Lo Springsteen Della Domenica: Un Boss Recente, Ma Con Un Inatteso Sguardo Al Passato. Bruce Springsteen & The E Street Band – MSG 11.07.09

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Bruce Springsteen & The E Street Band – MSG 11.07.09 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Nel corso della tournée del 2009 seguita alla pubblicazione di Working On A Dream, Bruce Springsteen e la sua E Street Band avevano introdotto una pratica che è poi andata avanti per qualche anno, e cioè quella di riproporre ogni tanto, in date un po’ “random”, alcuni loro album storici dalla prima all’ultima canzone. L’onore era principalmente riservato a tre lavori della discografia del Boss, ovvero Born To Run, Darkness On The Edge Of Town (eseguito anche di fronte al sottoscritto nel 2013 al Wembley Stadium di Londra) e Born In The U.S.A. (suonato anche a San Siro sempre nel ’13), ma in occasioni più uniche che rare è toccato anche ad altri album: è il caso dell’esordio Greetings From Asbury Park, NJ proposto a Buffalo proprio nel 2009 e, pochi giorni dopo, a The River nel secondo dei due concerti al Madison Square Garden di New York (l’esecuzione integrale del mitico album del 1980 diventerà un’abitudine nella parte americana del tour del 2016, ma fino a quel momento era una cosa più unica che rara). Entrambi questi show (Buffalo e MSG 2) erano già usciti nell’ambito degli archivi live di Bruce, ed il triplo CD di cui mi occupo oggi riguarda invece la prima delle due serate al Madison, tenutasi il 7 novembre 2009, un altro show a modo suo epocale in quanto presenta un’altra riproposizione “one off” di uno dei dischi storici del Boss, vale a dire il suo secondo album The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle, uscito originariamente nel 1974.

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MSG 11.07.09 è un altro live record di alto livello musicale ed emozionale, con il Boss e la sua storica band in ottima forma quando suonano il repertorio “normale” ed addirittura sensazionale quando si cimentano con le sette canzoni del disco del ’74, che vengono letteralmente reinventate grazie ad una performance di notevole spessore con la sezione fiati che aumenta la già considerevole potenza del suono della E Street Band. Il concerto parte con un indizio di ciò che succederà di lì a poco, e cioè con una performance decisamente soulful di Thundercrack, che del secondo album del Boss era una delle outtakes più conosciute dai fans https://www.youtube.com/watch?v=H7_SlKZNArA ; a seguire i nostri scaldano a puntino la platea con la rockeggiante Seeds, resa ancora più trascinante dai fiati, una Prove It All Night perfetta e con un grande assolo chitarristico ed il classico singalong di Hungry Heart. Dopo l’unico omaggio della serata a Working On A Dream con la non eccelsa title track, ecco arrivare The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle (con ospite sul palco il percussionista Richard Blackwell, che aveva suonato anche sul disco originale), un album molto amato dagli estimatori del nostro, e che negli anni è stato rivalutato a classico minore della discografia springsteeniana. Il pezzo più famoso tra i sette di quel disco è senza dubbio Rosalita, che non manca quasi mai nelle scalette del Boss, ma anche la toccante 4th Of July, Asbury Park (Sandy) viene suonata con discreta continuità (e qui Charlie Giordano sostituisce alla fisarmonica Danny Federici, scomparso da poco).

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Il resto è decisamente più raro, a partire dal vibrante errebi The E Street Shuffle https://www.youtube.com/watch?v=3ajmKLeorXQ , per continuare con la folkie Wild Billy’s Circus Story, eseguita dal solo Bruce con l’acustica, e con Kitty’s Back, proposta in una formidabile rilettura di un quarto d’ora in cui quasi ogni componente della band ha un momento tutto per lui (ma il dominio del sound resta in mano ai fiati ed al fantastico piano di Roy Bittan). Ma l’highlight di questa parte di spettacolo (e forse di tutto lo show), sono Incident On 57th Street, grandissima rock ballad con chitarre e piano sugli scudi https://www.youtube.com/watch?v=2LRkV93pd4A , e soprattutto una delle più belle New York City Serenade mai sentite, tredici minuti incredibili che non esito a mettere tra i momenti migliori di questa serie di concerti dal vivo: emozione pura https://www.youtube.com/watch?v=HQlMGe-eEVc . Il Boss torna quindi sulla terra con la coinvolgente Waitin’ On A Sunny Day, durante la quale urla un chiaro “Tutto bene!” in italiano, e poi, con la solita Raise Your Hand di Eddie Floyd in sottofondo, scende tra il pubblico per scegliere tra i cartelli con le richieste: questa sera tocca a tre pezzi, e cioè un altro tuffo nel passato con la solare e ritmata Does This Bus Stop At 82nd Street?, una rarità, la classica Glory Days che Bruce dedica ai New York Yankees che avevano appena vinto le World Series di baseball, e Human Touch che il trattamento E Street Band fa sembrare quasi un’altra canzone.

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Da qui in poi lo show diventa la solita prevedibile autocelebrazione di una delle rock band più travolgenti di sempre, con classici recenti (Lonesome Day, The Rising), passati (Born To Run, Bobby Jean) ed anche futuri (Wrecking Ball); il gran finale parte con American Land e Dancing In The Dark, che fanno saltare e ballare tutto il Madison, e termina con una vertiginosa versione di (Your Love Keeps Lifting Me) Higher And Higher di Jackie Wilson, con Elvis Costello ospite a sorpresa per duettare con Bruce https://www.youtube.com/watch?v=kdUoVKA1mhA . Il prossimo volume si occuperà di una serata ancora più recente, che non ha particolari caratteristiche se non quella di essere stata giudicata tra le migliori del tour di cui fa parte.

Marco Verdi

Tra Irlanda E Appalachi…Ma Dal Canada! The Dead South – Served Live

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The Dead South – Served Live – Six Shooter/Universal Canada 2CD

Dopo un EP e tre acclamati dischi in studio (l’ultimo dei quali, Sugar & Joy, risalente al 2019) anche i Dead South sono giunti all’appuntamento con quello che negli anni settanta era un must: il doppio album dal vivo. Canadesi della regione del Saskatchewan (la stessa di Colter Wall), i DS non sono un gruppo che suona musica cantautorale tipica della nazione del Nord America alla quale appartiene, ma in realtà sono una bluegrass band moderna con elementi folk ed anche rock, una notevole perizia strumentale ed un senso del ritmo non comune nonostante l’assenza di una sezione ritmica. I quattro (Nathaniel Hilts, voce solista, chitarra e mandolino, Scott Pringle, mandolino, chitarra e voce, Danny Kenyon, cello e voce, Colton Crawford, banjo e voce – con Kenyon che dallo scorso agosto ha lasciato il gruppo in quanto oggetto di una serie di accuse di molestie sessuali) sono stati paragonati come stile agli Old Crow Medicine Show, ma io vedo nel loro sound anche qualcosa dei Pogues, sia per le discendenze irlandesi di un paio di membri, sia per la foga con cui suonano ed anche per il timbro di voce parecchio arrochito di Hilts.

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Served Live è un doppio CD registrato a cavallo tra il 2019 ed il 2020 (appena prima che la pandemia decretasse lo stop ai concerti) in varie località di USA, Canada, Inghilterra ed Irlanda, 17 canzoni durante le quali i nostri mettono sul piatto tutta la loro bravura e la capacità di improvvisare jam strumentali con un’attitudine da rock band. Il palco è chiaramente la loro dimensione ideale, e ciò viene fuori alla grande nei due brani centrali del doppio, i sette minuti di Broken Cowboy, bellissima ballad cadenzata dal motivo di base decisamente coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=mHiOjCuQzzA , ed i nove minuti e mezzo della superba Honey You, country-folk dal crescendo costante con una velocità di esecuzione impressionante, assoli a profusione ed una serie di stop & go che mandano in visibilio il pubblico https://www.youtube.com/watch?v=fa8BwgLBMUc .

Michael Skocay

Michael Skocay

Ma il disco è anche molto altro: Diamond Ring, che sembra un traditional folk dell’anteguerra, viene suonato ai mille all’ora e cantato con grande grinta, il puro bluegrass Blue Trash, con ottimi cambi di ritmo e melodia, la fulgida ballata Black Lung, tesa ma coinvolgente, la formidabile The Recap, tra western e Messico, la creativa Boots, che in pochi minuti si trasforma da bluegrass a folk a puro country, oppure lo strepitoso western tune Spaghetti, tra i pezzi più trascinanti del doppio https://www.youtube.com/watch?v=Lqk4tTTubtY . Senza dimenticare le forsennate e travolgenti The Bastard Son e Snake Man, suonate con un approccio da punk band, Heaven In A Wheelbarrow, delizioso ed orecchiabile country-grass, la divertente cowboy song In Hell I’ll Be In Good Company, fino al gran finale con le irresistibili Travellin’ Man e Banjo Odyssey, un titolo che è tutto un programma. I Dead South sono una bella realtà, e questo Served Live li consacra come uno degli acts più interessanti in ambito folk-bluegrass contemporaneo.

