Un Viaggio Affascinante Lungo Le “Strade Per La Libertà”! Rhiannon Giddens – Freedom Highway

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Rhiannon Giddens – Freedom Highway – Nonesuch/Warner

Rhiannon è una divinità della mitologia gallese, o per i più prosaici una bellissima canzone scritta da Stevie Nicks per l’omonimo album dei Fleetwood Mac: ma è anche il nome di battesimo di una delle più interessanti voci espresse dalla musica americana roots, vogliamo dire folk-blues-gospel-bluegrass-soul, e lasciamo fuori qualcosa. Rhiannon Giddens, è la leader e fondatrice dei Carolina Chocolate Drops, band di old time e Americana music, al momento in pausa di riflessione, ma in teoria ancora attivi, non per nulla gli attuali altri tre componenti del gruppo appaiono tutti  in alcuni brani di questo Freedom Highway: Malcolm Parson, al cello, Hubby Jenkins al mandolino e banjo, e Rowan Corbett alle armonie vocali e percussioni (“ossa” per la precisione). Ma la Giddens, già da qualche anno ha intrapreso anche una carriera solista parallela, che fino ad ora ha fruttato un bellissimo album, Tomorrow Is My Turn, prodotto da T-Bone Burnett, e nominato per il Grammy categoria Folk nel 2015, oltre a due EP, e varie partecipazioni, tra cui le più significative, quella a Another Day, Another Time: Celebrating the Music of Inside Llewyn Davis, Look Again to the Wind: Johnny Cash’s Bitter Tears Revisited, e forse la più sostanziosa, insieme a Elvis Costello, Marcus Mumford, Taylor Goldsmith e Jim James a Lost on the River: The New Basement Tapes, l’album con i testi inediti di Dylan.

Nel frattempo ha lavorato alla preparazione di questo Freedom Highway, che a differenza del precedente, dove appariva un solo brano a firma della Giddens, contiene ben 9 brani della stessa, da sola o con altri autori, principalmente con il co-produttore dell’album, Dirk Powell, che suona anche una infinità di strumenti nell’album. Ci sono anche tre cover nel CD, e le vediamo tra un attimo, ma lasciatemi dire subito che l’album è molto bello, non si sente assolutamente la mancanza di Burnett, anzi. Ispirato dalle narrazioni degli schiavi nell’America del 1800, ma anche degli Afro-americani del secolo scorso, dalle marce per i diritti sociali degli anni ’60, nonché da quello che succede oggi nelle strade di Baltimore e Ferguson, il disco ha quindi un tema unitario di fondo a livello di testi, ma musicalmente è molto ricco e corposo e vario nelle sue inflessioni e influenze molto diversificate: che vanno dal folk-gospel cadenzato dell’iniziale At The Purchaser’s Option, uno dei brani dove si sente di più il suo banjo, affiancato comunque da due mandolini, un cello, ma anche da una sezione ritmica che scandisce il tempo, mentre la voce chiara, limpida e ridondante di Rhiannon Giddens, intona con timbro dolente tutte le nefandezze che venivano compiute ai danni gli schiavi di colore dai loro proprietari bianchi, nelle piantagioni dell’ottocento; a seguire il puro country-blues di The Angel Laid Him Away un brano di Mississippi John Hurt che viene riproposto nella classica formula del bluesman nero, solo una voce e una chitarra acustica.

Torna il banjo pizzicato ad aprire Julia, caratterizzata da una rara, anzi direi unica, apparizione del violino, suonato da Powell, mentre il ritmo è scandito anche dal basso, per un brano che si avvicina molto ad  un’altra delle grandi passioni della Giddens, il folk celtico, rivisitato in questo reel molto rigoroso che ricorda il suono dei primissimi Steeleye Span. La successiva Birmingham Sunday è una delle canzoni più belle di questo album: scritta dal grande Richard Farina nell’epoca delle marce civili e delle canzoni di protesta, si avvale di un arrangiamento splendido, un pianoforte apre la melodia, entra subito un organo Hammond suonato da Eric Adcock, l’elettrica di Powell, percussioni varie e un coro maestoso che caratterizza questa sontuosa gospel soul ballad, costruita su un crescendo lento ma inarrestabile, con Rhiannon che ci regala una delle interpretazioni vocali più intense del disco. Molto bella anche Better Get It Right The First Time, scritta dalla Giddens e da Powell, con l’aiuto del nipote di Rhiannon, Justin Harrington, che nella parte centrale del brano intona un rap, per una volta usato in modo proficuo, accentua anziché distrarre o volere essere protagonista in modo inutile, anche il resto dell’arrangiamento è incalzante, con l’uso di una ampia sezione fiati, la chitarra di Powell che fa il Pop Staples della situazione e un call and response di grande efficacia con le altre voci utilizzate. We Could Fly potrebbe essere quasi una canzone della Joan Baez anni ’60, la voce sempre potente e limpida, sorretta solo da una chitarra acustica e da una elettrica appena accennata, con Lalenja Harrington (altra nipote?) voce di supporto, mentre Hey Bébé si avvale di un banjo pizzicato, una tromba con la sordina, Alphonso Horne, una batteria spazzolata, per un tuffo nelle strade di New Orleans, e una incursione nel dixieland (e comunque l’album è stato registrato ai Breaux Bride Studios situati a due passi, in Louisiana), la voce è più “birichina” e disincantata.

