E Questo Da Dove Spunta? Blue Oyster Cult – Live ‘83

blue oyster cult live '83

Blue Oyster Cult – Live ’83 – Real Gone/Sony CD

Pensavo sinceramente di non dovermi più occupare dei Blue Oyster Cult per un bel po’, soprattutto dopo che lo scorso anno c’è stata una vera e propria invasione di ristampe, live inediti e la pubblicazione dell’album The Symbol Remains https://discoclub.myblog.it/2020/10/14/e-finalmente-e-arrivato-il-dessert-blue-oyster-cult-the-symbol-remains/ . Invece mi trovo qua oggi a parlare di un altro “nuovo” CD dal vivo della band americana intitolato semplicemente Live ’83, che però non fa parte del progetto di rilancio dell’Ostrica Blu operato dall’etichetta nostrana Frontiers https://discoclub.myblog.it/2021/01/31/e-dopo-il-dessertcaffe-e-ammazzacaffe-blue-oyster-cult-a-long-days-nightlive-at-rock-of-ages-festival-2016/ , bensì è una pubblicazione a parte della Real Gone (e relativa al materiale dell’epoca Sony), messa fuori probabilmente ad hoc per sfruttare l’onda lunga della rinnovata popolarità del gruppo. Live ’83 non è un album che coglierà di sorpresa i fans più sfegatati del quintetto newyorkese, in quanto si tratta della versione ufficiale di uno dei concerti più “bootlegati” dei nostri, vale a dire quello tenutosi il 24 luglio 1983 al Perkins Palace di Pasadena, California, durante le battute finali del lungo tour di due anni seguito alla pubblicazione nel 1981 di Fire Of Unknown Origin, tour che all’epoca aveva già avuto nell’82 una testimonianza ufficiale con Extraterrestrial Live.

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Ebbene, Live ’83 non è di certo inferiore al disco appena citato, in quanto vede all’opera un gruppo decisamente “roadato” (scusate il tristissimo gioco di parole) ed in forma brillante, che intrattiene il pubblico californiano per quasi ottanta minuti di solido hard rock classico e senza il benché minimo accenno di ballate (lo show non è completo, mancano tre brani che curiosamente erano tutte anteprime dell’album The Revolution By Night che sarebbe uscito da lì a pochi mesi). Il gruppo era formato per quattro quinti da membri originali (Eric Bloom, Donald “Buck Dharma” Roeser, Joe Bouchard ed Allen Lanier), con l’aggiunta del batterista Rick Downey che nell’81 aveva sostituito Albert Bouchard, e come spesso capita vede Roeser fare la differenza con una eccellente performance chitarristica ad alto tasso adrenalinico, che lo conferma vero leader della band: lo show non è quindi inferiore a quelli interessati dai vari live usciti nel 2020, anche se la qualità di registrazione non è allo stesso livello (non è un suono da bootleg, ma neppure all’altezza degli standard richiesti ad un album dal vivo pubblicato nel 2021). La setlist concede molto poco all’allora ultimo disco e si concentra quasi totalmente sugli anni settanta del gruppo, in particolare i primi tre album, a partire da Stairway To The Stars, un boogie decisamente chitarristico con Roeser che inizia ad arrotare di brutto, seguita dalla potente Harvester Of Eyes, hard rock song che più classica non si può.

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La scaletta alterna brani popolari come Hot Rails To Hell, Cities On Flame With Rock And Roll e l’immancabile (Don’t Fear) The Reaper, ad altri meno esplorati come la pulsante Workshop Of The Telescopes https://www.youtube.com/watch?v=CTUULoK6NrM , il rock’n’roll all’ennesima potenza Before The Kiss, A Red Cap e la solida ed incalzante 7 Screaming Dizbusters. Fire Of Unknown Origin è rappresentato dall’orecchiabile Burnin’ For You, tra i pezzi più noti della band, e dalla coinvolgente ed immediata Joan Crawford, con un’ottima prestazione di Lanier al pianoforte. Infine, non mancano le rarità, come Born To Rock che è tratta dall’unico lavoro di Buck Dharma come solista (un pezzo dalla ritmica pressante e solita notevole prestazione da axeman del chitarrista, anche se come songwriting il brano non è il massimo) e due cover in cui Roeser è ancora il protagonista assoluto: il classico degli Steppenwolf Born To Be Wild (dove però appare un synth un po’ inutile) e soprattutto una Roadhouse Blues dei Doors da paura, dieci minuti molto intensi che da soli valgono gran parte del prezzo richiesto per il CD, con in mezzo anche un breve accenno a Love Me Two Times https://www.youtube.com/watch?v=FmOu8qGu5UQ . Un altro buon live d’archivio per i Blue Oyster Cult, anche se stavolta spero sul serio che sia l’ultimo per almeno due anni.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Ancora Al Madison, Questa Volta “Denuclearizzato”. Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden 1988