Marco Verdi

Una Sorprendente Dinamo Rock-Blues Nera. Skykar Rogers – Firebreather

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Skylar Rogers – Firebreather – Self-released CD/Download

Viene da Chicago, ma opera con la sua band, i Blue Diamonds, nell’area di St. Louis, dove è stato registrato questo Firebreather, che è il suo esordio, a parte un EP uscito nel 2019 Insecurities: stiamo parlando di Skylar Rogers, cantante nera che mescola orgogliosamente blues, soul, funky e molto rock, non per nulla tra le sue influenze cita Tina Turner, Etta James, Billy Joel, e Koko Taylor, tutte abbastanza comprensibili, a parte forse Billy Joel. Il disco consta di 10 tracce originali, niente cover, la band che la accompagna, un quintetto con due chitarre, basso, batteria e un tastierista, nomi poco conosciuti, ma comunque validi e tosti, anche se tutto ovviamente ruota intorno alla voce gagliarda e duttile della Rogers. Si parte subito forte con il rock-blues tirato di Hard Headed Woman, chitarra incisiva e ricorrente, organo scivolante, il resto della band ci dà dentro di gusto, il timbro vocale una via di mezzo tra Janis Joplin (o se preferite le sue epigone Beth Hart e Dana Fuchs, anche se non siamo per ora a quei livelli), Koko Taylor e la Tina Turner più rockeggiante https://www.youtube.com/watch?v=YtW5bE_Rmig , come ribadisce la robusta Back To Memphis, ancora potente e con la chitarra di Steven Hill sempre in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=qPGItqPBkuc  .

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Work è più funky, anche se i ritmi rock sono sempre prevalenti, con l’organo che cerca di farsi largo, Like Father Like Daughter il singolo estratto dall’album è sempre molto riffata, addirittura con elementi southern nella struttura del brano e la solista che imperversa sempre https://www.youtube.com/watch?v=m7kj_qZ7cnU , ma la “ragazza” ha classe e quando i tempi rallentano come nella bellissima soul ballad Failure, le influenze di James e Taylor hanno modo di essere evidenziate e la vocalità si arricchisce di pathos, con l’organo che si spinge dalle parti di Memphis https://www.youtube.com/watch?v=bQeUxLGSsCc . Però il genere che si predilige nell’album è sempre abbastanza duretto, come ribadisce la tirata title track, sempre in odore di blues-rock, con chitarra quasi hard e organo ad inseguirsi, mentre basso e batteria pompano energicamente e Skykar canta con grande forza https://www.youtube.com/watch?v=NKMOc4glugs , con Movin’ On che viceversa ha retrogusti gospel su un tempo scandito, coretti e battiti di mano accattivanti per un call and response godurioso, mentre la melodia è affidata all’organo https://www.youtube.com/watch?v=encBYeZcv28 .

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Thankful è una blues ballad pianistica, sempre con le linee fluide e sinuose della solista a fare da contrappunto alla energica interpretazione della Rogers che poi lascia il proscenio a un drammatico e vibrante assolo della chitarra, atmosfera che si ripete nello slow blues Drowning, altro brano che ruota attorno al dualismo tra la voce accorata di Skylar e la parte strumentale con chitarra e organo sempre sugli scudi https://www.youtube.com/watch?v=m7kj_qZ7cnU . E per concludere non manca anche un tuffo nel rock and soul di marca Motown di Insecuties, molto piacevole e disimpegnato, che comunque conferma il talento di questa nuova promessa che potrebbe diventare un ancora maggior concentrato di potenza in futuro, magari affidata ad un produttore di pregio in grado di orientarla più verso le sonorità più raffinate espresse in Failure. Per ora da tenere d’occhio, anche se, manco a dirlo, la versione in CD dell’album è costosa e di difficile reperibilità.

Bruno Conti

Meno Male Che Il Country E’ Un’Altra Roba! The Reklaws – Sophomore Slump

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The Reklaws – Sophomore Slump – Universal Canada CD

I Reklaws sono un duo vocale formato dai fratelli Stuart e Jenna Walker (Reklaw è Walker letto al contrario), che ancora prima di pubblicare il secondo disco hanno già acquisito una certa popolarità in patria. Canadesi dell’Ontario, i due hanno esordito nel 2019 con Freshman Year, un album inciso a Nashville con musicisti locali e pubblicato dal distaccamento canadese della Universal: personalmente ho sempre qualche sospetto quando un gruppo o un solista “saltano” la gavetta e si mettono nelle mani di una major cominciando a vendere bene fin da subito, e purtroppo l’ascolto di Sophomore Slump, secondo lavoro dei fratelli Walker, ha confermato le mie paure. Siamo infatti di fronte ad un album che è country solo nelle intenzioni (e forse neppure in quelle), dal momento che le dodici canzoni contenute sono l’espressione del peggior pop usa e getta made in Nashville, una musica radiofonica con i suoni calibrati al millimetro, melodie un po’ fasulle e zero feeling.

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Prodotto come il precedente da Todd Clark, Sophomore Slump ha tutte le carte in regola per superare il successo del suo predecessore, ma il suo pubblico di riferimento non sono gli appassionati che ascoltano veramente la musica, bensì tutti quelli dal palato non troppo fine che si limitano ad un download distratto e per i quali il massimo della musica sono i talent show. Canzoni come l’iniziale Not Gonna Not, un pezzo elettrico dal refrain orecchiabile dove però tutto è studiato a tavolino https://www.youtube.com/watch?v=Qh_qwavQfyU , il pop senza sostanza di Got Me Missing, che non lascia nulla una volta terminato l’ascolto, o You Problem, brano qualunque che affonda in un marasma di suoni elettronici da mani nei capelli (country? Ma per favore…) https://www.youtube.com/watch?v=R94K3W13Jb4 .

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Questo non è un disco di quelli che si raddrizza man mano che si prosegue, anzi può solo peggiorare, e ciò viene confermato da I’m Down, che poteva essere una buona ballata se si fosse limitata al binomio voce-piano ma poi purtroppo arrivano i soliti suoni plastificati ed il tutto perde di intensità https://www.youtube.com/watch?v=7dotWBb4ZPQ , da So Crazy It Just Might Work, dalla melodia qualunque, e da Your Side Of A Broken Heart, che non sa di niente (ed è meglio stendere un velo pietoso sull’arrangiamento). Gli ultimi quattro brani (Where I’m From, Beer Can, Godspeed e la ridicola Karma, che sembra la sigla di un cartone animato) non aumentano di certo il livello già traballante del disco, e neppure ci riesce la versione acustica di Where I’m From inserita alla fine come bonus, dal momento che non è solo un problema di sonorità ma anche di scrittura. In poche parole, un CD da evitare.

Marco Verdi

Brava, Ma Non Sempre Chi Fa Da Sé Fa Per Tre! Ghalia Volt – One Woman Band

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Ghalia Volt – One Woman Band – Ruf Records

Questa ci mancava, una blueswoman che viene dal Belgio: a seconda dei dischi si presenta come Ghalia & Mama’s Boys, semplicemente Ghalia, ed ora Ghalia Volt, ma il suo vero nome all’anagrafe è Ghalia Vauthier e viene da Bruxelles, non esattamente la capitale del mondo per le 12 battute. Ovviamente poteva metterla sotto contratto solo la Ruf, che ha un roster di artiste femminili che gravitano intorno al blues, provenienti da tutte le latitudini (e anche le longitudini) del mondo: come certo saprete ci sono americane, inglesi, canadesi, finlandesi, serbe, italiane (la Cargnelutti), austriache, croate, alcune non incidono più per l’etichetta tedesca, ma ne arrivano sempre di nuove, non tutte sono allo stesso livello, ma quasi tutte interessanti. Ghalia ha un passato, ad inizio carriera, magari anche prima, da busker, tra Europa ed America, poi una passione per R&B e R&R con forti venature punk ed infine è arrivato il blues. Dopo due album full band questa volta la signorina, come da titolo One Woman Band, ha deciso di fare tutto da sola, anche se nel disco, registrato ai famosi Royal Sound Studios di Memphis, con la produzione di Boo Mitchell (degno nipote di Willie, quello dei dischi da Al Green) , sono apparsi come ospiti Dean Zucchero al basso e “Monster” Mike Welch alla chitarra.

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L’intento, in risposta alla crisi da Covid, era quello di creare una sorta di resilienza, con un disco, dove canta, suona la chitarra slide, e con i due piedi contemporaneamente kick drum, snare drum, tamburino e piatti https://www.youtube.com/watch?v=q8A2dlDo0-o . Naturalmente il risultato è molto ruspante, a tratti fin troppo. L’energia e la grinta ogni tanto debordano oltre il limite, e quindi il disco non mi ha convinto del tutto, ma è un parere personale, va bene il DIY, ma non sempre ci siamo: l’iniziale Last Minute Packer è un boogie/rock’n’roll con ritmo scandito, voce pimpante, chitarra leggermente distorta e qualche eco di juke joint blues https://www.youtube.com/watch?v=qQX6XvzK0zc , Esperitu Papago, con bottleneck in bella vista e Zucchero al basso, ritmi ripetuti alla John Lee Hooker, qualche tocco di leggero psych-garage rock con la voce trattata nel finale, non sempre decolla, Can’t Escape vira decisamente sul rock, grintoso e tirato, minimale ma deciso e vibrante. Evil Thoughts è uno shuffle quasi classico, divertente e divertito, anche se al solito un filo irrisolto, benché questa volta la chitarra è più in evidenza, ma sarà perché è quella di Mike Welch https://www.youtube.com/watch?v=WDud4wN6T9k ? Meet Me In My Dreams è più convinta ed immersa nelle paludi blues del Mississippi, ma quello che pare essere il suo modello come sound, ovvero RL Burnside, è pur sempre di un’altra categoria https://www.youtube.com/watch?v=343lZp98kyI .

