Il Ritorno Di Una Band Dimenticata…E Forse Dimenticabile! Clem Snide – Forever Just Beyond

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Clem Snide – Forever Just Beyond – Ramseur CD

Forse pochi di voi si ricorderanno dei Clem Snide, band di alternative country originaria di Boston che prende il nome da un personaggio creato dal noto scrittore William S. Burroughs (presente tra l’altro nella famosa opera Il Pasto Nudo). Il gruppo è stato creato da Eef Barzelay nell’ormai lontano 1991, ma ha esordito solo nel 1998 con You Were A Diamond, al quale sono seguiti una mezza dozzina di album rigorosamente indipendenti fino al 2010 (c’è stato per la verità un disco anche nel 2015, Girls Come First, ma era in realtà un lavoro solista di Barzelay dato che era l’unico musicista presente). Nella decade ormai trascorsa ad Eef è capitato un po’ di tutto, dallo scioglimento della band alla dichiarazione di bancarotta con conseguente perdita della casa, passando per la separazione dalla moglie: una serie di avvenimenti che avrebbero messo a dura prova chiunque, ma Barzelay ha ricominciato passo dopo passo a rimettere insieme i cocci della sua vita con l’aiuto della meditazione spirituale, fino a riformare il suo vecchio gruppo, che ora è un trio con le new entries Bill Reynolds al basso e Mike Marsh alla batteria.

Forever Just Beyond è quindi da considerarsi il disco della rinascita artistica per Barzelay, il quale per l’occasione ha fatto le cose in grande facendosi produrre da Scott Avett degli Avett Brothers, che si è anche occupato di diverse parti strumentali e pubblicato l’album per l’etichetta di famiglia, la Ramseur Records, e ha messo a disposizione del nostro un paio di sessionmen di prestigio come Dana Nielsen al sassofono (il quale è però più famoso come tecnico del suono, avendo lavorato tra gli altri con Neil Young, Santana, gli stessi Avett Brothers, Bob Dylan in Tempest – ed Adele nel multimilionario 21) e soprattutto Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show al violino. C’erano quindi tutti gli ingredienti per un ritorno coi fiocchi, ma purtroppo a Forever Just Beyond manca forse la cosa più importante: le canzoni. Barzelay è in possesso di uno stile decisamente intimista, a volte direi quasi sonnolento, ed usa una strumentazione piuttosto scarna a supporto della sua voce che già di per sé non è fulminante: la cosa potrebbe anche funzionare se però ci fossero appunto dei brani di qualità a sostenere il tutto, ma qui purtroppo dopo un po’ le canzoni finiscono con l’assomigliarsi tutte, ed Eef secondo me non è in possesso del carisma e del mestiere necessari per sopperire a tali mancanze (ed Avett non può fare più di tanto).

Non è un brutto disco Forever Just Beyond, ma nemmeno un lavoro che mi sentirei di consigliare, e forse dimostra che Eef non era ancora pronto a tornare in auge. Roger Ebert fa iniziare l’album in tono intimo, con una ballata eterea guidata dal piano e dalla voce calma del leader, una melodia discorsiva ed un background tra folk e rock, che ricorda alla lontana lo stile dei Fleet Foxes. Una bella chitarra elettrica introduce Don’t Bring No Ladder, il pezzo più solare del CD, dal ritmo accentuato pur se in modo soffuso ed un motivo diretto e orecchiabile: Barzelay canta come se si fosse appena svegliato, ma quello è il suo modo di porsi e non inficia la canzone che è abbastanza riuscita. La title track torna alle atmosfere del primo brano, strumentazione sparsa, voce sospesa ed un tappeto di chitarre a sopperire all’assenza della batteria: un pezzo non facile ed un po’ troppo monotono per i miei gusti, meglio The Stuff Of Us che nonostante mantenga un’aura malinconica ha un sapore folk che la rende più approcciabile pur non avendo una melodia memorabile.