bruce springsteen madison square garden 1988

Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden 1988 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Solo pochi giorni fa mi sono occupato dei due concerti che Bruce Springsteen e la sua E Street Band tennero nel 1979 al Madison Square Garden di New York come headliners del famoso evento denominato No Nukes, documentato da uno degli ultimi episodi degli archivi live del Boss: il volume successivo vede i nostri ancora all’interno della nota arena newyorkese, ma con uno spostamento temporale di nove anni in avanti, e nello specifico per lo show conclusivo della parte americana del tour di Tunnel Of Love (e quindi con una Patti Scialfa in più ed un avvicendamento tra Little Steven e Nils Lofgren). Molti fans di Springsteen, tra cui il sottoscritto, non hanno mai amato particolarmente questo tour, che vedeva un Boss meno arso dal sacro fuoco del rock’n’roll rispetto al solito, impegnato com’era a fare gli occhi dolci alla Scialfa sul palco, e con una band che dava la sensazione di procedere spesso col freno a mano tirato (si scoprì dopo che si erano già manifestate le prime crepe, che porteranno allo scioglimento di lì a breve), e con delle strane setlist che davano poco spazio ai classici e molto di più a brani minori.

Come in tutti i tour del nostro, però, c’è sempre qualche serata degna di essere consegnata ai posteri, ed è sicuramente il caso di questo concerto del 23 Maggio nella Big Apple, uno show che rispetta la tradizione di uno Springsteen che durante gli spettacoli conclusivi di una tournée (o di una parte di essa) non si risparmia e dà tutto sé stesso sul palco, con gli E Streeters che mettono da parte gli eventuali dissapori per roccare come sanno (aiutati dalla sezione fiati di cinque elementi guidata da Richie “La Bamba” Rosenberg). La scaletta ricalca solo in parte quella del resto del tour, in quanto ci sono diverse sorprese, tra cover e rarità; ben otto pezzi provengono da Tunnel Of Love, ed anche dal vivo si evidenzia la qualità altalenante di quel disco: se la title track è una canzone che potrei tranquillamente definire brutta (e soprattutto inadatta ad aprire lo show), ascoltiamo riempitivi di lusso, ma pur sempre riempitivi (One Step Up, Two Faces, Ain’t Got You, tutti brani che oggi Bruce non prende neanche più in considerazione), materiale di buon livello (All That Heaven Will Allow, la roccata e trascinante Spare Parts), la deliziosa pop song Brilliant Disguise ed almeno un capolavoro assoluto, cioè quella Tougher Than The Rest che dopo tanti anni è ancora uno dei pezzi più belli del Boss, ed ancora più intensa in questa versione rallentata rispetto a quella in studio (al punto che all’epoca uscì come singolo proprio in una resa dal vivo, però tratta dal concerto alla Sports Arena di Los Angeles).

Anche i brani rari sono numerosi, ed anche qui c’è un pezzo così così (Part Man, Part Monkey), ma il resto è eccellente: Be True è comunque un piccolo classico, ed è puro E Street sound, I’m A Coward è una rock song tirata e potente, che avrebbe meritato una fama maggiore, Seeds è trascinante come sempre e Light Of Day, che presenta anche un accenno a Born To Be Wild degli Steppenwolf, forse non è una grande canzone ma dal vivo è una cavalcata elettrica che funziona sempre. Anche in questa serata i classici del Boss si contano a malapena sulle dita di due mani: da Darkness On The Edge Of Town viene suonata solo una peraltro roboante Adam Raised A Cain (e l’assenza di Badlands è un evento), da The River la poppettara Hungry Heart (con prevedibile singalong del pubblico) ed una eccellente You Can Look (But You Better Not Touch) decisamente rock’n’roll e simile alla prima versione che poi non finì sul disco originale; l’album Born To Run è più fortunato, dato che vengono riprese la title track (acustica e quasi irriconoscibile, come da prassi in questo tour), l’incalzante She’s The One, l’errebi Tenth Avenue Freeze-Out e la splendida Backstreets (ma niente Thunder Road). Born In The U.S.A. all’epoca era ancora un disco recente, e quindi viene omaggiato a dovere con una title track di oltre otto minuti, una Cover Me decisamente rock, la discreta I’m On Fire (che non mi ha mai fatto impazzire) e la solita festa on stage provocata da Glory Days.