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Reap What You Saw è una delle canzoni più riuscite, slide ascendente e discendente che mulina di gusto, influenzata dalla opera omnia di Elmore James, cantato partecipe e convinto e omaggio riuscito al re del bottleneck, poi ci si sposta verso le traiettorie sonore del Chicago Blues di Muddy Waters, con una sanguigna e scandita Loving Me Is A Full Time Job, che poi accelera nel corso del brano, anche se alcune immaginifiche recensioni mi paiono un filo esagerate nel tessere le lodi di Ghalia. It Hurts Me Too, di nuovo Elmore James, è un sapido lentone con uso bottleneck, che dimostra che volendo la stoffa c’è https://www.youtube.com/watch?v=-Hvkzl-GE0Q , non manca pure del sano R&R come nella divertente It’ Ain’t Bad https://www.youtube.com/watch?v=VWQyzVGscsc  e un’altra cavalcata slide, che dimostra la sua buona tecnica, nella tirata e “lavorata” Bad Apple, prima della chiusura affidata alla cover di un vecchissimo brano anni ‘50 di Ike Turner Just One More Time dove tornano per aiutarla Zucchero e Welch, tra swing e piacevole rockabilly https://www.youtube.com/watch?v=-S74GoKuEZ4 . Alla fine un disco godibile, vediamo per il futuro.

Bruno Conti

Una Band Formidabile, Assolutamente Da Riscoprire. Georgia Satellites – Ultimate

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Georgia Satellites – Ultimate – Lemon/Cherry Red 3CD

Musicalmente parlando gli anni ottanta, oltre al synth-pop con tastiere e batterie elettroniche ed al cosiddetto genere “hair metal”, hanno prodotto una lunga serie di rock’n’roll band di culto che solo in pochi casi sono sopravvissute artisticamente a quella decade (anche se alcune si sono riformate in seguito), con nomi che hanno raggiunto una certa notorietà come Blasters, Dream Syndicate e Green On Red ed altre più “sotterranee” come Del Fuegos, Lone Justice, Del-Lords e Georgia Satellites. Proprio a questi ultimi, un quartetto proveniente da Atlanta, di recente la Cherry Red ha dedicato un cofanettino triplo intitolato Ultimate e contenente i tre album da loro pubblicati negli eighties, tutti arricchiti da una buona dose di bonus tracks https://www.youtube.com/watch?v=FGXlMvmu7jY . Ma andiamo con ordine: nel 1980 il gruppo nasce per iniziativa dei chitarristi Dan Baird e Rick Richards, che una volta arruolati un bassista ed un batterista formano i Satellites, bar band che si esibisce nei locali di Atlanta; dopo aver sostituito un paio di volte la sezione ritmica ed aver aggiunto “Georgia” al nome, i nostri nel 1985 pubblicano un EP che accende l’attenzione degli addetti ai lavori, e con la formazione definitiva che vede Rick Price al basso e Mauro Magellan alla batteria firmano un contratto con la Elektra, entrando in studio con il noto produttore Jeff Glixman (Kansas, Gary Moore, Black Sabbath).

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L’omonimo album di esordio del 1986 Georgia Satellites fa il botto e si piazza al quinto posto della classifica di Billboard, aiutato dal singolo Keep Your Hands To Yourself che arriva addirittura al secondo (battuto solo dai Bon Jovi di Livin’ On A Prayer), ed il tutto senza annacquare il loro sound, un roboante rock’n’roll di matrice sudista che definire trascinante è poco, musica al 100% da bar band con ritmo alto, chitarre a manetta ed un feeling formidabile: se vogliamo semplificare, pensate ad un mix di Rolling Stones, Creedence e Ian Hunter con l’aggiunta di un pizzico di Tom Petty. Il successo però dura poco, e già Open All Night del 1988 viene quasi ignorato fermandosi alla posizione numero 77, ma ancora peggio va all’ottimo In The Land Of Salvation And Sin dell’anno seguente, che non entra neppure nella Top 100. A questo punto Baird lascia la band per mettersi in proprio, e Richards assume il bastone del comando rifondando però il gruppo con altri musicisti: in teoria sono insieme ancora oggi, ma in tutto questo tempo sono riusciti a pubblicare solo l’altalenante Shaken Not Stirred nel 1997 (costituito peraltro in buona parte da rifacimenti delle loro canzoni più note), cosa comprensibile dato che il leader del gruppo nonché principale autore era proprio Baird.

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Ultimate ci presenta quindi la “golden age” completa dei Satelliti (con un booklet che include nuove testimonianze da parte di tutti e quattro i membri), ed è una vera goduria scoprire, o riscoprire, un gruppo che avrebbe meritato ben altra sorte e che all’epoca era tra i pochi a proporre un certo tipo di musica.

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L’omonimo primo album inizia proprio con la già citata Keep Your Hands To Yourself, trascinante rock’n’roll song chitarristica dal tiro irresistibile (che bello quando certe canzoni andavano anche in classifica) https://www.youtube.com/watch?v=PdpAop7gp0w , ma il disco è anche molto altro, come lo scatenato boogie Railroad Steel, la contagiosa Battleship Chains, dal ritmo ancora rock’n’roll ma ritornello da pop song https://www.youtube.com/watch?v=nUXA3KkKIZE , la sudista Red Light, un godimento a base di ritmo e chitarre. Il rock’n’roll domina comunque in lungo e in largo: sentite il riff alla Stones che apre The Myth Of Love (e pure il resto del brano, meglio tra l’altro di ciò che proponevano in quel periodo Jagger e soci), o la travolgente Can’t Stand The Pain, tra le più riuscite e con una slide appiccicosa in sottofondo  , o ancora la splendida ed ariosa rock ballad Golden Light, dalle parti di Petty, l’avvincente Over And Over, molto John Fogerty, Nights Of Mystery, altro rockin’ tune come oggi non si usa più fare, e la cover decisamete ruspante di Every Picture Tells A Story di Rod Stewart  . Come bonus, a parte due diversi remix di Battleship Chains, abbiamo la b-side Hard Luck Boy, rockabilly con slide suonato ai cento all’ora, e cinque strepitosi pezzi dal vivo: The Myth Of Love, Red Light, una infuocata rilettura alla Thorogood di No Money Down di Chuck Berry e Nights Of Mystery suonata in medley con I’m Waiting For The Man dei Velvet Underground https://www.youtube.com/watch?v=T5f8ovhMy-4 .

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Open All Night, ancora prodotto da Glixman e con l’ex Faces Ian McLagan alle tastiere in tre pezzi, non suscita ricordi positivi in Baird, che nelle note interne adatta al secondo album del gruppo il vecchio adagio che recita più o meno:”hai tutta la vita per scrivere il primo disco e solo due mesi per il secondo”. Sinceramente non me la sento di condividere i sentimenti di Baird, dato che siamo di fronte ad un lavoro solo leggermente inferiore al primo ma comunque un signor disco di rock’n’roll fin dalla title track che incrocia Bob Dylan ed i Blasters https://www.youtube.com/watch?v=GdHeXqUxG2w , per continuare con l’irresistibile Sheila che ricorda il miglior Dave Edmunds e con la potente e creedenciana Cool Inside. Ci sono due formidabili cover, la prima del classico di Jerry Lee Lewis Whole Lotta Shakin’ (Goin’ On), una fucilata (con McLagan che fa il Killer) https://www.youtube.com/watch?v=R1G4VmTEK_4 , ed una rilettura decisamente accelerata di Don’t Pass Me By dei Beatles (il primo brano scritto dal solo Ringo Starr), con un approccio alla Jason & The Scorchers https://www.youtube.com/watch?v=5PJ4bQNoZEY . Il rock’n’roll party continua con la coinvolgente My Baby, il country-rock sanguigno di Mon Cheri ed un finale a tutta birra con le robuste Down And Down, Dunk’n’Dine e Baby So Fine e la splendida e calda southern ballad Hand To Mouth. Le tracks aggiuntive presentano tre brani live (due travolgenti Battleship Chains e Railroad Steel ed un altro omaggio a Berry con Let It Rock), un remix di Sheila, un ottimo medley che unisce due classici di Fogerty come Almost Saturday Night e Rockin’ All Over The World https://www.youtube.com/watch?v=BwpE4YuUzmE  e la cover al fulmicotone di Hippy Hippy Shake (hit del 1963 degli Swinging Blue Jeans ma inciso anche dai Beatles per la BBC), uscita nella soundtrack del film Cocktail https://www.youtube.com/watch?v=Rk7F2t1M1y0 .

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In The Land Of Salvation And Sin è invece il disco preferito da Baird, ed è infatti un altro grande album che a differenza dei due precedenti è stato inciso a Memphis, prodotto da Joe Hardy ed ancora con McLagan in session. Il rock’n’roll la fa sempre da padrone, con brani strepitosi dal ritmo a palla e chitarre al vento come le scatenate I Dunno, Slaughterhouse e Dan Takes Five https://www.youtube.com/watch?v=CPVqSC0bDco , le rollingstoniane Bottle O’Tears https://www.youtube.com/watch?v=CPVqSC0bDco , Six Years Gone (la Tumbling Dice dei Satellites?) e Stellazine Blues, la cadenzata ed orecchiabile Bring Down The Hammer. In questo disco il suono è però più variegato e non mancano intense ballate in odore di rock come l’epica All Over But The Cryin’ (bellissima, uno dei loro brani migliori) https://www.youtube.com/watch?v=BCBvCpx47Sg , Shake That Thing che è una via di mezzo tra la southern music e Bo Diddley, una rutilante cover del classico di Joe South Games People Play in stile boogie con slide https://www.youtube.com/watch?v=3iHYAfRFKOc , il country-blues acustico Another Chance, molto simile a certe cose future dei Black Crowes con la spina staccata, la languida Sweet Blue Midnight, puro romanticismo sudista. E mi fermo qui per non citarle tutte e 14. Le bonus tracks si limitano a tre versioni “edit” di Another Chance, Shake That Thing e All Over But The Cryin’ ed alle due b-sides Saddle Up e That Woman, ancora rock’n’roll gagliardo e potente https://www.youtube.com/watch?v=lKwdwtSiHx4 .

