“Piccolo” Genietto Della Musica Degli States, Ma Grande Talento! Victor Wainwright And The Train – Memphis Loud

victor wainwright memphis loud

Victor Wainwright And The Train – Memphis Loud – Ruf Records

Sesto album complessivo, e secondo con i Train dopo l’eccellente disco omonimo di due anni fa https://discoclub.myblog.it/2018/04/14/un-grosso-artista-in-azione-in-tutti-i-sensi-victor-wainwright-the-train-victor-wainwright-and-the-train/ , per Victor Wainwright, da Savannah, Georgia, piccolo genietto o grande artigiano, a seconda dei punti di vista, portatore sano di musica roots del Sud degli States, uno stile che spazia con assoluta nonchalance dal blues, financo il jump blues, passando per il big band swing, il rock and roll, le ballate ora jazzy e notturne, ora malinconiche, una abbondante razione di Gumbo da New Orleans, il R&B e il soul di Memphis, ricordati nel titolo del CD e qualsiasi altro genere gli passi per la testa, boogie woogie, barrelhouse, gospel, voi li pensate, lui e la sua band li eseguono. Band che è rimasta invariata anche in questo nuovo Memphis Loud, per la famosa equazione “squadra vincente non si cambia”: ed ecco la solida, pimpante e raffinata sezione ritmica con Billy Dean alla batteria e Terrence Grayson al basso, Pat Harrington e Greg Gumpel alla chitarra (in un paio di brani anche Monster Mike Welch), e qualora serva anche il co-produttore dell’album Dave Gross, una piccola ma efficiente sezione fiati con Mark Earley sax e Doug Woolverton alla tromba, qualche altro ospite sparso ad armonica, organo e percussioni, oltre ad una nutrita pattuglia di “vocalist” aggiunti.

Forse potrebbero essere dati superflui, ma invece sono essenziali per la perfetta equazione sonora che se ne ricava. Il nostro amico, oltre ad essere possessore di una voce duttile e malleabile, in grado di spaziare in timbriche che, come ricordavo recensendo il disco precedente, possono ricordare Dr. John, Leon Russell, Fats Domino, Little Richard, è anche, alla pari degli illustri colleghi appena citati, un organista, e soprattutto un pianista, sopraffino, vincitore non a caso del Pinetop Perkins Award, ma efficiente anche a piano elettrico e all’occorrenza lap steel e mellotron. Se aggiungiamo che anche come autore non scherza, considerato che firma come Victor Lawton Winawright, da solo o con altri, tutte le dodici canzoni presenti nel disco, non ci resta che gustarci questo succulento pasticcino sonoro: si parte con le raffinate volute di Mississippi che all’inizio ricordano i grandi pianisti jazz, prima che una esplosione di barrelhouse rock targato Memphis e di boogie woogie fiatistico non ci travolga, mentre tutta la band, voci di supporto e l’armonica di Mikey Junior inclusi, imperversa come se non ci fosse un futuro, mentre Pat Harrington inizia a scaldare la sua chitarra, Walk The Walk è puro New Orleans sound, tra funky e rock’n’roll come sapevano fare i mai dimenticati Little Feat, mentre Harrington e Wainwright si fronteggiano come novelli Payne e George e i fiati non mancano di farsi sentire in esplosioni di pura gioia.

La title track Memphis Loud è un boogie woogie preso a velocità supersoniche, con le mani di Victor che volano sulla tastiera, mentre il “Treno” accelera in progressione tra una stazione e l’altra e ci si gode il panorama attorno; Sing è una ballata jazzy e notturna tra quelle funeree della Crescent City e le atmosfere fumose da Cotton Club nella Harlem degli anni ‘20, ma del secolo scorso, tra florilegi di sax e tromba. Disappear è una splendida ballata malinconica del tutto degna di quelle memorabili della Band dei tempi dei più gloriosi anni ‘70, con Wainwright che la canta magnificamente e un altro paio di bellissimi assoli di chitarra, questa volta di Greg Gumpel, il vecchio titolare dello strumento e poi di piano di Wainwright ad abbellirla, con una atmosfera che ricorda anche l’Elton John “americano”. In Creek Don’t Rise la locomotiva riprende vigore, con la seconda voce di Francesca Milazzo a sostenerlo il nostro amico ci regala un altro pezzo rock di grande fascino, tra continui intrecci di chitarra, ancora Gross, e piano, che interagiscono alla perfezione con i fiati e i cantanti di supporto; anche Golden Rule mantiene questo impianto rock di stampo rootsy, molto ben arrangiato, anche vocalmente e con i musicisti che si scambiano continui assoli, in questo caso Pat Harrington ci regala un intervento quasi acido, ma nitido e “cattivo” il giusto.

