A Quanto Dicono, Uno Dei Loro Migliori Concerti…E Hanno Ragione! Neil Young & Crazy Horse – Way Down In The Rust Bucket

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Neil Young & Crazy Horse – Way Down In The Rust Bucket – Reprise/Warner 2CD – 4LP – Super Deluxe 2CD/4LP/DVD Box Set

Nel 1988 Neil Young era tornato alla Reprise dopo sei anni di dischi quantomeno controversi per la Geffen, e forse l’aria di casa gli aveva fatto bene in quanto This Note’s For You era un album più che discreto. Freedom, del 1989, era senza mezzi termini un grande disco, ma il botto Young lo fece nel ’90 allorquando si rimise insieme ai Crazy Horse e pubblicò Ragged Glory, uno splendido lavoro di puro rock chitarristico che era in assoluto il più elettrico da lui mai pubblicato: infatti il capolavoro Rust Never Sleeps, disco del 1979 di cui Ragged Glory era l’ideale seguito, aveva comunque un lato acustico. La tournée che seguì ebbe un notevole successo, e lo stesso felice destino toccò al devastante live Weld, un doppio CD di inaudita potenza ed estasi chitarristica che era quello che Live Rust era stato per Rust Never Sleeps. Ma se Weld documentava una serie di canzoni registrate in varie date del tour del 1991 con il gruppo già ampiamente rodato, Neil ed il Cavallo Pazzo (Frank “Poncho” Sampedro, Billy Talbot e Ralph Molina) avevano tenuto due concerti di “warm-up” nel novembre del ’90, il secondo dei quali al piccolo Catalyst di Santa Cruz (California) è considerato dai fans uno dei migliori show di sempre del rocker canadese.

UNITED KINGDOM - JANUARY 01: FINSBURY PARK Photo of Neil YOUNG (Photo by Stuart Mostyn/Redferns)

UNITED KINGDOM – JANUARY 01: FINSBURY PARK Photo of Neil YOUNG (Photo by Stuart Mostyn/Redferns)

Way Down In The Rust Bucket, il nuovo episodio delle Performance Series del Bisonte ed il secondo consecutivo con i Crazy Horse dopo Return To Greendale, si occupa proprio di quella serata del 13 novembre 1990, e devo dire dopo averlo ascoltato che i fans avevano ragione. Il doppio CD (o quadruplo LP, e c’è pure il solito costoso cofanetto che comprende tutto ma aggiunge anche il filmato dello show in DVD, con in più Cowgirl In The Sand che non è presente in formato audio per problemi tecnici) è infatti una vera goduria, un’orgia chitarristica con i nostri che suonano per quasi due ore e mezza in maniera incredibile, mostrando di essere in forma come non mai. Canzoni lunghe, in alcuni casi molto lunghe, dove spesso la parte cantata è secondaria rispetto a quella strumentale: i Crazy Horse si confermano la migliore band tra quelle che hanno accompagnato Young nel corso della carriera, dimostrando che nella musica molto spesso non occorre possedere una tecnica sopraffina quando si ha in dote un feeling di questa portata. Way Down In The Rust Bucket (da notare il collegamento nel titolo con i due album del 1979) è quindi perfino meglio di Weld, anche se un po’ mi spiace dell’assenza di brani come Hey Hey, My My, Powderfinger e Rockin’ In The Free World, ma non si può avere tutto.

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Da Ragged Glory il quartetto suona ben otto pezzi, e se la cover della vecchia hit di Don & Dewey Farmer John non mi ha mai entusiasmato, il resto è formidabile, a partire dalla splendida Country Home, dai fraseggi chitarristici strepitosi e ritornello contagioso https://www.youtube.com/watch?v=O3Ax9Z2-OgI , e proseguendo con sublimi cavalcate elettriche come Love To Burn, Days That Used To Be, e Over And Over, l’orecchiabile e coinvolgente Mansion On The Hill https://www.youtube.com/watch?v=Bptgc_q0GMM , il pugno in faccia della dura Fuckin’ Up e l’epica Love And Only Love, uno degli inni più esaltanti del nostro. Non mancano ovviamente gli evergreen: dalle countreggianti Don’t Cry No Tears e Roll Another Number (versione superba, la migliore mai sentita), si passa alle sventagliate punk di Sedan Delivery, senza dimenticare una ruspante rilettura di Homegrown https://www.youtube.com/watch?v=Bptgc_q0GMM  e tre superclassici del calibro di Cinnamon Girl, Like A Hurricane (magnifica) e la fluida Cortez The Killer, che chiude alla grande lo show https://www.youtube.com/watch?v=2cxneDwxmvE .