Infine, quello che è forse il piatto più ghiotto del triplo CD, ossia le cover: se Boom Boom di John Lee Hooker (inserita al secondo posto in scaletta) e War dei Temptations erano una presenza fissa del tour, troviamo sorprese come una splendida resa di Vigilante Man di Woody Guthrie (che quell’anno uscì in una versione di studio all’interno del bellissimo tributo Folkways: A Vision Shared, dedicato a Guthrie stesso ed a Leadbelly), un’energica e coinvolgente Have Love, Will Travel dei Sonics e soprattutto un gran finale a tutto soul e rhythm’n’blues composto da Sweet Soul Music (Arthur Conley), Raise Your Hand (Eddie Floyd) e Lonely Teardrops (Jackie Wilson), una chiusura del concerto che da sola vale l’acquisto ( o il download). Come bonus, primo caso in tutta la serie, un brano tratto dal soundcheck, e cioè un’inattesa ma bellissima ripresa del classico di Ed Townshend For Your Love. Non ho cambiato idea sul fatto che la tournée di Tunnel Of Love sia stata una delle meno “imperdibili” di Bruce Springsteen, ma se tutti i concerti fossero stati del livello di questo show al MSG oggi il mio giudizio sarebbe diverso. Per il prossimo episodio andremo avanti di vent’anni rispetto al 1988, per una serata piena di momenti emozionanti e commoventi.

Marco Verdi

Quelli “Veri” Erano Un’Altra Cosa, Ma Ci Si Può Accontentare! John Kay & Steppenwolf – Roslyn NY 1980

john kay & steppenwolf roslyn ny 1980

John Kay & Steppenwolf  – Roslyn NY 1980 – Vox Rox CD

Gli anni migliori degli Steppenwolf sono quelli celebrati dallo splendido doppio della Real Gone Musis The ABC Dunhill SinglesCollection, ovvero il periodo che va dal 1968 al 1972 http://discoclub.myblog.it/2015/12/09/cinque-anni-grande-musica-steppenwolf-the-abcdunhill-singles-collection/ . La band, canadese di origine, ma profondamente americana, anzi californiana, nel suono, ha lasciato una traccia consistente nella musica di quel periodo, con quel sound che univa rock classico, per quanto duro, ma con derive anche psichedeliche, alla passione del proprio leader John Kay per il blues. Poi Kay registrò due album solisti e anche se il nucleo originale della band si ritrovò insieme negli anni che vanno dal 1974 al 1976, la spinta iniziale si era spenta. Nell’interregno che arriva fino all’80 circolavano varie band con il nome Steppenwolf messe in circolazione da manager truffaldini (così diceva John Kay all’epoca, anche nella presentazione di questo concerto), ma bisogna attendere fino a quel anno per vedere Kay riappropriarsi del nome della sua creatura, anche se come John Kay & Steppenwolf. Dei “Lupi della Steppa” originali non c’è più nessuno, i nuovi rispondono ai nomi dei fratelli Michael e Steve Palmer, rispettivamente chitarrista e batterista, che avevano militato nei “notissimi” Tall Water (?1?), con l’aggiunta di Chad Peery al basso e Danny Ironstone alle tastiere a riformare il classico quintetto, con Kay, voce solista e chitarra. La band non inciderà un nuovo album di studio fino al 1982, quando venne pubblicato Wolftracks, ma si esibirono molto spesso dal vivo, pubblicando anche un Live In London, che per le bizzarrie del mercato discografico venne pubblicato solo in Australia all’epoca.

john kay & steppenwolf live in london

Dallo stesso tour viene anche questo concerto al My Father’s Place di Roslyn, NY, immortalato dall’emittente radiofonica WLIR e ora pubblicato dalla Vox Rox, intestato nella copertina a John Kay, scritto molto in piccolo, & Steppenwolf, a caratteri cubitali. Come dicono le cronache odierne, in teoria, il gruppo è ancora in attività, e quindi potremmo aspettarci qualche disco nuovo, magari, ipotizzo, da quei geni della Cleopatra; ma occupiamoci di questo concerto che, grazie alla voce poderosa di Kay e alla scelta effettuatata su un repertorio sterminato, ci permette di ascoltare un band di culto in anni in cui non era ancora “bollita”, tutt’altro, ma a tratti mancava quel quid.. L’apertura è affidata al classico I’m Movin’ On di Hank Snow, che ci introduce subito al classico rock “riffato” della band, con John Kay sempre in possesso di un gran voce, profonda e risonante, ma anche in grado di “urlare” il suo rock, ben coadiuvato da chitarre e tastiere, una ritmica solida e la capacità di creare un groove coinvolgente. Il suono della registrazione è buono, e come Kay mette in evidenza “questi sono gli originali e non i buffoni che hanno girato con il nome del gruppo”.