America è un’altra ballata che mette in luce la voce radiosa e la capacità di autore di Wainwright, che eccelle anche in questo formato, con un gusto e una classe squisiti, come esemplifica pure l’assolo in crescendo di grande pathos che ci regala un ispirato Mike Welch, mentre in South End Of A North Bound Mule, sulle ali della chitarrine funky di Harrington e Gumpel si tornano a respirare i profumi della Crescent City, molto Dr. John, mentre in Recovery i macchinisti riprendono a dare vapore, i tempi accelerano e tutti, a partire da un ingrifato Welch, danno il meglio delle proprie capacità. My Dog Riley una ode al miglior amico a quattro zampe di Victor, è un honky-tonk divertente e scatenato dove Wainwright ci offre un ennesimo esempio del suo virtuosismo al pianoforte, prima del congedo affidato alla lunga Reconcile, un’altra ballata di puro deep soul made in Memphis veramente sontuosa e rifulgente di una luce interiore che solo i grandi interpreti sanno infondere nei propri lavori e con la ciliegina di un ennesimo assolo di squisita fattura di Gumpel.

Uno dei dischi migliori che ho ascoltato negli ultimi mesi.

Bruno Conti

Un “Grosso” Artista In Azione, In Tutti I Sensi! Victor Wainwright & The Train – Victor Wainwright And The Train

Victor Wainwright & The Train

Victor Wainwright & The Train – Victor Wainwright And The Train – Ruf Records

Se vi siete persi i dischi precedenti https://discoclub.myblog.it/2015/09/14/grande-musica-dal-sud-degli-states-victor-wainwright-the-wildroots-boom-town/ , non commettete l’errore ancora una volta: qui parliamo di “grosso” artista al lavoro, perché Victor Wainwright da Savannah, Georgia, residente in quel  di Memphis, è un personaggio che merita di essere conosciuto. Pianista, ma suona anche organo, piano elettrico, Mellotron e lapsteel, cantante in possesso di una voce strepitosa, con echi di Dr.John, Leon Russell, Fats Domino, ma pure di Little Richard, dei quali incorpora anche gli stili musicali. Ad ogni album, o quasi, cambia il nome del gruppo: dopo alcuni dischi con i Wildroots, questa volta si fa accompagnare dai The Train, combo di quattro elementi, compreso il titolare, ma se aggiungiamo ospiti vari, si superano facilmente i dieci elementi https://www.youtube.com/watch?v=ZeTGdk1fVO4 . Wainwright  suona(va) anche in un’altra band, gli eccellenti Southern Hospitality, con Damon Fowler e Jp Soars, ma Victor lo troviamo anche negli album di Nancy Wright, Mitch Woods, con la Backtrack Blues Band, fra i tanti.

Questo nuovo album  è stato registrato proprio nei leggendari Ardent Studios di Memphis, e se nei dischi precedenti Victor si era fatto aiutare da Tab Benoit, questa volta si affida al bravo Dave Gross. Il risultato in questo Victor Wainwright And The Train è un disco dove boogie pianistico, R&R, soul, blues, ballate, tocchi di jazz e New Orleans vengono mirabilmente fusi con il rock e lo stile di gruppi come Mad Dogs & Englishmen, Commander Cody, Little Feat, in un frullato eccitante. Ho esagerato? Forse, ma il disco si ascolta veramente con grande piacere: dodici canzoni, tutte firmate dal titolare, dove gli stili si alternano e si mescolano di continuo in un’oretta abbondante in cui il divertimento è assicurato. Con il leader sono impegnati Billy Dean alla batteria, Terence Grayson al basso e Pat Harrington alla chitarra, oltre ad una piccola sezione fiati, che si ascolta in quasi tutti i brani del CD, alcuni vocalist aggiunti, tre o quattro chitarristi ospiti: si parte subito fortissimo con il boogie woogie, misto R&R, misto soul revue della scoppiettante Healing, dove sembra di ascoltare la band anni ’70 di Elvis mista ai Commander Cody, con il figlio illegittimo di Joe Cocker e Ray Charles (leggi Wainwright stesso) alla voce solista, tra chitarre tiratissime, organo, piano impazzito, fiati ovunque, che macinano ritmo e sudore; Wilshire Grave aggiunge elementi voodoo di New Orleans à la Dr. John, il groove è sempre micidiale, non mancano gospel, soul e jazz, e la musica scivola goduriosa, con chitarra e organo che si fronteggiano con maestria.

Poi Victor ci invita tutti a bordo e parte The Train, una canzone che avrebbe fatto vergognare Little Richard perché faceva canzoni troppo tranquille, qui il pianoforte è devastante, ma anche il resto della band non scherza. Dull Your Shine rallenta per un attimo, una bella mid-tempo ballad raffinata con retrogusti errebì  e spazio per un finissimo assolo di chitarra di Greg Gumpel. Money è uno shuffle blues rivisto con il funky dei Little Feat ed il wah-wah di Gumpel ancora sugli scudi, per non dire, ci mancherebbe, del piano. Il nostro amico scrive anche una bellissima Thank You Liucille, canzone dedicata a B.B. King e alla sua chitarra, brano sullo stile di The Thrill Is Gone, con affetto, rispetto e notevoli risultati, forse il pezzo più bello del disco, Mike Welch ospite alla solista https://www.youtube.com/watch?v=az6mYrtRkG4 .Ma la qualità non scema in una Boogie Depression in cui dimostra che il Pinetop Perkins piano player assegnatogli per due anni di fila, non era stato un caso. E se serve Victor Wainwright scrive, suona e canta anche canzoni d’amore coi fiocchi, come la dolcissima Everything I Need, pura deep soul music. In Righteous si torna a viaggiare sul “treno” infoiato dell’amore , anche grazie alla slide tangenziale di Josh Roberts. I’ll Start Tomorrow è un voluttuoso brano à la Fats Domino, mentre la lunga  Sunshine introduce elementi psichedelici stile Dr. John primi anni ’70, con flauto e la solista scatenata di Harrington a guidare le danze. That’s Love To Me, quasi nove minuti, chiude degnamente il disco con una lunga e magnifica ballata, con un paio di assoli di chitarra da sballo, degna delle migliori di Leon Russell. Bellissimo disco!

