La Montagna Ha Partorito Un Topolino? Sade Soldier Of Love

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Sade – Soldier Of Love – Epic/SonyBmg

Dieci anni di attesa (lo so, lo so, otto se contiamo anche l’album dal vivo) ed ecco il nuovo CD del gruppo Sade, loro si definiscono così, Stuart Matthewman, Paul Denman, Andrew Hale e Sade Adu, i soliti collaboratori storici sparsi per il mondo si sono riuniti negli studi Real World di Peter Gabriel (magari avrebbero potuto dare una ascoltatina negli studi limitrofi!) ed il risultato è questo Soldier Of Love che terrete tra le vostri mani, se volete, il giorno 5 febbraio in Italia e l’8 nel resto del mondo.

Mah?!?

Dieci brani molto uniformi nella loro vellutata sequenza, e questa è stata sempre caratteristica comune anche degli album precedenti, il ritmo è quasi sempre simile, creato con batterie elettroniche e programmazioni varie che sono le vere protagoniste del disco, aldilà della voce della protagonista che rimane sempre uno strumento sensuale, immutata dagli anni (sono 51 anche per lei).

Il risultato finale, se devo essere franco, varia tra il noioso e l’irritante (con le dovute eccezioni, poche): un sound spettrale incentrato su questi ritmi artificiali creati dalla programmazione della batteria, con pochissime variazioni, che a lungo andare diventa tedioso e irritante, mi ripeto. Non mi creerò molti amici ma mi sembra che la formula che inizialmente funzionava, soprattutto nei primi albumi (Promise e Diamond Life rimangono dei signori album nel loro genere), comincia a mostrare la corda: qualche eccezione c’è, la conclusiva The Safest Place, dalle atmosfere rarefatte e sospese, senza batterie elettroniche a rompere i ministri, chitarre acustiche ed elettriche appena accennate, archi veri o virtuali che siano (odo un cello?), la voce raddoppiata di Sade, pochi elementi ma ben delineati, una direzione “acustica” da perseguire. Anche In Another Time con il suo easy jazz pianistico, supremamente cool, una elettrica con un leggero vibrato, un sax, una chitarra acustica e un violino che si inseguono nei loro assoli intrecciati al sax che ritorna e Sade suadente al meglio delle sua capacità.

Skin sembra Smooth Operator 25 anni dopo ma senza la sorpresa della novità e con quella batteria elettronica veramente irritante, Babyfather, dai toni leggermente reggae (secondo me il programmatore aveva schiacciato il mode Why can’t We live together di Timmy Thomas ma il computer è andato in tilt), con i suoi coretti con bimbi raggiunge dei momenti veramente imbarazzanti, volendo essere tenera ma risultando scontatissima. The Moon and the sky e la title-track dai toni vagamente marziali si appiattiscono su queste sonorità da supermarket radiofonici, risultando poco memorizzabili e memorabili.

Cosa rimane? Morning Bird con la sua delicata introduzione pianistica e percussioni non invasive si inserisce nell’elenco dei brani riusciti che ti comunicano qualcosa e sono tipici della produzione più riuscita di Sade, idem per Long Hard Road, sostituite una chitarra acustica al piano, una sezione di archi a sottolineare la voce della cantante anglo-nigeriana e voilà i giochi son fatti. Non male anche Be that easy, un bel contrabbasso, una melodia molto dolce, un arrangiamento vocale curato nei minimi particolari e il brano scorre piacevole (d’altronde il termine smooth sta per vellutato, liscio, scorrevole, sinuoso).

Quindi, in definitiva è brutto quesco disco? No! Ma non è neanche bello. fate vobis.

