Anche Willie Nile Ha Il Suo Pregevole E Meritato Tribute Album! Various Artists – Willie Nile Uncovered

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Various Artists – Willie Nile Uncovered – 2 CD Paradiddle Records

Un album tributo, per di più di ottimo livello come quello che vado a descrivervi, Willie Nile se lo meritava davvero! Il sottotitolo di Willie Nile Uncovered, Celebrating 40 Years Of Music, rende bene l’idea, ma sarebbe stato opportuno aggiungere l’aggettivo Great, perché di grande musica (rock, folk, cantautorale, definitela come più vi piace) il songwriter nato a Buffalo settantadue anni fa ne ha prodotta veramente tanta. Se poi consideriamo le sue immense doti di performer, l’innata capacità di salire su un palco e trascinare qualunque tipo di audience verso l’entusiasmo più puro con la forza e il lirismo delle sue canzoni, diventa scontato ritenere che Willie sia diventato a ragione un punto di riferimento importante per le ultime generazioni di musicisti rock e folk. Per realizzare questo sentito omaggio, l’equipe dell’etichetta indipendente Paradiddle ha assemblato un cast di tutto rispetto, interpellando sia personaggi assai noti, nonchè amici e coetanei di Willie, sia gruppi e solisti emergenti, tutti o quasi con la comune caratteristica di aver svolto gran parte o tutta la propria carriera in quel particolarissimo microcosmo rappresentato da New York City e i suoi dintorni.

Alla Grande Mela Nile ha dedicato parecchie delle sue migliori canzoni, anche nel recente New York At Night https://discoclub.myblog.it/2020/05/20/dopo-40-anni-di-grandi-canzoni-unaltra-splendida-new-york-city-serenade-willie-nile-new-york-at-night/ , e ovviamente alcune le ritroviamo riproposte nel tributo, strutturato in due CD, per un totale di ventisei brani (25 in realtà perché uno si ripete con due diverse versioni). Per mia comodità, suddivido i partecipanti in due gruppi, le vecchie glorie, con nomi illustri nell’ambito del rock e del folk, e gli sconosciuti ai più, tra cui troviamo già tante belle sorprese, al punto da stimolare la ricerca, anche se non facile, di loro precedenti produzioni. Sul primo dischetto si mettono in bella mostra cinque band emergenti dotate di buon sound ed idee, a cominciare dai Leland Sundries, quintetto di Brooklyn, che rivisitano The Day I Saw Bo Diddley In Washington Square inserendo degli incisi ritmici tipici del protagonista del titolo (pensate a Mona o Not Fade Away) ottenendo un effetto notevole. Oppure i Quarter Horse di Long Island che rifanno When Levon Sings (dedicata al compianto Levon Helm) con un adeguato sound elettroacustico e il mandolino in primo piano a condurre la danza. Gli XL Kings ripescano dal mitico disco d’esordio di Willie That’s The Reason, con una discreta atmosfera sixties, ma meglio fanno gli Iridesense con History 101, mostrando grinta e personalità da vendere, guidati dalla brava vocalist Tara Eberle.

Chiude la cinquina una vecchia conoscenza dei locali di Long Island, il chitarrista Russ Seeger, che coi suoi Four Amigos ci regala una vivida versione della bellissima On Some Rainy Day. Tra i solisti troviamo una buona rappresentanza femminile, a cominciare dalla brillante Emily Duff, che, come una novella Michelle Shocked, ripropone Hell Yeah facendone una sorta di gospel acustico, con tamburello e bottleneck. Caroline Doctorow possiede una voce fresca come l’acqua di un ruscello di montagna e rifà con adeguata intensità la malinconica Lonesome Dark Eyed Beauty. Jen Chapin, figlia del famoso songwriter Harry Chapin, vanta buoni precedenti in ambito folk e jazz e qui ci offre una sentita cover per chitarra e voce di una ballad certo non tra le più note del vasto catalogo di Nile, The Crossing (era su American Ride). Annie Mark, cantautrice roots-rock, introduce col banjo la scoppiettante Everybody Needs a Hammer dandone una versione discreta che non sfiora però la trascinante forza dell’originale. Tra i maschietti, invece, si mettono in luce il giovane Pete Mancini (quattro album alle spalle) con una tonica ed efficace Asking Annie Out, Allen Santoriello che trasforma House Of A Thousand Guitar in una divertente honky tonk ballad e il veterano Gene Casey (definito the premier barroom troubadour of Eastern Long Island) che non sfigura riproponendo in stile Johnny Cash quel piccolo capolavoro che è American Ride.

