Il “Blues Brother” Originale Colpisce Ancora! Curtis Salgado – The Beautiful Lowdown

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Curtis Salgado – The Beautiful Lowdown – Alligator/ird 

Anche al nostro amico si potrebbe applicare la regola cinematografica dei sequel e quindi il titolo del Post riecheggia la saga della Pantera Rosa o di Guerre Stellari. A chi non lo ricorda o non lo sa, vorrei far presente che Curtis Salgado é il “Blues Brother originale”, il musicista in carne e ossa a cui si ispirò John Belushi per la  creazione del Live A Briefcase Full Of Blues e poi della colonna sonora del film Blues Brothers. Ho già raccontato la storia, ma visto che Curtis pubblica album con una cadenza quadriennale, mi sembrava giusto rinfrescare la memoria dei lettori. In quel locale di Eugene, Oregon dove Belushi stava girando Animal House, ci fu una sorta di epifania: John, che ai tempi era un appassionato soprattutto di metal, per la prima volta incontrò Curtis Salgado, che poi sarebbe diventato il suo mentore ed ispiratore per la creazione del personaggio Joliet “Jake” Blues https://www.youtube.com/watch?v=38ewGmzaxFs . Ma soprattutto il nostro era, ed è, un formidabile cantante, un vero “bianco” dall’anima e dalla voce “nera”, con una emissione vocale che ricorda al 75-80% Solomon Burke e per il resto B.B. King; Salgado è una vera forza della natura, anche notevole armonicista e buon autore, negli anni è stato pure cantante della primissima versione della Robert Cray Band, poi dei Roomful Of Blues, ha fondato Curtis Salgado & the Stilettos, iniziando la sua carriera solista. E per dare credito al suo personaggio di Curtis (che nel film era interpretato da Cab Calloway) ha subìto anche un trapianto di fegato nel 2005, dopo una vita di probabili eccessi, come il suo amico John.

Ma la voce è rimasta sempre intatta, e dagli anni 2000 ha iniziato a pubblicare ottimi dischi con regolarità, nel 2012 si è accasato con la Alligator con cui ha pubblicato lo splendido Soul Shot http://discoclub.myblog.it/2012/03/25/il-blues-brother-originale-curtis-salgado-soul-shot/  e ora torna alla carica con questo nuovo The Beautiful Lowdown. Salgado più che un Blues Brother è un “soul brother”, perché nella sua musica la quota di soul & R&B è nettamente preponderante rispetto al blues (che pure è presente in quantità, soprattutto dal vivo), ma la sua arma vincente è la voce, si tratta di uno dei rari casi in cui anche se gli date da cantare l’elenco telefonico (se ne trovate ancora) l’effetto sarebbe devastante. Inutile dire che per fortuna nel disco le canzoni presenti sono più che adeguate, suonate ed arrangiate con grande maestria da un manipolo di esperti musicisti, guidati dal batterista Tony Braunagel, che è il co-produttore del disco (ed il secondo migliore nel campo dopo Tom Hambridge): Braunagel (attuale batterista della band di Robert Cray) ha radunato per il disco alcuni musicisti eccellenti, tra i tanti, Johnny Lee Schell alla chitarra, Mike Finnigan  (ora con Bonnie Raitt( e Jim Pugh (anche lui a lungo con Cray), alle tastiere, una pattuglia di ben sei altri chitarristi, bassisti vari, tra cui, parlando di Bonnie, James “Hutch” Hutchinson, fiati e background vocalist a profusione e il risultato si vede e si sente.

A partire dalla scarica di puro R&B fiatistico dell’iniziale Hard To Feel The Same About Love, con Salgado che titillato dalle background vocalist, dai fiati e dal gruppo tutto, inizia a dispensare la sua sapienza soul, con quella voce ancora pimpante a dispetto dei 62 anni suonati; Low Down Dirty Shame è un funky soul sinuoso ed avvolgente, che tra chitarrine maliziose ed un organo Hammond d’ordinanza ribadisce i pregi della migliore soul music, con Schell che ci regala il primo solo di slide dell’album. I Know A Good Thing, con slide, Alan Hager per l’occasione, ed armonica che si rispondono dai canali dello stereo è la prima traccia decisamente blues, puro Mississippi Sound, anche se il disco è stato registrato in California. Walk A Mile In My Blues, titolo evocativo, è più grintosa e fluida, ma sempre intrisa dal fascino delle 12 battute, un brano quasi alla BB King, con uso di fiati, mentre Healing Love è la prima ballata, e qui sembra di ascoltare Solomon Burke redidivo, con quella voce rauca ma poderosa, da vero nero, cosa che Salgado non è, ma ce ne facciamo un baffo.