Sorry Charlie è un brano cadenzato che è anche quello che somiglia di più ad una country song, anche se la voce lamentosa di Eef comincia a darmi sui nervi, Easy è ancora sonnolenta ed il motivo non certo canticchiabile al primo ascolto non l’aiuta, così come Emily che dura quattro minuti ma sembrano otto. Il problema, oltre al suono decisamente monocorde, è il songwriting che fa fatica ad uscire, con i vari brani che si somigliano tutti: mi sarei aspettato di più da Avett, ma neanche lui può fare miracoli col materiale a disposizione (persino il violino di Secor è utilizzato col contagocce ed in maniera troppo languida, ben lontano dalle trascinanti scorribande degli OCMS). Tra i restanti pezzi segnalo solo l’acustica The Ballad Of Eef Barzelay, che ha un discreto sapore tra folk e western anche se la voce del leader tende ad appiattire tutto

.I Clem Snide non sono mai stati un gruppo fondamentale, ed anche questo comeback album nonostante le buone intenzioni si rivela essere un lavoro piuttosto mediocre e noioso.

Marco Verdi

*NDB Per una volta mi permetto di dissentire da quanto scritto sopra dall’amico Marco; nel Blog c’è sempre la massima libertà di esprimere le proprie opinioni  senza interferenze, ma anche di emettere pareri diversi, per cui vorrei dire che a me l’album non è dispiaciuto per nulla, certo non è un capolavoro, ma neppure così da massacrare, ed ha comunque avuto ottime recensioni in giro per il mondo, per cui valutate voi, magari anche ascoltando i video delle canzoni inserite nel Post.

Straordinari…Come Sempre! Old Crow Medicine Show – Volunteer

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Old Crow Medicine Show – Volunteer – Columbia/Sony CD

E’ da anni che considero gli Old Crow Medicine Show la migliore band di Americana in circolazione, superiore anche ai bravissimi Avett Brothers: una conferma l’hanno data lo scorso anno quando è stato pubblicato lo splendido tributo dal vivo a Blonde On Blonde di Bob Dylan, dato che non è da tutti affrontare uno dei dischi più importanti della storia del rock e riproporlo con una tale inventiva, bravura e creatività https://discoclub.myblog.it/2017/05/09/come-rinfrescare-degnamente-un-capolavoro-assoluto-old-crow-medicine-show-50-years-of-blonde-on-blonde/ . E poi il sestetto guidato da Ketch Secor e Critter Fuqua (le due menti creative, gli altri sono Kevin Hayes, Chance McCoy, Morgan Jahnig e Cory Younts) è in continua crescita, disco dopo disco: il loro ultimo album Remedy era meglio di Carry Me Back, che a sua volta era meglio di Tennessee Pusher. Volunteer è il nuovissimo lavoro degli OCMS, giunge a quattro anni da Remedy e manco a dirlo è il più bello mai registrato dal gruppo: i nostri sono andati ad inciderlo nel mitico RCA Studio A di Nashville, facendosi produrre per la prima volta da Dave Cobb.

Era logico che prima o poi il miglior gruppo Americana ed il miglior produttore del genere si incontrassero, e se Cobb ha messo a disposizione tutte le sue capacità e la sua esperienza, i nostri hanno portato in dote alcune tra le loro migliori canzoni di sempre: se poi aggiungete il fatto che dal punto di vista della tecnica sono sempre più bravi (e qui sono coadiuvati in tutti i pezzi da Joe Andrews che funge quasi da settimo Corvo), capirete perché Volunteer si può definire il più bel disco dei nostri. La loro miscela di country, bluegrass, folk e rock non ha eguali al momento, ed ormai hanno maturato una capacità nel songwriting che consente loro di sfornare grandi canzoni con estrema facilità. Flicker & Shine, il primo singolo estratto, è un bluegrass irresistibile dal ritmo forsennato, suonato con piglio da vera rock band, un ritornello corale dal sapore deliziosamente tradizionale ed uno spettacolare cambio di ritmo a circa metà canzone. A World Away è strepitosa, una rock song fatta e finita ma suonata con strumenti della tradizione (comunque c’è anche una chitarra elettrica, per la prima volta dal 2004), dotata di un motivo di prim’ordine ed il solito feeling smisurato; la guardia non si abbassa neppure con la magnifica Child Of The Mississippi, altra coinvolgente e cadenzata country song con marcato accento sudista, dotata ancora di un ritornello eccellente.

