Vecchi Credenti E Nuovi Emergenti! Cory Chisel & The Wandering Sons – Old Believers

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Cory Chisel & The Wandering Sons – Old Believers – ReadyMade Records 2012

Si era già fatto notare anche nell’album della Preservation Hall Jazz Band Preservation,, nel quale si esibiva insieme a molti altri ospiti, in quanto la sua formazione gospel ben si sposava con l’intero progetto. A distanza di un paio d’anni (anche tre) dall’eccellente Death Won’t Send A Letter , ottimamente recensito sul suolo americano, ma ignorato dalle nostre parti (a parte il titolare di questo blog. *NDB Era un Post con altri artisti piccoli-gioiellini-dagli-states-langhorne-slim-maldives-e-co.html), Cory Chisel si ripresenta con questo Old Believers, prodotto dal suo amico Brendan Benson. Il gruppo dei The Wandering Sons, nativi di Appleton nel Wisconsin, ha esordito con Again From The Beginning (2004) dal suono folk-rock, seguito da alcuni EP di buona fattura come Darken Your Door (2005), Little Bird (2006), Cabin Ghost (2008), e il già menzionato Death Won’t Send A Letter (2009) che ha portato Cory ad essere nominato artista dell’anno 2010 nel nativo Wisconsin.

Registrato, tanto per cambiare, in quel di Nashville, oltre alla voce femminile di Adriel Denae Harris (vero cognome Harris ma ultimamente preferisce farsi chiamare Denae, per la precisione) anche alle tastiere, si avvale della presenza di ben due Cardinals. ex “pards” di Ryan Adams, Jon Graboff alla pedal steel e chitarre e Brad Pemberton alla batteria e percussioni, oltre a Ian Craft al banjo e violino, Brady Surface al basso, Mark Watrous alle chitarre acustiche ed elettriche, oltre alla presenza rilevante  di Brendan Benson (Raconteurs), che ha curato la produzione. L’intro è affidato alla dolce Adriel con This Is How It Goes, mentre I’ve Been Accused e Old Love sono brani che richiamano sonorità anni ’70, e a seguire una “dylaniana” Never Meant To Love You con al controcanto la Denae, per poi cambiare con Please Tell Me che inizia come una love song elettrica ( ancora molto anni settanta), ma poi si apre con un arrangiamento geniale.

Laura ha un intro pianistico ed un incedere maestoso, una composizione lenta, soffice, molto melodiosa, sempre con il piano al centro dell’attenzione, splendidamente cantata da Cory, seguita da un’altra ballata Foxgloves, tra folk e pop, che cresce nel finale, quando un coro si unisce alla voce  del leader. Un arpeggio di chitarra introduce She Don’t Mind , tenue, dolce, molto raccolta,  sembra uscita dalla penna gentile di Ron Sexsmith, mentre si cambia registro con Times Won’t Change con una base folk-rock che viene ampliata dal violino di Ian Craft che invita a ballare. Si riparte alla grande con Seventeen cantata e scritta a quattro mani con Adriel, una ballata tipica della scuola “soul” anni sessanta, e chiudono il CD, tra i più belli di quest’anno, Over Jordan una brano venato di blues, e la struggente e profondamente malinconica Wood Drake, una splendida ballata elettroacustica, con la batteria che detta il ritmo, mentre l’hammond scivola in sottofondo.

Cory Chisel & The Wandering Sons con questo Old Believers ci regalano una dozzina di canzoni di buona levatura, suonate alla grande, dalla scrittura solida e sicura, con i “cromosomi” del classico rock americano, figlio di gente come Petty, Springsteen e Ryan Adams, un lavoro che cresce ascolto dopo ascolto e che, brano dopo brano, conquista per la sua varietà e la profondità dei brani medesimi. Non lasciate che questo lavoro passi inosservato, sarebbe un delitto per un artista che può rappresentare il futuro della musica “americana”, e per il sottoscritto un disco da centellinare come un cognac d’annata.

Tino Montanari 

*NDB. Questo è proprio bravo!

I Migliori Dischi Del 2011! Un Anno di Musica.

