Un Cognome, Una Garanzia! Edgar Loudermilk Band – Lonesome River Boat

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Edgar Loudermilk Band – Lonesome Riverboat Blues – Rural Rhythm CD

Edgar Loudermilk, cantante e bassista, non è un musicista alle prime armi, in quanto nel recente passato ha militato in ben tre gruppi (Carolina Crossfire, Full Circle e IIIrd Tyme Out), oltre a collaborare a lungo con Rhonda Vincent ed incidere anche qualche album come solista ed uno in duo con il chitarrista Dave Adkins. Se il suo cognome vi ricorda qualcosa, avete fatto centro: Edgar è in effetti parente alla lontana del noto cantautore John D. Loudermilk (scomparso nel 2016), ma soprattutto è un diretto discendente dei Louvin Brothers, un duo tra i più importanti della storia della country music (infatti il vero cognome dei fratelli Charlie ed Ira Louvin era proprio Loudermilk). Anche nonno e padre di Edgar erano strumentisti, e quindi è facile capire il perché il nostro sia nato con la musica nel sangue, ed una passione per country e bluegrass.

Coinvolto come abbiamo visto in mille progetti, nel 2016 ha formato la Edgar Loudermilk Band, un combo in puro stile bluegrass il cui primo album, Georgia Maple, ha ottenuto ottime critiche. Il gruppo propone una musica di chiaro stampo tradizionale pur suonando canzoni originali, il tutto con abbondanti dosi di feeling e con una notevole tecnica: oltre ad Edgar fanno parte della band l’eccellente chitarrista Jeff Autry, un altro con un’attiva carriera (e la cui presenza viene annunciata orgogliosamente anche sulla copertina dei CD del gruppo), il figlio di quest’ultimo, Zach Autry, al mandolino, Curtis Bumgarner al banjo e Dylan Armour al dobro, e la particolarità è che sia Edgar che Jeff che Zach cantano, così da ricreare le armonie tipiche dei gruppi della mountain music di un tempo. Lonesome Riverboat Blues è il nuovo album della ELB, ed è uno scintillante esempio di moderna old-time music, con brani che mischiano ottimamente country, bluegrass, folk e gospel, una tecnica sopraffina da parte dei cinque musicisti ed una serie di canzoni scritte oggi ma che sembrano risalire a più di sessant’anni fa, controbilanciate anche da brani di stampo più contemporaneo.

La title track è sintomatica, un pezzo cristallino tra folk e bluegrass con grande uso di strumenti a corda ed un motivo dl sapore decisamente tradizionale: il mandolino tiene il ritmo, mentre agli assoli ci pensano il banjo, la chitarra e il dobro. The House My Daddy Built ha una struttura più moderna, essendo una limpida country ballad dalla melodia gentile e squisita con il dobro che si eleva a strumento principale, ma con All I’m Missing Is You siamo ancora in territorio bluegrass, attacco tipico di banjo, poi entrano gli altri strumenti ed Edgar intona un motivo piacevole e diretto. Dinah ha un ritmo veloce nonostante l’assenza di batteria e si distinguono elementi western swing, con splendide prestazioni di mandolino e dobro: tecnica raffinata ma anche creatività e feeling. Have You Seen My Blueridge Girl è una tersa e spedita country song, deliziosa nella melodia e frizzante nell’accompagnamento.

I Missed My Chance è un lento intenso  con un sound più attuale ed ottimo motivo corale, mentre con The Winter Wind torniamo in piena festa bluegrass, sembra di sentire il live inedito dei Good Old Boys uscito di recente, con gli strumenti suonati a velocità supersonica. Since I Left Virginia è una country song pura, immediata ed orecchiabile, Singing To The Scarecrow una tenue ballata che per un attimo riproietta il disco ai giorni nostri (bello e toccante il refrain), mentre Until I Can Find My Way Back To You è un altro pezzo dal ritmo alto con dobro e banjo sugli scudi e solito ritornello corale. Chiudono un dischetto fresco, creativo e stimolante Living Life Without You, ancora un bluegrass davvero piacevole, e la limpida When I Grow Too Old To Dream, tra country e folk e con un assolo di gran classe da parte di Jeff Autry. Edgar Loudermilk: buon sangue non mente.