La saltellante Dixie Avenue è un vivace honky-tonk elettroacustico, anch’esso dalla squisita linea melodica, Look Away dicono gli OCMS essergli stata ispirata dai Rolling Stones, ed in effetti è una ballatona sul genere di Wild Horses, davvero stupenda e suonata alla grande, come si usava fare negli anni settanta (c’è anche un limpidissimo pianoforte), mentre Shout Mountain Music è un altro di quei bluegrass al fulmicotone che dal vivo fanno saltare tutta la platea. Mi rendo conto che sto usando aggettivi altisonanti, ma album come questo non si ascoltano tutti i giorni (e fortunatamente di dischi belli ne ascolto parecchi). The Good Stuff è un pimpante e gustoso western swing, in cui i nostri sembrano dei veri texani (ed il ritmo è sempre elevato), Old Hickory è una fulgida country ballad che sembra una outtake di Sweetheart Of The Rodeo (la melodia assomiglia ad una You Ain’t Goin’ Nowhere rallentata), Homecoming Party inizia come una folk song acustica, poi entra la band al completo ed il brano assume la veste di un intensa e limpida country tune, pur mantenendo l’aria malinconica dell’inizio. Il CD termina con il breve strumentale Elzick’s Farewell (unico traditional), altro bluegrass velocissimo e con un non so che di irlandese (ma sentite come suonano), e con Whirlwind, ancora una ballata country-rock decisamente bella, che ricorda non poco la Nitty Gritty Dirt Band dell’epoca d’oro

Non solo Volunteer è il disco più bello degli Old Crow Medicine Show, ma credo che a fine anno sarà difficile scalzarlo dalla mia Top Three.

Marco Verdi

La “Cura” E’ Sempre Eccellente! Old Crow Medicine Show – Remedy

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Old Crow Medicine Show – Remedy – ATO Records

A meno di due anni da Carry Me Back di cui vi avevo puntualmente riferito sul Blog http://discoclub.myblog.it/2012/08/22/nostalgici-del-futuro-nel-passato-old-crow-medicine-show-car/, e da cui potete recuperare eventuali altre notizie sulla band, tornano gli Old Crow Medicine Show, con il nuovo album Remedy, che vede il ritorno in pianta stabile nel gruppo di Critter Fuqua, che peraltro aveva partecipato da “esterno” anche ai due precedenti, riportando la formazione al classico sestetto (o forse settetto?). In copertina la bandiera del Tennessee, quasi a significare un atto di amore per la loro nuova residenza (i sei/sette vengono un po’ da tutti gli Stati Uniti e si erano incontrati in quel di New York, dove grazie all’aiuto di Doc Watson era partita la loro carriera, a cavallo del nuovo secolo). Un altro personaggio importante si affaccia sulle loro traiettorie periodicamente: un certo Bob Dylan, che già sull’omonimo album di debutto aveva regalato alla band un brano inedito, Wagon Wheel, che li aveva fatti conoscere al grande pubblico e che, a tutt’oggi, è una delle canzoni migliori del repertorio degli OCMS.