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Ultimate è quindi un triplo CD da avere assolutamente (forse costa anche troppo, circa 35 euro, o giù di lì, non sono poi pochi per un triplo), a dimostrazione che gli anni ottanta non erano solo capelli cotonati, spandex e giacche con le spalline rinforzate.

Marco Verdi

E Questo Da Dove Spunta? Blue Oyster Cult – Live ‘83

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Blue Oyster Cult – Live ’83 – Real Gone/Sony CD

Pensavo sinceramente di non dovermi più occupare dei Blue Oyster Cult per un bel po’, soprattutto dopo che lo scorso anno c’è stata una vera e propria invasione di ristampe, live inediti e la pubblicazione dell’album The Symbol Remains https://discoclub.myblog.it/2020/10/14/e-finalmente-e-arrivato-il-dessert-blue-oyster-cult-the-symbol-remains/ . Invece mi trovo qua oggi a parlare di un altro “nuovo” CD dal vivo della band americana intitolato semplicemente Live ’83, che però non fa parte del progetto di rilancio dell’Ostrica Blu operato dall’etichetta nostrana Frontiers https://discoclub.myblog.it/2021/01/31/e-dopo-il-dessertcaffe-e-ammazzacaffe-blue-oyster-cult-a-long-days-nightlive-at-rock-of-ages-festival-2016/ , bensì è una pubblicazione a parte della Real Gone (e relativa al materiale dell’epoca Sony), messa fuori probabilmente ad hoc per sfruttare l’onda lunga della rinnovata popolarità del gruppo. Live ’83 non è un album che coglierà di sorpresa i fans più sfegatati del quintetto newyorkese, in quanto si tratta della versione ufficiale di uno dei concerti più “bootlegati” dei nostri, vale a dire quello tenutosi il 24 luglio 1983 al Perkins Palace di Pasadena, California, durante le battute finali del lungo tour di due anni seguito alla pubblicazione nel 1981 di Fire Of Unknown Origin, tour che all’epoca aveva già avuto nell’82 una testimonianza ufficiale con Extraterrestrial Live.

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Ebbene, Live ’83 non è di certo inferiore al disco appena citato, in quanto vede all’opera un gruppo decisamente “roadato” (scusate il tristissimo gioco di parole) ed in forma brillante, che intrattiene il pubblico californiano per quasi ottanta minuti di solido hard rock classico e senza il benché minimo accenno di ballate (lo show non è completo, mancano tre brani che curiosamente erano tutte anteprime dell’album The Revolution By Night che sarebbe uscito da lì a pochi mesi). Il gruppo era formato per quattro quinti da membri originali (Eric Bloom, Donald “Buck Dharma” Roeser, Joe Bouchard ed Allen Lanier), con l’aggiunta del batterista Rick Downey che nell’81 aveva sostituito Albert Bouchard, e come spesso capita vede Roeser fare la differenza con una eccellente performance chitarristica ad alto tasso adrenalinico, che lo conferma vero leader della band: lo show non è quindi inferiore a quelli interessati dai vari live usciti nel 2020, anche se la qualità di registrazione non è allo stesso livello (non è un suono da bootleg, ma neppure all’altezza degli standard richiesti ad un album dal vivo pubblicato nel 2021). La setlist concede molto poco all’allora ultimo disco e si concentra quasi totalmente sugli anni settanta del gruppo, in particolare i primi tre album, a partire da Stairway To The Stars, un boogie decisamente chitarristico con Roeser che inizia ad arrotare di brutto, seguita dalla potente Harvester Of Eyes, hard rock song che più classica non si può.

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La scaletta alterna brani popolari come Hot Rails To Hell, Cities On Flame With Rock And Roll e l’immancabile (Don’t Fear) The Reaper, ad altri meno esplorati come la pulsante Workshop Of The Telescopes https://www.youtube.com/watch?v=CTUULoK6NrM , il rock’n’roll all’ennesima potenza Before The Kiss, A Red Cap e la solida ed incalzante 7 Screaming Dizbusters. Fire Of Unknown Origin è rappresentato dall’orecchiabile Burnin’ For You, tra i pezzi più noti della band, e dalla coinvolgente ed immediata Joan Crawford, con un’ottima prestazione di Lanier al pianoforte. Infine, non mancano le rarità, come Born To Rock che è tratta dall’unico lavoro di Buck Dharma come solista (un pezzo dalla ritmica pressante e solita notevole prestazione da axeman del chitarrista, anche se come songwriting il brano non è il massimo) e due cover in cui Roeser è ancora il protagonista assoluto: il classico degli Steppenwolf Born To Be Wild (dove però appare un synth un po’ inutile) e soprattutto una Roadhouse Blues dei Doors da paura, dieci minuti molto intensi che da soli valgono gran parte del prezzo richiesto per il CD, con in mezzo anche un breve accenno a Love Me Two Times https://www.youtube.com/watch?v=FmOu8qGu5UQ . Un altro buon live d’archivio per i Blue Oyster Cult, anche se stavolta spero sul serio che sia l’ultimo per almeno due anni.

Marco Verdi

George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte II

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(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES - JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES – JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

Seconda Parte.

Gli Anni Della Consacrazione Commerciale E La Conseguente Discesa 1985-1999

Dopo tre anni di concerti infiniti ( ne parliamo a fine articolo) si arriva al nuovo album di studio, nell’anno della partecipazione al Live Aid esce

George_Thorogood_Maverick

Maverick – 1985 Emi America – ***1/2 Dove arriva il nuovo produttore Terry Manning, partito con il soul Stax e poi passato anche per i Led Zeppelin fino ad approdare agli ZZ Top, un’altra band che di boogie e blues se ne intendeva, il suono si fa un più duro e mainstream, ma i nostri ci danno dentro comunque, come dimostra l’uno-due iniziale di Gear Jammer che va di slide, e I Drink Alone, un altro dei grandi cavalli di battaglia di Thorogood, che complessivamente firma ben quattro canzoni https://www.youtube.com/watch?v=4E9ydw_aDMg , notevole anche la famosa Willie And The Hand Jive di Johnny Otis, l’unico singolo che in carriera entrerà nella Top 100, forse perché sembra in tutto e per tutto un brano alla Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=AuNOkGnEme8 . Insomma la qualità dei dischi comincia a diminuire, benché il tocco country di What A Price di Fats Domino e ldela conclusiva The Ballad Of Maverick e il rockabilly di Dixie Fried di Carl Perkins non sono per niente male, e una minacciosa e sospesa Crawling King Snake di Sor John Lee Hooker, e ben due Chuck Berry il medley Memphis/Little Marie e Go Go Go, dimostrano che il tocco magico non è scomparso. Dopo altri tre anni, e il primo disco ufficiale dal vivo arriva

George Thorogood BornToBeBad

Born To Be Bad – 1988 EMI *** Ancora Terry Manning in cabina di regia, suono sempre troppo secco e anni ‘80, anche se alcuni brani tirano di brutto, come l’iniziale Shake Your Money Maker dell’amato Elmore James dove Thorogood va di bottleneck con libidine  https://www.youtube.com/watch?v=pNKFePZk3rQ , come pure in Highway 49 di Big Joe Williams, rock’n’roll per You Can’t Catch Me e I’m Ready quella di Fats Domino, un po’ di R&B scatenato in Treat Her Right a tutto sax, blues nella “cattiva” e ululante Smokestack Lightning e nel train time di I’m Movin’ On, successo di vendite e fama sempre stabili. Dopo altri tre anni si entra nella nuova decade, con l’arrivo di un nuovo chitarrista Steve Chrismar che appare in

George Thorogood BoogiePeople

Boogie People – 1991 EMI ***1/2, con un suono decisamente più grintoso e sul versante blues-rock e classic rock, come testimonia l’iniziale If You Don’t Start Drinkin’, molto buona Long Distance Lover a tutta slide, il classico boogie Mad Man Blues di John Lee Hooker, come pure la cover acustica di I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo voce e chitarra con bottleneck, non un granché la title track, ottima la “lupesca” No Place To Go di Howlin’ Wolf https://www.youtube.com/watch?v=7burMF7K-Lk  , seguita da una gagliarda Six Days On The Road e dalla tirata Born In Chicago, con ottimo lavoro della solista, un tuffo nel country con la piacevole Oklahoma Sweetheart e l’omaggio R&R all’amato Chuck Berry con la riffatissima Hello Little Girl. Quindi un buon disco, che però non ha successo e segnala un declino del successo di Thorogood, che procede anche con il successivo

George Thorogood -Haircut

Haircut – 1993 Capitol *** Un solo pezzo firmato da George, su, indovinato, i canonici dieci: produce ancora Manning, Get A Haircut è un brano divertente ma non essenziale, questa volta ci sono tre canzoni a firma Wiilie Dixon, due per Howlin’ Wolf, tra cui la classica Howlin’ For My Baby, oltre a I’m Ready che ogni tanto Thorogood incide in studio, bene anche Cops And Robbers con il tipico drive sonoro del suo autore Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=l7QKNP-C-CU , l’immancabile John Lee Hooker di Want Ad Blues e una “strana” Gone Dead Train, un pezzo cantato in origine da Randy Newman nella colonna sonora di Performance, il film con Mick Jagger https://www.youtube.com/watch?v=dSgWQSVGgig . Anche questo disco non rientra nella categoria degli indispensabili. Dopo quattro anni arriva l’ultimo CD per la Capitol, anche questo, per usare un eufemismo, non particolarmente brillante, parliamo di