Marco Verdi

Chiamatelo Pure “Mississippi John Oates”! John Oates – Arkansas

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John Oates With The Good Road Band – Arkansas – PS/Thirty Tigers CD

Non avrei mai pensato che nella mia umile carriera di critico e recensore avrei un giorno parlato di un album di John Oates, che insieme a Daryl Hall andava a formare Hall & Oates, un duo tra i più di successo di tutti i tempi, che negli anni settanta ed ottanta ha venduto vagonate di dischi all’insegna di un “Philly Sound” decisamente annacquato, una miscela all’acqua di rose di soul, errebi e pop molto commerciale e lontano anni luce dai gusti del sottoscritto. Ma gli americani hanno sempre in serbo delle sorprese, e così come un attore conosciuto per i suoi ruoli comici anche al limite dell’idiota al primo ruolo drammatico sfodera una prestazione da Oscar (il riferimento è al Jim Carrey di The Truman Show, secondo me uno dei più bei film di sempre, ma la storia di Hollywood è piena di esempi in tal senso), allo stesso modo un artista che ha passato la vita a fare musica per vendere a palate, arriva ad un certo punto in cui decide di pubblicare album di ben altro spessore artistico. Oates ha iniziato a fare dischi da solista solo nel nuovo millennio (il suo sodalizio con Hall parrebbe giunto al capolinea), avvicinandosi sempre di più al suono Americana, influenzato dalle canzoni che fanno parte del songbook dei suoi avi, ma è con il nuovissimo Arkansas che ha fatto bingo, trovando un disco che mi ha lasciato a bocca aperta, quasi un capolavoro che assolutamente non pensavo fosse nelle sue corde.

Arkansas è un chiaro omaggio di Oates prima di tutto al suono di Mississippi John Hurt, una leggenda del folk-blues acustico che da sempre è uno dei suoi preferiti (anche se negli anni settanta non si sarebbe detto), fino al punto di aver voluto acquistare ad un’asta la chitarra che Hurt usò durante il Festival di Newport del 1964 (anche se l’acquisto è avvenuto a disco terminato, e quindi non ha fatto in tempo ad usarla). Ma John allarga il raggio, e con questo lavoro omaggia canzoni che hanno anche più di un secolo sulle spalle, alcune molto note altre decisamente oscure, e completa il tutto con due pezzi nuovi di zecca ma scritti nello stesso mood. Come ciliegina, John (che suona la chitarra acustica e canta con una voce arrochita e non molto familiare, anche perché quello del duo che cantava era Hall) si è fatto accompagnare da un gruppo formidabile, The Good Road Band, un combo di fuoriclasse del calibro di Sam Bush (mandolino), Guthrie Trapp (chitarra elettrica), Russ Pahl (steel), Steve Mackey (basso), Josh Day (batteria), Nathaniel Smith (cello), che si occupano anche di saltuari backing vocals quando si tratta di dare un tono gospel ai brani. Un grande disco dunque, una miscela vincente di folk, country, rock, blues ed old time music, suonata con una classe sopraffina e con l’attitudine da veri pickers: 34 minuti scarsi di musica, ma tutta ad altissimo livello.

Splendido l’inizio: Anytime, un brano del quasi dimenticato Emmett Miller (un musicista da circo degli anni venti), è un pickin’ country decisamente d’altri tempi, suonato con uno stile alla Bill Monroe e con deliziosi interventi di mandolino e chitarra elettrica, e con la voce roca di John che si integra alla perfezione. Arkansas è il primo dei due pezzi scritti dal nostro, una folk ballad elettrificata decisamente vibrante e con accenni gospel: il songwriting è moderno ma l’accompagnamento no, anche se c’è una bella slide che porta il suono ai confini del rock. Splendida My Creole Belle, un brano attribuito a Mississippi John Hurt (una volta si usava prendere dei brani dalla tradizione, cambiare qualche parola e spacciarli per autografi), uno scintillante folk-blues con il solito cocktail vincente di strumenti a corda ed un coinvolgente botta e risposta voce-coro; Pallet Soft And Low, un traditional, è parecchio bluesata, sa di polvere e fango e sembra provenire dal delta del Mississippi, con uno splendido lavoro all’elettrica di Trapp, per sei minuti tutti da godere (è la più lunga). Non poteva mancare Jimmie Rodgers: Miss The Mississippi And You, pur non essendo stata scritta da lui, è uno dei brani simbolo del “singing brakeman”, e John ne offre una rilettura molto old-fashioned, lenta e decisamente raffinata, tutta suonata in punta di dita; il famoso traditional Stack O Lee, ripreso negli anni da un sacco di gente, ha qui un trattamento regale, tra country e folk, con il solito pickin’ d’alta classe ed una sezione ritmica discreta ma spedita.