Se grazie ai piccoli calibri l’operazione può già dirsi riuscita, dopo i nomi che ora comincio ad elencarvi vi convincerete che questo Willie Nile Uncovered vale assolutamente la spesa., non indifferente. Richard Barone, già leader della new wave band The Bongos, noto anche come produttore e regista teatrale, si confronta con l’inno Street Of New York e ne realizza una versione piacevole irrobustita da chitarre e batteria, arricchita pure da un godibile video. Niente a che vedere però con il pathos dell’originale, per sola voce, piano e armonica. Alcuni dei vecchi amici di Willie, conosciuti all’inizio della carriera, negli anni in cui frequentava il Greenwich Village esibendosi nei più noti locali, hanno voluto omaggiare il suo talento compositivo, primo fra tutti John Gorka, che mette tutta la sua immensa classe nella limpida rivisitazione di I Don’t Do Crazy Anymore. Lucy Kaplansky, di cui vi invito a riscoprire l’intera discografia, fa scorrere più di un brivido con una versione per solo piano, voce e archi della liricissima When The Last Light Go Out On Broadway, mentre il valentissimo Richard Shindell reinterpreta da par suo la commovente On The Road To Calvary dedicata dal suo autore alla tragica e prematura fine di Jeff Buckley.

Un secondo trittico cantautorale di notevole spessore vede protagonisti Rod Picott, Slaid Cleaves e Dan Bern: il primo scandisce con voce calda e partecipe le parole di Looking For Someone, su un arrangiamento ridotto all’osso, il secondo si avvale di una bella lap steel guitar per aggiungere un ulteriore tocco romantico alla dolce Sideways Beautiful e il terzo dà un po’ di fuoco alle polveri con la bella cavalcata elettrica Life On Bleeker Street, rumorosa e nostalgica rivisitazione della vita trascorsa nel Village. Detto che il bravo Nils Lofgren si cimenta in una vibrante (ma un tantino troppo ampollosa) versione di All God’s Children, il cui testo a parer mio andrebbe insegnato nelle scuole, vado ad introdurvi l’ultimo trittico di interpreti che a parer mio fanno arrivare al top questa già ottima raccolta. Elliott Murphy, solo per il fatto che da tanti anni ormai risiede a Parigi, non poteva che scegliere Les Champs Elysees di cui converte la furia quasi punk in pacato humor, reinventandola come una ballad acustica con tanto di azzeccatissimo trio d’archi sullo sfondo e il solito prezioso intervento chitarristico di Olivier Durand. Chapeau, monsieur Murphy!

Vagabond Moon è il primo grande rock anthem di Willie Nile sempre presente nei suoi concerti come lo è Born To Run in quelli del Boss. Rallentarla fino a farla diventare una gospel song, come fa qui il redivivo Kenny White (cantautore newyorkese di culto), potrà sembrare a molti un sacrilegio, ma funziona, eccome se funziona! L’uso delle voci e del piano è splendido, pregevoli gli interventi di hammond, mandolino e chitarra elettrica, una cover davvero da applausi.

Come merita applausi pure James Maddock, (di cui da poco è uscito il nuovo brillante CD No Time To Cry, a breve la recensione sul Blog) che trasforma in oro tutto ciò che tocca, compresa la deliziosa She’s Got My Heart, che interpreta con il consueto timbro roco spezzacuori e un arrangiamento perfetto. Ho tenuto per ultimo non a caso il leone inglese Graham Parker che si impadronisce del live anthem One Guitar come fosse una cosa sua, cavalcando il pezzo con l’energia di un ventenne, un vero esempio di illuminata longevità artistica. Cosa che manca totolmente al simpatico bassista della band di Willie Johnny Pisano, a cui è stata data l’occasione di registrare una sua versione reggae della suddetta One Guitar, più inutile che dannosa. Né questa né la scialba When One Stands interpretata da tale Henroy Vassell, che cerca, senza riuscirci, di fare il verso a Garland Jeffreys, possono inficiare il giudizio più che positivo su questo doveroso tributo a uno dei più grandi autori di rock stories dei nostri tempi. God bless Willie Nile!