E che dire di Nothing In Particular (Little Bit Of Everyting), pagina 12 del manuale del perfetto soulman, organo, chitarre, voci femminili di supporto, tutti gli ingredienti cucinati alla perfezione; con quella voce riesco a sopportare anche l’incursione nel reggae di Simple Enough. Per poi tornare a un blues di nuovo alla BB King nell’ottima I’m Not Made That Way e ad un’altra ballata splendida come Is There Something I Should Know, dove la voce duettante è quella di Danielle Schnebelen (ora in arte Nicole), altra bianca dalla voce che più nera non si può, i due si sfidano, si confrontano, si accarezzano, e quello che gode è l’ascoltatore. Un po’ di sano funky alla James Brown non guasta, e My Girlfriend svolge questa funzione alla perfezione, prima di lasciare spazio di nuovo al blues con uno shuffle pungente come Ring Telephone Ring e a un mid-tempo blue eyed soul con uso di armonica come Hook Me Up. Chi ama le grandi voci qui avrà motivo di soddisfarsi appieno. Ufficialmente esce l’8 aprile.

Bruno Conti

Non Sono Di “Miami”, Ma Sono Veramente Bravi ! Miami & The Groovers – The Ghost King

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Miami & The Groovers – The Ghost King –M&G distr. Ird Records

Nonostante lo si dia per morto e sepolto, il rock’n’roll dal taglio più “stradaiolo” continua ad avere i suoi seguaci anche dalle nostre parti. Lo dimostra una scena italiana che forse non sarà un vero e proprio movimento, eppure mai come in questa ultima decade ha dato segni di crescita a livello strettamente professionale, con suoni e dischi che riportano ai nomi dei Cheap Wine, i Lowlands del mio amico Ed Abbiati, i Mandolin’ Brothers, i Rusties e sicuramente anche i Miami & The Groovers guidati da Lorenzo Semprini, tutte band che provengono dall’albero “genealogico” dei Rockin’ Chairs di Graziano Romani (che per fortuna sono tornati, e sono in tour fino a Luglio).

A 10 anni dall’esordio discografico con Dirty Roads (05), seguito da altri buoni lavori come Merry Go Round (09), Good Things (12), e l’ottimo live No Way Back (13) (uscito in formato CD+DVD) http://discoclub.myblog.it/2013/11/23/sempre-piu-italiani-caso-dalla-east-coast-romagna-shore-ora-anche-dvd-piu-cd-dal-vivo-miami-the-groovers-way-back/ , i Miami tornano con questo nuovo lavoro The Ghost King sempre nella formazione tipo, composta dall’indiscusso leader, autore e cantante Lorenzo Semprini alle chitarre ritmiche, Marco Ferri alla batteria, Luca Angelici al basso, Beppe Ardito alle chitarre acustiche e elettriche, Alessio Raffaelli (anche nei Cheap Wine) alle tastiere e pianoforte, con l’apporto alle registrazioni di Federico Mecozzi al violino, Massimo Marches al mandolino, e ai cori Michele Tani e Marcello Dolci.

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Le canzoni del “Re Fantasma” partono con la potente scarica di energia di The King Is Dead, con un bel lavoro del violino di Mecozzi (il sesto uomo, che parte dalla panchina della formazione), seguita dalla pianistica e letterata On The Rox (ispirata alla biografia di John Belushi) e dalla saltellante Hey You, passando per la splendida ballata pianistica Back To The Wall, le gioiose atmosfere balcaniche di Hallelujah Man, e per la dolcissima danza di The Other Room. I “ghostbusters” di Lorenzo ripartono con la tirata Don’t (The Tuxic Waltz), il folk-rock notturno violinistico di We Can Rise, mentre nella rurale Waiting For My Train con il mandolino di Marches in spolvero, si viaggia dalle parti degli Old Crow Medicine Show, andando a chiudere con un’altra ballata di spessore come Spotlight, e infine la bonus-track Heaven Or Hell (uscita dalla penna di Beppe Ardito), un trascinante brano da “pub irlandese”, dove i Pogues incontrano Joe Strummer per una sana bevuta.

