Ormai Non E’ Più Soltanto Una Giovane Promessa. Colter Wall – Western Swing & Waltzes And Other Punchy Songs

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Colter Wall – Western Swing & Waltzes And Other Punchy Songs – La Honda/Thirty Tigers CD

Quando nel 2017 è uscito il sorprendente debut album omonimo del giovane cantautore canadese Colter Wall (il suo EP del 2015 Immaginary Appalachia, poi ristampato, lo conoscevano in pochissimi) i paragoni più frequenti erano quelli con Johnny Cash, non tanto per lo stile che in quella fase era a metà tra folk e country ma per la voce incredibilmente profonda e baritonale. Il seguente Songs Of The Plains, oltre ad essere di livello artistico perfino superiore, era ancora più vicino alle cose dell’Uomo in Nero ed in particolare ai suoi primi album per la Columbia, quelli con le canzoni a tema (ed anche la veste grafica della copertina ricordava i dischi di un tempo) https://discoclub.myblog.it/2018/10/24/il-ragazzo-sta-crescendo-in-maniera-esponenziale-colter-wall-songs-of-the-plains/ . Ora Colter ritorna con il suo terzo “full length”, un lavoro che conferma la crescita esponenziale del nostro che, giova ricordarlo, ha solo 25 anni: Western Swing & Waltzes And Other Punchy Songs è uno splendido album di puro country & western come si faceva a cavallo tra gli anni cinquanta ed i sessanta, un disco di vere e proprie cowboy songs come oggi purtroppo non fa più nessuno.

Il parallelo con Cash è ancora valido, ma con questo nuovo lavoro Wall rivela anche le influenze di altri autori leggendari dell’epoca d’oro, in particolare Marty Robbins e Johnny Horton. Un disco di country purissimo e pressoché perfetto, prodotto da Colter stesso ed inciso con la collaborazione di pochi ma abili strumentisti come Patrick Lyons (chitarre varie, dobro e steel), Doug Moreland al violino, Emily Gimble al pianoforte, Jason Simpson al basso, Aaron Goodrich alla batteria e Jake Groves all’armonica: perfino la durata complessiva, 33 minuti, rimanda ai gloriosi LP di cinque-sei decadi fa. Western Swing & Waltzes è diviso a metà tra cover e brani originali, ma come ho già scritto per il nuovo album cantato in spagnolo dei Mavericks non c’è differenza tra le canzoni nuove e quelle di una volta, anche perché, ripeto, Colter non si smuove neanche a sparargli da un determinato e ben preciso periodo musicale.

Le cover iniziano con il medley di traditionals I Ride An Old Paint/Leavin’ Cheyenne, suonato in maniera essenziale, voce-chitarra-armonica, ma con un feeling notevole (immagino Colter eseguirla al tramonto di fronte ad un falò quando i cavalli sono stanchi); Big Iron è uno dei classici del già citato Robbins (era sul leggendario Gunfighter Ballads & Trail Songs), una western song strepitosa che il nostro rivede in maniera assolutamente scintillante, con la band che lo segue coinvolgendo alla grande l’ascoltatore: una delle canzoni più belle di quest’anno, non importa che abbia più di sessanta anni sul groppone. Anche Diamond Joe è un traditional molto noto, e questa rilettura per doppia voce, chitarra e violino è emozionante nella sua semplicità, mentre High & Mighty (scritta da Lewis Martin Pederson III, un poeta e songwriter del Saskatchewan, quindi compaesano di Wall) è uno squisito western swing ritmato ed irresistibile, degno dei pionieri di questo genere musicale, con la steel di Lyons in gran spolvero ed il piedino di chi ascolta che si muove spontaneamente.

Cowpoke, vecchio successo di Elton Britt, è una languida country ballad che più classica non si può, con forti connotazioni western e suonata in modo splendidamente evocativo. I cinque pezzi scritti da Colter partono con la title track, che inizia per voce e chitarra ma entrano subito la steel ed il resto della band, ed il brano si rivela un delizioso honky-tonk come si faceva un tempo, puro country al 100%. Henry And Sam ha il passo cadenzato di una classica western song (e qui l’influenza di Cash è evidente), con un bel lavoro di dobro e steel ed un motivo godibilissimo; Talkin’ Prairie Boy è proprio un talkin’ come si usava fare negli anni sessanta, solo Colter e la sua chitarra per un pezzo che porta un tocco di folk nel disco e si lascia ascoltare con grande piacere. Gli ultimi due brani scritti dal nostro sono anche quelli che chiudono il CD, e cioè la breve e pimpante Rocky Mountain Rangers, tra le più dirette dell’album, e l’intensa Houlihans At The Holiday Inn, di nuovo con Colter quasi da solo (c’è solo Lyons al dobro), ma con l’evidente capacità di coinvolgere e toccare le corde giuste anche con poco.

