Un Grande Autore Rende Omaggio Ad Una Leggenda Del Soul. Donnie Fritts – June A Tribute To Arthur Alexander

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Donnie Fritts – June (A Tribute To Arthur Alexander) – Single Lock Records

La Single Lock Records è una piccola etichetta indipendente americana che ha la sua sede a Florence, Alabama, quindi profondo Sud degli Stati Uniti: tra i fondatori Ben Tanner degli Alabama Shakes, Will Trapp e John Paul White. Tra gli artisti sotto contratto, oltre a White, Dylan LeBlanc, Nicole Atkins e Cedric Burnside, di cui leggerete a parte. Il repertorio pesca dalla zona Shoals dell’Alabama, e quindi rappresenta i famosi Muscle Shoals Studios e una delle vere leggende della musica “southern” americana, ovvero Donnie Fritts, che pubblica il suo secondo album per la Single Lock, dopo l’ottimo Oh My Goodness del 2015, che si pensava potesse essere il suo ultimo album https://discoclub.myblog.it/2015/10/25/il-ritorno-forse-commiato-grande-donnie-fritts-oh-my-goodness/ . Invece, a 75 anni, Fritts è entrato ancora una volta in studio, per una serie di sessioni serali tenute ai Muscle Shoals, per realizzare un tributo al suo grande amico e mentore Arthur Alexander: dieci canzoni legate al grande cantante soul di You Better Move On, e a decine di altri brani che hanno fatto la storia della musica black, proprio a partire dal brano citato, che nel 1962 fu il primo successo ad uscire dall’area di Muscle Shoals, uno dei tre firmati dal solo Alexander.

Poi ne troviamo quattro che sono collaborazioni con Fritts, una firmata anche dal grande Dan Penn, ed infine, Soldier Of Love, comunque legata al repertorio di Arthur. Alle registrazioni dell’album, sempre essenziale ed intimo nelle sue riletture country-soul, ma non privo di momenti più mossi, hanno partecipato, oltre a White e Tanner chitarre, David Hood al basso, Reed Watson alla batteria, Kelvin Holly ancora alle chitarre e lo stesso Fritts al Wurlitzer e alle tastiere. Il risultato, lo ribadisco, è un piccolo gioiellino di equilibri sonori, intimi e confidenziali, con altri più movimentati e raffinati. D’altronde le canzoni sono tutte decisamente belle, l’interprete, per quanto la sua discografia sia veramente molto scarna, è uno che ha scritto, in tutti i sensi, la storia della musica, quindi il disco si ascolta con assoluto piacere: June, come ricorda lo stesso Donnie nelle note del libretto, invero scarne pure quelle, era il nomignolo con cui era conosciuto Arhur Alexander, e la canzone era stata scritta nel 1993 sull’onda emotiva della sua scomparsa, ed appare come toccante brano di apertura in questo album, solo la voce e il piano elettrico di Fritts, sembra una di quelle ballate romantiche in cui è maestro Randy Newman, e anche il timbro vocale è quello,  violino e viola in sottofondo e tanto feeling, deliziosa, una vera perla.

Ancora  raffinati tocchi di archi, il piano elettrico e una delicata melodia per In The Middle Of It All, una soul ballad  intimista, scritta dal solo Alexander, e apparsa nel suo album omonimo del 1972. You Better Move On l’hanno incisa in tantissimi, vorrei ricordare le versioni di Willy DeVille e degli Stones (e pure i Beatles si sono cimentati con Anna (Go To Him), il suo brano di maggior successo, viene riproposto in una sorta di unplugged version, mentre All The Time, una delle loro collaborazioni autoriali, è una deliziosa ballata country got soul, con le armonie vocali delle Secret Sisters, una sezione ritmica finalmente presente e organo e chitarre acustiche a colorare il suono. Anche I’d Do It Over Again beneficia di un arrangiamento corale, splendido ed avvolgente, con  tastiere, chitarre e voci di supporto semplicemente perfette. Ancora un arrangiamento sontuoso alla Randy Newman  per un’altra soul ballad di grana finissima come Come Along With Me, cantata sorprendentemente bene dal nostro amico che sfoggia una interpretazione da manuale https://www.youtube.com/watch?v=2CvPl12wgOc ; Lonely Just Like Me è un altro dei capolavori assoluti di Alexander, e anche il titolo del suo album finale pubblicato nel 1993, poco prima della sua scomparsa a soli 51 anni, altra versione da manuale, con quel tocco latino che sia DeVille che il Warren Zevon di Carmelita avevano cercato di carpire a Arthur, e gli echi della migliore soul music mai suonata e cantata da chicchessia, una vera chicca sonora anche in questa rilettura magnifica https://www.youtube.com/watch?v=M8ztC3ZFJIY .