George Thorogood RockinMyLifeAway

Rockin’ My Life Away – 1997 Capitol **1/2 Prodotto dalla band insieme a Waddy Wachtel(!), variazione sul tema ci sono 12 brani, alcuni anche inconsueti: Trouble Every Day di Frank Zappa, che in questa versione sembra un brano della J.Geils Band, anche vocalmente https://www.youtube.com/watch?v=UT6DRjA8k7s , mentre in Night Rider si va di slide, ma il brano è moscio, anche in The Usual, una bella canzone di John Hiatt il suono non sembra particolarmente brillante, e così via, anche il country Living With the Shades Pulled Down di Merle Haggard non acchiappa più di tanto, si salvano, a fatica, Manhattan Slide di Elmore James, il R&R della title track, e la cadenzata Blues Hangover di Slim Harpo. Non un brutto disco, ma manca la grinte e per un disco di Thorogood è una eresia: per il successivo album, l’ultimo del millennio

George Thorogood Half_a_BoyHalf_a_Man

Half a Boy/Half a Man – 1999 CMC *** torna Terry Manning alla produzione, un po’ meglio, ma niente di che. C’è anche una nuova etichetta del gruppo BMG, ma la collaborazione durerà per un solo album, più un Live: per confondere le idee si prova con 11 canzoni, solo un Chuck Berry e un Fats Domino, poi brani abbastanza oscuri di Keith Sykes B.I.G.T.I.M.E., la title track di Nick Lowe, un pezzo poco noto di Solomon Burke come Be Bop Grandma https://www.youtube.com/watch?v=gawgzsAqL4I  , ma anche due canzoni firmate da Willie Dixon, una per Little Walter e una per Magic Sam, in quota Blues, e Double Shot, tra R&R e R&B. Dopo una pausa di quattro anni, nuovo secolo, nuova casa discografica, nuovo produttore

george thorogood 2000's

Gli Anni 2000, Con Colpo Di Coda Finale.

George_Thorogood_ride_til_i_die

Ride ‘Til I Die – 2003 Eagle Records***1/2 Dietro la consolle c’è Jim Gaines, uno che di solito di blues ne capisce (ma non sempre), però questa volta ci siamo, anche l’arrivo di Jim Suhler, altro chitarrista coi fiocchi, controfiocchi e pappafico, alza il livello, forse non tutte le canzoni sono all’altezza, però: Greedy Man, scritta dal sassofonista jazz Woody Shaw è un ottima partenza, con la slide di George che si confronta con il sax di Hank Carter alla ultima apparizione con i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=y-ZyrDQpAu4 , Sweet Little Lady è un buon pezzo rock dove Thorogood e Suhler che sono anche gli autori se le suonano di gusto, Don’t Let The Bossman Get You Down è un gagliardo blues elettrico di Elvin Bishop del 1991, mentre anche il pezzo di JJ Cale Devil In Disguise subisce il trattamento boogie à la Destroyers, poi ripetuto nella ruvida She’s Gone di Hound Dog Taylor https://www.youtube.com/watch?v=0c7H3mWWwK8 , The Fixer è un robusto rock-blues scritto da Tom Hambridge il batterista/produttore. You Don’t Love Me, You Don’t Care, un brano di Bo Didley, sembra La Grange parte 2, veramente potente, poi si va di R&R con My Way di Eddie Cochran, e niente male anche That’s It I Quit, un tipico pezzo di Nick Lowe, e pure come country ci siamo, I Washed My Hands In Muddy Water, un pezzo che anche Elvis Presley incise in Elvis Country è veramente delizioso https://www.youtube.com/watch?v=QfofoLFQLhU , Move It di Chuck Berry è una garanzia, come pure la title track, un pezzo di John Lee Hooker, in versione acustica ma trascinante. Tre anni dopo arriva

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The Hard Stuff – 2006 Eagle Records ***1/2 Altro buon album, il 13° in studio prodotto nuovamente da Gaines, addirittura ben 15 brani (e nel precedente ce ne erano 13): con il nuovo sassofonista Buddy Leach, che è tuttora con i Destroyers, e una scelta del materiale interessante, grazie anche alla presenza di Rick Steff, alla fisarmonica e piano, e dell’aggiunta di Tom Hambridge, come co-produttore e autore di quattro canzoni, tra cui la esplosiva title-track https://www.youtube.com/watch?v=j1lCNtLQ1mM , la riffatissima I Did’t Know e Any Town U.S.A che sembra un brano del Mellencamp più rock https://www.youtube.com/watch?v=2THiY8mV148 . Ottime Hello Josephine di Fats Domino, che grazie alla fisa sembra, un pezzo cajun https://www.youtube.com/watch?v=3mxdw8j8iOI , Little Rain Falling una bella blues ballad con uso sax, scritta da Jimmy Reed, Dynaflow Blues di Johnny Shines dove George si esibisce alla acustica con bottleneck, una scatenata Rock Party scritta dal musicista contemporaneo texano Holland K. Smith, che sembra un pezzo dei migliori Rockpile o Blasters. Eccellente anche una rispettosa cover di Drifter’s Escape di Bob Dylan, la turbolenta Give Me Back My Wig del vate Hound Tog Taylor, la magnifica Taking Care Of Business, con profumi di Louisiana, grazie al suo autore Rudy Toombs, e un superbo lavoro del nostro alla slide https://www.youtube.com/watch?v=uEi2CN-KbfA , che poi si ripete nella vorticosa Huckle Up Baby di John Lee Hooker. Questo è il Thorogood che ci piace, che poi torna alla Capitol per l’ultimo album pubblicato nella decade

George Thorogood TheDirtyDozen

The Dirty Dozen – 2009 Capitol *** Anche se è una mezza fregatura, perché a fianco di sei brani nuovi tutti belli, ci sono sei canzoni tratte dai vecchi dischi della EMI. Il produttore è ancora Jim Gaines: le sei canzoni nuove sono tutte cover, Tail Dragger, Willie Dixon per Howlin’ Wolf, solita formula dei Destroyers, ovvero sano rock-blues tirato https://www.youtube.com/watch?v=beGfipR1mIY , Drop Down Mama è di Sleepy John Estes, un boogie con slide, una sorta di southern rock nordista, vista l’origine del nostro, Run Myself Out Of Townè un pezzo degli Holmes Brothers, un bel roots-rock, Born Lover di Muddy Waters, sempre con bottleneck a manetta, è un boogie rock travolgente, Twenty Dollar Gig tra R&R e R&B, con sax in evidenza e Let Me Pass di Ellas McDaniel completano il CD a tempo di robusto Bo Diddley beat.

george thorogood live in boston 1982 first edition

La nuova decade parte con il botto: intanto nel 2010 viene pubblicato il Live In Boston 1982 ****, dalla Rounder, la vecchia etichetta di George,che è stato diciamo la causa scatenante per questo articolo. All’inizio dell’anno successivo esce un altro eccellente album della discografia del musicista di Wilmington, ovvero l’ottimo

George Thorogood 2120_South_Michigan_Ave.

2120 South Michigan Avenue – 2011 Capitol **** Stiamo parlando dell’indirizzo dei famosi Chess Studios a Chicago, una delle mecche del blues, dove anche i Rolling Stones registrarono negli anni ‘60. Il produttore è di nuovo Tom Hardbridge, e come ospiti appaiono Buddy Guy, in una strepitosa rilettura di Hi-Heel Sneakers, un brano di Tommy Tucker dove i due chitarristi, soprattutto Guy, se le “suonano” di santa ragione https://www.youtube.com/watch?v=rhQtXHN8TvM , e anche Charlie Musselwhite è presente in due brani, prima una vibrante My Babe e poi nella title track, attribuita a Nanker Phelge, che era lo pseudonimo che usavano i Rolling Stones per le composizioni collettive, a piano ed organo per questo strumentale molto sixties anche Kevin McKendree, che insieme a Tommy McDonald e Hambridge, suona in alcuni brani del CD, quando non appaiono i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=SYMQQzIOFyg . Ottimi anche i due brani dell’accoppiata Thorogood/Hambridge, la potentissima Going Back a tutta slide e Willie Dixon’s Gone, altra blues song tosta e poi una sequenza di classici del blues, Seventh Son, Spoonful, Two Trains Running, Mama Talk To Your Daughter, Help Me, Chicago Bound e del rock and roll, Let It Rock e Bo Diddley, tutti eseguiti in modo brillantissimo con Thorogood in grande spolvero https://www.youtube.com/watch?v=u7UlDyUcV4I . Sembrava essere un ritorno di George ai livelli della prima parte di carriera, e invece cala il silenzio. Concerti dal vivo ne escono un paio, uno del 2013 e uno registrato nel 1980, ma per un nuovo album di studio, dobbiamo attendere fino all’uscita dell’unico album solo di George Thorogood