Ma il buon Bob evidentemente ha sviluppato una passione irresitibile per il gruppo: infatti anche per il disco di quest’anno ha spedito il testo di una nuova canzone, Sweet Amarillo, completo di istruzioni su quali strumenti utilizzare, meno armonica e più violini, il ritornello dopo la 16a battuta, mi raccomando. Inutile dire che il brano, completato da Ketch Secor e Critter Fuqua, è uno dei migliori, probabilmente il migliore del disco, un pezzo che accoppia gli abituali bluegrass e otm dei “Crow” con sfumature cajun e la classifica andatura del miglior Bob Dylan campagnolo, i violini ci sono, quelli di Chance McCoy e Ketch Secor, un “friccico” di fisarmonica a cura di Fuqua, banjo, mandolino, chitarre, contrabbasso e anche una inconsueta batteria, raramente presente nella strumentazione, per segnare il tempo da valzerone della canzone, che più la ascolti più ti piace, magari meno orecchiabile di Wagon Wheel ma di piacevole impatto https://www.youtube.com/watch?v=PMNUCD9US5I . Un’altra caratteristica tipica di questa formazione è sempre stata quella dell’utilizzo di produttori di provata qualità: David Rawlings per i primi due, poi Don Was e, per gli ultimi due dischi, Ted Hutt. E anche se qualcuno sembra non gradire una certa patina, minima, di “contemporaneità” fornita da Hutt, al sottoscritto il sound, anche di questo nuovo album piace, un poco quello che è stato fatto, con le dovute differenze, da Rick Rubin con gli Avett Brothers.

Diciamo che il fatto che i componenti vadano e vengano, a compensare il rientro di Fuqua Willie Watson ha iniziato una carriera solista con Folk Singer Vol.1 https://www.youtube.com/watch?v=b5ukmBguMzYrende i lavori degli OCMS più vari e meno prevedibili. Anche Brushy Mountain Conjugal Trail, dal testo salace e divertente ha un approccio musicale ed un tipo di suono che sembra uscire dai solchi del Dylan nashvilliano di Blonde On Blonde, tra armonica e piano che si fanno largo nel consueto tappeto di mandolini,chitarre acustiche e dobro, tipico del gruppo, e pure il cantato è decisamente “ispirato” dal vecchio Bob https://www.youtube.com/watch?v=PiBXPWZnOyE . I vecchi fans non si preccupino, i frenetici breakdowns a ritmi frenetici, con violini, banjo e tutti gli ingredienti del bluegrass vecchio e nuovo che ti arrivano addosso come treni, non mancano, a partire da una 8 Dogs 8 Banjos che è un programma fin dal titolo. E non mancano neppure quelle ballate struggenti, tipiche del loro repertorio, come la meravigliosa e malinconica Dearly Departed Friend, una piccola meraviglia di strumentazioni parche e armonie vocali stupende (che sono presenti comunque in tutto il disco, un marchio di fabbrica), un esempio di country ballad perfetta, con pedal steel e batteria discreta che si integrano nel suono acustico tipico dei nostri amici. Mean Enough World,  viceversa, è un’altra sarabanda a tutta velocità, con armonica, voci, banjo e contrabbasso che si intrecciano in acrobatiche combinazioni.

Firewater è una ulteriore dimostrazione della loro dimestichezza con le canzoni country, anche quelle che prevedono una bella costruzione armonica, non solo velocità frenetiche e virtuosismi a pié sospinto, ma anche gusto per la melodia e delicate nuances sonore. Però li puoi tenere fermi giusto  per quei tre minuti, poi le mani riprendono a viaggiare sugli strumenti come se le loro vite e quelle degli ascoltatori dipendessero dal divertimento che riescono a generare, come nelle evoluzioni di Brave Boys. Doc’s Day è un sentito omaggio al loro vecchio mentore, Doc Watson, un brano che ha mille profumi, bluegrass, folk, old time, blues, hillbilly e tutti gli ingredienti di quella che viene comunemente definita country music, divertente e coinvolgente, suonata con gran classe, non puoi fare di muovere il piedino a tempo con la musica. O Cumberland ci porta dalle parti degli Appalachi e del folk old time, tra violini, banjo, dobro, l’immancabile armonica e sonorità acustiche che confermano la loro adesione alla tradizione della musica popolare americana. Ribadite in una Tennessee Bound che è un peana e un’ode allo stato che li ospita e da cui gran parte della musica che si ascolta in questo Remedy ha avuto le sue origini e la sua consacrazione.

