Doors – Morrison Hotel. Edizione Del 50° Anniversario: Purtroppo Sempre Formato Misto, 2 CD + LP

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Doors – Morrison Hotel 50th Anniversary Deluxe Edition 2CD/1LP Elektra Rhino – 09-10-2020

Tornano le ristampe dei Doors per il 50° Anniversario degli album originali (siamo quasi alla fine del percorso, poi manca solo L.A. Woman), e riprendono le vecchie brutte abitudini della Rhino di pubblicare queste versioni dove CD e vinile convivono nella stessa confezione, scontentando così gli appassionati di entrambi i formati. Ovviamente il fatto di inserire il LP fa lievitare il prezzo, ben oltre i 50 euro, oltre a tutto riproponendo l’identico contenuto musicale per due volte.

Fortunatamente c’è il secondo CD, quello del materiale “inedito”, che anche questa volta pare interessante (e differente da quello pubblicato nella edizione uscita per il 40° dell’album), benché 9 diverse versioni di Queen Of The Highway e 5 di Roadhouse Blues sono decisamente indirizzate verso i fans sfegatati e i “completisti”. Ci sono anche le cover di Money (That’s What I Want), il vecchio brano Motown di Barrett Strong e mille altri, tra cui pure i Beatles, e Rock Me di Muddy Waters, e poi come Rock Me Baby, di B.B. King, oltre a due alternate takes di Peace Frog e I Will Never Be Untrue, già apparsa in versione live nel box quadruplo del 1997.

Comunque, al solito, ecco il contenuto completo del cofanetto.

Tracklist
[CD1]
1. Roadhouse Blues
2. Waiting For The Sun
3. You Make Me Real
4. Peace Frog
5. Blue Sunday
6. Ship Of Fools
7. Land Ho!
8. The Spy
9. Queen Of The Highway
10. Indian Summer
11. Maggie M’Gill

[CD2]
1. Queen Of The Highway (Take 1) [She Was A Princess]
2. Queen Of The Highway (Various Takes)
3. Queen Of The Highway (Take 44) [He Was A Monster]
4. Queen Of The Highway (Take 12) [No One Could Save Her]
5. Queen Of The Highway (Take 14) [Save The Blind Tiger] [With
6. Queen Of The Highway (Take 1) [American Boy – American Girl]
7. Queen Of The Highway (Takes 5, 6 & 9) [Dancing Through The M
8. Queen Of The Highway (Take 14) [Start It All Over]
9. I Will Never Be Untrue
10. Queen Of The Highway (Take Unknown)
11. Roadhouse Blues (Take 14) [Keep Your Eyes On The Road]
12. Money (That’s What I Want)
13. Rock Me Baby
14. Roadhouse Blues (Takes 6 & 7) [Your Hands Upon The Wheel]
15. Roadhouse Blues (Take 8) [We’re Goin’ To The Roadhouse]
16. Roadhouse Blues (Takes 1 & 2) [We’re Gonna Have A Real Good
17. Roadhouse Blues (Takes 5, 6 & 14) [Let It Roll, Baby, Roll]
18. Peace Frog/Blue Sunday (Take 4)
19. Peace Frog (Take 12)

[LP]
1. Roadhouse Blues
2. Waiting For The Sun
3. You Make Me Real
4. Peace Frog
5. Blue Sunday
6. Ship Of Fools
7. Land Ho!
8. The Spy
9. Queen Of The Highway
10. Indian Summer
11. Maggie M’Gill

Come detto, in uscita per il 9 ottobre.

Bruno Conti

Un Bluesman “Attempato” Ma Sempre Molto Pimpante! Linsey Alexander – Blues At Rosa’s

linsey alexander live at rosa's

Linsey Alexander – Live At Rosa’s – Delmark Records

Linsey Alexander il 23 luglio ha compiuto 78 anni, ma ascoltando questo CD non si direbbe proprio: il musicista americano, nato in Mississippi ed allevato a Memphis (percorso perfetto), ha una storia simile a quella di molti altri bluesmen. Per il viaggio a Chicago si è dovuto impegnare la sua prima chitarra al banco dei pegni (mai riscattata dicono le sue biografie) e giunge nella capitale dell’Illinois nel lontano 1959, dove in lunghi anni passati tra piccoli locali fumosi, juke joints e improbabili lavori per sopravvivere, si è costruito una reputazione sia come chitarrista che come entertainer suonando con B.B.King, Bobby Rush, Buddy Guy e moltissimi altri (fa sempre curriculum). Per pubblicare i suoi primi CD a livello indipendente, composti soprattutto di cover, deve arrivare all’inizio degli anni 2000, quando aveva già toccato i 60 anni, alla faccia della gavetta. Ma la sua bella voce, limpida, potente ed espressiva, ed il suo stile chitarristico (Gibson e Fender, poi alla fine non gli sono mancate), fluido, ricco di tecnica e feeling, lo rende uno dei praticanti delle 12 battute più interessanti tra i nomi di culto.

Tanto che la Delmark, una della bandiere del blues più ruspante e rigoroso della Windy City, lo mette sotto contratto, e tra il 2012 e il 2017 pubblica tre eccellenti album (e nella sua band suona per parecchio tempo anche il bravissimo Breezy Rodio https://discoclub.myblog.it/2020/03/07/la-conferma-di-uno-dei-nuovi-talenti-emergenti-del-blues-breezy-rodio-if-it-aint-broke-dont-fix-it/ ), con il classico suono dell’electric blues made in Chicago, dischi fieri e pimpanti dove la voce e la solista di Alexander rimandano a gente come Jimmy Dawkins, Magic Sam, Otis Rush, ma è giusto per ricordarne qualcuno. E ora questo Live At Rosa’s, registrato in uno dei più leggendari locali di Chicago, rinverdisce i fasti dei grandi album dal vivo che hanno fatto la storia della Delmark: in particolare “l’ispirazione” per questo disco Live viene da All Your Love, I Miss Loving: Live at the Wise Fool’s Pub Chicago di Otis Rush, un concerto pubblicato su CD nel 2005, ma che risale come registrazione al 1976. La produzione è affidata al solito team Delmark, guidato da Julia A. Miller, e nella band di Alexander, oltre allo storico tastierista Roosevelt Purifoy, troviamo Ron Simmons al basso, anche lui con Linsey da 40 anni, e “Big” Ray Stewart alla batteria, oltre al sostituto di Rodio come secondo chitarrista, il russo Sergei Androshin.