george thorogood party of one

Party Of One – 2017 Rounder/Spinefarm ***1/2 che esce 40 anni dopo il debutto omonimo, un album principalmente acustico, anche se il nostro amico non resiste ed in alcuni brani tira fuori la sua Gibson elettrica: produce di nuovo Jim Gaines ed il disco è proprio bello, anche se il titolo è “rubato” da un disco di Nick Lowe del 1990, I’m A Steady Rollin’ Man di Robert Johnson, apre le procedure, acustica con bottleneck e grande intensità https://www.youtube.com/watch?v=zKhgnxbsGlw , Soft Spot di Gary Nicholson è una via di mezzo tra Cash e il Presley ‘68 in modalità unplugged, Talahassee Women è un pezzo anni ‘30 che assomiglia a certe cose del primo Rory Gallagher, Wang Dang Doodle di Willie Dixon regge anche in versione acustica, come pure una delicata Boogie Chillen di John Lee Hooker. Eccellente anche No Expectations degli Stones, solo voce e acustica con bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=qSyh5tC94l8 , Bad News di John D. Loudermilk sembra nuovamente un pezzo del Johnny Cash anni ‘60, mentre Down The Highway era su The Freewheelin’ Dylan, anche questa fatta molto bene, e Got To Move di Elmore James non si può fare senza una elettrica, ma The Sky Is Crying evidentemente sì, sempre in modalità slide. Dal lato tradizionale anche un Brownie McGhee e un Hank Williams, altre due canzoni del vecchio Hook, tra cui una One Bourbon, One Scotch, One Beer, dal vivo in solitaria e a chiudere una Dynaflow Blues dylaniana, alla faccia di chi pensa che i dischi di Thorogood siano tutti uguali  , saltiamo le sette antologie e veniamo ai dischi dal vivo.

george thorogood livegeorge thorogood live let's work together

Il primo, l’omonimo Live – 1986 EMI *** non è però rappresentativo della vera forza dei concerti del nostro, un po’ come era stato per Springsteen con il suo cofanetto ufficiale dal vivo, questa data registrata in Ohio, pur contenendo molti classici non soddisfa a fondo, intendiamoci non parliamo di un brutto album, d’altronde Who Do You Love? https://www.youtube.com/watch?v=mYcob11rKHc , Bottom Of The Sea di Muddy Waters, Night Time, I Drink Alone, One Bourbon, One Scotch, One Beer, Madison Blues, una attesissima Bad To The Bone, The Sky Is Crying e Reelin’ And Rockin’ danno l’idea del suo carisma di performer, e neppure Live: Let’s Work Together – 1995 Capitol *** registrato in due date del 1994 a Saint Louis e Atlanta, pur essendo più che rispettabile, soddisfa del tutto: non ci sono brani in comune con il Live del 1986, il pubblico è comunque entusiasta già da prima che inizi il concerto, il suono è più brillante e presente, ma come detto non convince a fondo, ottime No Particular Place To Go di Chuck Berry e Ride On Josphine con il classico Diddley Beat, il country-boogie di Cocaine Blues, una galoppante I’m Ready, Get A Haircut molto stonesiana  , la pimpante Move It On Over e la dirompente Let’s Work Together, oltre alla conclusiva Johnny B. Goode, presentata come inno nazionale del R&R e che se la batte con la versione di Johnny Winter https://www.youtube.com/watch?v=xZYcBFqaca0 .

george thorogood live in '99george thorogood live 30th anniversay

Anche Live In ‘99 – 1999 CMC *** è un disco dal vivo di discreta qualità (parliamo sempre del prodotto discografico, il perfomer non si discute), con punte di eccellenza nelle “solite” Who Do You Love?, una colossale anche se spezzettata One Bourbon, One Scotch, One Beer, l’uno-due di Get A Haircut/Bad To The Bone e la conclusiva You Talk To Much. Finalmente con Live 30TH Anniversary Tour – 2004 Capitol ***1/2 ci siamo, suono potente e presente, preceduto dal suo solito saluto al pubblico “How Sweet It Is”, vengono presentate, a fianco delle immancabili Who Do You Love, One Bourbon…, The Sky Is Cryng e Bad The Bone, anche I Drink Alone, lo slow blues Don’t Let The Bossman Get You Down, una scatenata Sweet Little Lady https://www.youtube.com/watch?v=cH3Twc55od8  e nella parte finale Greedy Man, The Fixer molto garage, That’s It I Quit e Rockin’ My Life Away.

george thorogood live in boston 1982george thorogood live at montreux 2013

Nella seconda parte della decade escono forse i due Live mgliori in assoluto, insieme alla recente strepitosa ristampa potenziata di Live In Boston 1982 – 2020 2 CD Rounder/Universal **** https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_n-_3nWNtXXXuc083M4gGHqJL1fvbOy13M , ovvero Live At Montreux 2013 – CD DVD e Blu-ray Eagle Records **** con qualità audio/audio superba e qui mi cito: “anche i “malcapitati” (o fortunati) del Festival di Montreux dopo lo “Smoke On The Water” dei tempi che furono vedono di nuovo il fumo alzarsi dai locali del casinò, ma è quello dell’energia che sprigiona da questo uomo, sempre uguale ma sempre diverso nei sentimenti che ti ispira. Sarà solo Rock’n’roll ma minchia (scusate), che grinta, non ha nulla da invidiare a quella delle origini, voce e chitarra sono ancora oggi incredibili, la bandana non manca mai e lui è sempre una forza della natura https://www.youtube.com/watch?v=wZwHXdUVBuQ , il “solito” George Thorogood, grazie di esistere!” I brani sono più o meno quelli abituali, forse troviamo le inconsuete Rock Party e Tail Dragger, ma confermo quanto detto sette anni fa.”

george thorogood live at rockpalast

Anche per il successivo Live At Rockpalast – Dortmund 1980 – MIG Made In Germany 2CD+DVD ****, ma pubblicato nel 2017, rispolvero quanto scritto nella recensione originale, faccio una cover di me stesso: “per l’occasione siamo a Dortmund, quindi in “trasferta” rispetto alla più famosa location della Grugahalle di Essen, ma comunque anch’essa teatro di memorabili serate dal vivo, preservate per i posteri dalla emittente radiotelevisiva WDR, nella serie Rockpalast. Per la precisione è il 26 novembre del 1980, il nostro amico aveva appena pubblicato quello che sarebbe stato il suo terzo e ultimo album per la Rounder, More George Thorogood And The Destroyers. La prima cosa che colpisce l’occhio è la scelta del repertorio: su 15 brani (sia nella versione DVD, immagini un po’ buie, ma efficaci, come nel doppio CD https://www.youtube.com/watch?v=1zHsAyyS1_Y ), uno solo porta la firma di Thorogood, il resto è una scorribanda nelle pieghe del miglior blues e R&R d’annata, suonato a velocità supersonica, ma quando e dove serve, capace anche di momenti di finezza e abbandono (non molti, ma ci sono)! Chuck Berry, John Lee Hooker e Elmore James sono i più “saccheggiati”, ma tutto il Gotha della grande musica viene omaggiato.” Quindi da allora ad oggi poco è cambiato, se non la forza e la consistenza del suo repertorio. Dopo la lunga pausa dai concerti a causa del Covid il nostro amico è pronto a ripartire non appena la situazione lo consentirà. Direi che è tutto, leggete con attenzione e poi se volete approfondire, con il classico “celo manca” scegliete con cura.

Bruno Conti

George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte I

george thorogood 1

Anche se, a quanto dicono alcuni dei suoi detrattori, “…i dischi di George Thorogood sono tutti uguali e non c’è mai un vero assolo di chitarra”, il nostro amico, soprannome Lonesome George, oltre che Mr. Bad To The Bone, in effetti è uno degli axemen più travolgenti in circolazione, con quel suo stile che coniuga blues, rock and roll, boogie e rock classico, ed un altro nickname con il quale viene ricordata la sua tecnica prepotente al bottleneck è “The Satan Of Slide”. La maggior parte delle biografie riportano come luogo di nascita Wilmington, nel Delaware, ma il nostro amico dovrebbe invece essere nato a Baton Rouge, in Louisiana, dalla quale si trasferì con la famiglia per essere cresciuto poi appunto nel Delaware: la certezza è la data di nascita, il 24 febbraio del 1950, quindi pure lui ha tagliato il traguardo dei 70 anni nel 2020. Nell’anno 1970 ci fu l’evento discriminante che trasformò un fervente praticante e appassionato del baseball, nel quale forse vedeva anche una futura carriera, in un bluesman a tutto tondo (benché per alcuni anni, anche se era già quasi una rock star, continuò a livello semi-professionale a frequentare i campi di baseball), grazie alla musica che era la sua altra grande passione, quando assistette a NY ad un concerto di John Hammond Jr, e pure lui, come Jake Joliet Blues a.k.a. John Belushi, ricevette l’illuminazione divina che lo portò su quella strada, dove tuttora si trova, a cinquanta anni di distanza dagli esordi.

george thorogood 2

Esordi con una bella gavetta, anche come roadie di Hound Dog Taylor, che era uno dei suoi eroi, insieme a Chuck Berry, John Lee Hooker, Bo Diddley, Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Elmore James, tutta gente della quale nel corso degli anni ha saccheggiato il repertorio (insieme a quello di molti altri, in quanto il repertorio del nostro è composto per la quasi totalità di cover): già intorno al 1973, tra un concerto e l’altro, forma la prima edizione dei Destroyers, agli inizi Delaware Destroyers, con il fedele compagno Jeff Simon, il batterista che ancora oggi divide con lui i palchi (e le sale di registrazione). Comunque con la prima line-up in essere, si spostano in quel di Boston, dove cominciano ad infiammare la scena dei club locali e già nel 1974 registrano un primo demo, che poi verrà pubblicato anni dopo dalla MCA come Better Than The Rest, ma ne parliamo nella disamina della discografia.