Altra delizia per i padiglioni auricolori è Soldier Of Love, suonata e cantata con un impeto ed una intensità pregevoli ,e non si scherza neppure con il deep soul screziato di gospel di una intensa e sgargiante Thank God He Came con le Secret Sisters scatenate a livello vocale in un finale veramente ispirato. A chiudere il CD Adios Amigo, titolo del tributo del 1994 e altra canzone epocale, di nuovo rivista in modo più intimo, solo il Wurlitzer, gli archi e le voci delle sorelle Rodgers https://www.youtube.com/watch?v=nhWkBfDxNAk . Disco commovente e intenso, a dimostrazione che la classe non è acqua.

Bruno Conti

Adesso E’ Giunta L’Ora Di Scrivere Un Po’ Per Sé Stessi! James LeBlanc – Nature Of The Beast

james leblanc nature of the beast

James LeBlanc – Nature Of The Beast – Dreamlined/Red CD

James LeBlanc, oltre ad essere il padre di Dylan LeBlanc (un giovane e promettente musicista che ha già qualche disco all’attivo http://discoclub.myblog.it/2010/08/24/giovani-virgulti-crescono-1-dylan-leblanc-paupers-field/ ) è anche un affermato autore per conto terzi, avendo scritto diverse canzoni per nomi di punta a Nashville come Jason Aldean, Martina McBride, Gary Allan e Travis Tritt (il cui successo da Top Ten Modern Day Bonnie & Clyde porta proprio la firma di LeBlanc). Originario di Shreveport, Louisiana, James ha anche un album al suo attivo, Muscle Shoals City Limits (2003), ma in generale ha sempre preferito restare nelle retrovie e sbarcare il lunario con il remunerativo lavoro di songwriter su commissione. Ora però ha finalmente deciso di mettere fuori la testa e dare un seguito al suo ormai lontano primo album, ed il risultato finale è talmente riuscito che mi chiedo perché avesse aspettato così tanto. Nature Of The Beast, nel quale LeBlanc raccoglie alcune canzoni da lui scritte ma tenute nei cassetti, non sembra infatti il lavoro di uno che non ha quasi mai inciso a suo nome, ma bensì è il prodotto di anni di esperienza come songwriter e di frequentazioni di musicisti più o meno noti e di studi di registrazione dove si respira aria di leggenda (per esempio era di casa ai Muscle Shoals Studios, dove ha inciso il primo disco, mentre questo è stato registrato a Sheffield, sempre in Alabama).

Nature Of The Beast non è un disco country, almeno non come uno si potrebbe aspettare: il country c’è, ma è usato quasi da sfondo alle ballate profonde del nostro, canzoni lente, meditate ma piene di feeling e mai noiose. Un tipico disco da cantautore, più che da countryman, registrato con la produzione di Jimmy Nutt (che come ingegnere del suono ha lavorato anche con Jimmy Buffett e Jason Isbell) e vede in studio con lui un numero di musicisti non estesissimo ma di alto livello, tra i quali il figlio Dylan ed il grande bassista della gang di Muscle Shoals David Hood. Il disco inizia con la title track, lenta, crepuscolare, con la chitarra arpeggiata e la voce profonda di James ad intonare un motivo intenso, drammatico e di grande pathos: prendete le cose migliori di Calvin Russell, levategli un po’ di polvere texana ed avrete un’idea. Mean Right Hand è un brano full band, ma anche qui l’accompagnamento è discreto, nelle retrovie, in modo da mettere in primo piano la melodia e la voce, una bella canzone con agganci anche allo Springsteen di Tom Joad; My Middle Name è ancora lenta, ma la batteria scandisce il tempo in maniera netta e c’è una chitarra elettrica che ricama alle spalle del leader, un altro pezzo di buona intensità, da cantautore più rock che country. Yankee Bank è più ricca dal punto di vista strumentale, è sempre una ballata ma con maggiore energia ed un bell’intreccio di chitarra, steel ed organo, oltre ad un motivo di prima qualità.

LeBlanc si conferma un songwriter di vaglia, ma dimostra di essere anche un performer di livello. Bottom Of This è una country song, sempre lenta e malinconica, ma dallo script solidissimo ed ottimo lavoro di piano e steel, Answers (scritta dal figlio Dylan) dà una scossa al disco, il ritmo è più sostenuto e la chitarra elettrica è in primo piano, oltre ad un refrain che prende all’istante, mentre I Ain’t Easy To Love è un altro brano spoglio ma di grande carattere, e qui l’arma in più è la seconda voce femminile di Angela Hacker, fidanzata di James ed artista per conto suo. Una splendida steel (Wayne Bridge) ci introduce alla lenta Nothing But Smoke, dove LeBlanc ha sicuramente fatto tesoro della lezione di Willie Nelson: l’ennesimo slow, ma la noia è bandita; bella anche Anchor, distesa, fluida e con la solita melodia di prim’ordine, tra le migliori del CD, mentre 4885 inizialmente vede il nostro in quasi totale solitudine, poi dalla seconda strofa entra il resto della band, anche se James se la cavava comunque anche con pochi strumenti attorno. L’album si chiude con la vibrante Coming Of Age, più mossa ma sempre senza andare sopra le righe, e con la deliziosa cover di Beans, un vecchio brano di Shel Silverstein che qui è un honky-tonk con arrangiamento di altri tempi ed un bel ritornello corale, un finale in allegria e dunque in decisa controtendenza.