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Partiti come una “cover band” di Bruce Springsteen, i riminesi Miami & The Groovers al quinto giro di giostra sono diventati una realtà del rock&folk italiano (e internazionale), rockers di provincia per vocazione che vivono di prestazioni dal vivo (come testimoniano gli innumerevoli concerti fatti ogni anno), con canzoni che vanno a prendersi dalla strada alla maniera dei grandi Del Fuegos di Boston Mass, piene di musica e energia. Lorenzo Semprini e i suoi Miami & The Groovers, (come gli altri gruppi citati all’inizio), sono ragazzi nati per correre e cantare storie di vagabondi e sognatori in nome del rock, perché per fare della buona musica non è necessario nascere in America e suonare al Fillmore o al Beacon Theatre, lo si può fare benissimo dalle nostre parti (specialmente per le band in questione) nella nostra bella, ma musicalmente immatura Italia.

Tino Montanari

Il “Blues Brother” Originale! Curtis Salgado – Soul Shot

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Curtis Salgado – Soul Shot – Alligator Records

Il nome Curtis Salgado ai più non dirà nulla, ma se partite dall’abbigliamento – giacca nera, occhiali scuri –  e poi vi soffermate sul genere musicale, blues, soul, R&B, e fate un salto temporale a Eugene, Oregon vicino a Portland, dove era la sua base in quegli anni, comincerete a capire. In quel periodo John Belushi era lì per girare il film Animal House e nei ritagli di tempo libero dalle riprese del film frequentava i locali della zona dove si esibiva un giovane musicista con la sua band che era già allora una forza della natura, un artista di culto locale, con degli spettacoli incendiari. I due diventano amici e Curtis Salgado inizia Belushi ai misteri della musica nera e insieme sviluppano l’idea che da lì a poco si  sarebbe trasformata nei Blues Brothers, prima con un tour nazionale che darà vita all’album Briefcase Full Of Blues e poi culminerà nel grandissimo film di John Landis.

I personaggi di Joliet Jake e Elwood Blues, che insieme sono il combinato della “persona” di Salgado, grande cantante ma anche armonicista, creati da Belushi e Aykroyd  che non hanno mai nascosto il debito dovuto a questo signore, anche se la cosa è poco nota (per usare un eufemismo): infatti se controllate attentamente le note dell’album originale, Briefcase, Salgado viene ringraziato, giustamente, e il personaggio interpretato da Cab Calloway nel film si chiama, guarda caso, “Curtis”! Diciamo solo che la sua carriera non ha avuto i riscontri commerciali e finanziari dei personaggi che ha ispirato ma Salgado oltre ad avere avuto il suo gruppo degli Stilettos, ha fatto parte della prima versione della Robert Cray Band, la migliore e poi ha contribuito al successo dei Roomful of Blues, ha cantato con Santana e con la Steve Miller Band dal vivo. Nel corso di una collaborazione con il grande chitarrista Albert Collins è stato lui ad inventare il nomignolo “Master Of The Telecaster”, eppure pensate che il primo album è solo del 1991 e nel corso della sua attività ne sono usciti solo otto compreso questo Soul Shot. Senza dimenticare che nel 2006 gli è stato diagnosticato un tumore al fegato e l’anno successivo è stato sottoposto (grazie ai fondi raccolti dai suoi amici musicisti) a un trapianto per debellare la malattia che nel frattempo si era estesa anche ai polmoni, ma ha superato anche questa prova. E nel 2008 era di nuovo sulla strada a fare concerti e realizzava quello che era il suo migliore album fino ad allora, l’eccellente Clean Getaway che gli valse il Soul Blues Male Artist Of The Year nel 2010.

Ma questo Soul Shot, il primo per la Alligator (che detto per inciso non sbaglia un colpo, Janiva Magness, Joe Louis Walker, JJ Grey & Mofro, Tommy Castro sono le ultime uscite dell’etichetta di Chicago) è ancora migliore. Come dice il titolo “Un’iniezione di soul”, questa volta siamo nel paradiso della musica nera: soul, R&B, funky anni ’70, gospel sono ottimi e abbondanti. Co-prodotto dal vecchio amico di Portland, Marlon McClain, che era il leader di una band nera degli anni ’70, i Pleasure (ho visto poche mani alzate) e da Tony Braunagel, batterista e leader della Phantom Blues Band, uno che del genere se ne intende, l’album è un gioiellino di cui godere profusamente. La voce di Salgado ricorda moltissimo quella del grande Solomon Burke (magari senza i picchi verso il basso e l’alto, ma il corpo centrale è quello), è pure un ottimo armonicista, della scuola soul/R&B, alla Stevie Wonder prima maniera per intenderci, ma maneggia anche il Blues alla grande e in più scrive delle belle canzoni, quattro per l’occasione e sceglie tra il repertorio storico della black music per questo album con una felicità di risultati sorprendente!