Il risultato è spettacolare, il nostro amico suona e canta ancora come un giovinetto: con un nerbo e una grinta invidiabili, la voce e la tecnica alla chitarra testimoniamo di un artista sempre in grande spolvero. “The Hoochieman” come lo chiamano i fans (che peraltro a giudicare dagli applausi del CD non dovevano essere più di una 50ina scarsa in quella serata), li ripaga con nove brani di grande intensità: Please Love Me, un ficcante shuffle del BB King anni ‘60, dove Alexander canta e suona con un impeto invidiabile, la solista è in grande evidenza come pure l’organo di Purifoy, incidentalmente il brano era lo stesso che apriva il Live di Rush citato prima, segue My Days Are So Long, una sua composizione, con un bel groove R&B e le linee della solista sempre fluide e ricche di feeling. Have You Ever Loved A Woman, a quasi 9 minuti il brano più lungo dell’album, è proprio il classico slow blues di Freddie King, versione superba con un assolo intensissimo e lancinante del tutto degno dell’originale e il buon Linsey che canta con voce squillante, come se il tempo per lui non fosse passato, mentre I Got A Woman non è quella di Ray Charles, per quanto un altro pezzo dal ritmo funky di ottima qualità, sempre con chitarra in primo piano, seguito da un altro puro Chicago Blues come Goin’ Out Walking.

Altro “lentone” di grande fascino è la cover di Somethin’ ‘Bout ‘Cha di Latimore, con un’altra interpretazione da manuale sia vocale che strumentale del nostro https://www.youtube.com/watch?v=4dW7CJLrhpM , e pure la mossa e ritmata Snowing In Chicago non scherza, ragazzi se suona, prima di passare ad un altro piccolo classico come Ships on the Ocean di Junior Wells, niente armonica ma versione da sballo con Alexander che “maltratta” la sua chitarra alla grande, prima di congedarsi con Going Back To My Same Old Used To Be, con un riff ricorrente quasi hendrixiano e una ennesima interpretazione da brividi, assolo di piano di Purifoy incluso. Il vecchio Blues non muore mai, assolutamente da avere, se amate le 12 battute più genuine.

Bruno Conti

L’ex Bambino Prodigio Del Blues Conferma Il Suo Talento! Ryan Perry – High Risk, Low Reward

ryan perry high risk

Ryan Perry High Risk, Low Reward –  Ruf Records

Alzi la mano chi di voi si ricorda il nome di Ryan Perry? Io in particolare lo ricordo perché una dozzina di anni fa avevo recensito il debutto della Homemade Jamz Blues Band Pay Me No Mind, uscito appunto nel 2008 per la NorthernBlues Music: si trattava dell’opera prima di questo trio di fratelli che veniva da Tupelo, Mississippi, in cui il più “vecchio” era proprio Ryan, che di anni ne aveva 16, e cantava e suonava la chitarra, mentre il fratello Kyle che suonava il basso ne aveva 14 e la sorella Tanya, la batterista, ben 9 (!!). Ma i tre erano già veramente bravi, il disco aveva una freschezza invidiabile, e anche i suoni erano comunque per certi versi “contemporanei”, con Ryan che suonava una muffler guitar, “fatta in casa”, assemblandola utilizzando pezzi di marmitta recuperati da vecchie automobili Ford, che contribuivano a quel sound ruvido e crudo figlio del blues più genuino.

Ryan era in possesso di una bella voce già allora, e oggi è anche migliorata, dopo una dozzina di anni on the road, migliaia di concerti più o meno fino al 2015 (ma il gruppo dovrebbe essere ancora in attività) e tante apparizioni a fianco di nomi importanti (non ultima quella nel disco tributo a Chuck Berry di Mike Zito)! Il contratto da solista per la Ruf (che se la batte con la Mascot/Provogue per chi mette sotto contratto o “arraffa” più chitarristi) gli ha permesso di acquistare una Gibson Les Paul nuova fiammante, con la quale appare sulla copertina dell’esordio High Risk, Low Reward, dove forse di rischi ne hanno corsi pochi, ma le ricompense per gli ascoltatori sono peraltro molteplici: il suono molto professionale a tratti entra in una comfort zone fin troppo rassicurante, ma d’altra parte ci sono alcuni brani dove Ryan scatena tutta la potenza di suono del suo stile spumeggiante e ricco di feeling e tecnica. Prendiamo la versione fantastica del classico del blues Evil Is Going On di Howlin’ Wolf via Willie Dixon, una cover “hendrixiana”, dove Perry innesta il pedale del wah-wah e non prende prigionieri in una rilettura gagliarda che sono sicuro Jimi avrebbe approvato, cantata con voce scura e potente, sostenuto dalla sezione ritmica guidata dal bassista Roger Inniss, che è anche il produttore del disco, mentre dietro la batteria siede la giovane e brava batterista inglese Lucy Piper, rodata da alcuni Blues Caravan dell’etichetta Ruf.

Per il resto si spazia in tutte le gradazioni del Blues: da quello raffinato e ricercato della fluida Ain’t Afraid To Eat Alone dove la solista scorre che è un piacere, in modo sinuoso e con retrogusti jazzy, mentre Homesick vira verso un funky lite anni ‘70, sempre suonato con grande padronanza anche se un po’ di maniera. Anche Pride ha questo approccio laidback e pigro, tra blue eyed soul e derive pop, con la chitarra che comunque cerca di vivacizzare il tutto; A Heart I Didn’t Break è più mossa e incalzante sempre “moderna” e con spunti più rock. Estremamente piacevole anche la cover di Why I Sing The Blues, il classico di B.B. King dove si coglie qualche analogia anche con il Gary Clark Jr. più spensierato, benché a tratti manchi un po’ di nerbo, One Thing’s For Certain introduce qualche elemento R&B su una base rock, il tutto cantato e suonato in modo eccellente, ma non mi convince appieno.

High Risk, Low Reward è viceversa uno dei brani più convincenti, grintoso e carico, con una atmosfera sospesa e minacciosa e folate di chitarra distorta e cattiva, Changing è una ballata solenne, quasi notturna, con un lavoro di fino della solista che però non decolla del tutto, lasciando alla lancinante Oh No il compito di esplorare le 12 battute più classiche in un intenso crescendo che ci porta ad un breve assolo di buona fattura. Del brano di Howlin’ Wolf abbiamo detto, manca per concludere il CD un altro brano potente come Hard Times che va a toccare le contraddizioni e le sfide dei tempi duri dell’America di oggi, e qui Perry lascia andare di nuovo la potenza della sua Gibson. Consigliato, sia pure con qualche piccola riserva espressa nella recensione, comunque uno bravo!

