ma di una delle più belle voci prodotte dal Canada e dalla musica tutta. Questo nuovo album che esce nell’anno in cui compirà 50 anni ce la ripresenta per la prima volta con un gruppo fisso ad accompagnarla come non accadeva dai tempi dei Reclines. Secondo qualcuno questo da solo non è sufficiente a rendere questo Sing it Loud il suo disco migliore dai tempi di Ingenue. Per chi scrive sì, intanto questa volta (con un’unica ma significativa eccezione) si tratta tutto di materiale originale scritto da Kathryn Dawn e dalla sua band e qui starebbe l’inghippo perché secondo altri il meglio della sua produzione risalirebbe alle sue collaborazioni (anche come autrice) con l’ottimo musicista, sempre canadese e coetaneo, Ben Mink. Potrebbe essere, ma ciò non toglie che in questo CD nuovo la Siss Boom Gang, guidata dal produttore e polistrumentista Joe Pisapia ha aggiunto un carattere di spontaneità e freschezza (si dice che l’album sia stato registrato dal vivo in studio in presa diretta) e si sono prodigati anche come autori dei brani.

Sin dagli inizi si capisce che l’atmosfera è quella giusta,  I Confess è la migliore canzone di Roy Orbison degli ultimi venti anni, e non è un’impresa da poco considerando che “The Big O” se ne è andato alla fine del 1988, scritta dalla stessa Lang con la coppia Joshua Grange e Daniel Clarke (tastierista il secondo e colui che si occupa di dobro e baritone guitar il primo). Baritone guitar che caratterizza il torch and twang della successiva A Sleep With No Dreaming con la voce di kd lang che galleggia con soprannaturale lievità sulla base fornita dal gruppo. Chiaramente non state (stiamo) ascoltando un disco di rock ma una delle voci più straordinarie prodotte dalla musica pop americana negli ultimi 50 anni (non per nulla Tony Bennett, che è uno che di voci se ne intende e che ha fatto un disco con lei, l’ha definita una “classica cantante di ballate degli anni ’50”, ovviamente riportata ai giorni nostri). Come viene ribadito da The Water’s Edge un’altra dolcissima ballata firmata, come la precedente, dalla coppia lang/Pisapia: una chitarra acustica, una pedal steel sullo sfondo e non solo e quella “voce” potente e naturale che inchioda le note con una precisione stupefacente come sapeva fare il suo grande maestro Roy Orbison. Aggiungete un tocco di reverbero, una bella produzione e voilà i giochi sono fatti.

La nostra amica non è stata mai stata una rocker ma di tanto in tanto lo ha sfiorato e in Sugar Buzz, con le chitarre elettriche di Pisapia e Grange in evidenza, l’organo di Clarke in spolvero ed una sezione ritmica più grintosa, ci ritorna e avvicina temi musicali quasi Beatlesiani, provate a pensare a come potrebbe essere Don’t Let Me Down o qualche pezzo del Lennon più sognante nella sua versione.

Sing it Loud, scritta dal solo Pisapia ha una atmosfera “a little jazzy”con il banjo e il dobro in evidenza su una ritmica vagamente (ma giusto un poco) da bossanova. Inglewood con una pedal steel guitar in primo piano è un brano country di quelli che costellavano la prima parte della sua carriera, ma country di qualità, da portatore di sane tradizioni e “radici”.

Habit Of Mind scritta ancora con Clarke e Grange è un altro mid-tempo dove il dobro si amalgama alla perfezione ancora una volta con la steel e i coretti del gruppo aggiungono di nuovo quella vaga patina beatlesiana alla voce pressoché perfetta di kd lang. Si diceva di una unica eccezione al materiale scritto in proprio, si tratta di una cover del bellissimo brano dei Talking Heads Heaven, un altro brano sognante e dalle atmosfere sospese e raffinate che conferma le capacità interpretative della Lang in grado di calarsi nei brani altrui con una classe unica (e mi vengono in mente Crying di Roy Orbison e Hallelujah di Leonard Cohen via Jeff Buckley, per citarne un paio). Versione da incorniciare e da riascoltare più volte.

Anche la conclusiva Sorrow Nevermore ha una marcia in più rispetto al materiale contenuto nel precedente album Watershed che era comunque un buon album ma meno efficace di questo Sing It Loud che in una canonica recensione si meriterebbe le sue belle tre stellette e mezzo o se preferite un rotondo 7. L’edizione Deluxe (acquistabile solo sul suo sito o in quello della Nonesuch, per essere precisi) contiene 4 brani in più, pergamena e libretto con i testi. Era in pre-order ma forse lo trovate ancora qui sing-it-loud-expanded-edition.