Marco Frosi

Cantautore, Produttore E Straordinario Pianista! Kenny White – Long List Of Priors

kenny white long list of priors

Kenny White – Long List Of Priors – Continental Song City

Dopo il giusto spazio della scorsa settimana dato a David Olney, oggi ci riproviamo con un altro artista sconosciuto ai più (mi auguro come al solito di sbagliare, ma non penso), che risponde al nome di Kenny White. Nome assai noto nel “sottobosco” musicale newyorkese, White, cantautore ed eccellente pianista, produttore (nella sua scuderia sono passati Marc Cohn, Peter Wolf, Shawn Colvin, Cheryl Wheeler, Jonathan Edwards, e Judy Collins, per citarne solo alcuni tra i più noti),  una prima parte della vita spesa nel mondo della pubblicità (jingle man), torna a deliziare gli amanti della buona musica con questo sesto capitolo della sua carriera, Long List Of Priors, a distanza di sette anni dall’eccellente Comfort In The Static (10). E così il buon Kenny dopo aver viaggiato in lungo e in largo gli States, e aperto i concerti, oltre che dei suoi assistiti Shawn Colvin e Peter Wolf, anche di gruppi come i Cowboy Junkies e Rolling Stones, si guadagna in breve tempo una reputazione che lo porta ad esordire con Uninvited Guest (02), a cui fa seguire un EP Testing 1,2 (03), pescando il jolly con il successivo Symphony In Sixteen Bars (04), che finito nelle mani della brava Judy Collins (è stato un colpo di fulmine musicale), lo porta al contratto con la Wildflower l’etichetta americana fondata dalla “signora del folk”, seguito da un altro EP Never Like This (06), e dopo una pausa per le sue attività collaterali (dimenticavo, è anche saggista), torna in studio per incidere il citato Comfort In The Static,e gli amanti di cantautori come Chuck E.Weiss, Randy Newman e affini,  non dovrebbero lasciarselo scappare.

A dimostrazione che il nostro inizia a raccogliere quanto ha seminato, oltre alla sua eccellente band composta da Duke Levine alle chitarre, Marty Ballou al basso e Shawn Pelton alla batteria, porta per il nuovo album negli At Sear Sound Studios di New York City artisti e colleghi illustri quali David Crosby, Peter Wolf, il bravissimo polistrumentista Larry Campbell, senza dimenticare un superbo trio di voci femminili che rispondono al nome di Catherine Russell, Angela Reed e Amy Helm (cantante degli Ollabelle e figlia del mai dimenticato batterista della Band, Levon Helm). Come i precedenti dischi Long List Of Priors è composto interamente da brani originali, partendo subito alla grande con il brano iniziale A Road Less Traveled con David Crosby ai cori, su un tessuto musicale arricchito dal pianoforte di Kenny White e dal violino di Campbell, a cui fanno seguito la suggestiva Che Guevara dove spicca la chitarra di  Duke Levine https://www.youtube.com/watch?v=6eietccd58Y , per raggiungere una delle vette più alte del disco con Another Bell Unanswered (dove ritroviamo ai cori Crosby), una ballata pianistica quasi sussurrata da White, che se fosse stata scritta da altri (non facciamo nomi), sarebbe diventata un classico, mentre Cyberspace è un brano su un tema sociale, costruito su una musica gioiosa suonata al meglio.

Si continua con una ballata elegante come The Other Shore, su un arrangiamento quasi di musica da camera https://www.youtube.com/watch?v=yTXWg7iWaCs , per poi passare al brano più “rock” dell’album Glad-Handed, con la partecipazione speciale dell’amico Peter Wolf https://www.youtube.com/watch?v=XMtQVA6sBow , seguito da un brano solo pianoforte, tromba e cori come Lights Over Broadway, lievemente in chiave “jazz”, mentre la vibrante e profonda Charleston, racconta di un sanguinoso fatto di cronaca ed è cantata in duetto con la brava cantante soul Ada Dyer. Come sempre la parte migliore di Kenny si manifesta nelle ballate piano e voce, ad esempio The Moon Is Low (starei ore ad ascoltarlo), a cui fa seguire un’intrigante West L.A., un brano quasi teatrale (con un testo figlio del Tin Pan Alley sound) che inizia in modo scanzonato, poi nel finale irrompe una sezione fiati e l’arrangiamento si apre in perfetto stile New Orleans; e che dire della delicata Color Of The Sky, dove brilla il clarinetto di Dan Block? Una piccola meraviglia! Come pure 4000 Reasons To Run, una folk-ballad che ricorda per certi versi il primo Bob Dylan, mentre la chiusura di questo disco magnifico, con una sorta di romanza pianistica, è affidata a  The Olives And The Grapes (un omaggio alla Toscana che l’ha premiato con il Premio Ciampi), dove oltre al piano di White sono in evidenza una sezione d’archi, composta da violini, viola e cello.