Bruno Conti

Una Serata Blues Speciale A Londra Nel 2009. Gary Moore – Live From London

gary moore live from london

Gary Moore – Live From London – Mascot/Provogue – 31-01-2020

Al 31 gennaio 2020 (pare posticipata al 7 febbraio all’ultimo momento in alcuni paesi) è prevista l’uscita di Live From London, ennesimo disco dal vivo postumo dedicato a Gary Moore. Non ricorre nessuna evenienza particolare: il musicista irlandese era nato a Belfast il 4 aprile del 1952, ed è morto a Estepona,una località di vacanza vicino a Malaga, in Spagna, il 6 febbraio del 2011, per un infarto, probabilmente causato dalla fortissima quantità di alcol ingerita nel corso della serata precedente (gli è stata trovata nel sangue una percentuale letale di alcol pari al 3,8%). Nel corso degli anni sono già usciti alcuni album postumi dal vivo di Moore: penso all’ottimo Blues For Jimi, uscito nel 2012 e relativo ad un concerto del 2007, una serata speciale dedicata ad tributo alla musica di Hendrix https://discoclub.myblog.it/2012/09/12/due-grandi-chitarristi-al-prezzo-di-uno-gary-moore-blues-for/ , e nel 2011 era stato pubblicato Live At Montreux 2010, con  la registrazione di una data del luglio 2010, la più recente rispetto alla data della sua scomparsa https://discoclub.myblog.it/2011/10/22/un-ultimo-saluto-gary-moore-live-at-montreux-2010/ , tutte della sorte di one-off, serate speciali, come anche questo Live From London, un evento organizzato dalla emittente radio Planet Rock, con una attenzione speciale riservata al materiale blues, pur non mancando alcuni brani dall’ultimo album di studio del 2008 Bad For You Baby, e la classica Parisienne Walkways in chiusura del set di 13 brani.

Ovviamente, e parlo per me, questo è il repertorio di Gary Moore che prediligo, ma il chitarrista ha fans sparsi per il mondo che amano anche il suo repertorio più robusto, diciamo pure hard-rock. La tecnica non si discute, ma dal 1990 della “conversione”, o del ritorno al blues, il nostro ha realizzato una serie di album eccellenti, inframmezzati ad altri più scontati: qui siamo di fronte al suo lato migliore. Aiuta anche il fatto che la serata si sia svolta alla 02 Academy di Islington, una venue più raccolta ed accogliente rispetto ad arene e palazzetti, quindi più adatta al tipo di repertorio. Non ho ancora informazioni precise sulla formazione, ma visto che si tratta del Bad For You Baby World Tour, e si sente chiaramente la presenza di un tastierista, azzardo Vic Martin a piano e organo, Pete Rees al basso e Sam Kelly alla batteria: partenza sparatissima con una poderosa Oh Pretty Woman, con potenti sventagliate della Gibson di Moore, versione gagliarda ma di ottima fattura, Bad For You Baby e Down The Line sono due dei brani nuovi  tratti dall’album in promozione, entrambe sempre tirate ma senza esagerazioni o “durezze” fuori luogo, la seconda veloce e compatta con chitarra ed organo ad interagire con le scale velocissime della solista di Gary in primo piano.

A questo punto parte la sezione blues, già inaugurata dalla cover di Oh, Pretty Woman di Albert King, da After Hours arriva l’omaggio a B.B. King, che appariva anche nel CD originale, con una solida e pungente Since I Met You Baby, seguita da un uno-due strepitoso dedicato al primo album di Mayall con i Bluesbreakers, prima una lunga e fluente Have You Heard, con la chitarra che improvvisa in grande libertà, e poi l’altrettanto classica All Your Love di Otis Rush, con il suo riff inconfondibile e le continue accelerazioni, grande lavoro nuovamente di Moore alla solista, e anche eccellente interpretazione vocale di Gary, brillante nel corso di tutta la serata. Seguono altre due canzoni dal disco del 2008, Mojo Boogie di JB Lenoir, dove il nostro mette in mostra anche la sua destrezza nell’uso del bottleneck, e una fantasmagorica versione di quasi 12 minuti di I Love You More Than You’ll Ever Know, il celebre slow blues scritto da Al Kooper per il primo album dei Blood, Sweat And Tears,  poi interpretato da Donny Hathaway e da decine di altri artisti, in anni recenti da Joe Bonamassa e Beth Hart, sia in studio che dal vivo, grande prestazione di Moore alla solista in una serie di assoli da sballo.

Di Too Tired, un brano di Johnny Guitar Watson, ricordiamo delle notevoli versioni con Albert Collins, sia in Still Got The Blues come nel Live At Montreux, uno shuffle dalla grande carica, e non manca neppure la title track del suo album più famoso, la splendida blues ballad Still Got The Blues (For You), prima di chiudere il concerto con una trascinante Walking By Myself. I due bis prevedono la pimpante e coinvolgente The Blues Is Alright, una dichiarazione di intenti  verso il suo grande amore per le 12 battute, e infine Parisieenne Walkways, la canzone scritta insieme al suo grande amico Phil Lynott, la lirica, struggente e malinconica ballata dedicata  al padre di Phil e alla Parigi del dopoguerra, caratterizzata da un lungo e lancinante assolo dove Moore tira le note fino all’inverosimile. Veramente un bel concerto che rende ancora una volta merito alla bravura e alla classe del musicista nord-irlandese. Esiste anche una edizione speciale cartonata del disco, con quattro plettri, due sottobicchieri personalizzati, un adesivo ed una cartolina, però mi sembra una cosa per feticisti.