That’ll Never Happen No More è un’oscura canzone dell’ancora più oscuro Blind Blake, riproposta da Oates e compagni con un delizioso sapore dixieland pur in assenza di strumenti a fiato, mentre Dig Back Deep è il secondo pezzo originale, uno splendido e trascinante brano elettrico tra boogie e gospel, intriso a fondo di atmosfere sudiste. Il CD si chiude con Lord Send Me, altra bellissima canzone tradizionale che mischia alla grande folk, gospel e bluegrass, suonata anch’essa in maniera strepitosa, e con Spike Driver Blues, altro pezzo del repertorio di John Hurt, pura e limpida come l’acqua di montagna, solo John e due chitarre acustiche. Un disco splendido e sorprendente, tra i più belli di questi primi due mesi dell’anno, che probabilmente ritroveremo nelle liste di Dicembre.

Marco Verdi

Vera Musica Di Montagna…Ed Il Suono Ci Guadagna! Wild Ponies – Galax

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Wild Ponies – Galax – Gearbox CD

Terzo album per i Wild Ponies, un gruppo della Virginia che in realtà è un duo formato da Doug e Telisha Williams, che nella vita sono anche marito e moglie. Galax, il titolo dell’album, è anche il nome di una città limitrofa al luogo nel quale i due sono nati, una località collinare non distante dai monti Appalachi: ed il disco è proprio un omaggio dei due alle loro radici, ed alla musica di quelle montagne, una miscela di folk, bluegrass, country ed old-time music davvero stimolante, registrata insieme a musicisti locali ed a veri e propri maestri di Nashville come Fats Kaplin e Will Kimbrough. La maggior parte dei brani è scritto dai due Pony Selvaggi, anche se il sapore è del tutto tradizionale, merito delle melodie che hanno agganci con il passato e della strumentazione quasi esclusivamente acustica e suonata con la perizia di autentici pickers, con la batteria che interviene solo ogni tanto (ad opera di un altro nome molto conosciuto a Nashville, Neilson Hubbard).

Un CD fresco e piacevole, con i nostri che ci danno dentro con grande forza e feeling indiscutibile. L’unico traditional del disco è posto proprio in apertura: Sally Ann è un godibilissimo bluegrass che più classico non si può, un tripudio di chitarre, mandolino, violino e banjo, il tutto eseguito con grande energia e con un bel botta e risposta tra la voce di Telisha ed il coro, sembra di trovarsi di fronte ad una vecchia registrazione dei Weavers o dei New Lost City Ramblers. Tower And The Wheel è sempre dominata da una strumentazione folk-grass, ma la melodia la fa sembrare un racconto western, con gran lavoro di banjo e violino; Pretty Bird è un noto brano della grande folksinger Hazel Dickens, reso come un autentico field recording (si sente perfino il frinire dei grilli), che inizia solo con Telisha alla voce e Doug alla chitarra, tempo lento e drammatico, poi a metà canzone arriva Kaplin con il suo violino e dona il tocco che mancava. Molto bella anche la vivace To My Grave, un’altra deliziosa western song, e stavolta c’è anche la batteria; l’intensa Will They Still Know Me vede finalmente Doug alla voce solista, una voce vissuta, non bella come quella della moglie ma particolare, e poi il brano è profondo ed evocativo, tra country e folk d’antan (e spunta perfino una chitarra elettrica).

Hearts And Bones (non è quella di Paul Simon) è una ballata folk purissima e cristallina, perfetta per la voce limpida di Telisha, Jacknife, del giovane cantautore Jon Byrd, è dotata di una melodia meno d’altri tempi, più sullo stile di Kris Kristofferson, mentre Mamma Bird è puro folk, con un ritornello immediato ed il solito prezioso apporto di banjo, violino e quant’altro. Il CD termina con Goodnight Partner, la più attuale fra le canzoni proposte, un ottimo honky-tonk con tanto di steel e chitarra twang, e con Here With Me, altra ballata pura come l’acqua dei monti Appalachi, il secondo motivo cantato da Doug ed uno dei più toccanti di tutto il lavoro. Se in altri settori (per esempio quello culinario) tradizione ed innovazione possono anche andare a braccetto, con i Wild Ponies ci possiamo anche dimenticare per un attimo dell’innovazione, senza che questo vada però ad incidere sulla piacevolezza e sul divertimento.