 

 

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Aiutato dai due “pensatori” effigiati qui sopra eccomi al primo appuntamento sul meglio del 2011 in musica. In questo caso secondo chi scive su questo Blog (poi arrivano anche i 2 collaboratori). Come dicevo lo scorso anno si tratta di una lista provvisoria, i primi 10 (che mi sono venuti in mente) da inserire nella classifica del Buscadero, rivista alla quale collaboro, come molti di voi sapranno, se no lo sapete adesso! Nei prossimi giorni poi aggiungerò e elaborerò questo elenco con tutti i titoli che sono sfuggiti o non sono rientrati nella prima stesura per motivi di numero chiuso (e già si agitano per essere stati dimenticati).

Sono in ordine sparso come da elenco inoltrato:

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 Fleet Foxes – Helplessness Blues

 

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June Tabor & Oyster Band – Ragged Kingdom

 

Lucinda Williams – Blessed

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Decemberists – The King Is Dead

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Cowboy Junkies – Demons – The Nomad Series Volume 2

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John Hiatt – Dirty Jeans And Mudslide Hymns

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Ryan Adams – Ashes And Fire

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Richard Thompson – Live At The BBC 4CD Box

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Israel Nash Gripka – Barn Doors And Concrete Floors/Live At Mr.Frits

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James Maddock – Wake Up And Dream/Live At Rockwood Music Hall

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Lo so, sono 12 perché cerco sempre di barare e perché sono usciti entrambi nel 2011. Questo per iniziare, sono in ritardo di un giorno, lo scorso anno il Post era uscito il 7 dicembre. Nei prossimi giorni altre classifiche, liste delle più importanti riviste, Mojo, Uncut, Q, Rolling Stone, Spin e Blog e siti in giro per il mondo, oltre agli approfondimenti del sottoscritto e degli “Ospiti” del Blog. Se volete mandare le vostre lo spazio nei Commenti è sempre aperto. In ogni caso, nonostante la crisi, è stata una buona annata.

Ci risentiamo e vediamo nei prossimi giorni.

Bruno Conti

Un Altro Texano Doc! Nathan Hamilton – Beauty Wit And Speed

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Nathan Hamilton – Beauty Wit and Speed – Nathan Hamilton 2011

Confesso subito di avere un debole per Nathan Hamilton, per il suo modo semplice di intendere la figura del cantautore, per le sue canzoni così emozionanti, per il suo stile diretto e personale. Alcuni suoi lavori sono nella lista dei miei dischi preferiti da sempre e comunque, l’esordio di Tuscola del 1999 è in assoluto il CD a cui sono più legato, sia per la struttura musicale dell’opera in questione, sia per le sue influenze musicali da ricercare in alcuni songwriters texani. Nathan nato e cresciuto ad Abilene in Texas, attualmente vive e risiede da 15 anni ad Austin, e nel tempo ha pubblicato 5 album da solista oltre al menzionato Tuscola, All for love and wages del 2002, Live at Floore’s Country Store del 2003, Six black birds del 2007, e Receive del 2008 di difficile reperibilità, e 2 in qualità di membro della Good Medicine Band.

L’album co-prodotto con l’ingegnere del suono Britton Beisenherz, è stato registrato negli studi Ramble Creek di Austin, e si avvale di meravigliosi musicisti come Kevin Russell  dei Gourds al mandolino, Jeff Lofton alla tromba, Greg Vanderpool alle chitarre, Amy Cook al controcanto, e altri “turnisti” di valore. Se il clima prettamente cantautorale del suo promettente debutto aveva svelato un autore sensibile, il nuovo lavoro Beauty Wit & Speed a distanza di anni sembra ripartire da quelle salde basi con un suono notevolmente elettrificato, con ballate epiche e passionali.