Bruno Conti

Una Dichiarazione Di Intenti Sin Dal Titolo: A “Sorpresa” Un Eccellente Disco! Peter Frampton Band – All Blues

peter frampton band all blues

Peter Frampton Band – All Blues – Universal Music Enterprises

Sono passati quasi 50 anni (anzi sono cinquanta proprio quest’anno) dall’uscita del primo album degli Humble Pie (celebrata recentemente anche su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2019/03/25/humble-pie-la-quintessenza-del-rock-agli-inizi-e-poi-un-lungo-lento-declino-parte-i/ ), e per l’occasione Peter Frampton torna al blues, sempre condito da una forte componente rock, ma nell’occasione, visto che si tratta di un album incentrato quasi completamente su una selezione di famosi standard delle 12 battute, ancora più rigoroso, almeno nella scelta del materiale. L’album è attribuito alla Peter Frampton Band, ovvero Adam Lester (seconda chitarra/voce), Rob Arthur (tastiere/chitarra/voce) e Dan Wojciechowski (batteria), nomi direi non celeberrimi, ma…ci sono alcuni ospiti, per certi versi anche sorprendenti, come Kim Wilson, Larry Carlton, Steve Morse e Sonny Landreth, e il risultato mi sembra quello del miglior disco di Peter Frampton, da molto tempo a questa parte, magari con l’eccezione di qualche CD dal vivo celebrativo. Il nostro amico non ha più quei bei boccoli vaporosi che erano un suo tratto distintivo, ma non ha perso il tocco eccellente alla solista, tocco che ne aveva fatto uno dei chitarristi più gagliardi in ambito rock-blues, e pure con le migliori cifre di vendita, grazie all’ottimo Peter Frampton Comes Alive, multidisco di platino con oltre undici milioni di copie vendute, ma poi anche con una serie di altri buoni dischi, soprattutto negli anni ’70.

Ma bando alle nostalgie, anzi forza con la nostalgia, visto che questa volta è per una buona causa, il blues, che sembra essere uno dei generi che stranamente (e per fortuna) non passa mai di moda: I Just Want To Make Love To You era uno dei cavalli di battaglia di Muddy Waters e Etta James, ma l’hanno incisa decine di altri artisti, in ambito rock-blues per esempio i Foghat, e Frampton, nel presentare il disco, ha ricordato che la sua passione per i brani blues è stata rivitalizzata anche dal fatto di averne suonati una manciata a serata, nel recente tour insieme alla Steve Miller Band. La versione del brano appena ricordato si situa giusto al crocevia tra quella classica di Waters, grazie anche alla presenza di Kim Wilson all’armonica, e un suono più grintoso e vicino al rock, in ogni caso una versione sapida e potente, con la ritmica sul pezzo, le tastiere ben inserite, la voce di Peter che si è irrobustita con il passare degli anni e la chitarra che lavora di fino ma anche di forza su uno dei riff più celebrati del genere. She Caught The Katy è è uno standard scritto da Taj Mahal e Yank Rachell, che ricordiamo anche nella versione dei Blues Brothers, la parafrasi (mi è scappato) di Frampton, con la chitarra molto impegnata in continui soli e rilanci, mi ha ricordato, per strane associazioni di idee, un sound alla Jeff Healey, ma anche con rimandi a certo southern rock di qualità, mentre Georgia On My Mind non si può certo definire uno standard blues, o meglio uno standard lo è di certo, e giustamente non potendo misurarsi con la versione di Ray Charles, Frampton decide saggiamente di trasformarlo in una ballata strumentale suadente e struggente, con la sua chitarra che confeziona un assolo dove tecnica e feeling vanno a braccetto con gusto sopraffino, grande assolo.

Can’t Judge A Book By The Cover in origine era stata scritta da Willie Dixon per Bo Diddley, poi negli anni, dai Cactus in giù, è diventato un must anche per i rockers, il nostro amico decide quindi di unire il riff e il drive alla Diddley con un sound più muscolare e tirato, con grande lavoro di slide che ricorda un poco i suoi trascorsi negli Humble Pie; Me And My Guitar, se la memoria non mi inganna era un pezzo di Freddie King, un altro brano ricco d vigore, con la chitarra di Frampton sempre in grande spolvero, a conferma che il tocco magico non si perde con il trascorrere degli anni, ragazzi se suona. E che dire di una ricercata e soave traccia strumentale come All Blues, tutta tecnica e tocco, un duetto jazzato dove Frampton rivaleggia con Larry Carlton a chi è più raffinato nel trattare questo classico di Miles Davis, entrambi ben spalleggiati dal piano di Arthur; eccellente anche la rilettura di The Thrill Is Gone, una fantastica versione di questa meraviglia di B.B. King, rispettosa il giusto, ma con Frampton (ottimo anche a livello vocale) e Sonny Landreth a scambiarsi licks e soli di chitarra con una fluidità quasi disarmante.

E in Going Down Slow, il duetto con Steve Morse, l’atmosfera si fa più rovente, sempre senza esagerare e trasformare il tutto in caciara, le chitarre ci danno dentro alla grande, ma il suono rimane chiaramente e decisamente ancorato al miglior blues elettrico, quasi rigoroso nel suo dipanarsi, con Peter e Chuck Ainlay, che hanno prodotto il disco negli studi Phoenix di Frampton a Nashville, optando per un tipo di suono molto caldo e ben delineato. Altro omaggio a Mastro Muddy in una vibrante I’m A King Bee, la quintessenza del Chicago Blues, anche se forse per l’occasione manca un poco di nerbo, ma è un parere personale e comunque il breve ritorno della chitarra in modalità talk box (giusto un assaggino in ricordo di Show Me The Way) giunge quasi a sorpresa, potremmo dire “Show Me The Waters  https://www.youtube.com/watch?v=NaeNQifZp5I . Gran finale con un altro super classico di Freddie King, la magnifica  ballatona Same Old Blues, suonata quasi alla Clapton https://www.youtube.com/watch?v=EuU1hwJkBRU , con la chitarra che viaggia fluida che è un piacere, ottimo finale per un album veramente bello ed inaspettato, e che mi sento di consigliarvi caldamente.

Bruno Conti

Non “Solo” Una Ristampa, Un Piccolo Tesoro Ritrovato E Potenziato. Roy Buchanan – Live At Town Hall