Down In New Orleans, brano poco conosciuto tratto dal terzo album solista di Kay All In Good Time, è un piccolo gioielllino, che appare persino in alcune liste che riportano le migliori canzoni sulla città della Louisiana. Hey Lawdy Mama, che non è il pezzo blues, ma un brano della band, appariva già nello Steppenwolf Live del 1970, ottimo rock nel loro stile classico con tanto di assolo d’epoca di synth. The Best Is Barely Good Enough viene sempre da All In Good Time, buona, ma niente per cui stracciarsi le vesti e pure You è un brano nuovo che uscirà solo un paio di anni dopo in Wolftracks, ma Snowblind Friend, la conoscono tutti, è uno dei pezzi da 90 del gruppo, scritta da Hoyt Axton, uscì nel 1970 su Steppenwolf 7, sempre bellissima. Hot Night In A Cold Town è proprio il brano di Mellencamp quando si chiamava ancora John Cougar, abbastanza “poppeggiante” e non memorabile. E dopo la presentazione della band anche Underworld Figure scritta dai fratelli Palmer pare una mezza ciofeca, molto anni ’80, mentre con Sookie Sookie si comincia a ragionare, ma poi Ain’t Nothing Like It Used To Be (come è vero il titolo), che uscirà quattro anni dopo su Paradox, ed era già sull’album solo del 1978 non è il massimo. Magic Carpet Ride aggiusta le cose, come pure il trittico finale di Born To Be Wild, The Pusher e Monster, sempre gagliarde ed immortali, anche se i “Veri” Steppenwolf erano un’altra cosa ci si può accontentare, con quella voce solo lui le poteva cantare.

Bruno Conti  

Cinque Anni Di Grande Musica! Steppenwolf – The ABC/Dunhill Singles Collection

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Steppenwolf – The ABC/Dunhill Singles Collection – 2CD Geffen/Real Gone Music 

Quando, nella seconda metà degli anni ’60, una band canadese si affaccia sul mercato discografico dell’epoca, nessuno può immaginare il successo che avrebbero ottenuto i loro tre primi singoli. Gli Sparrows (o Sparrow) decisero di cambiare il nome in Steppenwolf, grazie ad un suggerimento del loro produttore Gabriel Mekler, deciso anche a sfruttare le origini tedesche del leader John Kay, rendendo omaggio pure ad un romanzo dello scrittore e poeta tedesco Herman Hesse. Gli Sparrows (o sempre per rimanere in tema letterario Jack London & The Sparrows, dice niente agli amanti delle saghe cinematografiche?) erano già piuttosto conosciuti nell’ambito musicale della scena di San Francisco, tanto che il loro disco dal vivo, registrato al Matrix nel 1967, uscirà poi come Early Steppenwolf, e conteneva già una versione monstre di oltre 20 minuti di The Pusher, il brano scritto da Hoyt Axton. Nel gennaio del 1968 esce il primo omonimo album della band da cui vengono estratti i primi due singoli A Girl I Knew e Sookie Sookie (con sul lato B la citata The Pusher che non ha successo di nuovo, ma al terzo tentativo sì, e francamente un brano così sembrava destinato a restare nell’immaginario collettivo), ma non succede nulla, anche se il disco ha un certo successo nelle classifiche americane, però poi a giugno esce Born To Be Wild, uno dei brani rock più conosciuti di tutti i tempi, grazie al riff di chitarra, al ritornello, ma anche al testo che per la prima volta cita la parola heavy metal, anche se inserita in un contesto motociclistico (heavy metal thunder era il rombo metallico della marmitta) e con la frase “I like smoke and lightning, heavy metal thunder, racin’ with the wind…” che è una sorta di inno per tutti i bikers sparsi nel mondo.