Bruno Conti

Un’Erede Per Carole King e Laura Nyro! Diane Birch – Bible Belt

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Diane Birch – Bible Belt – S-Curve Records 2009

Devo ammettere, mia colpa, che qualche mese fa, la pubblicazione di questo disco mi aveva interessato, poi, non so perchè, l’ho accantonato senza più pensarci, ma i dischi belli non spuntano come i funghi e quando ho visto e sentito movimento nelle radio italiane e nelle televisioni e nell’industria discografica americana mi è tornato in mente con prepotenza e sono andato a risentirlo e, ragazzi, è veramente un gran disco! Quei nomi Carole King e Laura Nyro non sono fatti con leggerezza, questa Diane Birch è proprio brava, si è citata anche Carly Simon ma, secondo me c’entra poco, mentre Aretha Franklin e il Girl Group Sound degli anni ’60 (quello di Phil Spector), ma anche Brill Building e Philly Sound confluiscono nel melting pot sonoro di questo Bible Belt.

Scoperta da quel vecchio marpione di Steve Greenberg, lo stesso che ha scoperto Hanson e Jonas Brothers ma anche Joss Stone, per fortuna, il suo disco d’esordio è stato pubblicato nel maggio dello scorso anno negli States senza grandi risultati poi le voci si spargono, l’onda monta e ogni tanto della buona musica invade l’etere.

File under celestial pop-soul-gospel: gran voce, arrangiamenti che sembrano uscire dai solchi di Tapestry di Carole King o dal disco della grandissima Laura Nyro con le Labelle Gonna Take a Miracle (sarà un caso che il singolo tratto dall’album, quello che più ricorda il sound di quel disco si intitola Nothing But A Miracle?), questo è il video, sentite un po’.


L’album è co-prodotto dalla grande soul singer Betty Wright, ricreando il team che aveva realizzato il primo disco di Joss Stone e tra i musicisti coinvolti ci sono Adam Blackstone dei Roots, Cindy Blackman la batterista nera di Lenny Kravitz, George Porter il prodigioso bassista dei Meters, alla chitarra c’è Lenny Kaye del Patti Smith Group e il suono ne risente in  modo super positivo: sentite l’arrangiamento fantastico di Rise Up, con voci soul-gospel ovunque che si intrecciano con i fiati dove risalta un basso tuba, sullo sfondo un organo hammond d’ordinanza e su tutto la voce imperiosa di Diane Birch che guida le danze con vellutata autorevolezza.
Per Photograph mi tocca scomodare la grande Aretha Franklin, quelle soul ballad che a cavallo degli anni ’60 e ’70 la regina del soul sfornava a getto continuo, un arrangiamento raffinatissimo e completo che ti avvolge nella sua finta semplicità ed esplode in un finale gospel di devastante potenza e coinvolgimento, un piccolo capolavoro di equilibri sonori, grandissima musica.
Ma vi sfido a trovare un brano scarso, tredici brani tredici per cinquantacinque minuti di musica da ascoltare tutta d’un fiato.

Se Jay-Z e Kanye West non arriveranno a rompere le balle prevedo una grande carriera, intanto Letterman l’ha chiamata nel suo show, se niente niente pubblicassero anche l’album in Italia non sarebbe una cattiva idea.
Bruno Conti

Un “Giovane” Di Talento. Jonny Lang – Live At The Ryman

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Jonny Lang – Live At The Ryman – SayRai Music

Per chi non lo conoscesse, come direbbe il finto ministro Maroni, “fischia se suona”. Per chi già lo conosce e lo apprezza, sarà occasione di giubilo e piacere ascoltare, finalmente, un album che gli rende completamente merito.

All’età di 29 anni appena compiuti e quindi tecnicamente un giovane Jonny Lang ha già alle spalle una carriera che dura da una quindicina di anni, quindi uno dei tanti bambini prodigio, ma di quelli bravi, della famiglia degli Stevie Winwood e Wonder, o per rimanere in anni più recenti e in ambito blues, Joe Bonamassa.