roy buchanan live at town hall

Roy Buchanan – Live At Town Hall – 2 CD Real Gone Music

Come chi legge questo blog avrà sicuramente notato, leggendo i vari Post dedicati ad alcuni album, più o meno ufficiali, pubblicati negli ultimi anni, https://discoclub.myblog.it/2016/01/02/dal-vivo-raro-formidabile-roy-buchanan-lonely-nights-my-fathers-place-1977/ e https://discoclub.myblog.it/2017/04/02/sempre-piu-raro-formidabile-e-sconosciuto-anche-a-quasi-30-anni-dalla-morte-roy-buchanan-telemaster-live-in-75/, il sottoscritto considera Roy Buchanan uno dei più grandi chitarristi che abbiano mai graziato l’orbe terracqueo e i suoi palchi e studi di registrazione, sin dalla nascita del R&R (infatti le sue prime registrazioni risalgono addirittura al 1957), meritandosi gli appellativi, entrambi meritati per diversi ragioni, di “Master Of The Telecaster” e di essere “il più grande chitarrista sconosciuto del mondo”. Se volete approfondire andate a rileggervi le varie recensioni che gli ho dedicato e quindi entriamo direttamente nei contenuti di questo splendido Live A Town Hall, non prima comunque di una breve premessa. La carriera solista di Buchanan, dopo una lunghissima carriera di sideman, tracciata, almeno negli anni iniziali in https://discoclub.myblog.it/2016/08/24/completare-la-storia-roy-buchanan-the-genius-of-the-guitar-his-early-recordings/ e da varie frequentazioni, anche con Jimi Hendrix, che condurranno ad inizio anni ’70 ad un contratto con la Polydor ed a essere tra i papabili ad entrare negli Stones a sostituire Mick Taylor: i primi quattro album di studio, soprattutto il secondo e il terzo, entrambi pubblicati nel 1973, cementano la sua reputazione e molti colleghi lo citano come un influenza, Jeff Beck, Gary Moore, Danny Gatton, Arlen Roth, Jerry Garcia e svariati altri, ed è proprio con l’album che doveva concludere il suo contratto con la Polydor, Live Stock, che Roy Buchanan realizza il suo miglior disco e anche quello di maggior successo.

Registrato nel novembre del 1974 alla Town Hall e pubblicato l’anno dopo, il disco avrebbe dovuto essere un doppio dal vivo, ma l’etichetta preferì pubblicare un singolo album, comunque formidabile, con soli sei brani tratti da quella serata, più uno registrato all’Amazingrace Coffeehouse, di  Evanston (IL), invece dei due set completi che contavano su ben 21 brani. A distanza di oltre 40 anni da quell’evento la Real Gone Music ha affidato la produzione di questa ristampa a Bill Levenson, uno dei maggiori specialisti nel lavoro di recupero e rimasterizzazione di album classici (tra gli artisti che hanno usufruito del suo lavoro Cream, Eric Clapton, Allman Brothers, B.B. King, giusto per citarne alcuni) che ha fatto un lavoro splendido nel restaurare le due differenti esibizioni di quel fatidico 27 novembre del 1974 a New York. Nella ottima band che accompagna Buchanan, oltre a Malcolm Lukens alle tastiere, John Harrison al basso e Ronnie “Byrd” Foster alla batteria, spicca un giovane Billy Price ala voce solista, di cui di recente vi ho magnificato l’ultimo album in studiohttps://discoclub.myblog.it/2018/07/24/cantanti-cosi-non-ne-fanno-piu-billy-price-reckoning/ .

Il primo CD si apre con un poderoso R&R firmato dallo stesso Roy, una scintillante Done Your Daddy Dirty, un brano strumentale dove Buchanan comincia a scaldare la sua Telecaster a furia di riff e brevi assoli, con quello stile unico e impossibile da imitare con la chitarra che inizia a seguire quelle sue traiettorie sonore ai limiti dell’umano, segue Reelin’& Rockin, swingata e brillante, cantata in modo brillante da Price, un altro strumentale delizioso come la sinuosa Hot Cha, tra rock e soul, e poi ancora la sua versione eccellente di Further On Up The Road, un classico di Clapton, ma sentite come la fa il nostro amico. A questo punto del  concerto arriva uno dei suoi cavalli di battaglia assoluti Roy’s Bluz, che come i tre precedenti era nel Live Stock originale, nella stessa sequenza, un blues lento eccezionale, preceduto da un breve cantato di Buchanan, che, diciamolo, era un cantante francamente scarso, ma sentite come suona la sua solista, quasi posseduto da un’altra entità, con scale musicali impossibili, sonorità lancinanti, miagolii, strepiti e fragori chitarristici che fanno rizzare i peli sulla nuca (degli altri colleghi) e un crescendo sonoro fenomenale, otto minuti di pura magia, sentire per credere. E anche la successiva Can I Change My Mind, per usare un eufemismo, non è niente male, un glorioso R&B cantato splendidamente da Price, prima di arrivare alla sua versione di Hey Joe di Jimi Hendrix, che non era nell’album originale, una rilettura colossale, Buchanan è stato uno dei pochissimi, forse l’unico che poteva suonare i brani di Jimi. (quasi) meglio dell’originale, anche perché era arrivato alle stesse soluzione sonore, in particolare l’uso forsennato del wah-wah, quasi contemporaneamente al mancino di Seattle, che peraltro ammirava e rispettava.

Un attimo per riprenderci con la leggera Too Many Drivers e poi si riprende alla grande con un’altra rilettura quasi criminale e illegale nella sua bellezza, Down By The River di Neil Young, un fiume di note in un crescendo inarrestabile e dolcissimo che probabilmente, forse, supera pure  l’originale del canadese, anche per il cantato veramente ispirato di Price, altri nove minuti memorabili. E che dire di I’m A Ram, presente nel Live Stock originale, altro blues-rock lancinante dal repertorio di Al Green, la suadente In the Beginning, un altro strumentale, quasi alla Santo & Johnny, quasi, e per concludere il primo dischetto un altro lentone veramente splendido e raffinato come Driftin’ & Driftin’, sempre costruito intorno ai crescendo strumentali quasi preternaturali della sua chitarra. Il secondo concerto si apre con un altro blues di quelli folgoranti come I’m Evil, altro brano dove la sua Telecaster viene strapazzata e portata ancora una volta ai limiti delle capacità tecniche del 99% dei chitarristi viventi e vissuti. Poi troviamo altre differenti, ma sempre ottime,  versioni di Too Many Drivers, Done Your Daddy Dirty, Roy’s Bluz, ancora più indemoniata del precedente set, Furthre On Up The Road, Hey Joe, Can I Change My Mind, In The Beginning e per concludere in gloria il tutto, in omaggio a B.B. King, una sontuosa All Over Again (I’ve Got A Mind to Give Up Living), un altro lunghissimo  slow blues di nuovo cantato con passione da Billy Price e con Roy Buchanan che inchioda un’altra performance da sballo alla solista, fluida, ricca di inventiva, dal timbro unico, e con una tecnica e un misto di  feeling e finezza veramente sopraffini, per quello che è stato, devo ribadirlo, uno dei più grandi chitarristi della storia del rock, conosciuti e sconosciuti, qui ai suoi vertici assoluti. Mi tocca, ma ci sta: ristampa imperdibile!