L’apertura è affidata ad una pianistica A red thread runs, brano strumentale molto delicato, cui fa seguito una ballata Through ether and time con uno stupendo cantato in versione John Hiatt e In all that we might find, altro brano di spessore con il mandolino “pizzicato” di Russell e la voce delicata al controcanto della bella Amy Cook. Un suono “desertico” introduce Fire to Metal con una ritmica saltellante, impreziosita dal suono delle chitarre. Si ritorna ad una ballata intimista Rust of Age, con il piano di Nathan e la tromba di Lofton a disegnare un tessuto sonoro di rara bellezza. Si cambia decisamente ritmo con una The heart that aches to open vagamente “pettyana”, dove tutta la band si esprime al meglio per un brano che eseguito dal vivo troverà una sua dimensione ottimale. Detto questo, non si può ignorare il fascino “fuorilegge” di Until we both believe, ballata country-rock dal passo sciolto che mette in risalto lo stile romantico di Hamilton. Un accordo di chitarra introduce Our Roadside Prayers, ennesima traccia ballad oriented dalla melodia solare, che sembra uscita dall’ultimo bellissimo lavoro di Ryan Adams Ashes & Fire, cui fa seguito la “perla” del CD, una The days of Caution cantata in coppia con Amy Cook, che parte in versione sognante, per finire con un crescendo micidiale per l’intensità del suono che si dilata nella parte finale, una canzone considerata dal vostro umile recensore tra le più belle dell’anno. Chiude il disco A prism of Grace una composizione soffice e quasi acustica, seguito da un altro brano strumentale To the days Reprise per chiudere degnamente il cerchio di un disco splendido.

Se amate i songwriters texani, non perdetevi questa proposta di Nathan Hamilton, sperando che il tempo renda giustizia a questo cantore di una America perduta, dove ogni sua canzone colpisce l’immaginario dell’ascoltatore con ballate languide tra musica e poesia che, rimandano alle infinite praterie della sua terra. Grande disco Nathan. !!!

Tino Montanari

Poche Balle, E’ Proprio Bello! Ryan Adams – Ashes And Fire

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Ryan Adams – Ashes And Fire – Pax-Am/Columbia

Mi sono preso tutto il tempo per ascoltarlo bene e con calma in questa settimana (tanto esce l’11 ottobre) e devo ammettere che mi piace molto, questo Ashes And Fire del “ritrovato” Ryan Adams è un bel disco, per metterla giù semplice! Ritrovato, ma dove era andato? Semplicemente si era preso del tempo per risolvere i suoi problemi fisici causati da una vita di eccessi che aveva minato la sua salute, mentale e fisica, perché spesso nei comunicati rilasciati sul suo sito straparlava, anche nell’ultimo, quello dove annunciava lo scioglimento dei Cardinals e il suo ritiro dalle scene, tra liti con la stampa, (rea di non trattarlo bene, ma non sempre) e le varie case discografiche che dovevano sottostare ai suoi capricci. Insomma, un carattere di merda! Ma questo non gli impediva di fare ancora dei dischi belli (ogni tanto) e discreti (il più delle volte, ma comunque nettamente superiori a molto di quello che circola abitualmente) anche se lontani dai vertici di Heartbreaker, Gold o dei tempi dei Whiskeytown. A me III/IV non era dispiaciuto, ma il disco Orion, pseudo-metal era una cagata pazzesca.

Questo aveva fatto sì che musicisti come James Maddock, Israel Nash Gripka o Ray LaMontagne, tanto per citarne alcuni, lo avessero superato a destra, con le loro vetture musicali senza neanche mostrargli la freccia. Bravi, molto bravi, ma non più di lui. Il nostro amico dice che la scintilla che gli ha riacceso la voglia di fare musica di qualità è stato l’ascolto di un disco di Laura Marling, non l’ultimo, quello prima, I Speak Because I Can che secondo lui denotava la capacità di realizzare dischi di “sani principi” musicali da parte della ragazza (e non aveva ancora sentito quello nuovo che è anche meglio giovani-talenti-si-confermano-laura-marling-a-creature-i-don.html)) e ha riacceso la sua ispirazione. Per mantenere il paragone automobilistico, si è preso un autista di lusso, Glyn Johns (il babbo di Ethan che aveva prodotto i suoi dischi migliori) e con questo signore alla guida della nuova vettura li ha risuperati in tromba. D’altronde uno che ha prodotto Beatles, Who, Dylan, Stones, i primi 3 Eagles e “qualcun” altro (ogni tanto cannando, le sue produzioni di New Model Army e Gallagher & Lyle non sono entrate nella storia), difficilmente, alle prese con un musicista di talento, avrebbe potuto causare un pasticcio. E poi le sue tecniche di registrazioni, calde, analogiche, con una grande presenza del suono, 40 anni fa erano talmente avanti che oggi sono ritornate di moda.

Quindi state per ascoltare un capolavoro? Magari no, ma come dicevo prima, un bel disco sicuramente, uno dei migliori del 2011 e per uno che da molti critici era dato per spacciato non è un brutto risultato, e la stampa di tutto il mondo (che non sempre lo sopporta) lo ha sottolineato con una serie di ottime recensioni, quasi tutte da 4 stellette meno Uncut più prudente con 3 ma con un giudizio nettamente positivo.