Notevole anche Shit Creek, ancora un esempio della bravura degli Old Crow Medicine nel calarsi fino in fondo nei meandri della musica country ed uscirne sempre con qualcosa di originale e ricco di spunti, qui sono le derive folk del cantato corale e gli indiavolati interscambi tra i violini, il banjo e tutto il restanti elementi sonori della band. Anche un pizzico di western swing in Sweet Home per ulteriormente movimentare e differenziare i contenuti dell’album, prima di accomiatarsi con una intensa The Warden che li accomuna con i loro amici di oltreoceano, Mumford and Sons, con cui hanno condiviso un tour, in giro per l’America in treno, sul Big Express. quei brani maestosi ma semplici al tempo stesso, che si riappropriano della grande tradizione musicale, in questo caso americana, e, senza stravolgerla troppo, la fanno conoscere alle nuove generazioni, senza dimenticarsi delle “vecchie”, che approvano incondizionatamente (sto annuendo(. Niente di nuovo sotto il sole, però anche stare lì e prenderlo richiede quantomeno una certa classe! Esce domani, se volete fare un ascolto nel frattempo http://www.npr.org/2014/06/22/322596225/first-listen-old-crow-medicine-show-remedy

Bruno Conti

Un Tipo “Strano”, Bravo Però! Pokey LaFarge.

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Pokey LaFarge – Pokey LaFarge – Third Man Records

Un tipo “strano” questo Pokey LaFarge,  forse non “unico” ma certamente originale, anzi, come diceva la mia mamma, “un originale”. Se gli aggiungete un paio di baffetti, un cravattino e un panama (e secondo me li ha) potrebbe trasformarsi anche in Leon Redbone. Altro personaggio, peraltro tuttora in attività, che circa 35, 40 anni fa, ebbe un notevole successo di critica, ma anche di pubblico ( i suoi dischi entrarono nelle classifiche di vendita, fino alla Top 40 di Double Time nel 1977) con una miscela di jazz, ragtime, vaudeville, blues, folk, il tutto solidamente fondato nella musica degli anni ’20 e ’30, quelli subito prima, durante e dopo la Grande Depressione. E prima ancora c’era stato Dan Hicks e andando a ritroso Jim Kweskin con la sua jug band e tanti altri che nel corso degli anni si sono appassionati a questo recupero delle tradizioni della musica popolare americana.

In questi tempi da Seconda Grande Depressione si assiste ad un ritorno alla musica acustica, nelle sue varie forme, musicisti come i Carolina Chocolate Drops o Luke Winslow-King si possono considerare dei “neo-tradizionalisti”, come pure gli Old Crow Medicine Show nel loro ambito più country e bluegrass, con un pizzico di old time music. E, non a caso, il loro leader Ketch Secor produce questo omonimo Pokey LaFarge, che è già il suo nono disco (compreso un 45 giri per la Third Man Records di Jack White, alla quale sono tornati per questo CD) in vari formati e formazioni e in meno di sette anni di carriera. Dalla ragione sociale della formazione è sparito quel South City Three che aveva caratterizzato tutti i dischi della formazione dal 2009 ad oggi, compreso il Live In Holland, uscito lo scorso anno in Europa per la Continental Song City, comunque la formazione si è ampliata e si sono aggiunti al trio originale di chitarra, contrabbasso e armonica, anche una cornetta e un clarinettom Chloe Feoranzo, anche voce femminile aggiunta. Quindi sempre più anni ’30 ma senza dimenticare quella patina country, old time che lo differenzia parzialmente, ma non troppo, dal citato Redbone, per un genere che è stato definito Riverboat Sound.  Lui, il nostro amico Andrew Heissler, 30 anni, da Bloomington, Illinois, viene da una passione giovanile per il blues (in fondo è nativo dello stato dove si trova Chicago, una delle capitali del Blues), ma anche per il bluegrass di Bill Monroe, suona il mandolino e la chitarra e canta con una bella voce che  si ispira soprattutto al country, ma ha naturalmente retrogusti jazz e blues.