Se amate le belle voci qui c’è “Trips for cats” o trippa per gatti se preferite! L’ho inserita come Disco UFO perchè il CD è entrato nei TOP 3 australiani, Top 10 canadesi e ha sfiorato i TOP 30 negli States. Non male!

Bruno Conti

A Volte Ritornano! Peter Gabriel – Scratch My Back

peter gabriel scratch my back.jpgPeter Gabriel – Scratch My Back

E come tornano! Dopo “soli” otto anni da Up torna Peter Gabriel con un album bellissimo, sorprendente, un album di cover che non sono cover, sono reinterpretazioni fantastiche di brani di autori celebri e di artisti emergenti.

Quando vi avevo anticipato tempo fa l’uscita dell’album, forse, fra le righe, traspariva un certo scetticismo.

Nulla di tutto ciò, il disco è magnifico (sto esaurendo gli aggettivi): il progetto sulla carta era ambizioso, un disco per sola voce, orchestra e piano, dove venivano ripresi una serie di brani più o meno celebri e rielaborati in un arrangiamento orchestrale, senza strumenti rock, sezione ritmica, niente. Potenzialmente, diciamocelo francamente, una “palla” tremenda o il rischio di un eccessivo cerebralismo, per usare termini più educati.

Invece il buon Peter ne esce alla grande: coadiuvato dal violista e orchestratore neozeolandese John Metcalfe (qualcuno ha detto Durutti Column?) e dal grande produttore americano Bob Ezrin (che recentemente aveva collaborato alla ripresa live del celebre Berlin di Lou Reed), ha estratto dal cilindro non il classico coniglio, pensando alla colonna sonora di Long Walk Home, ma un piccolo capolavoro che rivaleggia con il meglio della sua produzione.

Sulla rivista Jam Claudio Tedesco ha redatto un ottimo articolo che racconta la genesi e la conclusione di questo progetto, ma, secondo me, ha calcato un po’ troppo la mano sull’aspetto “classico contemporaneo” della musica contenuta in questo album: sicuramente è un album non facile ma mai difficile (ovviamente non è adatto ai fans di Lady Gaga e forse anche degli ultimi Genesis, una cattiveria!), per intenderci, un album che ho amato molto e che di tanto in tanto torno ad ascoltare come Lorca di Tim Buckley, è bellissimo, ma ascoltato in una tarda serata estiva, magari in cuffia, con le finestre aperte, al termine della “seduta” ti lascia forte la tentazione di gettarti dalla finestra stessa. Tornando a questo Scratch My Back l’elemento portante di tutto il progetto è la “voce” di Peter Gabriel, che è la vera protagonista di questo disco, ora “nuda” solo con un piano che la accompagna come in I Think It’s Going To Rain Today, la malinconica ballata di Randy Newman o nella straordinaria rivisitazione di Boy In The Bubble di Paul Simon, solare e gioiosa nella versione originale, rallentata e struggente nella versione di Gabriel, veramente intensa, con la voce che ti convoglia mille sentimenti, una voce che nella maturità rimane inconfondibile.

E che dire della versione di Heroes di David Bowie? All’inizio devi “entrare” nello spirito del brano, rallentato e minimale, con quegli archi minacciosi ed incombenti che avvolgono la voce di Peter, soffusa e bowiana all’inizio, via via più sicura e potente in un crescendo emozionante. Ma anche i brani dei “giovani” sono molto belli: My Body Is A Cage degli Arcade Fire gode del trattamento full orchestra, maestoso e travolgente, anche in questo caso un crescendo entusiamante, introdotto dal piano e dai fiati, con la voce di Gabriel che assume delle tonalità quasi alla Lamb Lies Down on Broadway, molto teatrali, per salire di tono a mano a mano, mentre l’orchestra realizza un crescendo molto vivace e un finale dove appare anche un coro. Molto bella anche The Book of Love dei Magnetic Fields già apparsa nella colonna sonora di Shall We dance e scelta come nuovo singolo.

Molto dolce ed evocativa, la pianistica Flume dei Bon Iver (che come i Magnetic Fields sono il nome dietro cui si nasconde un singolo musicista), mentre Après Moi di Regina Spektor (l’unica donna coinvolta nel progetto) è uno degli episodi più movimentati e dall’arrangiamento assai teatrale, qualcuno l’ha definita l’erede di Kate Bush, sarà per questo che Gabriel l’ha scelta (pensiero malizioso). Comunque i brani sono tutti belli, Philadelphia di Neil Young e Power to the heart di Lou Reed, rendono omaggio a due grandi della musica.

Il disco, registrato, parte negli Air Studios di George Martin e parte negli studi della Real World, esce il prossimo 15 febbraio. Il 13 febbraio Peter Gabriel compirà 60 anni. Una coincidenza?

Bruno Conti