Questo è il classico disco da cantautore, come quelli che negli anni ’70 facevano gente come Elton John (Tumbleweed Connection, il suo più “americano”), James Taylor (Sweet Baby James o Mud Slide Slim, Fire and Rain – Ashes and fire, qualche analogia c’è) o Gram Parsons, mica bruscolini, per non parlare di Neil Young. Dischi dove in teoria succede poco a livello musicale, ma quel “poco” viene eseguito in modo divino, tra chitarre acustiche, un piano (Norah Jones o Benmont Tench ma anche lo stesso Ryan), un organo (ancora Benmont Tench, veramente magnifico), una sezione ritmica discreta ma presente e su tutto la voce ispiratissima di Ryan Adams che inanella una serie di ballate calde ed avvolgenti, a partire dalla magnifica Dirty Rain dove l’organo di Tench disegna magici ghirigori intorno agli altri strumenti. Anche Ashes and Fire con quel suo suono tra la West Coast dei primi Eagles, certe sonorità della Band e quell’onnipresente pianino che mi ricorda l’Elton John degli inizi è una gran della canzone, c’è anche uno dei rari, ma efficaci, assoli di chitarra elettrica ben delineata dalla produzione di Glyn Johns, attenta a tutti i particolari.

Ho una particolare predilezione per un brano come Come Home (non è un rafforzativo, in inglese è così) che inizia con un giro di chitarra acustica che esce pari pari dai solchi dei dischi più belli di James Taylor e cresce lentamente, con dolcezza, fino al minuto 1’17” quando entrano contemporaneamente una pedal steel e la seconda voce di Norah Jones e il rito dei vecchi duetti indimenticabili tra Gram Parsons ed Emmylou Harris rivive con forza, veramente una canzone memorabile. Rocks magari non terrà fede alla lettera al suo titolo ma ricorda molto la musica del Neil Young dei primi album, quello meno rocker ma grande balladeer, intenso e quasi sussurrato in un leggero falsetto, questo brano ha molti punti in comune con l’opera del canadese e il leggero arrangiamento di archi aggiunge una patina di malinconia a tutto l’insieme. Do I Wait è un’altra bellissima, direi maestosa canzone dalle atmosfere sospese con l’organo di Benmomt Tench ancora una volta grande protagonista e l’assolo di chitarra che guida il crescendo finale prima del ritorno alla quiete. Molto bella anche la breve Chains Of Love (ma ce n’è una brutta?) con il dualismo tra le chitarre e la sezione di archi e la voce più spiegata di Ryan Adams.

Invisible Riverside mi ha ricordato per ceri versi la musica del suo “concorrente” Ray LaMontagne che a sua volta prende la sua ispirazione da Van Morrison (che però ricorre nella musica di entrambi, e lui, Van, lo sa e si incazza, perchè nessuno lo riconosce), il minimo comun denominatore è la produzione di Ethan Johns (sorgono antichi ricordi scolastici, sembra di parlare di Plinio il Giovane e Plinio il vecchio, entrambi saggi filosofi come i rappresentanti della famiglia Johns). Save me di nuovo con pedal steel a manetta, di nuovo con la seconda voce di Norah Jones, di nuovo quel country “cosmico” che tanto piaceva nei primi anni ’70 e sembra ritornare ciclicamente, archi, piano, organo e la sezione ritmica più presente sono gli altri elementi indispensabili. Non sarà mica una bella canzone? Mi sa di sì!

E pure Kindness, gli elementi sono quelli del brano precedente, meno la pedal steel ma con il piano aggiunto di Norah Jones e la sua voce dolce e sussurrata che si integra alla perfezione con quella di Ryan Adams, nel finale anche l’immancabile organo d’ordinanza e una chitarra acustica si contendono con il pianoforte la guida del brano mentre i due gorgheggiano che è un piacere. Lucky Now secondo alcune critiche ricorda il Jackson Browne più Westcoastiano degli inizi, ma ci sarà anche lo zampino di Glyn Johns che era dietro alla consolle nei primi 3 dischi degli Eagles, quelli che viaggiavano su queste coordinate. L’ultimo assolo di chitarra elettrica del disco (chi la suona? Non ho le note del CD, non vi so dire) suggella i paralleli.