Per quanto mi riguarda James LeBlanc può pure continuare a scrivere per altri, ma se quando incide a suo nome il livello è questo, mi auguro che non faccia passare altri 14 anni prima del prossimo disco.

Marco Verdi

In Attesa Dei Waterboys, Ecco Il Violinista “Apicoltore”. Steve Wickham – Beekeeper

steve wickham beekeeper

Steve Wickham – Beekeeper – Man In The Moon Records

Molti appassionati di musica conosceranno Steve Wickham, e il suo virtuoso violino, per la sua ultratrentennale partecipazione come membro fisso dei grandissimi Waterboys del “pard” di vecchia data Mike Scott (che lo reputa il più bravo violinista rock del mondo), collaboratore anche di “personcine” di spessore tra i quali ricordiamo Bob Dylan, Elvis Costello, Sinead O’Connor, e per il suo debutto in sala di registrazione con gli U2 nella celeberrima Sunday Bloody Sunday su War, nel lontano ’82, e in quel periodo fu anche il violinista dei bravi, ma “dimenticati”, In Tua Nua. Chi conosce ed apprezza il buon Steve, deve sapere che il “nostro” aveva esordito da solista con Geronimo (04), un lavoro passato quasi inosservato dalle nostre parti (e non solo), una dozzina di brani dagli  alterni risultati benché fosse supportato da validi collaboratori, alcuni li ritroviamo anche in questo secondo Beekeeper: musicisti come Katie Kim, Ger Wolfe, The Lost Brothers, David Hood (Traffic e Rockets, ma anche una delle colonne dei Muscle Shoals Studios,  padre di Patterson Hood), Oleg Ponomarev, Bruno Calciuri, Joe Chester (chitarrista nei Waterboys e produttore di Hozier), la brava Camille, come non poteva certo mancare il suo “capo” Mike Scott, per un buon lavoro concepito con cura e splendidamente suonato, in parte registrato nei Sligo Magic Room Studios, con la direzione di Brian McDonagh dei Dervish, e l’altra metà nei Cauldron Studios di Dublino.

Diciamo subito che quasi la metà delle tracce di Beekeeper sono strumentali, anche se il brano d’apertura And The Band Played On vede subito Steve esibirsi come vocalist e volutamente senza il violino, con ai cori la cantante pop Katie Kim, omissione che viene subito rettificata dal breve strumentale Two Thousand Years, come pure nella successiva ballata celtica dedicata all’isola di Coney, cantata dalla bella voce tenorile di Ger Wolfe (cantautore irlandese di pregio), e la strumentale “giga” The Here. Si prosegue con una dolce melodia di paese come Fractured, con l’accompagnamento dei Lost Brothers e di David Hood al basso, valorizzata dall’uso della pedal steel e del violino di Steve, seguita da una composizione che dura solo 72 secondi per violino e pianoforte, The Bohemian, mentre con Stopping By Woods arriva l’inconfondibile voce di Mike Scott, brano che inizia con un basso pulsante poi entra il violino di Steve, per un pezzo che sembra lontano dalle abituali coordinate dei Waterboys (ma neppure troppo); a questo punto arriva forse il momento più alto del disco con l’impiego della voce femminile di Camille O’Sullivan (cantante e attrice irlandese) con Silence Of A Sunday, una canzone da “femme fatale” sussurrata da Camille, con l’uso di piano, chitarra acustica e un melanconico clarinetto.

La parte finale vede protagonista il polistrumentista russo Oleg Ponomarev che gareggia in bravura con Wickham nello strumentale Cells Of The Heart Which Nature Built For Joy, per poi passare al brano più gioioso dell’album Love’s Dark Sisters (Sombres Soeurs De L’Amour), cantato in lingua madre dal cantante francese Bruno Calciuri, mentre la dolcissima e sofferta Song Of The River è interpretata da Joe Chester (uno dei più celebri cantautori irlandesi contemporanei), ed è accompagnata nuovamente dal magico violino di Steve, protagonista anche nelle note strumentali della straziante e conclusiva Cockcrow. Steve Wickham certamente non sarà mai un personaggio di primo piano,  uno di quegli artisti che cavalcano le mode e riempiono le radio della loro musica, ma credo che il panorama musicale abbia bisogno anche di interpreti come lui, onesti e sinceri, lontani mille miglia dalle leggi del mercato,  un poliedrico musicista che fino ad ora avevamo potuto apprezzare per le sue prestazioni al servizio degli altri, ma in Beekeeper finalmente lo possiamo applaudire per un progetto completamente suo, composto da canzoni di eccellente “miele sonoro”. Non finirà certamente nelle liste di fine anno, ma ha fatto davvero un buon disco il buon Mr. Wickham, in attesa a settembre di nuove avventure con gli amati Waterboys nel nuovo Out Of All This Blue.

Tino Montanari