Sangue e Sudore, Rabbia e Passione Sul Palco Di Un Locale “Mitico”! Joe Grushecky & The Houserockers – American Babylon Live At The Stone Pony

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Joe Grushecky & The Houserockers – American Babylon Live At The Stone Pony – Self-released

A distanza di vent’anni dall’uscita di American Babylon (95), un album bello e ben fatto, con il pregio o il difetto (dipende da come si guardano le cose) che sembrava un disco di Springsteen cantato da un altro (infatti era prodotto dal Boss), Joe Grushecky e i suoi fidati Houserockers tornano ad Asbury Park, New Jersey, nel mitico club Stone Pony, per rivisitare “la pietra miliare” della propria carriera, in due torride serate svoltasi il 23 e 24 Ottobre del 2015. Davanti ad un pubblico entusiasta e caloroso, il buon Grushecky sale sul palco con l’attuale line-up della sua band storica. composta da Art Nardini al basso, Joffo Simmons alla batteria, Joe Pelesky alle tastiere, Danny Gochnour alla chitarra e mandolino, il bravissimo Eddie Manion al sax, e il “figlio d’arte”, ma vero, Johnny Grushecky, che si alterna alle chitarre e percussioni, per una performance di brani “muscolosi” che a tratti non fanno rimpiangere la mitica E-Street Band dei tempi d’oro, dell’amico fraterno Bruce.

La serata parte con il ritmo indiavolato della splendida Dark And Bloody Ground  dove le chitarre fanno scintille, seguita da una Chain Smokin’ che sembra quasi uscita con la carta carbone da un disco del Boss, dalla ballatona Never Be Enough Time con robusta sezione ritmica, per poi cambiare subito registro con la “rollingstoniana” American Babylon, e ancora dalla dominante Labor Of Love, sorretta da una batteria “granitica” e da un bel gioco di chitarre e tastiere, e chiudere alla grande la prima parte con il rock urbano di una “tirata” What Did You Do In The War. Dopo un paio di birre (forse un po’ di più) ghiacciate, si riparte con il rock venato country di Homestead, con mandolino, armonica e chitarre acustiche in gran spolvero (questa canzone e il brano iniziale portano entrambe la firma di Bruce Springsteen), mentre con Comin’ Down Maria si viaggia dalle parti del Messico, con il bel controcanto di Reagan Richards (nel disco di studio dava la voce Patti Scialfa, moglie del Boss), a cui fa seguito il meraviglioso talkin’ blues alla Willy DeVille di Talk Show con il lancinante sax di Eddie Manion in evidenza, per poi alzare ulteriormente il ritmo con No Strings Attached, una pausa per l’arioso valzer agreste di Billy’s Waltz, e a chiudere la rivisitazione dell’album arriva il blue-collar rock poderoso di Only Lovers Left Alive, dove gli Houserockers (un tempo Iron City Houserockers), dimostrano di essere ancora oggi una delle migliori “boogie-bar band” d’America.

Classico “working class hero” di vecchio stampo, Joe Grushecky è nato e cresciuto all’ombra di Bob Seger e Bruce Springsteen, ha sempre fatto dischi di buona fattura (anche se con alti e bassi) con canzoni urbane dal forte tessuto elettrico, suonate e cantate con fierezza da un musicista onesto che non si è mai venduto, e animato da uno spirito “operaio” ha cantato la stessa America del Boss, supplendo alla mancanza del genio di Bruce, con un rock realistico e vissuto, che si rivolgeva in particolare ad un seguito di “zoccolo duro” che usciva dalle fabbriche di Pittsburgh.

Come in ogni esibizione dal vivo, quando salgono sul palco Joe Grushecky e i suoi Houserockers danno il meglio di loro stessi, e anche questo American Babylon Live At The Stone Pony ne è l’ennesima conferma, con una manciata di belle canzoni, suonate in perfetto rock stradaiolo, album che piacerà a chi segue da tempo Grushecky, ai fans di Springsteen, e non solo a quelli. Imperdibile per rientra in queste categorie!

NDT: Purtroppo il CD non è di facile reperibilità, ma se vi “smazzate” sulle piattaforme in rete o sul suo sito, è possibile venirne in possesso.