C’è il R&B trascinante di What You Gonna Do?, dalla penna di Bobby Womack, gioioso e inondato di fiati e coretti celestiali, con una band che suona alla grandissima: oltre al citato Braunagel (che negli anni ’70 e ’80 andava dallo stesso parrucchiere di Bolton e di Salgado, cercate le foto) ci sono Mike Finnigan all’organo e Jim Pugh al piano, una coppia che ti stende, Johnny Lee Schell coadiuvato dallo stesso McClain alle chitarre in alcuni brani e Larry Fulcher al basso, più Joe Sublett e Darrell Leonard a pompare ai fiati e Lenny Castro aggiunto alle percussioni, i risultati sono da ascoltare per credere. Love Comfort Zone uno dei brani firmati da Salgado è miele per le orecchie dell’appassionato del genere, puro Solomon Burke, Gettin’ To Know You è un funky da favola dal vecchio repertorio di George Clinton con fiati all’unisono che spingono la sezione ritmica e la voce verso vette notevoli di goduria, come se gli anni ’70 non fossero mai finiti e Salgado comincia anche a scaldare l’armonica. A proposito di armonicisti, le note del libretto sono curate da Dick Shurman, che per i due o tre che non lo conoscono era il Magic Dick della J Geils Band, uno che conosce molto bene l’argomento come il suo ex datore di lavoro, quel Peter Wolf che ci ha deliziato un paio di anni con il magnifico Midnight Souvenirs e qui siamo su quelle coordinate sonore.

She Didn’t Cut Me Loose, altro brano originale, tra funky d’annata e lo Stevie Wonder anni ’70 è sempre notevole. Fantastico il R&B fiatistico di Nobody But You, scritto da Charles Hodges, collaboratore storico di Al Green, per O.V. Wright, un altro che del genere se ne intendeva: sua era la versione originale di That’s How Strong My Love Is che poi avrebbero ricantato mastro Otis e i Rolling Stones. E i risultati si sentono, Curtis ci mette del suo, come pure nella bellissima soul ballad Let Me Make Love To You dove dà fondo alle sue risorse vocali per una interpretazione da brividi, degna dei maestri citati finora. Il brano era degli O’Jays, puro Philly Sound carico di deep soul in una accoppiata formidabile. Per stenderti definitivamente Curtis Salgado si cimenta con una cover maiuscola (e fedele all’originale, lui che può) della trascinante Love Man del grande Otis Redding, Stax sound in excelsis con la band che riprende le sonorità di Booker T. & The Mg’s & Co con notevole fedeltà.

He Played His Harmonica, la terza canzone scritta da Salgado, con il clavinet di Kurt Clayton che si aggiunge alle procedure è ancora ottimo funky anni ’70, tra blue eyed soul di gran classe e sonorità alla Marvin Gaye. Baby Let Me Take You In My Arms è stato uno dei successi dei Detroit Emeralds, altro grande gruppo vocale R&B dei primi anni ’70, un mid-tempo mellifluo con i fiati in primo piano a stuzzicare le acrobazie vocali di Salgado. Franck Goldwasser si unisce alla chitarra per una ripresa magnifica del classico soul lento di Johnny Guitar Watson (faceva anche quelli!), una Strung Out da antologia della musica soul. E sul dilemma finale, A Woman or The Blues, che probabilmente non verrà mai risolto, si conclude in puro stile tra Blues Brothers, gospel e Solomon Burke d’annata, questo gagliardo Soul Shot che si merita fin d’ora un posto d’onore tra i migliori dischi del genere dell’anno.

Anche se comprate pochi dischi quest’anno non fatevi mancare questo, ne vale la pena! In teoria esce il 10 aprile negli States, ma in Italia circola già in anticipo.

Bruno Conti

P.s. Per la serie collegamenti d’idee, vi consiglio nuovamente il disco di un altro Curtis, Stigers che con Let’s Go Out Tonight ha fatto veramente un ottimo lavoro e, sempre la prossima settimana, esce anche un doppio CD dal vivo postumo di Solomon Burke intitolato The Last Great Concert per la Rockbeat Records. Problema di quest’ultimo, il prezzo e la reperibilità.