Si chiude con un’altra…bellissima, indovinato! ballata younghiana, cantata anche in falsetto per togliere ogni dubbio. si chiama I Love You But I Don’t Know What To Say, una bella dedica alla sua dolce metà Mandy Moore, sposata in piena crisi nel Febbraio 2009 e che sembra avere portato stabilità e serenità nella sua vita e nella sua musica.

A me piace, sentitelo e mi farete sapere, ma anche no.

Bruno Conti

Novità Di Ottobre Parte I. Feist, Hank Williams Tribute, Paul McCartney, Julian Lennon, King Crimson, Indigo Girls, Bonnie Prince Billy, Merle Haggard

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La prima settimana di ottobre si annuncia ricca di uscite discografiche per il 4 ottobre e se vi state chiedendo se ho fatto apposta a mettere in sequenza i nomi di Paul McCartney e Julian Lennon, la risposta è sì!

Torna (Leslie) Feist con il suo quarto album di studio per la Interscope/Universal, dopo quel CD+DVD con documentario e materiale dal vivo intitolato Look At What The Light Did Now e anche dopo il “successo” della cover di The Limit To Your Love di James Blake (perché se qualcuno non se ne era accorto l’ha scritta lei). La nostra amica canadese ci propone la sua solita miscela di momenti intimi e riflessivi e pezzi pop più esuberanti ma sempre molto eleganti. Esce il 4 ottobre come tutto il resto di cui leggete qui, anche se in alcuni paesi europei è già stato pubblicato il 30 settembre.

Nei cassetti di Hank Williams (quello vero) a quasi 60 anni dalla morte hanno trovato dei bloc-notes con degli appunti relativi a testi per delle canzoni mai incise. Differentemente dal caso degli “inediti” di Woody Guthrie affidati a Billy Bragg e ai Wilco per essere completati, questa volta Mary Martin, che è una veterana dell’industria musicale americana, si è rivolta ad un noto appassionato della musica di Williams, tale Bob Dylan, che a sua volta ha chiamato altri dodici artisti per registrare questi dodici brani. Il risultato è rispettoso dello stile di Hank Williams ma ognuno li ha fatti secondo il proprio gusto musicale e la lista di brani e artisti è questa…

  1. You’ve Been Lonesome, Too – Alan Jackson
  2. The Love That Faded – Bob Dylan
  3. How Many Times Have You Broken My Heart? – Norah Jones
  4. You Know That I Know – Jack White
  5. I’m So Happy I Found You – Lucinda Williams
  6. I Hope You Shed a Million Tears – Vince Gill Rodney Crowell
  7. You’re Through Fooling Me – Patty Loveless
  8. You’ll Never Again Be Mine – Levon Helm
  9. Blue Is My Heart – Holly Williams
  10. Oh, Mama, Come Home – Jakob Dylan
  11. Angel Mine – Sheryl Crow
  12. The Sermon on the Mount – Merle Haggard                     

Come vedete non solo country e gli artisti sono 13 perchè Vince Gill e Rodney Crowell duettano tra loro, etichetta Columbia (o meglio Egyptian, che è quella di Dylan ed è la stessa dove era uscito il Tributo a Jimmie Rodgers nel 1997). Babbo e figlio nello stesso disco per la prima volta?

Ennesimo nuovo album (ho perso il conto) per Bonnie Prince Billy alias Will Oldham, si intitola Wolfroy Goes To Town e l’etichetta è sempre la Domino Records. Secondo Wikipedia è il 21° in meno di 20 anni, bella media e anche il disco non sembra male!

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No , non è il nuovo album di cover di Paul McCartney. Si tratta dell’ennesima escursione nella musica classica: oratori, musica sinfonica e per coro e orchestra aveva già dato, mancava un balletto ed ecco questo Ocean’s Kingdom una composizione in 4 movimenti che esce per la Hear Music/Mpl/Decca a seconda dei continenti. Adesso deve solo trovare un coreografo che gliela porti in scena. (ritiro tutto perché ho visto su YouTube che la premiere c’è già stata!).