Sempre per chi non lo conosce ricordiamo che il suo esordio avviene nel 1995 a 14 anni con un album indipendente a nome Kid Jonny Lang & The Big Bang (non pervenuto), mentre quello ufficiale, per una major, la A&M del gruppo Universal avviene con l’ottimo Lie to me del gennaio 1997: blues, rock, soul, assoli di chitarra a iosa, cover di qualità ma subentra subito la sindrome del bel fiolin (bel ragazzo per chi non conosce il milanese), per il successivo Wander This World gli affiancano David Z, collaboratore di Prince, che firma anche un brano dell’album, che subisce una sterzata verso sonorità molto più commerciali ancorché valide che gli valgono una nomination ai Grammy (mah!)  e siamo nel 1998. Dopo una pausa di ben 5 anni nel 2003 esce Long Time Coming che sterza verso sonorità più influenzate dal soul e dal gospel ma la chitarra ruggisce meno. L’album del 2006 Turn Around l’ultimo per l’A&M è decisamente R&B oriented e la chitarra si sente pochissimo, quindi se volete sentire Stevie Wonder (grande pallino di Lang), l’originale è meglio.

Siamo arrivati a oggi e a questo Live At The Ryman che è uscito in versione digital download a fine 2009 e si trova, con fatica, in versione CD nel suo sito distribuito da quella etichetta indipendente dal nome improbabile che si legge all’inizio del post. Ma a noi non ci frega, visto che siamo in rete e questo è un Blog ben vengano anche questi prodotti cosiddetti “virtuali”: oltretutto si tratta di un ottimo album Live, cantato bene, suonato anche meglio, ottimo gruppo di musicisti, repertorio ben calibrato tra soul, rock, blues, venature gospel, scelta di cover eccellenti, pubblico entusiasta (con prevalenza, da quello che si percepisce dell’ambiente, di giovani e giovanissimi).

Jonny Lang, nella gerarchia dei chitarristi, che secondo il sottoscritto si divide in bravi, molto bravi, Fenomeni, Jimi Hendrix e gli altri, dove si pone?  Appurato che Hendrix fa categoria a sé, fuori concorso, gli altri non ci interessano, i fenomeni sono i soliti noti, Clapton, Beck, Page, Green, Santana, Allman e tra i “contemporanei” Stevie Ray Vaughan e Bonamassa, direi che possiamo inserirlo tra i Fenomeni molto bravi (tiè, fregati!), vicino a Derek Trucks e Kenny Wayne Sheperd per esempio, ma anche altri non citati. Della serie vorrei (diventare) un grande ma mi manca ancora quel quid.

In questo Live il nostro amico ci dà dentro alla grande, brani come Turn Around, A quitter never wins e Red Light sono dei notevoli tour de force chitarristici, con il consueto sound della chitarra di Jonny Lang, quel bel suono “grasso”, Claptoniano ma anche sanguigno alla Stevie Ray Vaughan. Anche il cantato è notevole, il ragazzo ha una bella voce piena di soul che molto deve a Stevie Wonder, come la bella cover di Livin’ For The City evidenzia (un appunto, un pelino lunga!). Comunque è l’album nel suo insieme che soddisfa. Promosso, adesso cercatelo!

Già nel 1999 a Montreux era una iradiddio.

Bruno Conti

Il nuovo Bob Dylan? Forse ci siamo? Joe Pug – Messenger

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Joe Pug – MessengerLightning Rod Rec. 16-02-2010

O forse no?

Tra una ventina di giorni potrete verificare di persona, per il momento mi limito a confermare che il nostro amico è un signor musicista e questo album, il suo primo, già presentato come quello della svolta elettrica, è molto bello. Dieci brani nuovi in bilico tra lo stile acustico country-folk dei due primi EP e piccole pennellate di elettricità in alcuni brani, tra pedal steel, una sezione ritmica discreta e echi di vintage John Prine come nell’ottima title-track, Messenger. Ma anche The Door was always open amplia gli orizzonti sonori con il suo drive elettrico, questo sì Dylaniano, con una bella armonica che cavalca una ritmica mossa e brillante, barrelhouse seconda la presentazione della casa discografica,  alla Blonde on Blonde (Dylan in Nashville), un banjo e le pennate inconfondibili dell’acustica di Pug, pochi, semplici elementi, una bella melodia e voilà il gioco è fatto.