Molto intensa anche Come Love Come la storia di una giovane schiava che perde entrambi i genitori, ma trova un uomo che starà al suo fianco nella ritrovata libertà, con una musica incentrata attorno all’elettrica “acida” di Powell, un doppio banjo pizzicato, la sezione ritmica quasi marziale, per uno splendido ed intenso blues dove si apprezzano anche le armonie vocali di Rowan Corbett, quindi un brano dove appaiono gli attuali Carolina Chocolate Drops al completo, visto che c’è anche il cello di Parson. Altro brano con chiare influenze New Orleans è l’eccellente The Love We Almost Had, scritta con Bhi Bhiman, ottimo cantautore di St. Louis (ma dalle chiare ascendenze dello Shri Lanka, da cui provengono i due genitori) http://discoclub.myblog.it/2012/09/09/un-musicista-dallo-sri-lanka-questo-mancava-bhi-bhiman-bhima/ , con cui la Giddens aveva già collaborato in passato e di cui di nuovo tra un attimo, interessante comunque l’interagire tra il mellifluo soprano di Rhiannon, la tromba di Horne e il piano di Powell. Baby Boy prevede la presenza del cello con archetto e delle armonie vocali della vecchia compagna di avventure nei CCD Leyla McCalla, che duetta con il banjo e la voce della Giddens, che si intreccia anche con quella di Lalenja Harrington, per un brano che ricorda una ninna nanna molto “buia” e pessimista, per quanto affascinante nella sua crudezza. Following The North Star, solo con il banjo e le “ossa” di Corbett, è un breve strumentale che ci introduce ad un altro dei pezzi forti dell’album, una versione magistrale del classico degli Staples Singers Freedom Highway, ‘un’altra canzone di protesta che è però sorretta anche da un impianto gospel soul incalzante, con la voce duettante di Bhi Bhiman, anche alla chitarra elettrica, la voce solista alla Mavis Staples di Rhiannon Giddens, hammond e wurlitzer che se la battono con i fiati, soprattutto la tromba scatenata, per circondare le voci “esultanti” dei due protagonisti. E visto che i salmi finiscono in gloria così pure è il caso per questo ottimo Freedom Highway. Esce venerdì 24 febbraio, fatevi un appunto.

Bruno Conti

Ripassi Per Le Vacanze 4. Da “Partner” Di Norah Jones Al Red Rocks Di Denver ! Amos Lee – Live At Red Rocks

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Amos Lee – Live At Red Rocks With The Colorado Symphony – Ato Records

Ryan Anthony Massaro, in arte Amos Lee, è un nome che sta crescendo disco dopo disco, e questo viene ulteriormente certificate dal fatto che nell’Agosto del 2014 ha radunato nella mitica location dell’Anfiteatro di Denver una folla oceanica, per registrare un album dal vivo, accompagnato dai 100 musicisti della orchestra sinfonica Colorado Symphony. Amos Lee è un cantautore americano, prodotto di quella Philadelphia che ha sempre vantato una delle più alte percentuali di popolazione afroamericana, salito alla ribalta del grande pubblico nel 2004 per le sue collaborazioni con la cantante jazz-pop Norah Jones, aprendo i tour di artisti come la citata Jones, Elvis Costello, Bob Dylan, trovando in una sua canzone Colors (in duetto con Norah e usata nelle serie televisive Dr.House e Grey’s Anatomy) la chiave di volta della sua carriera. L’esordio discografico avviene con l’omonimo Amos Lee (05), a cui fanno seguito il folk-soul cristallino di Supply And Demand (06), il delizioso rhythm’n’ blues di Last Days At The Lodge (08), l’ottimo e composito Mission Bell (11) con la produzione di Joey Burns e la partecipazione dei Calexico che l’accompagnano nel disco, con la presenza di ospiti del calibro di Willie Nelson, Iron & Wine, e Lucinda Williams, per proseguire con un disco maturo e dalla bella scrittura come Mountains Of Sorrow Rivers Of Song (13), fino ad arrivare a questo disco dal vivo, dove ripercorre in quattordici tracce il suo intero percorso artistico, pescando dai suoi lavori in studio, includendo ovviamente i  brani di maggior successo, rivisitati appositamente con i fiati, gli archi e le percussioni della Colorado Symphony Orchestra.