La musica è veloce e ritmata, con gli strumentisti che si alternano alla guida del piccolo combo e supportano LaFarge con brio e tecnica, come nella iniziale Central Time che è subito indicativa di quanto ascolteremo nel resto del disco. Divertente l’old time swing di The Devil Ain’t Lazy con l’armonica frenetica di Ryan Koenig (è lui Leon Redbone, guardatelo) in alternativa alla chitarra di Adam Hoskins e la voce di Pokey che ci riporta al suono dei vecchi 78 giri dell’epoca,  riprodotti con la tecnologia di oggi, con testi che parlano di quanto ci succede intorno, forse anche per questo si può parlare di modernismo retrò. Quando entrano il clarinetto e la cornetta, come nella bella ballata malinconica What The Rain Will Bring, si accentua questo spirito jazzato da bei tempi andati, non guastano in questo senso anche le saltuarie ma precise armonie vocali che accompagnano l’incedere del cantato del leader in quasi tutti i brani. Il tenore nasale di LaFarge (ma gustatevi il falsetto della deliziosa Let’s Get Lost) ci scaraventa in questi brani che profumano di inizio secolo (quello scorso), come Woncha Please Don’t Do It e l’effetto è più quello dei musicisti bianchi di quell’epoca, un Jimmie Rodgers, o a livello strumentale, Django Rheinhardt e Stephane Grappelly, quando Ketch Secor aggiunge il suo violino alle procedure come in One Town At A Time, che per la presenza di una steel guitar ante litteram potrebbe avvicinarsi allo swing di Bob Wills.

In Kentucky Mae, sempre malinconica si aggiunge un quartetto archi e torna la coppia di fiati, piccoli interventi di una chitarra elettrica che insinua la sua modernità apportano leggere correzioni al sound del disco che per il resto è abbastanza atemporale. Doveva essere nel preambolo ma lo dico qui, ovviamente per ascoltare questa musica avete due opzioni: o siete grandi appassionati del genere e in questo caso potete aggiungere anche una stelletta al giudizio critico dell’album, oppure vi dovete calare in un mondo musicale dove il rock o il blues, ma anche il country non hanno nulla del suono dal R&R in avanti, magari da prendere in piccole dosi. Nella frenetica Bowlegged Woman fa anche capolino un pianino indiavolato, ci spingiamo fino al boogie woogie ma il suono rimane rigorosamente unplugged e old time come in City Summer Blues che ti può ricordare sinuose donnine in gonnellino in vecchi locali di un’epoca che non c’è più, ma potrebbe ritornare! Insomma ci siamo capiti, forse, “vecchia musica per giovani” o “musica giovane per vecchi”?  Boh. Bravo, però!

Bruno Conti

Bellissima Musica E Anche Una Bella Storia Da Raccontare! Diana Jones – High Atmosphere

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Diana Jones – High Atmosphere – Proper Records

Come promesso eccomi qui a raccontare della musica e della storia di Diana Jones. Spesso dietro alla musica di un bel disco si nasconde o si appalesa anche una “bella storia”. Quella della Jones, almeno nelle premesse, è simile a ciò che Mary Gauthier ha raccontato nel suo bellissimo album The Foundling. Se si dovesse riassumere come il canovaccio per un racconto o una sceneggiatura (e quando scrivo un Post ogni tanto uso questa tecnica per favorire un disco o un musicista rispetto a un altro) si potrebbe dire: bambina abbandonata viene adottata da una famiglia e…segue storia. Quella della trovatella Gauthier la sapete tutti, quella di Diana Jones segue un altro percorso. Quando viene adottata a metà degli anni ’60 da una famiglia il cui capofamglia era un ingegnere chimico che per il suo lavoro si spostava tra Long Island, New Jersey e Rhode Island, la piccola Diana era convinta che i bambini arrivassero con il sistema dell’adozione perché anche il fratello di due anni e mezzo entrò in famiglia attraverso la stessa procedura.