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In mezzo Neil ripesca anche qualche “deep cut”: la poco nota Bite The Bullet è una rock song incalzante che però non è tra le mie preferite, mentre è decisamente meglio Danger Bird (che se non sbaglio viene proposta qui per la prima volta dal vivo), lenta, vibrante e con una serie di splendidi e lirici assoli da parte del leader, uno degli highlights dello spettacolo https://www.youtube.com/watch?v=9T5yqB1Tj94 ; ci sono perfino due pezzi da Re-ac-tor, cioè l’evocativa Surfer Joe And Moe The Sleaze, che non ricordavo così trascinante, e la divertente (a dispetto del testo idiota) T-Bone, che ha sempre avuto dalla sua un bel riff ed un tiro notevole. Un concerto formidabile, tra i migliori album di sempre nella ormai vastissima discografia dal vivo di Neil Young.

Marco Verdi

Non Solo Blues, Appunto Molto “Elastico”! Paolo Bonfanti – Elastic Blues

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Paolo Bonfanti – Elastic Blues – Rust Records CD + Libro

Da quando Paolo Bonfanti, detto il Bonfa, iniziava a muovere i primi passi nell’ambito delle 12 battute, in quel di Genova (anzi Sampierdarena), prima come fan, e poi come membro dei Big Fat Mama di Piero De Luca, è passato qualche annetto. Appena prima, durante e dopo, potrei sbagliare la cronologia, c’era stata la Hot Road Blues Band, in una era in cui non era ancora stato inventato il CD e la musica usciva su vinile, detto LP (al limite anche in cassetta e persino Stereo8) e in Italia c’erano due principali scuole di praticanti del blues, quella di Milano e quella di Roma: della prima faceva parte Fabio Treves, con la sua band, della seconda era capostipite Roberto Ciotti, ma c’era anche qualche deviazionista in Veneto, leggi Guido Toffoletti e Tolo Marton, agli inizi nelle “progressive” Orme, e a Genova, nei primi anni ‘70, c’erano stati i Garybaldi di Niccolò “Bambi” Fossati, noto epigono Hendrixiano, con un wah-wah al posto del cuore. Tutto questo, e moltissimo altro, lo potete leggere nel bellissimo libretto che accompagna questo Elastic Blues (che io ero convinto, pensate, fosse un disco dei Nucleus), dove tra aneddoti e brevi storie Paolo ci ricorda cosa è successo nei ultimi 40 anni della sua vita, anzi non solo nella musica, quindi 60 in totale.

BigFatMama

Inaugurata con gli studi di pianoforte a metà anni ‘70, proseguita più convintamente con la conversione alla chitarra, grazie ad Armando Corsi e Beppe Gambetta, grande virtuoso dell’acustica, ancora in pista oggi, e poi con l’ingresso in quei Big Fat Mama, nati nel 1979, di cui Bonfanti diventerà il chitarrista solista e frontman dal 1985 al 1990. Ovviamente nella penisola italica c’erano anche altri musicisti che suonavano il blues, cito a caso, Rudy Rotta, Fabrizio Poggi, i Mandolin Brothers di Jimmy Ragazzon, Angelo “Leadbelly” Rossi, i Model T. Boogie, dai quali passerà Nick Becattini, Aida Cooper, moglie di Cooper Terry, i Blues Stuff della scuola napoletana, da cui provenivano anche Edoardo Bennato e Pino Daniele, che avevano anche molto blues nelle loro corde: ce ne sarebbero moltissimi altri, ma è meglio se mi fermo, se no diventa un trattato, neppure breve. La carriera da solista di Bonfanti inizia nel 1992, per cui facciamo un Fast Forward verso il futuro e arriviamo al 2015 in cui esce l’ottimo CD dal vivo Back Home Alive, l’ultimo in ambito rock-blues https://discoclub.myblog.it/2015/09/07/la-via-italiana-al-blues-1-paolo-bonfanti-back-home-alive/ , mentre nel 2019 viene pubblicato Pracina Stomp, insieme all’amico Martino Coppo, il secondo in coppia, disco elettroacustico nel quale sono prodotti dal bravissimo Larry Campbell, a lungo collaboratore di Levon Helm, che Dio lo abbia in gloria : in mezzo c’è stato molto altro, ma concentriamoci sui contenuti di Elastic Blues, che è una sorta di “riassunto” delle puntate precedenti, un sequel e un prequel contemporaneamente, con la presenza di molti amici come “ospiti”.