Gli Inizi 1974-1980

Nel 1976 arriva al basso Billy Blough, anche lui ancora oggi nella formazione dei Destroyers, che hanno eliminato il Delaware dalla ragione sociale, e messi sotto contratto dalla Rounder entrano in studio per registrare il primo album.

George Thorogood And The Destroyers

George Thorogood and the Destroyers – 1977 Rounder **** con la produzione di Ken Irwin, nei Dimension Sound Studios di Boston: dieci brani, con due soli originali di George, una vera schioppettata di energia, che esce a fine 1977 in piena esplosione punk, tanto che vista la potenza e la ruvidità del suono venne addirittura accostato ai tempi proprio al punk che nasceva in quel periodo, anche se la foto di copertina con Gibson di ordinanza, ed un repertorio che per autocitarmi da una vecchia recensione “è la reincarnazione dello spirito della trinità del rock’n’roll e del blues di Chuck Berry, Bo Diddley e John Lee Hooker che da sempre vivono in lui”: l’apertura è affidata ad un pezzo di un altro Hooker, Earl, You Got To Loes riff insistito e sound che ricorda i primi Stones, che a loro volta prendevano a piene mani da Chuck Berry, ottima Madison Blues un brano di Elmore James, altro mito, dove George va di bottleneck alla grande https://www.youtube.com/watch?v=LIh6I_0bmNw , seguito da una versione travolgente di One Bourbon, One Scotch, One Beer di Mastro “Hook”, con il tipico incalzante stile boogie del grande bluesmen del Mississippi, e l’assolo, al contrario di quanto dicono i suoi detrattori, c’è, mentre Blough pompa alla grande con il basso, per quanto aggiunto in seguito alla registrazione https://www.youtube.com/watch?v=obJpegVB5zk . Kind Hearted Woman di Robert Johnson, con acustica slide in bella mostra, ricorda di nuovo certe sonorità degli Stones tipo Love In Vain, Cant Stop Lovin’ è il secondo brano di Elmore James, anche questo tipico dello stile impetuoso di George, che per certi versi impugnava la chitarra come una clava o, appunto, una mazza da baseball, colpire precisi e con forza.

george thorogood and the delaware destroyers

Non manca ovviamente un brano dell’amato Ellas McDaniel a.k.a Bo Diddley, boogie, riff e ritmo, tre elementi immancabili del nostro, che vengono esplicati in una rutilante Ride On Josephine https://www.youtube.com/watch?v=A_FD3bvjfDs , che poi nelle volute di bottleneck di Homesick Boy, dimostra che volendo, raramente e con parsimonia, era in grado anche di attingere al proprio songbook, comunque sempre stretto parente di quello dei suoi ispiratori, e all’occorrenza anche ricorrere al patrimonio tradizionale della grande canzone popolare, come in John Hardy, un pezzo dai profumi folk solo per chitarra acustica, voce e armonica, prima di tentare anche la strada della ballatona blues in I’ll Change My Style dal repertorio di Jimmy Reed. Ma in chiusura scatena tutta la potenza dei suoi Destroyers nell’autoctona Delaware Slide, un nome, un programma https://www.youtube.com/watch?v=Z30ArnxgD4o . *NDB Nel 2015 il primo album viene ripubblicato come George Thorogood And The Delaware Destroyers ****, come era stato registrato in origine, senza le parti di basso, aggiunte in fase di mixaggio, quasi un disco nuovo. Esattamente un anno dopo, esce

George Thorogood MoveItonOver

Move It On Over – 1978 Rounder ****, degno successore del formidabile esordio, due dischi che per molti sono i migliori della sua carriera. Di nuovo dieci brani, tutte cover, perché evidentemente George era spossato dopo avere composto ben due canzoni per il disco precedente: ma non importa, materiale da cui scegliere ce n’è a iosa, e la band prende d’infilata prima la title track, un pezzo di Hank Williams, che subisce il classico trattamento à la Thorogood, poi una fenomenale Who Do You Love? di Bo Diddley, a tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=k6fGcpp3KzE , e ancora una formidabile The Sky Is Crying con il bottleneck che scivola, scivola, scivola…  https://www.youtube.com/watch?v=qGBbsQ6QTsc Cocaine Blues è uno standard della canzone americana, Thorogood goes country, in una canzone che si ricorda soprattutto in diverse versioni di Johnny Cash, alle quali si è sicuramente ispirato il nostro. Chuck Berry mancava ancora all’appello, ma anche senza leggere il nome dell’autore It Wasn’t Me è R&R all’ennesima potenza e George e soci ci danno dentro alla grande e pure That Same Thing di Willie Dixon per Muddy Waters, viene “thorogoodizzata”.

george thorogood 1978

So Much Trouble di Brownie McGhee conferma l’assunto del suo autore, “the blues had a baby and they called it rock and roll”, con la solista che impazza, poi una pausa di riflessione per la splendida I’m Just Your Good Thing di Slim Harpo, sempre con influenze stonesiane. Si torna a rollare e roccare in Baby Please Set A Date di Homesick James, di nuovo con la slide in azione, che poi accelera ulteriormente in New Hawaiian Boogie, il titolo dice tutto, un altro brano d’annata di Elmore James https://www.youtube.com/watch?v=dlZXnG8RgCg . Il disco entra nella Top 40 americana e vende mezzo milione di copie (alla faccia di chi dice che Thorogood è un musicista di culto poco conosciuto al di fuori della cerchia degli appassionati , ma che nella sua carriera ha venduto più di 15 milioni di dischi) e a questo punto sbuca la MCA che pubblica

George Thorogood BetterThantheRest

Better Than The Rest – 1979/1974 MCA *** Diciamo un episodio minore, registrato nel 1974 quando GT era un illustre sconosciuto: le solite dieci canzoni, ma per complessivi 27 minuti, il suono è molto più ruspante, comunque abbastanza già ben definito: In The Night Time un pezzo garage sbucato da Nuggets, e anche I’m Ready un R&R frenetico, Howlin’ For My Darlin’ non può competere con l’originale di Howlin’ Wolf, fin troppo sguaiata e poco rifinita, You’re Gonna Miss Me non è quella dei 13th Floor Elevators ma un blues acustico di Memphis Slim, solo slide e voce, mentre Worried About My Baby è un’altra canzone di Howlin’ Wolf che riceve il trattamento Garage/R&R grintoso ma embrionale, con Huckle Up Baby di John Lee Hooker, qui in veste acustica, con un eccellente lavoro di Thorogood alla chitarra. Nel corso del 1980 Thorogood registra, e pubblica a fine anno, quello che sarà il suo ultimo album per la Rounder

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More George Thorogood And The Destroyers – 1980 Rounder ***1/2 Ancora un ottimo album, con le classiche e canoniche dieci canzoni, nove cover ed una firmata dallo stesso George come Jorge Thoroscum, per non “farsi riconoscere”! Il disco nella versione in CD è uscito anche come I’m Wanted, ma sempre quello è: il menu è il solito, ma c’è una novità, l’ingresso di Hank Carter al sax, che poi rimarrà fino al 2003, nello stile di Thorogood, come per esempio nella iniziale I’m Wanted di Willie Dixon, sempre in veste rock and roll, con assolo di sax aggiunto, le note vengono allungate per creare quell’effetto che poi permetterà al nostro una sorta di rito, ovvero quello di “battezzare” i fans nelle prime file ai suoi concerti, pratica alla quale ho partecipato anch’io, quando l’anno successivo George è venuto in Italia per il suo primo concerto nel Belpaese https://www.youtube.com/watch?v=UpewYYtheB8 .

george thorogood i'm wanted

Tornando al disco Kids From Philly è uno strumentale frenetico, chi ha misurato dice 180 bpm, ma è comunque un bel sentire https://www.youtube.com/watch?v=Jwk0-oZH070 , One Way Ticket è il classico blues alla e di John Lee Hooker, declamato da Thorogood, Bottom To The Sea è un Muddy Waters d’annata, che evidenzia similitudini con un altro che praticava un blues ruspante sull’altro lato dell’oceano Rory Gallagher, anche la voce è tipicamente roca e vissuta, come chitarrista l’irlandese era decisamente superiore ma George si difende con onore. Night Time è proprio quella degli Strangeloves, un pezzo tra psych e garage, che diventa più R&R nelle mani di George, con il sax entrano anche elementi R&B nel sound dei Destroyers, vedi Tip On In di Slim Harpo, mentre Goodbye Baby è il classico lento in modalità slide di Elmore James, e una turbolenta House Of Blue Lights è puro Rock’n’Roll all’ennesima potenza https://www.youtube.com/watch?v=UenvtCLHIbQ , con Just Can’t Make It che rende omaggio al maestro Hound Dog Taylor e la vertiginosa Restless a Carl Perkins.