Speak Plainly, Diana un remake di un brano che già appariva nell’ep  Nation of Heat, è il primo brano che riceve il trattamento full band, con  chitarre elettriche belle toste, una ritmica molto marcata, ricorda per certi versi le versioni elettriche di alcuni brani di Nebraska di Springsteen, Atlantic City per fare un nome, quando le ha rifatte live con l’E Street Band. Se il buongiorno si vede dal mattino: il brano era già molto bello, il nuovo restyling l’ha reso ancora più coinvolgente, e bravo Joe Pug.

The First Time I Saw You è una bellissima love ballad, sempre con ampio uso di pedal steel, una bella voce femminile che duetta con Joe ed una atmosfera mi ha rammentato moltissimo i brani più romantici di John Prine (il primo “nuovo Bob Dylan” ufficiale, tanto bravo da essere riuscito a diventare il primo John Prine), ti rimane in testa e ti sorprendi a canticchiare il ritornello.

Ancora l’immancabile pedal steel si insinua delicatamente tra le pieghe malinconiche di The Sharpest Crown mentre Unsophisticated Heart è puro, non adulterato Joe Pug in guisa di menestrello acustico, come molti vorrebbero rimanesse.

Direi un 5 a 5, risultato finale tra brani acustici ed elettrici, alla fine vince la qualità discreta della svolta elettrica di questo primo album.

Forse non il nuovo Bob Dylan, potrebbe essere il “secondo” John Prine?

Nell’attesa pug.html e http://www.joepugmusic.com/.

Bruno Conti

Le 500 Più Grandi Canzoni Di Tutti I Tempi Secondo La Rivista Rolling Stone Parte VIII

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Puntata n° 8 e fioccano ancora i capolavori (in fondo 500 grandi canzoni nella storia del Rock sono pure poche, ma, come annunciato, ci fermeremo alle prime 100): riprendiamo da dove ci eravamo interrotti la scorsa settimana.

71) Beach Boys – California Girls

Come Surfin’ Usa quei 2 o 3 accordi in comune con “qualsiasi” brano di Chuck Berry ce l’ha pure questa! Come ha stabilto il giudice nel caso George Harrison-Chiffons My sweet Lord-He’s so fine Plagio non intenzionale. Però gran bella canzone!

72) James Brown – Papa’s Got A Brand New Bag

73) Eddie Cochran – Summertime Blues

E vogliamo parlare delle versioni degli Who e dei Blue Cheer?

74) Stevie Wonder – Superstition

Questa l’aveva scritta per Jeff Beck, poi sappiamo com’è andata a finire? O no?

75) Led Zeppelin – Whole Lotta Love


Grandissimo brano, immenso, ma…tutti conoscono la somiglianza tra Stairway to heaven e Taurus degli Spirit, ma quanti conoscono quella tra You Need Loving degli Small Faces del grande Steve Marriott (passando per Willie Dixon) e Whole Lotta Love? Sentire, please!

76) Beatles – Strawberry Fields Forever

Solo settantaseiesima! Ma stiamo scherzando! Come già detto SPQA sono pazzi questi americani.

77) Elvis Presley – Mistery Train

78) James Brown – I Got You (I Feel Good)

79) The Byrds – Mr. Tambourine Man

80) Marvin Gaye – I Heard It Through The Grapevine

Per non parlare della versione dei Creedence!


La prossima settimana, penultima puntata.
Bruno Conti

Piccoli Talenti Crescono? Findlay Brown

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Findlay Brown Love Will Find You Verve/Universal

Infilatevi nella vostra Delorean che vi porto in un mondo dove Woodstock non è avvenuta, il punk e la new wave, per non parlare della Disco, sono di là da venire, anzi, vi dirò di più, non esiste manco la Delorean, quindi scendete.

Questo giovane inglese (anche se va per i 29 anni), dal ciuffo imponente e dalla costituzione robusta potrebbe essere uno dei “fenomeni stagionali” del mercato americano, il suo nuovo album Love Will Find You prodotto da Bernard Butler potrebbe rinnovare il successo dell’altra cliente di Butler, quella Duffy che con Mercy ha rinnovato i fasti del pop britannico dei sixties, Dusty Springfield & Co., misti a soul d’annata e sonorità contemporanee alla Winehouse.