Ognuna delle tredici canzoni di Long List Of Priors è un piccolo gioiello di raffinato artigianato musicale, con temi (amore, protesta, vita e morte), che White riporta in musica con una scrittura decisa, che si manifesta magistralmente sulla tastiera, con una tonalità vocale (che a tratti ricorda anche James Taylor, ma pure Cat Stevens) che lo rende credibile in ogni sua interpretazione, e con una bravura tale da far apparire semplice, quello che semplice non lo è affatto, confermandolo come uno dei rari autori che riescono in pochi minuti a condensare emozioni. Mentre il pubblico (purtroppo) tende ad essere attratto da parecchie false stelle del rock, un personaggio di talento come Kenny White, nonostante una carriera quarantennale, risulta ancora molto poco conosciuto dal pubblico, ma tutto questo non deve comunque far passare inosservato un lavoro come questo Long List Of Priors, anche se forse richiede più ascolti per essere apprezzato, è in ogni caso una raccolta basilare da aggiungere alla vostra discoteca, per scoprire un autore e pianista eccellente come Kenny White!

Tino Montanari

Sempre Pochi, Ma Sempre Buoni! Peter Wolf – A Cure For Loneliness

peter wolf a cure for loneliness

Sono passati altri sei anni dalla pubblicazione del precedente album di Peter Wolf Midnight Souvernirs, ma il titolo e il contenuto del Post che avevo usato per quel disco http://discoclub.myblog.it/2010/04/10/pochi-ma-buoni-peter-wolf-midnight-souvenirs/, rimangono sempre validi. L’ex cantante della J.Geils Band rimane fedele alla sua cadenza temporale (addirittura il terz’ultimo Sleepless risaliva al 2002), ma anche alla assoluta qualità dei suoi dischi. Al contrario di quanto era accaduto nel periodo precedente, quello che era venuto con i primi album solisti negli anni ’80 e fino all’incirca alla metà degli anni ’90, i dischi di Wolf si erano concessi, come pure gli ultimi con il suo suo gruppo, la citata J. Geils Band, ad un suono commerciale, tamarro ed inconsistente. Poi non so se il cantante di New York abbia trovato la “cura per la solitudine”, ma sicuramente quella per la buona musica sì.Il 7 marzo ha compiuto 70 anni ma, con i suoi ritmi tranquilli, continua a regalarci ottimi album: questo A Cure For Loneliness, che è solo l’ottavo in una carriera ultra trentennale, conferma l’eccellenza e l’eclettismo sonoro espressi con Midnight Souvenirs. Al solito nel menu troviamo rock, ballate suadenti tra il soul e lo stile da crooner, l’amato blues e tracce di pop raffinato e di gran classe, addirittura c’è una rivisitazione in chiave Appalachiana e bluegrass (come la presenta lui) del vecchio classico della J. Geils Band Love Stinks.

Sono solo 37 minuti di musica, 12 brani perfetti, non un secondo sprecato: il disco si apre sulla splendida Rolling On, una canzone soffusa e dall’atmosfera raffinata, scritta come altro quattro con il suo collaboratore da lunga pezza Will Jennings, ed arrangiata in modo sublime dal suo tastierista Kenny White, che è anche il co-produttore del CD, i tocchi di piano e delle tastiere, il lavoro della sezione ritmica, Marty Ballou al basso e Shawn Pelton alla batteria, le note mirate dei due chitarristi Duke Levine Kevin Barry, il delicato sostegno delle armonie vocali di Jeff Ramsey Athene Wilson, tutto contribuisce a sostenere il cantato mirabile di Wolf e gli equilibri sonori di questo brano di grande fascino. It Was Always So Easy (To Find an Unhappy Woman) è una oscura cover di un brano dei primi anni ’70, dal repertorio di Moe Bandy, che pure ebbe qualche successo minore all’epoca (erano gli anni della J. Geils Band), ma la genialità di Wolf sta nell’averla trasformata in una canzone che sembra provenire dal Bob Dylan o dagli Stones più “campagnoli”, tra scivolate di organo alla Al Kooper, rintocchi di armonica, una slide malandrina e una solista pungente, e anche quell’aria vagamente honky-tonk country, e il tutto compresso nei 3 minuti scarsi del pezzo, geniale. Peace Of Mind, di nuovo dell’accoppiata Wolf/Jennings è una soul ballad deliziosa, tipo le cose più ispirate del Willy DeVille  romantico e newyorkese, omaggiato da Wolf nel precedente Midnight Souvenirs.