Tino Montanari

Los Angeles Was Alive That Night! A Musicares Tribute To Bruce Springsteen DVD

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A Musicares Tribute To Springsteen – Columbia/Sony Music DVD o Blu-ray

Vi ho annunciato qualche giorno fa l’uscita di questo bel DVD, dedicato alla serata della associazione Musicares che onora il personaggio musicale dell’anno che più si è distinto per le sue attività filantropiche, ed ora che l’ho visto vorrei parlarvene perché è veramente bello. Ultimamente sono stati pubblicati vari DVD musicali interessanti relativi a concerti (dei Dukes Of September avete letto un paio di giorni fa, del Live In Amsterdam di Beth Hart e Joe Bonamassa, una vera bomba, leggerete a giorni, prima sul Buscadero e più o meno contemporaneamente sul Blog, come preferite), peccato non sia stato pubblicato a livello ufficiale un altro ottimo concerto tributo andato in onda sulla televisione americana CBS, The Night That Changed America: A Grammy Salute To The Beatles, con Paul McCartney e Ringo Starr sul palco a godersi le proprie canzoni eseguite da altri e poi nel finale in concerto anche loro.

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Stesso tipo di concerto anche questo di Musicares: Bruce Springtsteen, Patti Scialfa, la mamma e la sorella di Bruce, cugini vari, la figlia con fidanzato, membri assortiti della E Street Band, celebrità musicali e non nella platea a farsi “massacrare” in modo divertente dall’host della serata, Jon Stewart, presentatore, stand-up comedian, attore e critico, nativo di New York (ma con agganci familiari nel New Jersey, che servono a creare un clima di allegra presa in giro con il boss), con interventi piacevoli e abbastanza comprensibili anche per non chi non mastica l’inglese perfettamente: non ci sono sottotitoli. Dopo la lunga introduzione di Stewart parte il concerto-tributo e quì non si “scherza” più. Chi c’è lo avrete letto, come si comporta ve lo dico subito.

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Aprono gli Alabama Shakes con una vibrante versione di Adam Raised A Cain, ma al di là della fantastica voce di Brittany Howard siamo nella media. Patti Smith Because The Night l’ha fatta miliardi di volte (anche Bruce), ma è sempre un piacere ascoltarla ed è anche l’occasione per scoprire l’house band della serata (non riportata nel libretto del DVD e citata fugacemente solo nei titoli di coda): comunque, senza nominarli tutti, tra i più noti ci sono Larry Campbell, chitarra, violino e mandolino, Shane Fontayne all’altra solista (“come è diventato vecchio!”) e il batterista Charley Drayton, già negli X-pensive Winos di Keith Richards, nei Divinyls, la band australiana della moglie Chrissy Amplett, in una nota di mestizia, scomparsa pochi mesi dopo questo concerto, soccombendo ad una lunga battaglia contro cancro e sclerosi multipla (il concerto è dell’8 febbraio 2013, lei morirà il 21 aprile). L’esecuzione dei brani si alterna tra il palco principale ed una piattaforma circolare in mezzo al pubblico per i brani acustici: proprio lì salgono Ben Harper, Natalie Maines e Charlie Musselwhite per una “discreta” versione di Atlantic City, un po’ fuori sincrono le voci di Harper, anche alla Weissenborn e Maines, che si riprendono nel finale e sempre gagliardo Musselwhite (Springsteen ricorderà a Charlie, nel discorso finale, che, anche se lui probabilmente non se ne accorse ai tempi, aprì per il grande armonicista all’inizio di carriera, quando era una sconosciuto). Ken Casey (dei Dropkick Murphys) regala ai presenti il momento irish-punk della serata, con una scatenata American Land. Uno dei momenti topici della serata è una fantastica versione di My City Of Ruins, fatta da Zac Brown e Mavis Staples, come se fosse un intreccio tra un brano della Band e un pezzo gospel, con un numeroso coro che dà un sapore “nero” ad un brano che rifiorisce in questo eccellente arrangiamento, Bruce e Patti tra il pubblico approvano.

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Di nuovo sul palco circolare per una ottima I’m On Fire nell’esecuzione dei Mumford and Sons: tutti e quattro attorno al microfono, con le voci che si intrecciano e l’accompagnamento, discreto ma efficace, di chitarra acustica, banjo, fisarmonica e contrabbasso. Possono dire quello che vogliono, ma sono bravi! Jackson Browne esegue da par suo una notevole American Skins (41 Shots), uno dei brani più politicizzati di Springtsteen, con la chitarra solista, sopra le righe, ma in questo caso efficacissima, di Tom Morello a sottolineare il pathos del brano, che nel finale diventa quasi una canzone alla Jackson Browne. Molto buona My Hometown nella rilettura appassionata di una sempre verde Emmylou Harris e bellissima e sorprendente, un altro degli highlights inattesi dell’evento, una One Step Up da brividi eseguita da Kenny Chesney (che ufficialmente rivaluto), solo chitarra acustica e piano, tenera e intensa, rivaluto anche la canzone. Eccellente anche Streets Of Philadelphia, un crescendo di emozioni, con Elton John che accarezza il suo piano e. ben coadiuvato da un quartetto notevole di accompagnatori, propone una versione corposa del brano della colonna sonora vincitrice, presumo in quel teatro, del Grammy nel 1995. Direi superiore all’originale, quantomeno “diversa”! Nella norma la divertente Hungry Heart cantata da Juanes con intro e finale in spagnolo, ma senza il classico call and response con il pubblico. E piacevole e onesto, ma nulla più, il duetto tra il “cappelluto” Tim McGraw e Faith Hill (poco utilizzata) per Tougher Than Rest, anche se la pattuglia country alla fine si è fatta onore.