Julian Lennon è il primogenito di John Lennon (che fra pochi giorni, il 9, avrebbe compiuto 72 anni) e non pubblica dischi dal lontano 1998 quando uscì Photograph Smile, senza grande successo.In questo Everything Changes in effetti non cambia molto, però sono piacevoli brani in stile pianistico, forse come avrebbe suonato suo padre se fosse ancora vivo (la voce è identica), vagamente sullo stile di Double fantasy. L’etichetta è la Nova Sales and Distribution.

Tornano anche le Indigo Girls con un nuovo album dopo quello natalizio dello scorso anno. L’etichetta è sempre la Vanguard, esce il 4 negli States e l’11 in Europa. Torna Peter Collins che aveva prodotto due dei loro album migliori, Rites Of Passage del 1992 e Swamp Ophelia del 1994. Il disco si chiama Beauty Queen Sister e tra gli ospiti ci sono Lucy Wainwright Roche in War Rugs, un brano su quello che è successo in Egitto, il violinista Luke Bulla in Yoke, gli Shadowboxers un gruppo vocale maschile in We get To Feel It All, Carol Issacs al piano, Eamon De Barra a flauti e flautini e il cantautore irlandese Damien Dempsey alle armonie vocali nella celtica Damo, Brady Blade alla batteria e Viktor Krauss al basso. Non ho avuto tempo di sentire ma suona promettente.

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Altre due nuove uscite nella serie delle ristampe in CD+DVD della discografia dei King Crimson per la serie del 40° anniversario a cura di Steven Wilson. Questa volta nella serie un po’ ondivaga e non proprio cronologica è il turno di Starless and Bible Black e Discipline. Etichetta Panegyric come al solito e tra audio e video molto materiale inedito sia in studio che dal vivo, più nel primo che nel secondo album.

Merle Haggard sta vivendo una seconda (o terza) giovinezza con la nuova etichetta Vanguard e questo Working In Tennessee presenta molto materiale scritto per l’occasione, un paio di classici dell’amico Johnny Cash e una nuova versione di Working Man Blues con Willie Nelson e il figlio Ben Haggard. Anche questo esce il 4 ottobre in America e il 18 in Europa.

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Una anticipazione sulle Anticipazioni. Uscirà l’11 ottobre per la sua etichetta Pax-AM, distribuzione Sony in Europa e Capitol in America ma il nuovo Ashes and Fire di Ryan Adams è veramente molto bello, ho appena finito di dargli un ascolto e la prima impressione è che sia tornato ai livelli di Heartbreaker e Gold, più il primo che il secondo, con molti brani pianistici con Norah Jones che fa la parte che fu di Emmylou Harris ai tempi e Benmont Tench alle tastiere, morbido senza essere troppo acustico e lui che canta in una via di mezzo tra il primo Elton John, Neil Young e il miglior Ryan Adams. La produzione è affidata a Glyn Johns (quello di Beatles, Dylan, Who, Clash e Stones) e i risultati si sentono, confermo, proprio bello! Qui lo potete sentire anche voi first-listen-ryan-adams-ashes-and-fire?sc=emaf

Bruno Conti

Un Onesto Rocker Da NY City. Jesse Malin – LOve It To Life

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Jesse Malin & The St. Marks Social – Love It To Life – Side One Dummy Records

Questo è il quinto disco da solista di Malin se si esclude il live Mercury Retrograde e un altro strano disco dal vivo, chiamiamolo un bootleg ufficiale che, bizzarramente, tanto per non creare confusione, aveva lo stesso titolo di questo album.

Per molti, giustamente, la figura di Jesse Malin è legata al brano Broken radio, una intensa ballata pianistica cantata in duetto con Bruce Springsteen che appariva su quello che è forse il suo disco migliore, quel Glitter in The Gutter che gli aveva regalato recensioni positive un po’ sulla stampa di tutto il mondo, Italia compresa. Ma già il suo primo album The Fine Art Of Self Destruction, prodotto dall’amico Ryan Adams, conosciuto ai tempi del suo primo gruppo i D Generation, di cui Adams era un fans, aveva generato buone vibrazioni musicali. Dopo l’album del 2007 Malin aveva avuto un periodo di super attività, con il bootleg live dello stesso anno, il disco di cover On Your Sleeve nel 2008 e, sempre nello stesso anno, il live ufficiale, poi silenzio. Cominciavano a correre voci su un suo presunto ritiro o forse era semplicemente la difficoltà di trovare una nuova etichetta o un semplice calo di ispirazione, fatto sta che dopo avere vissuto sul divano della sorella per qualche mese (pur essendo proprietario di bar e ristoranti in quel di New York), la ri-lettura di JD Salinger e la visione di un film sullo scrittore americano lo ha convinto a riprendere la chitarra in mano. A questo punto ha sospeso il progetto di un documentario sui Bad Brains ed insieme an un gruppo di amici definiti The St. Marks Social ha realizzato questo nuovo disco.