Dopo un trittico così uno potrebbe aspettarsi un calo di tensione, ma la successiva How Do You Know ci riporta al blues più canonico della prima J. Geils Band, con l’aggiunta della seconda chitarra di Larry Campbell, il pianino indiavolato di White, i fiati degli Uptown Horns, lo stesso Peter all’armonica, nel ruolo che fu del suo vecchio pard Magic Dick, ci dimostra come si suona il blues a tempo di boogie, con le due coriste Ada Dyer e Catherine Russell che lo spalleggiano alla grande, e non è una oscura cover, ma un brano nuovo scritto per l’occasione. Fun For A While è un’altra ballata splendida, con una “weeping pedal steel” e una fisarmonica che alzano il tasso malinconico della canzone, notturna e raccolta, non per nulla i musicisti della sua band, quando sono in tour, si fanno chiamare Midnight Travelers. E proprio a proposito di tour Wastin’ Time, il brano successivo, è registrato dal vivo, di fronte ad un pubblico selezionato, si è soliti dire, un’altra canzone eccellente, un pezzo rock che ci riporta al vecchio sound della J. Geils Band, di nuovo in un suono che è un misto tra Dylan e Stones, di cui nei gloriosi anni di inizio carriera la band di Boston era orgogliosa pari e controparte americana.

Some Other Time, Some Other Place, l’ultimo pezzo firmato dalla coppia Wolf e Jennings vira verso un approccio più acustico, con Larry Campbell alla pedal steel, ma anche al violino, la moglie Teresa Williams alle armonie vocali, Tony Garnier che fa una comparsata al basso e il pezzo, non esagero, lentamente assume uno svolgimento non dissimile da certe cose del Van Morrison più bucolico o dei Waterboys, c’è anche un mandolino sullo sfondo per confermare questo approccio quasi folk, altra canzone splendida. E pure la successiva non scherza: questa volta Peter Wolf ha chiamato Don Covay (quello che ha scritto, per citarne un paio, Mercy Mercy Chain Of Fools, nel frattempo scomparso nel gennaio 2015) per scrivere con lui un omaggio ad un altro grande della musica soul come Bobby Womack, che la doveva cantare in duetto con Peter, ma nel frattempo se ne era andato pure lui. Niente paura, la canzone è rimasta una meravigliosa ode alla soul music più pura e gioiosa, con una spruzzata di fiati e Wolf che canta splendidamente, come d’altronde nel resto dell’album, Non ho detto il titolo? Questo gioiellino si chiama It’s Raining.

L’altro pezzo registrato dal vivo è la cover a tempo di bluegrass di Love Stinks, il più grande successo della J.Geils Band, che se devo dire mi piace molto di più in questa versione che in quella originale, divertente ed irresistibile, con il mandolino di Duke Levine che viaggia a tutta velocità. Mr. Mistake sembra un pezzo alla Buster Poindexter (vi ricordate, David Johansen quando aveva deciso di rendere omaggio alla vecchia musica swing e big band?), e lo fa, senza fiati, ma con la consueta grinta e classe. Che non mancano anche nel pezzo da crooner Tragedy, altra oscura canzone, pure nel repertorio di Brenda Lee Fleetwoods, ma che fu un successo, l’unico, per tale Thomas Wayne & The DeLons, la versione del disco è piacevolissima, con Wolf circondato dalle voci femminili della due bravissime cantautrici Rose Polenzani Kris Delmhorst, qui in una veste insolita. E l’ultima cover è altrettanto “oscura”: una versione, brevissima, un minuto e mezzo, di un vecchio pezzo country, Stranger, dal repertorio di Lefty Frizzell (mi pare la facesse anche Rosie Flores): solo la chitarra acustica di Duke Levine e la voce di Peter Wolf. Diciamo che gli ultimi tre pezzi, anche se comunque piccole delizie sonore, abbassano lievemente la qualità dell’album, che sarebbe quasi da 4 stellette nel suo insieme, ma rimane ottimo, e pensate che pur essendo della major Concord/Unversal non è stato neppure pubblicato in Europa, è solo import dagli States. Adesso aspettiamo il prossimo, speriamo fra meno di 6 anni!