Per Findlay Brown si è andati ancora più indietro, si sono scomodati Roy Orbison, Phil Spector e i suoi Righteous Brothers, il pop britannico ante Beatles, il Brill Building Sound e la Motown. Butler è un buon artigiano del suono, sa anche creare quel giusto amalgama tra un suono “commerciale” e musica più di qualità.

Ogni tanto lo zucchero abbonda come nella caramellosa Everybody Needs Love, sovrarrangiata ma spesso,  come nell’iniziale Love Will Found You che ha molto di Orbison (anche se non Quella Voce), dagli arrangiamenti melodrammatici che tanto avrebbero influenzato il giovane Springsteen misti al wall of sound spectoriano, sia pure su livelli meno nobili ma assai gradevoli all’ascolto. Il trucco si ripete nella successiva Nobody Cared che fa molto Ghost (nel senso di Unchained Melody), mentre All That I Have ci porta in pista da ballo (le discoteche non esistevano) con dei ritmi più vivaci.

That’s Right tra rockabilly e Everly Brothers, con la voce di Findlay astutamente raddoppiata gronda energia e movimento. In Teardrops Lost In The Rain mi pare di cogliere qualche lontana eco del tema dell’Uomo Da marciapede, rallentata ma…sbaglierò! Holding Back The Night ricorda vagamente Frankie Valli (ma d’altronde potete fare le vostre citazioni, ce n’è per tutti), anche se tutti i nomi citati emergono come da una patina che ricopre tutta la musica, ma potrebbero essere mille nomi minori scomparsi nella notte dei tempi.

Chris Isaak era, ed è, un miglior erede di Roy Orbison, questo giovane inglese potrebbe regalarvi una mezzoretta piacevole di musica senza tanti problemi, oltre a tutto è un piccolo camaleonte visto che nell’album precedente Separated By The Sea si era presentato come folk singer, rivale del collega Jose Gonzales, e discepolo di Nick Drake, Simon & Garfunkel, Tim Buckley e Beatles, un suo brano Come Home era stato usato come musica della Mastercard.

Poi I tempi cambiano, l’America chiama, bisogna pur mangiare la pagnotta e il nostro amico lo fa con un album onesto e piacevole.

Bruno Conti

Tindersticks – Falling Down A Mountain

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Tindersticks – Falling Down A Mountain – 4AD(Self)

In inghilterra verrà pubblicato il 25 gennaio, in America il 16 febbraio, in Italia per mantenere una giusta equidistanza la prima settimana di febbraio.

Ottavo album della loro discografia (colonne sonore escluse, 4 per la precisione) e secondo della nuova fase dopo l’ottimo The Hungry Saw, questo Falling Down A Mountain non si discosta moltissimo dal loro brand, ma ci sono delle piacevoli sorprese qui è la.

L’iniziale title-track si distingue dai consueti brani strumentali che spesso aprono gli album dei Tindersticks: un lungo brano jazzato alla Dave Brubeck con una bella tromba con la sordina quasi davisiana, poi un cantato ipnotico, ripetitivo su una base ritmica della batteria molto in evidenza, due voci che si sovrappongono, oltre al solito Stuart Staples è della partita anche il cantautore David Kitt membro aggiunto del gruppo per questo album poi si vedrà.

Keep you beautiful ci conduce nei territori dorati delle dolci ballate dei Tindersticks, con la voce baritonale di Staples che mi ricorda sempre di più quella del grande Eric Andersen, due gemelli separati alla nascita, se non ci fosse una ventina di anni di differenza di età.

Harmony Around Your Table è una delle piacevoli sorprese cui accennavo: un brano che sembra provenire dritto dritto dalla migliore tradizione del pop britannico, allegro, troppo? Diciamo vivace, con coretti ricorrenti e la voce del nostro amico che si scompone perfino, ma leggermente, nel finale del brano, assumendo vaghe tonalità alla Bryan Ferry, altro signore che definiremo “misurato” in mancanza di un vocabolo migliore.