Purtroppo la madre aveva dei seri problemi personali non connessi con i problemi dell’adozione e quando Diana arriva ai 15 anni decide di lasciare la famiglia e diventa quasi una “senza casa” venendo ospitata saltuariamente sui divani delle case di amici. Nel frattempo ha abbandonato la high school, lavora in una fabbrica di goielli del Rhode Island e mentre frequenta part-time un college decide di provare a richiedere una borsa di studio per entrare alla Sarah Lawrence University. Inutile dire che come nelle storie a lieto fine, all’ultimo minuto, quando ormai stava lasciando l’ennesimo appartamento sfigato arriva la lettera che la accoglie in questa istituzione americana situata a Bronxville/Yonkers nello stato di New York. E quindi la possibilità di tre pasti al giorno, una doccia e un intero mondo di studio, biblioteche e musica e arte. La nostra amica si laurea in storia e arte nel 1988 e, trasferitasi a Manhattan, con qualche piccolo risparmio a disposizione e l’aiuto del padre adottivo, decide di provare a rintracciare la sua vera madre.

E qui per effetto di una diversa “sliding door” la storia si diversifica da quella di Mary Gauthier. Diana Jones scopre che la famiglia della sua madre naturale si chiamava Maranville e inizia a chiamare tutti i Maranville della zona di New York, in breve tempo accumulando un enorme debito telefonico e dando fondo a tutte le sue risorse finanziarie. A questo punto la storia si fa romanzata (ma probabilmente vera) e Diana dice di sognare di un ufficio postale dove una donna le dice che sua madre era nativa del Tennessee. Dopo ulteriori ricerche trova dei Maranvilles nel Tennessee, chiama un numero e munita della sua data di nascita racconta la sua storia. A posteriori scopre che la persona che le risponde al telefono è sua nonna che non capisce al volo la situazione e quando racconta la storia al marito (e nonno) si accorgono che la nipote ritrovata non ha lasciato il suo numero di telefono creando disperazione nell’anziano nonno che passa una brutta nottata non sapendo se la giovane avrebbe richiamato il giorno successivo. Cosa che puntualmente accade quando poi scopre che la famiglia, tra nonni, zii e altri parenti, parlavano come lei, avevano sembianze simili, in definitiva erano la sua vera famiglia naturale.

A questo punto e siamo alla fine del 1989, Diana Jones si trasferisce a vivere a Londra per conoscere la nuova famiglia della mamma che nel frattempo era andata a vivere in Inghilterra ed aveva avuto altri due figli. Dopo tre anni di felice convivenza rimane seriamente ferita in un grave incidente d’auto e nella convalescenza rinnova la sua passione per la musica nata nell’infanzia e scopre una affinità per la musica del Tennessee e in particolare del nonno, Robert Lee Maranville, che in gioventù era stato chitarrista e cantante con la band di Chet Atkins. Decide che la musica sarà la sua vita e la sua carriera, diventa una musicista itinerante per l’Europa continentale e poi di nuovo a New York e infine a Austin, che è una città magica per la musica e lì tra il 1997 e il 1998 incide e pubblica i suoi primi album, che pur tra ottime critiche non riescono a uscire dal livello locale. Nel frattempo le frequenti visite al nonno le fruttano un patrimonio di conoscenza del grande serbatoio della canzone popolare americana che le saranno utili nella seconda fase della sua carriera.

Quando il nonno muore nel 2000 la lascia in uno stato di prostrazione e dolore per la perdita ed avendo ormai 34 anni indecisa sulla strada da percorrere. Un nuovo incontro fortunato e la possibilità di entrare in un istituto di musica per artiste femminili che le dà un lavoro ma anche il tempo libero per scrivere nuove canzoni è la molla che la lancia definitivamente nell’ambito della musica di qualità. Nel 2006 esce il primo album della fase 2, My Remembrance of You, undici canzoni di notevole spessore, ispirate dalle tradizioni musicale degli Appalachi e con la partecipazione di Jay Ungar al violino e Duke Levine al mandolino e le armonie vocali della grande Ferron. Il disco, dedicato al nonno, le frutta il premio come Miglior Artista Emergente (a 41 anni) ai Folk Alliance Awards. D’altronde i bluesmen di colore di solito a che età esordiscono? Una adolescente al confronto. Lo stesso anno pubblica un altro disco autoprodotto in coppia con Jonathan Byrd altro songwriter “emergente”, intitolato Radio Soul.