Per favore, che nessuno dica a Colter Wall che siamo nel 2020: uno dei dischi country dell’anno.

Marco Verdi

 

 

Il “Pronipote” Torna A Breve Distanza Dal Disco Precedente, Con Un Lavoro Ancora Migliore. Charley Crockett – Welcome To Hard Times

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Charley Crockett – Welcome To Hard Times – Son Of Davy/Thirty Tigers CD

A distanza di meno di un anno dall’ottimo The Valley torna con un disco nuovo di zecca Charley Crockett, countryman texano e diretto discendente di Davy Crockett https://discoclub.myblog.it/2019/10/12/un-countryman-di-talento-con-nobili-discendenze-charley-crockett-the-valley/ . E dire che dopo l’operazione a cuore aperto che gli aveva salvato la vita nel gennaio 2019 Charley aveva deciso di prendere le cose con più calma, ma evidentemente questo per lui è un periodo di grande ispirazione ed i risultati lo confermano. Crockett fa musica country dura e pura come si usava fare cinquanta/sessanta anni fa, un genere che prende spunto direttamente da Hank Williams e da altri pionieri del genere per spingersi al massimo ai primi album per la Columbia di Johnny Cash ed a George Jones per quanto riguarda le ballate in stile honky-tonk. Ma Charley non si limita a ripetere pedissequamente certe sonorità: intanto è dotato di una penna eccellente, e poi riesce ad infondere in ogni canzone una particolare attitudine fiera e quasi sfrontata, come se sotto sotto covasse un’anima irrequieta da rocker.

Welcome To Hard Times, titolo più che mai attuale, è il lavoro di un artista in costante crescita in quanto è ancora meglio del già notevole The Valley (che contava anche parecchie cover, mentre qui i brani autografi sono quasi la totalità), più convinto e con una miscela ancora più intrigante di country, musica western e honky-tonk songs: l’album è prodotto da Mark Neill e vede contributi in fase di scrittura di alcune canzoni da parte di Dan Auerbach e Pat McLaughlin oltre alla presenza di sessionmen tanto validi quanto sconosciuti che rispondono ai nomi di Kullen Fox, Colin Colby, Alexis Sanchez, Nathan Fleming, Mario Valdez e Billy Horton. Che il disco sia di quelli giusti lo si capisce fin dalla title track posta in apertura, un delizioso honky-tonk con gran lavoro di pianoforte ed un’atmosfera western che si sposa benissimo con la melodia d’altri tempi (e la voce è perfetta). Run Horse Run è una polverosa country & western song dal ritmo alla Cash ed un ottimo assolo di steel: non la vedrei male in un film di Quentin Tarantino.

Don’t Cry è limpida, tersa e decisamente orecchiabile, con richiami agli anni sessanta ed uno script solido, ed è ancora meglio Tennessee Special, altra honky-tonk song splendida e cantata con piglio da consumato countryman, con la solita steel a ricamare sullo sfondo, mentre Fool Somebody Else è una sorta di brano dalla scrittura pop ma dal suono country, un contrasto piacevole e riuscito. La cadenzata Lilly My Dear, guidata dal banjo, è una grande canzone western che sembra uscita dal songbook di Johnny Horton o Merle Travis, sentire per credere; Wreck Me è un lento romantico sempre dal sapore sixties con un coro femminile ed uno stile che piacerebbe ai Mavericks, in contrasto (ma non troppo) con Heads You Win che è una country song pura e semplice, un genere che oggi fanno in pochi. Rainin’ In My Heart (non è quella di Buddy Holly) è più moderna, un coinvolgente pezzo di stampo rock con la steel a stemperare appena, ritmo sostenuto e bell’assolo di chitarra elettrica, Paint It Blue è di nuovo perfetta per uno spaghetti western e precede la splendida Blackjack County Chain, ottima cover di un brano scritto nel 1967 da Red Lane ma portata al successo da Willie Nelson (che la incise sia da solo che con Waylon), una western ballad coi fiocchi eseguita dal nostro con grande rispetto per l’originale.

Il CD si chiude con The Man That Time Forgot, ennesimo scintillante honky-tonk che più classico non si può, e con la fulgida cowboy song The Poplar Tree; c’è però spazio anche per due ghost tracks: la vivace e trascinante Oh Jeremiah, tra folk e bluegrass (molto bella), e la lenta e languida When Will My Troubles End. Charley Crockett si conferma un vero talento e valido esponente della country music più pura, e Welcome To Hard Times è la prova tangibile della sua crescita esponenziale.

Marco Verdi