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Un” collega” omonimo di Paolo, le altre foto seguenti nell’articolo sono di Guido Harari.

Come dice la presentazione dell’album, che riporto integralmente

10 mesi di lavoro in piena pandemia, 40 musicisti coinvolti (compreso l’autore), 60 anni, 70 minuti di musica, 80 pagine di libro, 15 brani inediti, 1 cover, una campagna di co-produzione dal basso che ha ampiamente doppiato la cifra inizialmente richiesta; la prefazione di Guido Harari e molto altro per questo “Elastic Blues” che non è solo musica ma anche un libro di memorie, riflessioni, introduzione ai pezzi e traduzione dei testi, impreziosito dalle immagini e dalla grafica di Ivano A. Antonazzo.

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Vediamo i 16 brani del disco del mancino chitarrista genovese: si parte “stranamente” con il prog-rock misto a trip psichedelico di ALT!, che non è un ordine della pattuglia che ti controlla per vedere se sei in giro in violazione del lockdown, ma è tedesco che sta per “vecchio” in contrapposizione a Neu: quasi otto minuti di uno strumentale che miscela Grateful Dead e King Crimson (magari anche i Nucleus che citavo prima, con alla chitarra l’ottimo Chris Spedding), sezione ritmica ufficiale dell’album Alessandro Pelle, batteria e Nicola Bruno, basso, con l’aiuto di Yo-Yo Mundi assortiti, tra chitarre elettriche stranianti ed assolo di basso spinto di Andrea Cavalieri. D’altronde al 21st Century ci siamo arrivati, e quindi il progressive buono si ascolta sempre volentieri, specie se va a questi ritmi vorticosi. E anche The Noise Of Nothing, un duetto tra chitarra acustica e fisarmonica di un altro fedelissimo come Roberto Bongianino (che però suona come un organo, ricorda Paolo nelle ricche note del CD) forse col blues, non c’entra molto, ma mi ha ricordato certe sperimentazioni gentili di Richard Thompson con John Kirkpatrick, più spinte verso “l’altro”.

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E un po’ di jazz non ce lo vogliamo mettere? Magari il Jazz-rock di Haze, l’unica cover del CD, un brano di Bobby & The Midnites, una strana formazione che univa Bob Weir dei Dead, Bobby Cochran, quindi doppia chitarra, con Billy Cobham alla batteria e Alphonso Johnson al basso, più Brent Mydland anche lui dei Dead alle tastiere, sulla carta fantastici, i dischi, a mio parere, molto meno riusciti, anche se questo brano, registrato con la band anni ‘90 di Paolo, approda verso un robusto funky jazz-rock che ha anche qualche parentela di elezione con il sound dei Little Feat, e poi, a furia di tirare l’elastico della musica, si approda alla canzone d’amore In Love With The Girl, solo voce, chitarra acustica, un insinuante violino e la bella voce di Bonfanti, che poi mischia nuovamente le carte in Unnecessary Activies, dove suonano in metà di mille (facciamo una quindicina di musicisti, giro AnanasnnA, più Lucio Fabbri al violino) per un funky-jazz-rock che mi ha ricordato certe cose di James “Blood” Ulmer, segue una giravolta di 360° e arriva la pedal steel di John Egenes per Heartache By Heartache, una outtake di Pracina Stomp, una delicata ballata che profuma di country. Poi si ritorna al rock quasi da power trio, con seconda solista aggiunta nella potente Don’t Complain con la chitarra di Gabriele Marenco, come direbbero gli americani “all over the place” per un assolo cattivo il giusto, con wah-wah fumante. E non manca neppure la canzone in dialetto genovese, una Fin De Zugno ispirata dai moti anti Tambroni del 1960 contro un governo che voleva inserire i fascisti nel governo (la Meloni ce lo ha risparmiato), solo voce, chitarra acustica e un quartetto d’archi gli Alter Echo String Quartet, per un brano molto alla De André  .