john legend

Tom Morello e Jim James dei My Morning Jacket si esaltano in un duello vocale e chitarristico nella “nuova versione” elettrica di The Ghost Of Tom Joad, che è sempre un bel sentire, anche se la sorpresa per i virtuosismi solistici di Morello è meno evidente rispetto alle prime volte, bella comunque. Notevolissimo, e anche questo sorprendente, il ribaltamento che subisce Dancing In The Dark da parte di John Legend, che come ricorda lo stesso Bruce nel discorso di accettazione del premio, diventa quasi un brano di George Gershwin, solo voce e piano e con una intensità ed una qualità veramente fuori dal comune.”Normale” ma ben fatta, per contro, Lonesome Day, ” Policizzata” (si può dire?) e molto ritmica, per quanto sempre coinvolgente. Chiude il concerto il “solito” Neil Young, più pazzarello del solito, con Crazy Horse al seguito, dove rientra Nils Lofgren per l’occasione, che esegue una violentissima Born In Usa, à la Young, con chitarre a manetta, ma pure con ironia, il tocco della majorettes non proprio di primo pelo che ballano sul palco ha i crismi della genialità, e il ripetuto urlo “Bruce” a fine canzone ha tutto l’affetto del personaggio per i colleghi musicisti che stima.

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Un altro Neil, Portnow, che è il presidente della NARAS (ma come ricorda lui stesso, più o meno allo stesso tempo degli esordi di Bruce, suonava il basso con la misconosciuta garage band dei Savages), consegna il premio a Springsteen che non può esimersi da uno dei suoi classici discorsi di ringraziamento, tra il serio e il faceto, che valgono quasi come una delle sue classiche introduzioni concertistiche https://www.youtube.com/watch?v=7jxS86fRNSQ . E ricorda lui stesso che in quegli stessi giorni si esibiva anche ai Grammy, in entrambe le occasioni, per fare della sana  promozione a Wrecking Ball, pubblicato da poco. E quindi via la giacca, maniche arrotolate e vai con We Take Care Of Our Own e Death Of My Hometown da quel disco (non la con la E Street Band, che arriva tra un attimo), ma con la house band della serata, aumentata da Patti Scialfa, Morello e Lofgren. Poi arrivano gli altri, Bittan, Tallent, Weinberg, Jake Clemons e partono a formazione allargata due versioni micidiali di Thunder Road e Born To Run, con il pubblico che su istigazione di Bruce ha abbandonato i tavolini da tempo e si accalca sotto il palco per il gran finale di rito, con tutti i partecipanti della serata ad intonare Glory Days, Neil Young e Patti Smith, come due “divinità benevole” sopra la batteria di Max Weinberg a dirigere i cori e gli altri che seguono generosamente il Boss, che stranamente sceglie Tim McGraw per cantare una strofa della canzone. Titoli di coda e tutti a casa: se siete già a casa e volete vederlo, uscite a comprarvi il DVD o il Blu-ray (filmati ufficiali su YouTube nulla), vale le 2 ore e 15 minuti che si passano davanti allo schermo! L’anno prossimo Carole King.

Bruno Conti

“L’Americano Di Parigi” Colpisce Ancora! Elliott Murphy – It Takes A Worried Man

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Elliott Murphy – It Takes A Worried Man – Blue Rose/Last Call Records 2013

Da più parti acclamato come il Bob Dylan degli anni ’70, Elliott James Murphy è uno dei più validi poeti del rock newyorkese. Dimostrandosi un ragazzino precoce a soli 13 anni, col gruppo dei Rapscallios vince un concorso di band giovanili, e nei primi anni ‘70 viene in Europa , gira i piccoli Club e ottiene una piccola parte nel film Roma del nostro Federico Fellini. Di ritorno in America si esibisce regolarmente nei locali, in compagnia dei New York Dolls, Patti Smith e altri personaggi dell’underground di New York. Scoperto dal critico Paul Nelson, ottiene brillanti riconoscimenti di critica con il disco d’esordio Acquashow (73), che contiene la stupenda Last Of The Rock Stars, una delle migliori ballate rock di Murphy, ma i successivi e costanti cambi di etichetta tengono l’artista ai margini del rock business, con ottime referenze di critica, un buon seguito di culto, ma con pochi risultati commerciali. In seguito Elliott forma una propria etichetta, la Courtisane e il primo disco è Affaire (80), registrato con musicisti che costituiranno l’ossatura di tutte le prove discografiche degli anni ’80, periodo in cui Murphy collabora con le riviste americane Rolling Stone e Spin, e scrive anche in Italia per Il Mucchio Selvaggio.