Quando partono le prime note di Peanuts sai già che questo è il Brano, l’atmosfera c’è, lo senti subito, poi entra la voce divinamente indifferente di Mary Margaret O’Hara in una delle sue rarissime apparizioni (che da sola vale il prezzo del biglietto), Staples la supporta, la titilla, i due si sovrappongono in un gioco di intrecci vocali sulla delicata ironia di questa ode d’amore con “Spagnolette”, poi entra una armonica a bocca, quattro accordi e se ne va, ma era lì che doveva essere! Poco più di quattro minuti e Miss Margaret O’Hara se ne va ma, questa volta, valeva la pena di scomodarla.

Anche She Rode me Down entra di diritto tra le “sorprese” piacevoli di questo album: un ritmo incalzante, un flautino insinuante, la solita tromba, piccole percussioni, un basso marcato, battiti di mani, elementi semplici come sempre gli ingredienti della musica dei Tindersticks, anche una viola e dei fiati in sottofondo per creare quelle atmosfere così particolari e un lungo fade-out nel finale. Hubbard Hills è uno strumentale da soundtrack, piacevole ma inconsistente mentre Black Smoke ci riporta in quei territori che profumano di Bad Seeds senza Nick Cave e che sembrano nascere dalla collaborazione con Kitt, azzardo. Così pure la successiva No Place So alone, viceversa la lunga Factory Girls, con introduzione di piano e chitarra elettrica arpeggiata, ci riporta ai migliori episodi del gruppo di Nottingham, delicata e dalle atmosfere sospese si apre verso melodie più coinvolgenti nella parte centrale con un bel crescendo che sfuma nuovamente nel delicato finale pianistico.

Visto che siamo in tema di piano, la conclusione è affidata appunto alla strumentale Piano Music, piacevole anche se non memorabile.

Bruno Conti

A Volte Ritornano! Peter Gabriel – Scratch My Back

peter gabriel scratch my back.jpgPeter Gabriel – Scratch My Back

E come tornano! Dopo “soli” otto anni da Up torna Peter Gabriel con un album bellissimo, sorprendente, un album di cover che non sono cover, sono reinterpretazioni fantastiche di brani di autori celebri e di artisti emergenti.

Quando vi avevo anticipato tempo fa l’uscita dell’album, forse, fra le righe, traspariva un certo scetticismo.

Nulla di tutto ciò, il disco è magnifico (sto esaurendo gli aggettivi): il progetto sulla carta era ambizioso, un disco per sola voce, orchestra e piano, dove venivano ripresi una serie di brani più o meno celebri e rielaborati in un arrangiamento orchestrale, senza strumenti rock, sezione ritmica, niente. Potenzialmente, diciamocelo francamente, una “palla” tremenda o il rischio di un eccessivo cerebralismo, per usare termini più educati.

Invece il buon Peter ne esce alla grande: coadiuvato dal violista e orchestratore neozeolandese John Metcalfe (qualcuno ha detto Durutti Column?) e dal grande produttore americano Bob Ezrin (che recentemente aveva collaborato alla ripresa live del celebre Berlin di Lou Reed), ha estratto dal cilindro non il classico coniglio, pensando alla colonna sonora di Long Walk Home, ma un piccolo capolavoro che rivaleggia con il meglio della sua produzione.

Sulla rivista Jam Claudio Tedesco ha redatto un ottimo articolo che racconta la genesi e la conclusione di questo progetto, ma, secondo me, ha calcato un po’ troppo la mano sull’aspetto “classico contemporaneo” della musica contenuta in questo album: sicuramente è un album non facile ma mai difficile (ovviamente non è adatto ai fans di Lady Gaga e forse anche degli ultimi Genesis, una cattiveria!), per intenderci, un album che ho amato molto e che di tanto in tanto torno ad ascoltare come Lorca di Tim Buckley, è bellissimo, ma ascoltato in una tarda serata estiva, magari in cuffia, con le finestre aperte, al termine della “seduta” ti lascia forte la tentazione di gettarti dalla finestra stessa. Tornando a questo Scratch My Back l’elemento portante di tutto il progetto è la “voce” di Peter Gabriel, che è la vera protagonista di questo disco, ora “nuda” solo con un piano che la accompagna come in I Think It’s Going To Rain Today, la malinconica ballata di Randy Newman o nella straordinaria rivisitazione di Boy In The Bubble di Paul Simon, solare e gioiosa nella versione originale, rallentata e struggente nella versione di Gabriel, veramente intensa, con la voce che ti convoglia mille sentimenti, una voce che nella maturità rimane inconfondibile.