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Già, ma il Blues? Ci sta, ci sta! In We’re Still Around, brano dal titolo quantomai esplicativo, tornano i Big Fat Mama, con tanto di duello con doppia chitarra, nel caso Maurizio Renda, per un pezzo che profuma di rock sudista, di quello buono. A O Canto, sarebbe On The Corner in genovese, sarà mica un disco di un certo Miles Davis? Mi sa di sì, doppia batteria, fiati in evidenza, Aldo De Scalzi, altro genovese doc (fratello di Vittorio dei New Trolls) ad un piano elettrico che tanto ci ricorda Chick Corea scomparso di recente, con la chitarra di Paolo molto “lavorata”, e visto il titolo del disco ci metto anche il sound di quei Nucleus ricordati prima. Hypnosis, per due chitarre acustiche, azzardo, potrebbe essere dalle parti del primo John Martyn, quello che non aveva ancora scoperto l’Echoplex, per quanto qualche effettuccio in questo brano malinconico c’è; in I Can’t Find Myself, canzone di Paolo del 2004, che ci suona tutti gli strumenti, esclusa l’armonica, affidata a Fabio Treves, che non poteva mancare alla festa per i 60 anni, in questo shuffle classico, tra Chicago e Texas, ma anche qualche tocco di British Blues o della Butterfield Blues Band.. Ottimo anche l’omaggio al Gumbo, il New Orleans Sound gemellato con quello genovese e napoletano in Sciorbì/Sciuscià, fiati a go-go dei Lambrettas (ma non facevano ska? Ah no quelli inglesi) e la fisarmonica di Roberto Bongianino, per un brano che fa muovere i piedi.

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La title track, per quelli che parlano bene, va verso territori dove il blues si fa futuribile, ma anche retrò (in senso positivo), tra fisarmonica e la seconda chitarra di Matteo Carbonicini che divaga con quella di Paolo in questo complesso pezzo strumentale. Per Where Do We Go https://www.youtube.com/watch?v=0WDJWqylWpc  Bonfanti nelle note del libretto parla di Van Morricrosby (questa prima o poi me la rigioco), in quanto l’ispirazione era quella di ricreare atmosfere tra Van Morrison, David Crosby e Ennio Morricone, e mi pare ci sia riuscito, anche se sapete che Van The Man parte avvantaggiato, perché da giovane ha ingoiato un microfono e quindi quella voce non è replicabile, ma il risultato finale è eccellente. Finito? Quasi, come insegnava Mastro Jimi ci vorrebbe un bel Slight Return, applicato a Unnecessary Activies, virato, vista la forte presenza di fiati, alla musica di Hendrix ripresa da Gil Evans nel suo celebre omaggio. Tutto molto bello, magari tra 60 anni uscirà il secondo capitolo, per ora se può interessare lo potete comperare sul suo sito, oppure qui https://paolobonfanti.bandcamp.com/album/elastic-blues. Ne vale assolutamente la pena.

Bruno Conti

P.s Ora attendiamo We’ll Talk About It Later (questa la capiranno in pochi, è il titolo del secondo disco dei Nucleus).

La Fantastica Epopea Di Un Gruppo Fondamentale. Robbie Robertson And The Band – Once Were Brothers

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Robbie Robertson And The Band – Once Were Brothers – Magnolia BluRay – DVD