Marco Verdi

Ma Che Genere Fanno? The Sacred Shakers – Live

sacred shakers live

The Sacred Shakers – Live – Signature Sounds Recordings

Quando alcuni anni fa, nel 2008, il batterista e cantante Jason Beek decise di radunare un gruppo di musicisti dell’area di Boston e dintorni per dare libero sfogo alla loro passione per il country e il gospel soprattutto, ma anche per blues, bluegrass e old time music, il tutto suonato con un piglio deciso da rockers scanzonati, non immaginava che in men che non si dica avrebbero trovato un contratto discografico con la Signature Sounds e pubblicato subito un omonimo album d’esordio http://www.youtube.com/watch?v=fdTy5UryycU . La formazione, che all’inizio vedeva cinque o sei elementi, si è poi ampliata fino agli attuali otto, con quattro chitarristi, un banjoista, un violinista, un contrabbassista, oltre allo stesso Beek alla batteria. Non ci sono nomi famosissimi nella formazione, se escludiamo l’ottima cantautrice Eilen Jewell, che però mantiene una presenza molto di supporto, limitandosi a cantare solo in due brani di questo eccellente CD dal vivo registrato nel gennaio 2013 a Cambridge, MA http://www.youtube.com/watch?v=y7hzfER7b4M . Ed è un peccato perché la sua voce sembra ideale per questa esplosiva miscela di generi, ma anche gli altri musicisti che si alternano come voci soliste sono tutti più che adeguati e nell’ambito dell’armonizzazione sono una vera delizia da ascoltare.

Il repertorio viene da oscuri brani tradizionali pescati nell’enorme tradizione della canzone popolare americana di stampo religioso, ma poi vengono eseguiti con una verve ed una freschezza che ricorda sia Carter Family, Hank Williams, Stanley Brothers e bluesman come Son House e Mississippi Fred McDowell, quanto il rock’n’roll, il blues acustico dei primi Hot Tuna meno duri, o il bluegrass di formazioni come i Dillards e i Country Gazette. La traccia d’apertura, All Night, All Day, cantata da Eilen Jewell, è subito un piccolo gioiello di gospel country, con violini, chitarre e tante voci che si rincorrono gioiosamente in una atmosfera festosa. Take Me In Your Boat, cantata dal banjoista Eric Royer, è un country-gospel-rock che mi ha risvegliato vecchi ricordi dei dischi dei citati Dillards e Country Gazette, ma anche degli Old In the Way di Garcia & Co, o dei Byrds di Sweetheart of The Rodeo, con quella riuscita fusione di tradizione e inserti elettrici più moderni. Lord, I Am The True Vine è una travolgente cavalcata gospel, con un riff preso di sana pianta da Bo Diddley ed eseguito come se fossero i Jefferson Airplane in una riuscita fusione tra country, rock e blues, con armonie vocali ammirevoli e tantissima energia, bellissimo brano, Daniel Fram che è la voce solista in questo brano è fantastico, ma tutto il gruppo è debordante! Anche Morning Train, cantata da Jason Beek, ha un train sonoro micidiale, scusate il pasticcio con il titolo, ma banjo, chitarra elettrica, violino e contrabbasso volano che è un piacere e il pubblico sembra gradire.

Satan Your Kingdom Must Come Down potrebbe uscire da qualche disco dei Grateful Dead più acustici, ancora con Royer scatenato al banjo e alla voce, che ricorda vagamente il Garcia degli esordi http://www.youtube.com/watch?v=lPOkpDuWuks . I’m Tired con il chitarrista Greg Glassman alla voce, ha delle intricatissime armonie vocali che esaltano il sapore gospel del brano e Jerry Miller, il chitarrista elettrico della formazione si inventa dei passaggi di cristallina bellezza, ma sono le voci, incredibilmente ben miscelate, a dominare. Belshazzar potrebbe averla scritta Johnny Cash ed in effetti ne ha scritta una, ma con una z sola, però questa canzone, firmata da Mosie Lister è una parente strettissima, sia per lo stile che per l’esecuzione. Won’t You Come And Sing For Me, è una bellissima ballata cantata da Eilen Jewell (in effetti è un peccato che ne canti solo due in tutto il disco), con la bella armonica di Daniel Fram a dividersi gli spazi con banjo, elettrica e violino, altra piccola delizia sonora.