Gli Anni Della Consacrazione 1981-1999

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Con questo disco finisce il trittico per la Rounder, forse i suoi dischi migliori ancora oggi, nel 1981 Thorogood realizza il 50/50 Tour dei record, ovvero 50 concerti in 50 giorni nei 50 Stati americani e in un giorno tenne pure due concerti nella stessa giornata. Lo stesso anno fece anche da supporto agli Stones nella loro tournée, e vennero anche in Europa, puntata a Milano compresa, come ricordato, tra l’altro il 13 aprile, due giorni dopo la storica data di Springsteen all’HallenStadion di Zurigo, all’Odissea 2001, locale basso e stretto, dove dopo il rito della “benedizione” ricordo che già in pochi minuti eravamo tutti schiacciati contro la parete opposta al palco, per essere lontani da una onda sonora micidiale con rischio tinnito, e comunque due giorni di fischi alle orecchie. Però gran concerto. Nel 1982 firma per la EMI, quindi una major, ed esce il “mitico”

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Bad To The Bone – 1982 Emi America Music ***1/2-**** La differenza nel giudizio verte sul fatto che riusciate a trovare o meno la versione Deluxe uscita nel 2007, con sette bonus tracks re-incise quell’anno, ma va bene anche quella normale. Il repertorio si fa più vario, George scrive “ben tre brani”, tra i quali la leggendaria title track, che nel corso degli anni è diventata la sua signature song, ma sin da allora è diventata una canzone di culto, senza vendite clamorose (come l’album, che arrivò comunque al 43°posto delle classifiche USA, con la rispettabile cifra di mezzo milione di copie vendute), ma prima, grazie al divertente video su MTV, dove giocava a biliardo con il suo idolo Bo Diddley, che però in Europa non è disponibile su YoTube, quindi https://www.youtube.com/watch?v=8KciRaANKmo. poi con l’utilizzo nella colonne sonore di Christine e Terminator 2, e nel corso degli anni in decine di altri film e spot pubblicitari, si è trasformata in un tormentone. Alla riuscita del disco contribuì sicuramente anche la presenza del “sesto” Rolling Stone, ovvero Ian Stewart, al pianoforte in tutto l’album: il repertorio è consistente, dall’iniziale Back To Wentzille, sempre firmata da Thorogood, con sax, pianino e chitarra scatenati, Blue Highway scritta da Nick Gravenites per Brewer & Shirley illustra il lato cantautorale del nostro amico.

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Nobody But You un pezzo soul tipo Shout degli Isley Brothers, diventa una volata R&R a rotta di collo, mentre It’s A Sin di Jimmy Reed è una ballata blues, seguita dal super classico di John Lee Hooker New Boogie Chillum, dove George insegna il boogie ai suoi seguaci https://www.youtube.com/watch?v=uVHJNdzZIhA , di Bad To The Bone abbiamo detto, Miss Luann il terzo originale di Thorogood, pesca dal R&B anni ‘50, As The Years Go Passing By è uno dei grandi blues lenti delle 12 battute, e dimostra che il musicista del Delaware sa essere anche raffinato con assolo d’ordinanza, ma quando può scatenare tutta la potenza dei suoi Destroyers in una devastante No Particular Place To Go di Chuck Berry non ce n’è per nessuno, sentire anche Stewart please https://www.youtube.com/watch?v=hFyCxJuhEB0 , in chiusura una fantastica e trascinante ripresa di Wanted Man di Bob Dylan https://www.youtube.com/watch?v=4tbSbzCwrvU , per un album che rivaleggia con i suoi migliori, anche grazie alle riprese di alcuni brani nelle bonus tracks.

Fine della prima parte, segue.

Bruno Conti

Willie Sinatra Colpisce Ancora…E Pure Meglio Della Prima Volta! Willie Nelson – That’s Life

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Willie Nelson – That’s Life – Legacy/Sony CD

Ormai omaggiare Frank Sinatra sta quasi diventando una moda, ma se i tre album pubblicati la scorsa decade da Bob Dylan, che crooner non è, hanno suscitato reazioni contrastanti (ottime per Shadows In The Night, meno entusiastiche per Fallen Angels ed un tantino annoiate per Triplicate), My Way, disco del 2018 di Willie Nelson, ha avuto recensioni unanimemente positive, cosa comprensibilissima dal momento che Willie rispetto a Bob è decisamente più portato per un certo tipo di sonorità, essendo uno di quelli che, con la classe e la voce che si ritrova, potrebbe davvero cantare qualsiasi cosa. Non è un caso che My Way fosse solo l’ultima incursione in ordine di tempo del texano all’interno del “Great American Songbook”: il bellissimo Stardust del 1978 è il caso più famoso (nonché uno dei suoi lavori più di successo), ma nel corso della carriera Willie ci ha regalato molti altri album in cui reinterpretava da par suo gli standard della musica statunitense, come Somewhere Over The Rainbow, What A Wonderful World, Moonlight Becomes You, American Classic ed il recente omaggio alle canzoni dei fratelli Gershwin Summertime.

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Nelson nonostante l’età (ad aprile saranno 88 primavere) pubblica ancora almeno un disco nuovo all’anno, e nel 2021 l’onore è toccato a That’s Life, che altro non è che il secondo volume delle sue interpretazioni del repertorio di The Voice, come si intuisce dal titolo ma soprattutto dalla stupenda copertina che si ispira a quella di In The Wee Small Hours, album del 1955 che è anche uno dei più famosi del grande Frank. E, se possibile, That’s Life è ancora più bello di My Way https://discoclub.myblog.it/2018/09/29/i-figli-illegittimi-di-frank-proliferano-dopo-bob-ecco-willie-sinatra-willie-nelson-my-way/ , ed allunga l’incredibile striscia positiva di eccellenti lavori di questo intramontabile artista: ho già scritto in altre occasioni che Willie dal vivo non è più quello di un tempo, fa fatica ed a volte la sua voce si trasforma in un rantolo, ma in studio, visto che può centellinare le performance ed avvicinarsi al microfono quando è veramente pronto, è ancora in grado di dire la sua in maniera formidabile se pensiamo che ha quasi 90 anni. That’s Life presenta undici interpretazioni da brividi lungo la schiena di altrettanti brani che hanno in comune il fatto di essere stati tutti incisi da Sinatra, anche se non necessariamente la versione di Frank è la più famosa.

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Se per esempio la title track, In The Wee Small Hours Of The Morning, Learnin’ The Blues e I’ve Got You Under My Skin sono tutte signature songs del cantante di origine italiana, altre hanno avuto riletture anche più famose da parte di gente del calibro di Fred Astaire, Billie Holiday, Dean Martin, Tommy Dorsey, Ella Fitzgerald, Tony Bennett e Bing Crosby. Il disco è stato registrato ai mitici Capitol Studios di Los Angeles, gli stessi di Sinatra (con una puntatina in Texas ai Pedernales Studios di proprietà di Nelson), prodotto in tandem dall’abituale partner di Willie Buddy Cannon e dal bravissimo pianista Matt Rollings e presenta una lista di musicisti da leccarsi i baffi: oltre allo stesso Rollings al piano, organo e vibrafono e Willie che ci fa sentire la sua mitica chitarra Trigger, troviamo l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il grande Paul Franklin alla steel, l’ottimo Dean Parks alla chitarra elettrica, la sezione ritmica di David Piltch (basso) e Jay Bellerose (batteria), oltre ad una sezione fiati di sei elementi ed una spruzzata d’archi qua e là.

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Nice Work If You Can Get It, dei Gershwin Brothers, è un delizioso jazz pianistico ricco di swing, con un gran lavoro di Rollings, la steel accarezzata sullo sfondo, ritmo acceso e Willie che si prende la canzone con verve ed una buona dose di classe. Splendidamente raffinata anche Just In Time, dalla ritmica soffusa (la batteria è spazzolata) ma sostenuta al tempo stesso, un grandissimo pianoforte (tra i protagonisti assoluti del CD) ed il leader che avvolge il tutto con la sua voce calda e vissuta; A Cottage For Sale, introdotta dagli archi, è notevolmente più lenta e rimanda alle sonorità di settanta anni fa, quando certe canzoni erano usate nelle commedie a sfondo musicale, un elemento in cui Willie si cala alla perfezione. I’ve Got You Under My Skin è uno dei pezzi più celebri di Sinatra (l’autore è il grande Cole Porter): il ritmo è spezzettato e l’accompagnamento degno di un locale fumoso con la band che a notte fonda intrattiene i pochi avventori rimasti che cercano conforto nel quarto bicchiere di whiskey, con un breve ma incisivo assolo da parte di Parks (ma tutto il gruppo suona che è una meraviglia) https://www.youtube.com/watch?v=8cPuigClurE . I fiati colorano l’elegante You Make Me Feel So Young, con il nostro che canta con padronanza assoluta interagendo in maniera perfetta con la band e facendoci sentire la sua Trigger anche se per un breve istante, mentre la coinvolgente I Won’t Dance lo vede duettare con la brava Diana Krall, ed il gruppo swinga alla grande neanche fosse la Count Basie Orchestra: classe sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=0RMYCzzCztA .

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That’s Life è un altro classico che conoscono quasi tutti, una grande canzone che Willie fa sua con la sicurezza di uno che nella vita ne ha viste tante https://www.youtube.com/watch?v=XEf8NXZEtzQ , con Raphael e Franklin che portano un po’ di spirito country in un brano che è puro jazz; la sinuosa Luck Be A Lady è una via di mezzo tra swing e bossa nova, un cocktail di grande eleganza con i fiati nuovamente protagonisti e la voce di Nelson che è uno strumento aggiunto. In The Wee Small Hours Of The Morning, ballatona pianistica dal pathos notevole (sentite la voce, da pelle d’oca) https://www.youtube.com/watch?v=gS54H5uNddY , precede le conclusive Learnin’ The Blues, raffinatissima e suonata in punta di dita (con un ottimo intervento di steel), e la cadenzata Lonesome Road, ancora con il pianoforte a caricarsi buona parte dell’accompagnamento sulle spalle, qui ben doppiato dall’organo. Ennesimo gran disco quindi per Willie Nelson, tra i migliori di questo ancor giovane 2021.

Marco Verdi