Comunque è tutto il brano scritto da Mars Bonfire (pseudonimo di Dennis Edmonton, a sua volta già uno pseudonimo) che anche grazie alla sua presenza nella colonna sonora di Easy Rider, dove appare pure The Pusher, ha reso immortali alcune scene del film, che poi non è uno dei più grandi film della storia del cinema, ma sicuramente caratterizza un’epoca. I due brani citati, insieme ad altri 36, sono contenuti nella doppia raccolta curata dalla Real Gone Music, fornita di un esaustivo libretto di 20 pagine, scritto dallo stesso John Kay con Ed Osborne, dove vi potete leggere tutta la storia. Si può dire che questa sia l’antologia definitiva dedicata agli Steppenwolf, autori di molti album importanti nella loro storia (che continua ancora oggi, dopo credo ventotto dischi, raccolte escluse): non troppo corposa o esagerata nelle dimensioni, ma essenziale nella scelta dei brani (che coprono anche la carriera solista di Kay), curata nella rimasterizzazione, buona senza essere eccelsa, e piena zeppa di brani rock che ancora oggi hanno la loro carica dirompente, incluso Magic Carpet Ride, il terzo singolo ad entrare nella Top Ten americana e tratto dal secondo album pubblicato sempre in quel fatidico 1968.

Tre canzoni nelle vette delle classifiche sono quasi un record per quella che era fondamentalmente un band hard-rock, sia pure con forti venature blues e psych, ma la spinta del film fu sicuramente un ulteriore trampolino importante. Curiosamente nella band non suonava più Bonfire, (o se preferite Dennis Edmonton, già negli Sparrow), ma il fratello Jerry, alla batteria, insieme all’ottimo chitarrista Michael Monarch e al tastierista Goldy McJohn, fondamentali nel creare quel suono crudo e tirato, dove poteva spaziare la voce potente ed espressiva di John Kay, uno dei grandi cantanti del rock, non celebrato come meriterebbe. In ordine cronologico ci sono tutti i brani che coprono l’arco temporale 1968-1973, quello in cui incidevano per la ABC/Dunhill e quindi il periodo fondamentale: A Girl I Knew https://www.youtube.com/watch?v=GqHAHN2R4Us  e il suo lato B The Ostrich erano perfetti esempi del rock psichedelico di quegli anni, con il sound inconfondibile della band già perfettamente formato, come pure la cover Rhythm & bluesata (se mi passate il neologismo) del classico Sookie Sookie di Don Covay https://www.youtube.com/watch?v=436FEhO8O4g  o le più leggere Take What You Need e Everybody’s Next One, per quanto sempre intrise di psichedelia, grazie al lavoro delle due chitarre (Kay si produceva anche alla solista e all’armonica). Born To Be Wild, The Pusher (anche in una versione dove erano i due lati dello stesso singolo) e Magic Carpet Ride, sono tre capolavori assoluti, mentre Rock Me e Jupiter Child, sono forse brani minori, ma confrontati con le canzoni dell’epoca comunque pezzi rispettabili, come pure la ballata It’s Never Too Late con il suo lato B, quasi soul, Happy Bithday. Eccellente anche la riffata Move Over e l’ottima Power Play.

 

Un mezzo capolavoro la bellissima Monster, che dava il titolo all’album omonimo e qui presente nella versione lunghissima di quasi dieci minuti, non in quella del singolo https://www.youtube.com/watch?v=Sk3sURDS4IA . Gli anni ’70 si aprono con il blues-rock di Hey Lawdy Mama (non il brano dei Cream), Twisted, con una ficcante slide, Screaming Night Hog, con l’armonica di Kay in evidenza e l’acustica e orchestrale Spiritual Fantasy a confermare l’eclettismo sonoro della band, chiude il primo CD. Who Needs Ya su Steppenwolf 7, che per motivi misteriosi era il quinto album della band, un pezzo tipico del loro repertorio, sulla falsariga dei successi, mentre Earschplittenloudenboomer uno strano strumentale con fiati dal titolo quasi impronunciabile; altro grande singolo, forse l’ultimo fondamentale, è la loro cover di Snow Blind Friend, il secondo brano antimilitarista di Hoyt Axton inciso dalla band, un pezzo quasi country-folk, bellissimo https://www.youtube.com/watch?v=OMxCi3ljWEg . Da For Ladies Only, il disco che nella copertina interna aveva la foto della famosa auto a forma di pene, viene Ride With Me, un brano di Mars Bonfire che li riporta ai fasti rock del passato, con il suo lato B la lunga For Madmen Only, che sfocia addirittura in terreni strumentali ispirati da Stockhausen (o dal kraut-rock), più tradizionale l’altro strumentale Black Pit, per quanto sempre ricercato. For Ladies Only, era la versione accorciata della title-track (senza il lungo solo di piano, peccato) https://www.youtube.com/watch?v=C2-FhrlJ76c  e niente male anche Sparkle Eyes, un lato B di grande qualità. E qui finisce la saga degli Steppenwolf prima fase, ma ci sono ancora otto brani pubblicati da John Kay come artista solista tra il 1972 e il 1973, di cui soprattutto il primo, Forgotten Songs And Unsung Heroes, è un ottimo album, molto country oriented, alla maniera di Kay, quindi energica, con versioni eccellenti di I’m Movin’ On di Hank Snow e You Win Again di Hank Williams, oltre a Walk Beside Me e Somebody scritte dallo stesso Kay. Direi che globalmente, per questo doppio, rientriamo nella categoria degli indispensabili!