E’ con colpevole ritardo (su sollecitazione del titolare del Blog) che mi occupo di Once Were Brothers, splendido docu-film dedicato a The Band e narrato in prima persona da Robbie Robertson: dopo essere stato per breve tempo nei cinema, lo scorso anno è uscito in DVD e BluRay, ed il sottoscritto aveva aspettato ad accaparrarselo confidando in una edizione che comprendesse anche i sottotitoli in italiano, cosa che però non si è mai verificata. La recente ristampa deluxe di Stage Fright ha però riacceso in me l’interesse nel progetto, e devo dire che, vista la qualità del film, non so che cosa stessi attendendo! Once Were Brothers (prodotto dai registi premi Oscar Martin Scorsese e Ron Howard e diretto da Daniel Roher) è infatti una magnifica testimonianza sull’epopea di uno dei gruppi più fondamentali ed influenti della nostra musica, attraverso le voci dei protagonisti e di musicisti che in un modo o nell’altro devono molto al suono del quintetto canadese, una miscela vincente di rock, soul, errebi, blues, folk e country che oggi chiamiamo Americana ma che nella seconda metà degli anni sessanta in pratica non esisteva https://www.youtube.com/watch?v=bu1ksBNTTdw .

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Credetemi, l’assenza dei sottotitoli dopo pochi minuti dall’inizio della visione non sarà più un problema, in quanto Robertson parla un inglese comprensibilissimo ed in più porge le frasi con molta lentezza, ed anche gli ospiti, a parte un paio di casi, evitano accuratamente di mangiarsi le parole (le due eccezioni sono Levon Helm e Ronnie Hawkins). Dicevo degli ospiti, una parte importantissima in quanto a parte Robbie che funge da leader (d’altronde è l’ideatore del progetto) troviamo le testimonianze dei suoi ex compagni, ovviamente d’archivio dato che tre quinti del gruppo non è più tra noi (Garth Hudson, l’unico ancora in vita a parte Robertson, non appare in video ma presta la voce per un breve commento), e per lo stesso motivo risalgono agli anni novanta gli interventi di George Harrison.

238 The Band, Robbie and Dominique Robertson, Woodstock, NY, 1968.

238 The Band, Robbie and Dominique Robertson, Woodstock, NY, 1968.

Ma non è finita, in quanto il fiore all’occhiello sono coloro che hanno scelto di apparire nel film con interviste ex novo, gente del calibro di Bruce Springsteen, Eric Clapton, Van Morrison (una rarità), Taj Mahal, Peter Gabriel, David Geffen, i già citati Hawkins e Scorsese, la bellissima moglie di Robbie Dominique Robertson ed il loro primo produttore John Simon, mentre la partecipazione di Bob Dylan strombazzata sulla locandina del film si riduce ad un breve intervento estrapolato dal “suo” docu-film No Direction Home (manca invece stranamente Elton John, un altro i cui primi album risentivano parecchio della lezione dei nostri) https://www.youtube.com/watch?v=gHWha9M1Llo . Il film inizia con Robertson in studio di registrazione a dare gli ultimi ritocchi alla canzone che intitola il film (uscita nel 2019 all’interno del non eccelso Sinematic), e subito parte il racconto della sua infanzia e di come giovanissimo fosse stato fulminato sulla via del rock’n’roll in particolare da Chuck Berry. Poi c’è il ricordo della sua prima chitarra e quello, ben più traumatico, di quando sua madre (nativa americana di origine Mohawk) lo prese da parte per rivelargli che suo marito, James Robertson, non era il suo padre biologico, che in realtà era un ex giocatore d’azzardo ebreo in odor di mafia chiamato Alexander Klegerman, oltretutto ex galeotto ed in seguito rimasto ucciso in uno strano e poco chiaro incidente.

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Poi si passa al racconto delle sue prime band giovanili, fino a quando non fu notato da Hawkins che lo prese come chitarrista nei suoi Hawks, dove legò subito con Levon Helm (a cui per tutta la sua carriera, e nonostante i problemi che sorgeranno dopo tra i due, Robbie guarderà con profonda venerazione) e si rivelò anche un precoce songwriter, scrivendo due brani per Ronnie all’età di 15 anni. Poi si arriva agli anni sessanta ed al rapporto che gli cambierà la vita: quello con Dylan, conosciuto tramite la comune amicizia con John Hammond Jr. (quindi il bluesman, non il padre talent-scout che tra l’altro di Bob fu lo scopritore). Dylan in quel periodo aveva deciso per la famosa svolta elettrica e stava cercando una band che partisse in tour con lui, e gli Hawks erano la scelta perfetta; ma non fu tutto rose e fiori, in quanto come è ben noto la nuova veste sonora di Bob non fu molto apprezzata dai fans della prima ora, e molti concerti finivano con il pubblico che contestava pesantemente la band sul palco. Questo fatto esasperò Helm al punto da costringerlo a lasciare i compagni nel bel mezzo del tour (fu rimpiazzato in fretta e furia da Mickey Jones), ma durante la parte europea della tournée, per la precisione a Parigi, Robbie conobbe anche la sua futura (e in seguito divorziata, ma sono rimasti vicini) moglie, che nel film ricorda come all’epoca non parlasse una sola parola d’inglese.