Bruno Conti.

“Nostra Signora” Del Folk! Judy Collins – Live At The Metropolitan Museum

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Judy Collins – Live At The Metropolitan Museum – Wildflower Records 2012 – DVD – CD

Tra i pochi regali di Natale che ho ricevuto, mi fa estremamente piacere recensire questo DVD di Judy Collins  (che è stato già segnalato dal titolare del blog circa un mesetto fa con relativo video). Registrato il 16 Agosto scorso al Metropolitan Museum Of Art di New York,  nella sala dove fa bella mostra di sé il Tempio di Dendur: ed è in questa suggestiva location che la Collins (con Joan Baez e Joni Mitchell, una delle grandi voci della scena folk americana degli anni ’60 e non solo), celebra il 50° anniversario della sua carriera in uno show straordinario, con la partecipazione di vari artisti, coinvolti in duetti e nella rivisitazione di classici della musica americana.

Infatti entrano in scena, di volta in volta, chiamati dalla “musa” Judy, Ani DiFranco, in una sentita rilettura di Pastures Of Plenty di Woody Guthrie, il poco conosciuto ma bravo Kenny White in una versione di Helplessly Hoping di Crosby, Stills and Nash e in Veteran’s Day, Chris Bailey con Some Day Soon, l’amica Shawn Colvin in Since You’ve Asked, e una maestosa Moon Is A Harsh Mistress dal repertorio del leggendario Jimmy Webb. A completare la scaletta del concerto, la Collins pesca da una selezione straordinaria, con brani di Joni Mitchell (Both Sides Now), Joan Baez (Diamonds & Rust), Bob Dylan (Mr. Tambourine Man), una deliziosa Send In The Clowns tratta dal Musical di Stephen Sondheim A Little Night Musice non poteva certo mancare Suzanne del grande Leonard Cohen, eseguita al pianoforte, con relativa dedica all’autore, da lei, in un certo senso, scoperto e lanciato.

Tanto tempo è passato dai nostalgici giorni del Greenwich Village, ma la “nostra signora” Judy Blue Eyes non perde occasione di ricordare le sue origini, e fortunatamente, questo concerto è l’occasione per far rivivere ai suoi ammiratori (che spero non siano pochi) quella indimenticabile esperienza. Per chi scrive, questo è il mio “Concerto di Natale”, e sarei contento che fra tanti regali inutili, questo DVD fosse l’eccezione. Buone feste e l’augurio di un anno migliore.

Tino Montanari

Pochi Ma Buoni. Peter Wolf – Midnight Souvenirs

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Peter Wolf – Midnight Souvenirs – Verve

Non sempre la qualità coincide con la quantità: Peter Wolf certo il problema non se lo pone, sette album solisti in più di 25 anni di carriera solista, tre negli ultimi 12 anni e l’ultimo Sleepless nel 2002. Però che belli! L’ultimo è stato inserito dalla rivista Rolling Stone tra i migliori 500 album di tutti i tempi (considerando che dall’avvento dell’album saranno usciti milioni di titoli non è impresa da poco), ma non è tutto, il precedente Fool’s Parade del 1998 è stato considerato trai 50 dischi più importanti degli anni ’90. Con questi precedenti il nostro amico ci ha abituato certamente bene, ma anche questa volta non delude le aspettative.

Un breve passo indietro. Negli anni ’70 c’erano due gruppi che si contendevano lo scettro di “Rolling Stones americani”, gli Aerosmith dei Toxic Twins Steven Tyler e Joe Perry, che rappresentavano il lato più ribaldo, caciarone, trasgressivo degli Stones e la J Geils Band di Peter Wolf, J Geils e Magic Dick che rappresentava il lato più bluesy, genuino, tradizionale della musica di Jagger & Co.. Ovviamente gli Aerosmith hanno avuto un successo maggiore ma anche la J Geils Band ci ha lasciato, negli anni 70, alcuni album da avere in una discoteca che si rispetti e penso ai due live Full House e Blow Your Face, ma anche Bloodshot e The Morning After tra quelli in studio. Purtroppo tutti li ricordano per l’album Freeze-Frame del 1982, numero 1 nelle classifiche Usa, quello che conteneva l’hit single Centerfold, ma dal sound tamarro, disco-rock, specchio dei tempi. Dopo lo scioglimento Peter Wolf ha fatto anche di peggio con un disco Lights out prodotto da un tipo della Jonzun Crew, electro-sound che ve lo raccomando. Poi dopo una serie di album, diciamo non memorabili, la redenzione negli anni ’90 e 2000. Domanda, secondo voi Mick Jagger e Keith Richards hanno partecipato come ospiti ad un disco degli Aerosmith o di Peter Wolf? Esatto, sono presenti nel disco Sleepless, che se riuscite a trovare giustifica tutte le buone recensioni avute in quegli anni.