Nell’estate del ’89 l’artista appare in uno storico concerto al Festival di Losanna con Chris Spedding e Garland Jeffreys e non mancano le soddisfazioni, come l’apparizione a fianco di Bruce Springsteen in un suo concerto parigino del ’92, e proprio la capitale francese diventa la sua residenza fissa, trovandovi famiglia, e da allora vive a Parigi con la moglie Francoise (ballerina) e il figlio Gaspard (suona con lui da anni e gli fa da produttore). Gli anni 2000 lo vedono accasarsi alla Blue Rose e dopo il live April in coppia con il compare e chitarrista Olivier Durand, arriva Rainy Season lavoro ispirato più sul piano letterario che su quello musicale. La Terre Commune è invece il frutto della collaborazione con Iain Matthews (Fairport Conventio) e si divide tra composizioni originali e cover (brani di Dylan, Springsteen, Brecht/Weill), mentre Soul Surfing e il successivo doppio Strings Of The Storm mantengono inalterate l’ispirazione e la popolarità dell’artista, e Murphy Gets Muddy è un bellissimo e doveroso omaggio ai padri del blues, cui fanno seguito Coming Home Again e Notes From The Underground che chiudono in gloria la decade.

Se non ho sbagliato i conti (tra compilation, raccolte di inediti e dischi dal vivo) questo It Takes A Worried Man (prodotto dal figlio Gaspard) è il trentunesimo album per “l’americano a Parigi”, e accompagnato dalla fedele Normandy All Stars, con Laurent Padro al basso, Alan Fratas alla batteria, il bravo Kenny Margolis (Willy DeVille) alle tastiere, Olivier Durand (da anni fedele compagno di ventura di Murphy) alle chitarre e come gradita ospite in un brano Patti Scialfa, è sicuramente tra i suoi lavori migliori, con una vena compositiva ritrovata.

*NDB Anche se una piccola ma tignosa parte della critica lo accusa di ripetersi (cosa dovrebbe fare secondo costoro, alternative rock, r&b, soul, dischi di tarantelle, farsi produrre da Rick Rubin)? Se ve la siete persa (e ve ne frega qualcosa) qui trovate la recensione del disco precedente, con il mio parere il-migliore-dei-vecchi-nuovi-dylan-ancora-in-circolazione-el.html

Si parte con l’iniziale folk tradizionale di Worried Man Blues, seguita da una classica Angeline, mentre Little Big Man è un mid-tempo con le chitarre in spolvero. Murphyland è un autodedica molto gustosa, mentre Then You Start Crying è un perfetto brano “dylaniano”, cui fa seguito la ballata I Am Empty con la voce al controcanto della signora Springsteen e un finale chitarristico di Durand da brividi (una delle migliori del disco). Un piano introduce la sofferta He’s Gone, mentre la seguente Day For Night è un rock tagliente, una cavalcata che ricorda il Murphy degli esordi, niente a che da vedere con le trombe delicate di Little Bit More. Il country si manifesta in Eternal Highway con un pregevole intermezzo di armonica (alla Neil Young), e chiude un disco splendido il pianoforte malinconico e solitario di Even Steven.

Per anni Elliott James Murphy è stato uno dei segreti meglio custoditi del panorama americano, e per chi lo conosce non ha bisogno di presentazioni, è uno storyteller capace di scrivere splendide canzoni sulla vita urbana e sugli amori bohèmienne, creando un ponte ideale tra la New York del Village dei suoi esordi e la sempre romantica Parigi, dove da diversi anni vive. Nella sua lunga discografia, ci sono dischi che hanno avuto un ruolo prioritario nel consolidare la sua fama, e mi fa piacere pensare che questo It Takes A Worried Man possa entrare in quel contesto, a dimostrazione che in quarant’anni di carriera un onesto poeta della musica come il buon Murphy, aveva tutte le potenzialità per diventare un grande “numero uno”, e se l’America abbandona i suoi eroi, la vecchia Europa li accoglie a braccia aperte: certamente il successo commerciale non sarà mai paragonabile a quello d’oltreoceano, ma almeno si può vivere dignitosamente (di questi tempi non è poco!).

NDT: Recentemente a dimostrazione di quanto sopra, Elliott Murphy è stato insignito della prestigiosa Medaille De Vermeil de La Ville de Paris, da parte del primo cittadino di Parigi.

Tino Montanari