Prodotto da Ted Hutt, ex membro fondatore dei Flogging Molly (di cui è stato anche produttore, così come di Gaslight Anthem e Lucero), non si avvale dell’operato di nomi noti o collaboratori illustri, se vogliamo escludere la presenza del batterista Randy Schrager che ha suonato nei Scissor Sisters.

A richiesta diretta, in un’intervista, gli hanno chiesto di che genere musicale si trattasse e Malin ha risposto, testualmente: “Power-punk-pop-tribal-roots-new Wave-New York-shake appeal-Wang Chung-emo-singer-songwriter-cultural folk-peace punk liberation!”, sottoscrivo il tutto e concluderei la recensione qui. Scherzi a parte, ma non troppo, gli hanno anche chiesto le sue influenze musicali: “I Clash, l’Elton John di Goodbye Yellow Brick Road, Neil Young, Bad Brains, Cheap Trick e Replacements, tombola! Tra i contemporanei Wilco, Spoon, Gaslight Anthem, Hold Steady e Lucinda Williams. Anche in questo caso sottoscrivo e concludo. Non si può? Vabbè.

L’album contiene dieci brani, trentacinque minuti di musica, sano rock’n’roll con qualche pausa di riflessione: le danze si aprono con l’ottima Burning The Bowery, il singolo di cui si farà anche un video, due chitarre, basso e batteria, la voce particolare di Jesse Malin, un inno alla città di New York, cori antemici, chitarre tintinnanti alla Big Country degli esordi, un inizio perfetto, come in tutti i dischi di rock che si rispettino il 45 giri di traino all’inzio del disco. Coretti stile sixties, un basso pulsante, chitarre in overdrive, ritmi “forti”, come se i Replacements non si fossero mai sciolti, energia allo stato puro, cantato con inusitata veemenza da un Malin motivatissimo, ah il titolo All The Way From Moscow, dimenticavo! The Archer, chitarre acustiche e tastiere, un melodico midtempo da cantautore “puro”, è un altro bell’esempio della bella scrittura di un Malin ispiratissimo. Lo stato di grazia prosegue con l’ottima e antemica St. Marks Sunset, chitarre in Paradiso e ritmi spezzati, ritornelli che ti rimangono in testa, insomma quel genere di musica citato dall’autore stesso, quale? Non saprei.

Jesse Malin non ha la voce di Willy DeVille, ma Lowlife in High Rise potrebbe averla scritta il gitano newyorkese: atmosfere sixties, ritmi vagamente latini, una melodia gentile ed insinuante, brano meraviglioso e accattivante ti entra sottopelle. Viceversa Disco Ghetto potrebbero averla scritta solo i Clash, basso pulsante, ritmi spezzati, chitarre choppate, direi epoca tra Sandinista e la svolta commerciale di Combat Rock, come dite? Rock The Casbah parte 2, potrebbe, più o meno, comunque non male. Con Burn The Bridge i tempi accelerano, i cori sono di nuovo antemici, le chitarre tornano a ruggire, Malin ci mette la solita energia inesauribile e il risultato ti soddisfa. Revelations si situa in quei territori frequentati anche da Hold Steady e Gaslight Anthem, la lezione Springsteeniana rivisitata attraverso l’ottica di vecchi punkers invecchiati, marurati ma non pentiti, con tanto di uoh uoh uoh immancabili, dal vivo dovrebbe fare un figurone. Black Boombox, velocissimo superpunk alla Stiff Little Fingers è l’unico brano non particolarmente memorabile di questo album.

La conclusione è affidata a Lonely At heart, inizio alla Lou Reed, svolgimento in crescendo Orbisoniano, altro monumento alla ritrovata creatività del nostro amico Jesse Malin, un onesto rocker from New York City che fa dall’ottima musica.

Per chi se la fosse persa, tanto per avere una idea di cosa vi aspetta, il disco nuovo esce la settimana prossima.

Bruno Conti