I’ll Remember Your Love In My Prayers di nuovo con Royer alla guida e You Better Quit Drinking Shine, cantata da Fram, rialzano la quota country gospel delle procedure, tra florilegi di banjo, chitarra elettrica e strumenti a corda vari, infiorettati dalle solite geniali armonie vocali. You Got To Move se è quella di Fred McDowell è fatta a una velocità tripla o quadrupla rispetto all’originale, con il violino di Daniel Kellar che rincorre Byron Berline, Vassar Clement  Richard Greene in acrobazie solistiche di pregevole fattura, ben spalleggiato dalla elettrica di Miller, grande protagonista, che ci riporta al Clarence White più country. Anche Run On con Glassman che “spende” il suo secondo biglietto come voce solista, è un’altra cavalcata spericolata tra virtuosismi strumentali e vocali di squisita fattura. Little Black Train è un episodio dall’andatura più compassata e bluesy, ma con un’atmosfera sospesa veramente pregevole e la chiusa con When I Get Home I’m Gonna Be Satisfied è sempre di squisita fattura.

Bruno Conti

Tra Il Tennessee E Gli Appalachi! Diana Jones – Museum Of Appalachia Recordings

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Diana Jones – Museum Of Appalachia Recordings – Proper Records 2013

Di questa splendida signora quasi cinquantenne Diana Jones (e della sua meravigliosa storia), aveva già parlato diffusamente Bruno su queste pagine virtuali, nell’ambito dell’uscita del lavoro precedente High Atmosphere (2011) https://discoclub.myblog.it/2011/05/08/bella-musica-e-anche-una-bella-storia-da-raccontare-diana-jo/ Per chi ancora non la conoscesse, parliamo di un’artista che muove i primi passi tra Long Island e New Jersey per poi approdare nel Tennessee, dove negli anni ’90 realizza due album Imagine Me (96) e The One That Got Away (98), che pur essendo dei lavori rispettabili, non hanno attirato l’attenzione del pubblico e della stampa specializzata. La visibilità arriva con l’ottimo My Remembrance Of You (2006) e la consacrazione con i seguenti Better Times Will Come (2009) e il già citato High Atmosphere (2011) che la pone sulla scia di personaggi come Iris DeMent e Gillian Welch, esponenti di spicco della musica “americana”.

 

Questo ultimo lavoro, prodotto dalla stessa Diana Jones e Matt Combs, è stato registrato presso il Museo degli Appalachi di Clinton, Tennessee e contiene undici brani registrati dal vivo, utilizzando strumenti come banjo, mandolino, chitarre, violino e mandole, che danno alle canzoni il sapore di una musica “old time”, difficilmente riscontrabile nell’attuale panorama musicale. La Jones voce e chitarra, viene accompagnata, in questa prova, dai bravissimi amici musicisti Matt Combs (violino, banjo e mandolino) e Shad Cobb (violino e mandolino), oltre all’apporto di Joe DeJarnette  al basso e la vocalist Laurelyn Dossett.

 

Il viaggio parte con il banjo e il violino di accompagnamento di O Sinner, seguito da Drunkartd’s Daughter un pezzo lento, quasi mistico, con il violino a disegnare una struggente melodia, mentre Song For a Worker  è una preghiera in musica, con un arrangiamento senza tempo. Sparrow è una deliziosa “acoustic ballad” punteggiata nuovamente dal violino, mentre la seguente Ohio è una delicata storia d’amore irlandese (un ragazzo e una ragazza divisi dal credo religioso), come in Love O Love, una sorta di filastrocca in forma bluegrass. La narrazione riparte con Orphan’s Home in perfetto “mountain music style”, con il banjo a dettare il ritmo, cui fa seguito la triste Gold Mine, un motivo con un accompagnamento strumentale ai minimi termini, solo chitarra e violino, mentre Satan evoca delle immagini religiose, sulle allegre note di un banjo. Il viaggio si avvia alla fine con la commovente Tennessee (il mio brano preferito), con il solito fiddle che accompagna la splendida voce della Jones (una meraviglia), per poi chiudere con The Other Side, un brano a “cappella” in duetto con il poco conosciuto cantautore John Lilly.

 

Diana Jones ha scritto queste canzoni appositamente per questo progetto che trae ispirazione dalle tradizioni, registrando questo lavoro in soli due giorni, con una serie di strumenti acustici, in forma molto spartana, ma con un suono caldo e cristallino, che è la musica degli Appalachi. Se siete innamorati di questa musica, Museum Of Appalachia Recordings, è un viaggio verso la nostalgia, una narrazione di storie senza tempo, che sono importanti oggi come lo erano nel secolo scorso, con la voce della Jones, pura e originale, che trasmette l’atmosfera che si respira quando si entra in questo Museo.

NDT: Consiglio di ascoltare questo CD, nelle prossime serate invernali, davanti ad un caminetto scoppiettante (possibilmente in dolce compagnia).

Tino Montanari