E che dire della versione di Heroes di David Bowie? All’inizio devi “entrare” nello spirito del brano, rallentato e minimale, con quegli archi minacciosi ed incombenti che avvolgono la voce di Peter, soffusa e bowiana all’inizio, via via più sicura e potente in un crescendo emozionante. Ma anche i brani dei “giovani” sono molto belli: My Body Is A Cage degli Arcade Fire gode del trattamento full orchestra, maestoso e travolgente, anche in questo caso un crescendo entusiamante, introdotto dal piano e dai fiati, con la voce di Gabriel che assume delle tonalità quasi alla Lamb Lies Down on Broadway, molto teatrali, per salire di tono a mano a mano, mentre l’orchestra realizza un crescendo molto vivace e un finale dove appare anche un coro. Molto bella anche The Book of Love dei Magnetic Fields già apparsa nella colonna sonora di Shall We dance e scelta come nuovo singolo.

Molto dolce ed evocativa, la pianistica Flume dei Bon Iver (che come i Magnetic Fields sono il nome dietro cui si nasconde un singolo musicista), mentre Après Moi di Regina Spektor (l’unica donna coinvolta nel progetto) è uno degli episodi più movimentati e dall’arrangiamento assai teatrale, qualcuno l’ha definita l’erede di Kate Bush, sarà per questo che Gabriel l’ha scelta (pensiero malizioso). Comunque i brani sono tutti belli, Philadelphia di Neil Young e Power to the heart di Lou Reed, rendono omaggio a due grandi della musica.

Il disco, registrato, parte negli Air Studios di George Martin e parte negli studi della Real World, esce il prossimo 15 febbraio. Il 13 febbraio Peter Gabriel compirà 60 anni. Una coincidenza?

Bruno Conti

 

Senza commento

La categoria Disco Ufo nelle intenzioni dell’estensore dei post di questo blog (cioè il sottoscritto) doveva essere dedicata a quegli artisti di qualità che in qualsivoglia parte del globo terracqueo fossero entrati nelle classifiche dei più venduti mentre in Italia non se li era filati nessuno. Questo in teoria: in pratica, questa settimana, ma già da alcune settimane come i più attenti avranno notato, facendo un giro nelle classifiche per trovare qualche nome interessante, a parte i soliti noti, ho notato un desolante vuoto e mi è scoccata una scintilla. A sinistra la classifica di  Billboard della stessa settimana di gennaio, ma del 1970, a destra quella attuale, come dice il titolo, senza commento. Come un album di figurine.

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Senza titoli.

Bruno Conti

Un Nuovo Dylan? Un Altro! Jack Savoretti

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Jack Savoretti – Harder Than Easy – De Angelis Records

Nuovo Dylan forse no, Simon & Garfunkel miscelati in un’unica persona neppure, perché non il nuovo Steve Forbert. Scherzi a parte, è proprio bravo, un anglo-italiano di talento, principalmente acustico ma brani ben arrangiati e poi fa una bella cover di Northern Sky di Nick Drake, uno dei miei 10 brani preferiti all-time, quindi sono parziale.

Questo è il video della title-track, il cd disponibile solo per il dowload negli States, sarà pubblicato in Inghilterra ai primi di febbraio. Vale le pena investigare ( è il suo secondo album, il primo Between The Minds è arrivato fino al 70° posto delle classifiche inglesi). Fra i due album ha partecipato alla colonna sonora del film Post Grad con il brano One Day.

C’è sempre buona musica “là fuori”, basta cercare (magari con un aiutino).

Bruno Conti