L’apertura lo vede subito presentarsi con “singoli” di successo come Windows Are Rolled Down e Jesus (li trovate in Mission Bell), interpretati con la sua distintiva voce “soulful” e una coralità à la Staples Singers, a cui fanno seguito gli archi pizzicati di Keep It Loose, Keep It Tight, le armonie latine di El Camino, le deliziose traiettorie vocali di Violin e la “famosa” Colors, introdotta da magistrali tocchi di pianoforte che accompagnano la voce in falsetto di Lee, mentre la ritmata Tricksters, Hucksters, And Scamps è una divertente “galoppata” con gli svolazzi dell’Orchestra. Si continua con il mid-tempo di una rarefatta Flowers, per poi rispolverare un lento rhythm’n’blues come Won’t Let Me Go, sostenuto da una spolverata di archi romantici e da una chitarra “sensuale”, i fiati di una divertente Sweet Pea, cantata da Amos in stile “New Orleans”, per poi passare alla spavalderia musicale di Street Corner Preacher, e l’imperioso intermezzo di Game Of Thrones Theme con un arrangiamento orchestrale vagamente alla Led Zeppelin, prima dello stordimento finale con la sontuosa ballata Black River (una delle canzoni migliori del suo repertorio, cercatela nell’album d’esordio), qui cantata in coppia con la sua nuova bassista Annie Clements, andando a chiudere il tutto nuovamente con le armonie “soul” di una Arms Of A Woman dove emerge tutta la forza dell’Orchestra al seguito. Applausi!

Questo Live At Red Rocks With The Colorado Symphony è certamente un punto di arrivo, ma anche di ripartenza, per Amos Lee, un artista con un suo stile personale, in possesso di una voce molto espressiva e dalla tonalità limpida, che si rifà dichiaratamente a cantautori folk-soul tipo i grandi Bill Withers e Donny Hathaway, a testimonianza di un talento capace di coniugare melodia e capacità di scrittura e che lo ha portato giustamente a esibirsi sotto le stelle nella cornice spettacolare dell’Anfiteatro di Denver, una delle “location” più belle al mondo.

NDT: Le canzoni sono talmente belle che le porto in vacanza con me, e non vedo l’ora di ascoltarle di nuovo. Alla prossima e per il momento fine dei ripassi per le vacanze da parte del sottoscritto!

Tino Montanari

Recuperi Di Fine Anno Parte 3: Mavis Staples – One True Vine

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Mavis Staples – One True Vine – Anti- CD

Confesso di non essere mai stato un grandissimo fans dei Wilco: riconosco la bravura come songwriter di Jeff Tweedy e quella della band dal vivo (il loro live Kicking Television era senza dubbio un discone della Madonna), ma personalmente sono comunque più legato ai loro primi due album, A.M. e Being There, il suono dei quali era ancora influenzato (più il primo del secondo) dalla passata esperienza “roots” come co-leader insieme a Jay Farrar negli Uncle Tupelo, rispetto ai lavori successivi, nei quali alcune incursioni nel pop e nello sperimentalismo non mi hanno mai convinto fino in fondo. Sono pronto però a riconoscere una cosa: quando un musicista passa dall’altra parte della consolle (in parole povere, alla produzione) e lo fa anche bene, vuol dire che ha i numeri e che li sa usare per salire di livello: è successo in anni meno recenti con Joe Henry, ormai tra i produttori più affermati (senza scomodare T-Bone Burnett, che ormai produce e basta e di dischi in proprio non ne fa più) e sta succedendo anche con Tweedy, che da due album a questa parte si è preso cura della grande (in termini artistici, non equivocate) Mavis Staples. La coppia è solo apparentemente strana: Tweedy è sempre stato un fan degli Staple Singers , ed il fatto di abitare nella stessa città di Mavis (Chicago) ha indubbiamente favorito l’incontro. Il buon Jeff aveva già prodotto nel 2010 il bellissimo You Are Not Alone della figlia del grande Roebuck “Pops” Staples http://discoclub.myblog.it/2010/09/17/musica-dell-anima-mavis-staples-you-are-not-alone/ , ed era riuscito persino a fare meglio di un certo Ry Cooder, che si era occupato, benissimo peraltro, del precedente We’ll Never Turn Back, che era comunque uno dei dischi del 2007.