Garth Hudson (left), Robbie Robertson, Levon Helm, Richard Manuel and Rick Danko of The Band pose for a group portrait in London in June 1971.

Garth Hudson (left), Robbie Robertson, Levon Helm, Richard Manuel and Rick Danko of The Band pose for a group portrait in London in June 1971.

Il fulcro del film è però naturalmente la trasformazione del gruppo da The Hawks a The Band, con i nostri che andarono a vivere a Woodstock nella famosa casa rosa che comparirà sulla copertina del loro primo album. Da qui ebbe inizio una serie di sessions tenute insieme a Dylan, loro vicino di casa (i famosi Basement Tapes), con Robertson che prese sempre di più confidenza con il songwriting al punto da arrivare a pubblicare un album fantastico e che introdurrà un sound totalmente nuovo (Music From Big Pink appunto), tra l’altro con Helm che era tornato con grande felicità di tutti a far parte del gruppo. Bella in particolare la rievocazione di Robertson su come gli fossero venuti in mente i primi versi di The Weight, che diventerà il loro brano più famoso, mentre Clapton ribadisce un concetto da lui espresso già altre volte, e cioè che Big Pink gli ha cambiato la vita, convincendolo che al mondo non c’era solo il blues. Il racconto prosegue poi con il successo di critica e pubblico del secondo fantastico album The Band, la nascita della primogenita di Robbie, e le prime crepe che arriveranno durante la lavorazione di Stage Fright, con Helm, Rick Danko e Richard Manuel dediti all’uso di droghe che spesso inibivano la loro efficacia in studio e la loro concentrazione (oltre a far loro rischiare la vita in molteplici incidenti d’auto).

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Da qui in poi il film subisce una decisa accelerazione, come se si fosse scelto di finire a cento minuti totali mentre si poteva benissimo arrivare alle due ore (ed è il difetto principale della pellicola, che gli costa almeno mezza stelletta in meno): da qui in poi gli album rimanenti del gruppo non vengono neppure nominati, ma ci si limita a raccontare come, su sollecitazione di Geffen, Roberston e famiglia lasciarono Woodstock (che il noto discografico ed allora presidente della Asylum definisce uno “shithole”, e direi che non serve la traduzione) per trasferirsi a Malibu dove presero una casa sulla spiaggia, cercando di coinvolgere anche gli altri quattro membri della band che però reagirono con meno entusiasmo (ed infatti Hudson vive a Woodstock ancora oggi). Poi c’è un brevissimo accenno al fortunato tour americano del 1974 ancora con Dylan e subito si passa allo show d’addio del novembre 1976 al Winterland di San Francisco immortalato nel mitico film The Last Waltz.

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Nella parte finale Robertson si limita a rievocare i problemi che avrà dopo lo scioglimento del gruppo con Helm, il quale gli imputerà il mancato riconoscimento della co-scrittura di alcune canzoni ed il pagamento delle relative royalties: i due non si rivolgeranno più la parola fino alla morte di Levon, e Robertson esprime il suo rammarico per non aver potuto far pace con l’amico dal momento che quando lo andò a trovare sul letto di morte non era già più capace di intendere. E qui troviamo un altro piccolo difettuccio del film (inferiore però come importanza a quello della durata), e cioè il fatto che durante la narrazione sentiamo solo la campana di Robbie, cosa in fondo comprensibile dato che il progetto è il suo e chi avrebbe potuto smentirlo non è più comunque tra noi, ma che lascia comunque un sapore latente di agiografia. Ma sono comunque quisquilie: Once Were Brothers è un signor “rockumentario”, che racconta in maniera coinvolgente ed anche toccante la storia di uno dei gruppi più importanti si sempre. Da non perdere.