 

L’interesse generato da questi dischi le fa finalmente ottenere un contratto internazionale con l’inglese Proper Records e nel 2009 esce il bellissimo Better Times Will Come che contiene la sua versione di Henry Russell’s Last Words incisa l’anno precedente da Joan Baez in Day after tomorrow, il disco prodotto da Steve Earle che si dice le abbia consigliato il brano della Jones. Anche Gretchen Peters incide una sua versione di If I had a gun. Nel disco appaiono alcuni nuovi amici, ammiratori e ammiratrici tra cui Betty Elders, Nanci Griffith, Mary Gauthier e Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show.

 

Quest’ultimo suona violino, viola e banjo e cura le armonie vocali e la produzione del nuovo High Atmosphere che ufficialmente esce domani sempre per la Proper Records. Ci sono anche David Mansfield e Duke Levine che si occupano delle chitarre in Sister uno dei brani portanti e tra i migliori dell’album. Anche Jim Lauderdale è presente in tre brani tra cui l’intensa Funeral Singer, una canzone dalla genesi travagliata che racconta sotto forma di duetto di questa inconsueta “carriera” di cantante ai funerali degli amici. Diana Jones ci mette, come al solito, molto di suo, a partire dalla voce, uno strumento particolare con un timbro riconoscibile che la inserisce nel filone delle “voci uniche”, in compagnia di gente come Gillian Welch, Iris Dement e Alison Krauss a cui spesso viene accostata. Vogliamo chiamarlo country-folk?

 

Oltre a tutto il disco prende il nome da una vecchia compilation della Rounder pubblicata nel 1975 che nel suo sottotitolo recitava “Ballads and banjo tunes from Virginia and North Carolina” e mi sembra perfetto come presentazione. Ovviamente sapete cosa aspettarvi, però vista questa rinascita della musica acustica in America, oltre ai nomi citati vengono in mente gli Avett Brothers, Darrell Scott, la Del McCoury Band e, cito a caso, personaggi come Jim Rooney, la Nitty Gritty Dirt Band e in tempi recenti i Trampled by Turtles, Carolina Chocolate Drops, Abigail Washburn, Crooked Still e tutto questo filone che ripropone old mountain music, bluegrass, country tradizionale e musica delle “radici” in generale”. La stessa Diana Jones ci consiglia Ginny Hawker, investigherò!

 

Tornando al disco, dodici brani, poco meno di 40 minuti, secondo alcuni la durata perfetta, si alterna tra le eteree “atmosfere” appalachiane della title-track, la stupenda ballata molto evocativa I Don’t Know dove il leggero vibrato della voce vissuta della Jones dona un fascino unico al brano, il folk minimale di I Told the man. Ma anche Little lamb ancora una dolcissima ballata cantata con grande trasporto e impreziosita dal violino di Ketch Secor. Non manca l’old time music d’ordinanza di Poverty ancora con banjo e violino in grande spolvero. Ma in definitiva è bello tutto il disco che sarebbe potuto uscire negli anni ’50 o ’60 ma anche oggi mantiene intatto quel fascino particolare e atemporale della bella musica. Sapete cosa aspettarvi, quindi amanti della dance, del metal e del pop astenersi prego.

Se digitando in rete il suo nome vi appaiono le imprese del famoso archeologo non fateci caso e andate al suo sito http://www.dianajonesmusic.com/ Come al solito sono andato “un po’ lungo”, ma se siete arrivati alla fine della lettura ne valeva la pena!

Bruno Conti