Bruno Conti

E Ora Riesportiamo Anche Il Blues A Chicago: Da Roma Alla Windy City, Con Classe. Breezy Rodio – Sometimes The Blues Got Me

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Breezy Rodio – Sometimes The Blues Got Me – Delmark Records

In una mia recensione di una decina di anni fa per il Buscadero, riferendomi a Linsey Alexander, vecchio bluesman di stanza a Chicago, avevo scritto “ma dove si era nascosto Linsey Alexander in tutti questi anni?”. La stessa frase potrei riproporla per Breezy Rodio, ma nel suo caso la risposta la so: ha suonato la chitarra nei tre dischi incisi da Alexander per la Delmark tra il 2012 e il 2017, oltre ad avere pubblicato tre album di blues come solista ed anche uno di reggae (?!?). Come il cognome lascia intendere Rodio più che di origini è proprio italiano, nato a Roma, si è trasferito prima a New York e poi a Chicago, per vivere il blues. Il nostro Breezy, o Fabrizio, come risulta all’anagrafe, è veramente bravo: chitarrista sopraffino, cantante duttile e dal timbro vocale ora morbido, ora grintoso, buon autore, suoi ben 10 dei 17 brani contenuti nell’album, a livello di testi molto “bluescentrici”, ma troviamo pure ballate quasi da crooner, pezzi con abbondante uso di fiati, e quindi ricchi di soul e R&B.

Insomma nel menu sono presenti tutti gli ingredienti della musica di Chicago: che sia la splendida canzone d’apertura Don’t Look Now, But I’ve Got The Blues, scritta da Lee Hazlewood, ma resa celebre da B.B. King, in una incisione del 1958, un lento con fiati, dove risalta anche l’ottimo pianista Sumito “Ariyo” Ariyoshi”, che ci delizia per tutto l’album, e in alcuni brani si gusta un organo vintage veramente efficace suonato da Chris Forman. Ma tra i collaboratori di Rodio, niente male la sezione ritmica, con Light Palone al basso, e Lorenzo Francocci alla batteria (ma allora ditelo che siete italiani!), oltre agli eccellenti Constantine Alexander, che si alterna con Art Davis alla tromba, Ian “The Chief” McGarrie ai vari tipi di sax e Ian Letts al sax tenore,  indaffarati pure nella versione quartetto della pianistica Change Your Ways, puro Chicago Blues con l’armonica aggiunta di Simon Noble, cantata con voce scandita e sicura da Rodio, che poi si fa più appassionata nell’ottima cover di Wrapped Up In Love Again, un brano di Albert King dove si apprezza anche la solista pungente del bravo chitarrista italiano, che poi dimostra di conoscere a menadito il jump blues in una felpata e mossa I Walked Away di T-Bone Walker, e di nuovo il repertorio di B.B. King in un tiratissimo lento come Make Me Blue. E poi ci racconta il suo amore accorato per il blues in una quasi autobiografica e didascalica Let Me Tell You What’s Up, con assolo di McGarrie al sax, doppiato dallo stesso Breezy alla solista.

L’argomento viene ribadito nello slow Sometimes The Blues Got Me, dove sembra di riascoltare il South Side sound degli anni d’oro di Magic Sam o di Mike Bloomfield, con la chitarra che viaggia spedita e sicura, mentre in I Love You So, altro brano di B.B. King, si respira aria di doo-wop, delle ballate da crooner quasi alla Sam Cooke. Non manca lo shuffle travolgente della ficcante You Drink Enough, dove Rodio e un travolgente Ariyoshi si superano, spalleggiati dal vivace intervento della tromba di Art Davis, per non dire di una sinuosa The Power Of The Blues, dal sound più moderno,  che ruota intorno a un giro di basso veramente funky, con l’organo di Forman a sostenere le divagazioni della solista , grande tecnica e feeling, al di là dei testi forse naif. Ma nello strumentale  A Cool Breeze In Hell sembra quasi di sentire una outtake della leggendaria Super Session di Bloomfield, Kooper e Stills; tra i 17 brani, tanti ma tutti molto belli, citerei ancora una scintillante cover del brano dei Delmore Brothers Blues Stay Away From Me, che diventa un magistrale blues fiatistico, e la delicata Fall In British Columbia, una ballata struggente che illustra il lato più intimo della musica di Fabrizio “Breezy” Rodio, con tanto di intermezzo swing ed assolo magico di tromba, e l’elettroacustica, quasi folk-blues Not Going To Worry: un altro “cervello in fuga” che è andato a Chicago per registrare uno dei migliori dischi di blues urbano che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni, come ribadisce anche l’ultimo brano Chicago Is Loaded With The Blues. Consigliato vivamente.

Bruno Conti

Blues-Rock Veramente Di Prima Classe. Mike Zito – First Class Life

mike zito first class life

Mike Zito – First Class Life – Ruf Records

Questo First Class Life dovrebbe essere il 15° album di Mike Zito: dico dovrebbe, perché la sua discografia pubblicata a livello indipendente ad inizio carriera non è così conosciuta, ma è lo stesso artista di St. Louis, ormai texano di adozione, a dirlo anche sul suo sito, per cui sarà sicuramente così. Altra cosa certa è che il musicista, dopo una nomination nel 2014, ha appena vinto a maggio i Blues Music Awards a Memphis come miglior Artista Rock-Blues dell’anno, e direi che alla luce dell’album del 2016 Make Blues Not War il premio è più che meritato https://discoclub.myblog.it/2016/12/26/come-si-puo-dargli-torto-mike-zito-make-blues-not-war/ . E anche il nuovo album conferma il periodo di grande creatività di Zito, praticamente è dal Live From The Top del 2010 che non sbaglia un album (compresi quelli con i Royal Southern Brotherhood  e comunque pure i dischi precedenti non erano male), anzi ogni nuova uscita indica una crescita qualitativa rispetto al disco precedente e se Make Blues… era un signor disco First Class Life quanto meno lo pareggia.