Marco Verdi

Breve Ma Intenso! Thom Chacon – Marigolds And Ghosts

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Thom Chacon – Marigold And Ghosts – Pie Records/Ird

Si avvicina la stagione delle calendule, e i fantasmi, anche quelli del passato, sono sempre di moda, quindi, forse un po’ a sorpresa, ma non troppo, esce il nuovo album di Tom Chacon, (ho scoperto omonimo di un calciatore uruguiano) appunto Marigolds And Ghosts: un disco da classico folksinger e songwiter quale è il nostro amico di Boulder, Colorado, ma nativo del Sud California, zona geografica che spesso e volentieri è protagonista delle sua canzoni, e dove è stato registrato il nuovo album, il quinto, compreso un raro live ad inizio carriera. Si dice nel titolo di un disco breve, ma intenso, nove canzoni per 27 minuti, un po’ come certi vecchi dischi di uno dei suoi eroi musicali, ovvero Bob Dylan, con il quale Thom ambirebbe a collaborare, e dal quale è sicuramente influenzato, oltre ad averne preso a prestito il bassista, Tony Garnier, impegnato al contrabbasso per l’occasione.

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Chacon, voce calda, profonda, ma anche rauca e vissuta, come detto poc’anzi, intensa, predilige la forma della ballata per i suoi brani: nel disco precedente, l’ottimo Blood In The Usa, c’era anche l’impiego della batteria, di un organo, Garnier pure al basso elettrico, il produttore è rimasto lo stesso anche nel CD attuale, ovvero Perry Margouleff, che firma pure un paio di brani con Thom, e ha deciso di optare per un suono più minimale, scarno, ridotto all’osso, una voce e una chitarra acustica, qualche molto occasionale sbuffo di armonica e la scansione ritmica del contrabbasso. Ma la musica arriva comunque, forte e chiara, grazie all’espressività di quella voce, sempre partecipe ed appassionata: la title track, solo con acustica arpeggiata e contrabbasso, racconta la storia del processo di disintossicazione di un amico di Chacon, durante la detenzione in prigione  https://www.youtube.com/watch?v=YLuoUDnNGWk, mentre la placida Monsoon Rain ci racconta la sua visione della vita in Colorado, terra di laghi e foreste, dove la vita scorre seguendo i ritmi della natura, Church Of The Great Outdoors, scritta con Margouleff, è una ennesima ballata dolente, tipica del suo repertorio, e racconta nuovamente dell’amore per la naura, visto attraverso gli occhi della madre.

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Florence John, con il dobro di Tyler Nuffer a fare da contrappunto è più ampia ed avvolgente, sempre con quell’immancabile aura tra folk e country quasi arcano che vive nella musica del nostro amico, che ovviamente non dimentica il suo impegno politico e sociale nella splendida Borderland, dedicata alle storie dei migranti sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico, rispondendo per certi versi alla chiamata di Neil Young di non dimenticare questo problema, che si spera migliorerà, con l’avvento della amministrazione Biden, dopo gli anni sciagurati di Trump. Sorrow racconta nuovamente, in modo più personale, della vita dei suoi genitori, una canzone affettuosa che racconta storie di fede religiosa e dell’impatto che hanno avuto anche nella vicenda di Thom; A Better Life riprende il tema degli immigranti, con qualche piccolo accenno di speranza in una vicenda comunque sempre buia e tempestosa, con la musica che scorre fluida a sottolineare le parole, nel classico mood del perfetto songwriter, tratto che avvicina la sua musica a quella di Mary Gauthier, altra collega che Chacon ammira molto.

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Kenneth Avenue, di nuovo firmata con Margouleff, è una riflessione anche amara, ma appassionata sui suoi anni giovanili, della separazione dei suoi genitori, che a dispetto della loro fede cristiana, comunque divorziarono quando il nostro amico aveva 18 anni , segnandone forse la visione della vita. Per l’ultimo brano, la malinconica ed elegiaca Angel Eyes, fa la sua apparizione anche l’armonica che con poche note decise e vibranti arricchisce il tessuto sonoro di una canzone che penso probabilmente piacerebbe allo Springsteen più folk ed intimista e chiude in modo degno questo album profondo e personale.

Bruno Conti