Questo Midnight Souvenirs (bellissimo titolo), potremmo dire alla Frassica, Che Bello. Che Bello, Che Bello e farla finita lì, invece parliamone. La prima cosa da notare è lo splendido lavoro in fase di produzione di Kenny White, che suona nel disco anche le tastiere, il basso e la chitarra, e in passato ha collaborato con Judy Collins, Cheryl Wheeler e Marc Cohn, giusto per citarne alcuni, oltre ad avere pubblicato dei CD a nome proprio. 

Si apre con l’eccellente country-soul-blues di Tragedy, un duetto con Shelby Lynne oserei dire perfetto, con le due voci che si integrano perfettamente, si prosegue con la trascinante I Don’t Wanna Know un rocker con armonica a tutta birra. La Bluesata Watch Her Move ha un groove che farebbe la gioia di Charlie Watts e degli Stones tutti, con coloriture errebì da sballo e una bella chitarra alla J Geils band. There’s Still Time è un meraviglioso mid-tempo ancora stonesiano (è una caratteristica di tutto l’album), con fiati, chitarre acustiche, coretti, tutti gli ingredienti giusti che fanno grande l’arrangiamento di un brano, se il brano stesso ha sostanza e questo ce l’ha.

Lyin’ Low è un’altra piccola meraviglia di equilibri sonori, con piano e chitarra acustica, a contendere all’organo l’attenzione dell’ascoltatore, Wolf canta con divina nonchalance. The Green Fields Of Summer è il delizioso duetto con Neko Case, una ballata impreziosita da un violino che le conferisce echi celtici, una canzone d’amore inconsueta per chi conosce il “solito”  Peter Wolf ma realizzata con tutta l’esperienza di un 64enne che è diventato un grande cantante a livello interpretativo, tra le cose migliori del disco. Thick as Thieves è un altro funky-blues molto Jaggeriano. Always Asking For You ci trasporta in territori country, ma con gran classe, ragazzi! Then It Leaves Us All Behind è l’unico brano non memorabile, l’unica traccia dove prevale un certo bland-rock che non si amalgama col resto del disco.

Poteva mancare il lato più carnale della musica di Wolf? Certo che no e allora vai con il soul-errebi Philly misto Stax di Overnight Lows con recitativo alla Isaac Hayes o alla Barry White (ma non ha il vocione), però estrae dal cilindro un falsetto malandrino che si fonde coi coretti perfetti e con certe rullate tra reggae e funky d’annata, chitarra-sitar e goduria suprema. A questo punto Wolf non lascia ma raddoppia con il funky in perfetto stile New Orleans alla Meters di Everything I Do Gonna Be Funky, quasi una dichiarazione d’intenti.

Le migliori le ha tenute per la fine, Don’t Try To Change Her è il più bel brano dei Rolling Stones, ma direi degli ultimi trent’anni, una ballata mid-tempo nella migliore tradizione Jagger-Richards, solo che la firma è Peter Wolf! The Night Comes Down è un meraviglioso brano dedicato a Willy Deville nella miglior tradizione del grande Willy che tanto ci manca, una piccola meraviglia che sigilla un album stupendo. La ciliegina sulla torta è il duetto finale con Merle Haggard It’s Too late For Me un brano country dove Haggard estrae dall’ugola la sua migliore interpretazione degli ultimi anni (ma il nuovo album in uscita tra breve potrebbe sorprendere molti) e Peter Wolf non sfigura al confronto, è strano perché mi è sembrato di ascoltare un duetto tra due Willie Nelson quasi gemelli vocali, molto bello, come tutto l’album uno dei migliori di questo 2010. Gran classe!

Bruno Conti