Uno dei grandi amori di Mike è il Blues, visto che se lo è pure tatuato su una mano, ma rock, country, musica sudista, soul e R&B convivono tutti nella sua musica e l’hanno resa più ricca e corposa, cosa che conferma anche il nuovo CD: Zito è notevole chitarrista, ma è in possesso anche di una ottima voce, come ha detto il collega Anders Osborne “una voce che ti risuona nell’anima”. Mississippi Nights con un groove alla Creedence, una slide malandrina e tagliente, una voce alla Bob Seger, è una apertura di grande forza, la band lavora di fino e non manca comunque un forte spirito blues. Rispetto al disco precedente, che era prodotto da Tom Hambrdige, la band è cambiata completamente: i nuovi sono Matthew Johnson alla batteria, Terry Dry al basso e Lewis Stephens alle tastiere, l’unico che era già presente nei dischi dei Wheel, la produzione è affidata allo stesso Zito, ma il sound non cambia di molto, forse è maggiore l’influenza delle 12 battute classiche, come conferma il torrido slow Damn Shame con gran lavoro della solista e pure la cover di I Wouldn’t Treat a Dog (The Way You Treated Me), un vecchio brano di Bobby “Blue” Bland, non scherza, cadenzata e vicina allo spirito R&B dell’originale,  con la chitarra a sostituire le parti dei fiati, e con il risultato sonoro che mi ricorda ancora moltissimo le canzoni del miglior Bob Seger anni ’70 o anche il sound  soul meets blues-rock di Delbert MClinton.

The World We Live In sembra una di quelle blues ballads alla B.B. King, miste ad un stile “bianco”, diciamo blue eyed soul per intenderci, con una chitarra fluida che ricorda il tocco classico del vecchio Riley, mentre Mama Don’t Like No Wah Wah, scritta con Bernard Allison, che suona anche la seconda chitarra nel brano, nasce da un aneddoto raccontato dallo stesso Allison, che ricorda che Koko Taylor non amava l’uso di effetti nella chitarra e quando beccava i suoi musicisti a usarli, li mazziava, ma in questa versione molto funky e grintosa il wah-wah c’è e tira pure di brutto.  Nella title track Zito dice “I stole from the rich, and baby I gave to the poor”, nel ricordare le alluvioni che hanno colpito il Texas e per cui ha raccolto fondi per aiutare gli amici musicisti che vivevano nell’area di Houston, il tutto a ciondolante tempo di country meets rock, sempre con una bella slide e la voce in evidenza; Old Black Graveyard sin dal titolo è più buia e tempestosa, con una atmosfera sospesa ancora garantita dall’ottimo lavoro della slide, con Dying Day che è un brillante e pimpante shuffle dedicato alla moglie Laura, con la solista che viaggia sempre. Back Problems gioca sul doppio senso del testo ed è un super funky non memorabile ma solido, e Time For A Change torna al gagliardo Seger sound dei brani migliori del CD, un altro pezzo rock di quelli gustosi. A chiudere un ottimo album l’altra cover del disco Trying To Make a Living, un vecchio pezzo anni ’60 che dall’originale shuffle blues diventa un grintoso R&R a tutta velocità e grinta.

Bruno Conti

Che Band, Che Musica E Che Cantante, Divertimento Assicurato! The Love Light Orchestra featuring John Nemeth – Live from Bar DKDC in Memphis, TN!

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The Love Light Orchestra featuring John Nemeth – Live from Bar DKDC in Memphis, TN! – Blue Barrel

Ogni tanto appare una nuova band che decide di rinverdire i fasti di generi (o sottogeneri) che rischierebbero di scomparire dalla scena musicale attuale: in questo caso parliamo di “Memphis Sound”, come dicono le note, che non è quello della Stax o della Sun Records, ma di quel filone particolare del blues che rimanda al Big Band Blues, uno stile che si avvicina a gruppi come la Bobby “Blue” Bland Orchestra o le band di B.B. King e Junior Parker, ma anche, per dare un’idea ai lettori, alla Caledonia Soul Orchestra di Van Morrison, da sempre grande estimatore di questo genere musicale. Un bel gruppo folto di musicisti, quatto o cinque (come nel disco in questione) musicisti impegnati ai fiati, un pianista, un chitarrista, la sezione ritmica, e se possibile, un grande cantante: stiamo parlando della Love Light Orchestra, band che prende il proprio nome da uno dei brani più celebri di Bobby Bland, Turn On Your Love Light, canzone che ha infiammato intere generazioni di ascoltatori, dal 1961 in cui apparve per la prima volta: l’hanno suonata in tanti, da Van Morrison che la faceva già con i Them, ai Grateful Dead, i Rascals, Jerry Lee Lewis, perfino i Grand Funk, Bob Seger, Edgar Winter, Tom Jones, Blues Brothers, in versione strumentale Lonnie Mack e di recente Jeff Beck, ma in questo CD il brano non c’è, o perbacco!

Però ci sono altre due brani estratti dal repertorio di Bland, I’ve Been Wrong So Long e Poverty, oltre ad una a testa di quelle che suonavano  BB King e Junior Parker, rispettivamente Bad Breaks e Sometimes: il disco che, diciamolo subito, è trascinante, è stato registrato in un Bar DKDC a Memphis, dove a giudicare dagli effetti sonori del pubblico presente, forse c’era più gente sul palco (ammesso che ci fosse), dieci musicisti, di quelli che erano lì per ascoltare. Ciò nondimeno si tratta di un disco veramente molto bello e scoppiettante: i musicisti coinvolti, sono tra i migliori in circolazione, Marc Franklin alla tromba, Art Edmaiston al sax, Kirk Smothers al sax, Scott Thompson alla tromba e Joe Restivo alla chitarra, fanno parte anche dei Bo-Keys, ma hanno suonato pure nell’ultimo disco di John Nemeth (e in altri precedenti), incensato su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2017/06/27/blues-got-soul-da-una-voce-sopraffina-john-nemeth-feelin-freaky/ , ed alcuni di loro, di recente ma anche in passato, li troviamo proprio con l’ultimo Bland degli anni ‘90, insieme al batterista Earl Lowe, come pure nei dischi di Gregg Allman, JJ Grey & Mofro, Robert Cray, Melissa Etheridge. Quando hanno bisogno di rappresentare il Memphis sound, nuovo e vecchio, chiamano loro, che rispondono alla grande. Il sound in questo Live è volutamente vintage, la chitarra di Restivo, limpida e lancinante, si rifà al vecchio BB King, i fiati al sound di Duke Ellington e altri jazzisti, il deep soul non c’è, arriva solo nell’ultimo brano, una scintillante Love And Happiness di Al Green: le altre canzoni sono quelle dei loro “antenati”, oltre a quelli citati, anche Percy Mayfield, di cui viene ripresa la splendida e maestosa love ballad Please Send Me Someone To Love, cantata meravigliosamente da John Nemeth,   ma non manca qualche brano scritto dai componenti del gruppo.