Bruno Conti

Se Vi Capita Di Passare Da Quelle Parti! John McGale Blues Force – Live

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John McGale Blues Force Live Jcm records

Devo dire sinceramente che ignoravo l’esistenza di John McGale, un musicista canadese per molti anni leader e chitarrista di un gruppo del Quebec, tali Offenbach e poi fondatore di questo trio dei Blues Force fautore di uno stile che sta a cavallo tra il power trio e la bar band con moltissime cover nel proprio repertorio e quindi anche in questo Live registrato in quel di Longueil Oc al locale Au Diable?!?

Per curiosità sono andato a controllare in Internet. E’ un bar con biliardo di Longueil nella regione del Quebec, quindi vedete che sulla bar band non mi sono sbagliato. Questo nulla toglie alla perizia tecnica del nostro amico che suona chitarre Godin (anche queste non conoscevo) con notevole bravura e parte con disinvoltura con un’iniziale Poke Salad Annie (ma non era Polk?), in ogni caso è proprio il brano di Tony Joe White e subito il nostro amico innesta il wah-wah e delizia l’esiguo pubblico con una versione che non ha nulla da invidiare all’originale anche con qualche strana deriva di sapore quasi prog. Si prosegue con Spooky il vecchio brano (1968) dei Classics IV di Buddy Blue che erano gli antesignani della Atlanta Rhythm Section, a sorpresa John McGale si rivela anche ottimo flautista (saranno i ricordi prog) e il brano assume tonalità quasi alla Jethro Tull prima del finale chitarristico quasi southern, ottimo il bassista (molto fonky) Robby Bolduc e il preciso drummer Mike Landry, evidentemente veterani di mille battaglie.

L’aria paesana, quasi country di Six Days On The Road si stempera nelle classiche dodici battute di Rock Me Baby con la chitarra di McGale che ha proprio quel bel suono pieno dei chitarristi vissuti. L’ottima e sorprendente cover dell’evergreen Hendrixiano Red House potrebbe sorprendere più di un ascoltatore e conferma le ottime virtù vocali già palesate nei brani precedenti.

Deux Autres Bieres suona molto più esotico del nostro “Altre due birre, grazie!” ma il senso è quello e deve essere un “classico” del repertorio di McGale, purtroppo non conoscevo ma il pubblico gradisce. Ci rituffiamo in uno dei riff più classici della storia del rock per una vissuta versione della Born To Be Wild dei vecchi Steppenwolf, altra gloria della musica canadese trapiantata negli States e ci danno dentro alla grande. Per la serie la varietà non ci manca con assoluta nonchalance passiamo a una versione di Moondance del grande Van eseguita in punta di chitarra acustica con l’aggiunta di un assolo di flauto del solito McGale che nel confronto vocale con Morrison diciamo che non ne esce proprio vincitore, comunque la versione è piacevole e originale.

Ancora un paio di brani originali dal repertorio del nostro amico, una She’s A Real Cowboy con il sax di Eric Khayat che si aggiunge alle operazioni e Hard On sempre con il sax tenore in evidenza, entrambi i brani fanno precipitare vorticosamente la qualità del disco. La conclusiva Use Me dal repertorio di Bill Withers risolleva le sorti della serata e dell’album con una solida versione piena di ritmo e il solito assolo di chitarra molto valido con citazione di Smoke On The Water incorporata. Tutto molto piacevole e gradevole, se vi capita di passare per Longueil qualche sera non dimenticate di passare dal, come si chiama, “Au Diable”!

Bruno Conti