Mavis deve essere stata soddisfatta del lavoro fatto da Jeff con You Are Not Alone se lo ha richiamato per questo One True Vine, e devo dire che Mr. Wilco si è superato, operando una scelta secondo me vincente, cioè dando ampio spazio alla straordinaria voce della Staples, mettendola al centro delle canzoni, e rivestendola del minimo indispensabile di strumentazione. I musicisti presenti in studio si contano infatti sulle dita di una mano: Jeff suona quasi tutto tranne la batteria, che è nelle mani del figlio Spencer, mentre troviamo in aggiunta un piano qua, una chitarra là, qualche backing vocalist e nulla più. Ed i brani, già validi in partenza (fra poco li vedremo nel dettaglio), assumono ancora più spessore: Mavis è una che darebbe profondità ed anima anche alle canzoni dello Zecchino d’Oro, ma quando, come in questo disco, ha per le mani materiale di prima qualità ed è messa nelle condizioni di valorizzare la sua voce con arrangiamenti semplici, il risultato non può che essere uno degli album più belli di questo 2013.

L’album si compone di tre brani scritti da Tweedy (di cui due appositamente per questo CD), qualche traditional, una canzone “di famiglia” ed alcune sorprese. Apre Holy Ghost (un brano poco noto dei Low, una band del Minnesota), dove, oltre alla voce, troviamo solo chitarra acustica, basso e qualche nota di piano elettrico (ad opera di Mark Greenberg), eppure la sensazione è che anche soltanto uno strumento in più sarebbe fuori posto. Every Step, di Tweedy, è già un mezzo capolavoro, un blues elettrico (c’è anche la batteria) con una leggera distorsione chitarristica da parte di Jeff: ma il centro della canzone è la performance vocale di Mavis, davvero strepitosa, ma con una leggerezza e naturalezza disarmanti. Come se cantasse mentre prepara il sugo per la pasta. Can You Get To That è un brano dei Funkadelic, che nelle mani di Jeff e Mavis diventa un gustoso gospel tinto di rock, con un botta e risposta da applausi tra la Staples ed il coro. Un arrangiamento geniale. Splendida anche Jesus Wept (ancora di Jeff), una vibrante soul ballad con un feeling formato elefante, una melodia profonda ed un perfetto dosaggio della strumentazione. Far Celestial Shore è invece un brano di Nick Lowe, con una melodia tipica del suo autore, ma in cui l’elemento pop e sostituito da un mood gospel vivace e ritmato: la voce di Mavis come al solito è in primissimo piano e tutto il resto cucito addosso con sapienza. Complimenti per la scelta!

What Are They Doing In Heaven Today? e Sow Good Seeds sono due traditionals: la prima è un intenso gospel, arrangiato in maniera classica (ma che voce), mentre la seconda è un bluesaccio con tanto di slide, un brano che probabilmente Mavis canta da quando era bambina. I Like The Things About Me è invece un pezzo scritto dal padre Roebuck http://www.youtube.com/watch?v=bqc1I9oSGiE , nel quale Tweedy si lascia andare a qualche distorsione, ma la resa del brano non ne risente affatto; Woke Up This Morning è ancora una canzone di dominio pubblico, l’ennesimo bellissimo gospel, decisamente trascinante: ditemi voi se non vi viene voglia di battere le mani a tempo. L’assolo di chitarra di Jeff è la ciliegina sulla torta. Chiude la title track, una outtake di un album dei Wilco (Sky Blue Sky), scarna nell’accompagnamento ma piena di anima.

Un gran disco: ormai Mavis Staples non deve dimostrare più nulla, ma a settant’anni suonati ha trovato in Jeff Tweedy il suo partner artistico ideale.

Marco Verdi