Per esempio l’iniziale See Why I Love You, firmata da Joe Restivo, che ci rimanda alle grandi R&B Revue, diciamo ancora Blues Brothers, così capiscono tutti, ma pensate a fiati impazziti, brevi assoli e tanto ritmo, oppure Lonesome And High, un blues per fiati, scritto da Nemeth, ma con la chitarra del bravissimo Restivo e il piano di Gerald Stephens in grande spolvero, con un suono volutamente pre-rock, comunque tirato di brutto, oppure la divertente e sincopata Singin’ For My Supper di Marc Franklin, dove Nemeth canta sempre divinamente. Non manca qualche tocco “esoterico” come nella pimpante e misteriosa It’s Your Voodoo Working, che viene dalla New Orleans primi anni ’60, con florilegi fiatistici deliziosi, e ancora This Little Love Of Mine, un successo minore per tale Buddy Ace, nel 1960, nella preistoria del soul, quando si chiamava ancora R&B; per il resto c’è tanto blues alla BB King, come quando nei suoi concerti innestava la sua Orchestra che partiva verso vette inarrivabili, che spesso la Love Light Orchestra riesce ad emulare. Quindi fatevi un favore e cercate questo Live from Bar DKDC in Memphis, TN!, una quarantina di minuti di buona musica e divertimento sono assicurati, non mancate!

Bruno Conti

Il Meglio Degli Anni Del Blues, Fase Due, Raccolto In Un Box. Gary Moore – Blues And Beyond

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Gary Moore – Blues And Beyond – Santuary/BMG Rights Management 4CD/2 CD

Robert William Gary Moore, come altri giovani artisti nati in Irlanda (ma anche e soprattutto in Inghilterra) e vissuti a cavallo tra la fine anni ’60 e i primi ’70, ha vissuto le ultime propaggini dell’epopea del cosiddetto British Blues: Moore si presentava come un arrivo tardivo, visto che la sua carriera inizia intorno al 1968, quando entra negli Skid Row, band dove militava il suo futuro pard Phil Lynott, un gruppo ritagliato sulla falsariga dei Taste di Rory Gallagher, ma soprattutto dei Fleetwood Mac del suo idolo Peter Green, che durante un tour dove la band irlandese faceva da supporto proprio ai Mac lo presentò alla CBS/Columbia, che fece incidere un paio di dischi a Moore e soci. Poi, rimanendo sempre in un ambito blues-rock, pubblicherà un eccellente album solista nel 1973 Grinding Stone, prima di entrare nei Thin Lizzy in sostituzione di Eric Bell (che proprio in questi giorni ha pubblicato un album solo), ma rimanendo brevemente in formazione, per ritornare in pianta più stabile nel periodo di Black Rose, incidendo però con il gruppo la prima versione di Still In Love With You, il suo brano più celebre, per quanto accreditato a Phil Lynott, la cui carriera si intersecherà a più riprese con quella di Moore. Nel frattempo, dopo l’esperienza con i Colosseum II, Gary Moore prosegue la sua carriera solista che però approda ad un hard-rock, per il sottoscritto, abbastanza di maniera e non sempre brillante, per quanto la sua chitarra era sempre in grado di infiammare le platee, soprattutto dal vivo.

Nel 1990 il nostro amico (ri)approda al Blues con una serie di album veramente belli, Still Got The Blues, After The Hours e Blues For Greeny, uscito nel 1995 e dedicato al suo mentore Peter Green, che dopo l’abbandono dei Fleetwood Mac gli aveva affidato la sua Gibson Les Paul del 1959, strumento dal suono splendido. Però i brani contenuti in questo box antologico non vengono da quel periodo, ma dal “secondo ritorno” al blues, quello avvenuto tra il 1999 e il 2004, attraverso quattro album pubblicati per la Sanctuary e di cui, nei primi due CD di questo quadruplo, c’è una abbondante scelta, sempre orientata verso il lato più blues del chitarrista irlandese, per quanto meno limpidi e genuini del periodo Virgin anni ’90, comunque nobilitati da un eccellente scelta di brani Live aggiunti “inediti” inseriti nel CD 3 e 4 del cofanetto, che rivisitano classici delle 12 battute misti a molti dei brani migliori del suo repertorio. Nella bella confezione è anche contenuto un libro, I Can’t Wait, che è la sua biografia autorizzata. Nei primi due dischetti, che si possono acquistare anche a parte, come una buona doppia antologia di quel periodo, spiccano l’iniziale Enough Of The Blues, l’hendrixiana (altro pallino di Moore) Tell Woman, a tutto wah-wah, una lancinante versione di Stormy Monday dove la chitarra scivola maestosa e sicura, una sincera That’s Why I Play The Blues (molti pensano che la svolta blues di Gary fosse dovuta ad a una sorta di opportunismo, ma BB King, che ha suonato spesso con lui dal vivo, la pensava diversamente).

Troviamo ancora Power Of The Blues, tra Gallagher e i Thin Lizzy, una chilometrica Ball And Chain (non quella della Joplin e Big Mama Thornton), di nuovo molto ispirata dall’opera di Jimi Hendrix, la pimpante Looking Back di Johnny Guitar Watson, il lungo e sognante strumentale Surrender, molto alla Peter Green via Santana, la tirata Cold Black Night, un altro slow come There’s A Hole, Memory Pain di Curtis Mayfield, di nuovo molto hendrixiana, l’ottima The Prophet, l’omaggio a BB King nella fiatistica You Upset Me Baby e quello a Otis Rush (e ai Led Zeppelin) in una carnale I Can’t Quit You Baby, un’altra delle sue classiche e sognanti ballate come Drowning In Tears, una cattivissima Evil di Howlin’ Wolf, ma più o meno tutti i brani contenuti nel doppio antologico sono di eccellente fattura, fino alla versione Live di Parisienne Walways del Montreux Festival 2003.

Il doppio CD dal vivo inedito è ancora meglio: versioni fantastiche di Walking By Myself, Oh Pretty Woman veramente ottima, una splendida Need Your Love So Bad che forse neppure Green (forse) avrebbe saputo fare meglio, All Your Love brillantissima e una struggente Still Got The Blues, molto vicina a Santana, lo shuffle perfetto di Too Tired e una devastante versione di 13 minuti diThe Sky Is Crying, con una serie di assoli veramente magistrali, e poi ancora Further On Up The Road, una scatenata Fire di Jimi Hendrix, la trascinante The Blues Is Alright e le versioni dal vivo di Enough Of The Blues e dello strumentale The Prophet. Insomma Gary Moore era uno di quelli di bravi e questo cofanetto lo certifica una volta ancora.

Bruno Conti