Bruno Conti

Un “Grande” Saluto Per Un Amico Che Non C’è Più. Ronnie Earl & The Broadcasters – The Luckiest Man

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Ronnie Earl & The Broadcasters  – The Luckiest Man – Stony Plain

Ronnie Earl è una garanzia, al di là del fatto qualitativo, e ci arriviamo tra un attimo, ormai anche la cadenza dei suoi album si è fatta costante, dal 2013 a oggi un suo album all’anno non manca mai, e senza che il livello del prodotto ne soffra, anzi. Earl è uno dei veri “Masters Of The Telecasters”, fatto riconosciuto da tutti quelli che amano la buona musica, e il blues in particolare: dotato di una tecnica sopraffina, ma anche di un feeling e di una varietà di “toni” stupefacenti, il chitarrista di New York si è costruito una fama invidiabile attraverso una lunghissima serie di album, che parte all’incirca dalla metà degli anni ’80, quando lascia i Roomful Of Blues, e arriva ai giorni nostri. Dopo un lungo periodo in cui aveva realizzato una sequenza di album perlopiù strumentali, basati sul dualismo chitarra/organo (con rare comparsate vocali) negli ultimi anni ha inserito nella formazione dei Broadcasters la bravissima cantante Diane Blue, in possesso di una voce splendida e dalle mille tonalità, ora dolce e tenera, ora grintosa e passionale, un po’ come il “guitar playing” del suo datore di lavoro http://discoclub.myblog.it/2015/09/09/ritorno-alle-origini-ronnie-earl-the-broadcasters-fathers-day/ . Il titolo di questo nuovo album deriva da una frase che diceva sempre il bassista della band Jim Mouradian, scomparso improvvisamente all’inizio dell’anno dopo uno show, e a cui è dedicato il disco: “I’m the luckiest man you know — and I don’t even know who you know”.

Per l’occasione, in un brano,  Long Lost Conversation, tornano alcuni dei vecchi Broadcasters, che erano presenti nel primo album di Earl del 1983 e che oggi suonano in Sugar Ray And The Bluetones, ovvero  Sugar Ray Norcia voce e armonica, Anthony Geraci, piano, Mike Welch, chitarra, Neil Gouvin, batteria e Michael “Mudcat” Ward, basso. Il brano, lunghissimo, oltre i dieci minuti, è una di quelle piccole perle che Ronnie Earl spesso ci riserva nei suoi dischi, e che fanno sì che i suoi album, sempre di ottimo livello comunque, si elevino oltre la media e la consuetudine dei dischi di blues fatti in serie, parliamo di un slow blues di una classe e di una intensità fuori dal comune, Norcia canta e soffia nell’armonica con grande vigore, Earl inchioda uno di quegli assoli che spesso me lo hanno fatto ritenere l’erede naturale di Roy Buchanan o Danny Gatton, e pure Geraci al piano e Welch alla seconda chitarra ci mettono del loro. Ma non è l’unico pezzo di qualità superba del lavoro, anche la versione di  Death Don’t Have No Mercy, solo la voce ispiratissima di Diane Blue e le chitarre soffuse di Earl e Tabarias, rendono questo omaggio a Mouradian un brano ad alto contenuto emozionale https://www.youtube.com/watch?v=2CTFAsn1CgM , come pure lo strumentale, sempre a lui dedicato Jim’s Song, una delicata ninna nanna di grande purezza e dolcezza. Ma anche nei brani dove suonano gli attuali Broadcasters, oltre a Earl e la Blue, il nuovo bassista Paul Kochanski, Dave Limina all’organo e  Forrest Padgett alla batteria, si respira un’aria di grande classe: dallo shuffle di Heartbreak (It’s Hurtin’ Me), dove gustiamo il solito dualismo organo/chitarra tipico dei dischi del nostro, alla cover di Ain’t That Loving You, altro shuflle godurioso, dove è presente una piccola sezione fiati, e la Blue canta con grande souplesse e finezza questa canzone che era nel repertorio di Buddy Guy  e Bobby “Blue” Bland.

L’altro tour de force del CD è una versione monstre di un super classico del blues, una So Many Roads di quasi 11 minuti, ricca di una intensità e di un calore che raramente si riscontrano nel blues dei giorni nostri, suonata e cantata in modo magnifico e anche la versione, di nuovo con i fiati, di You Don’t Know What Love Is, un classico della canzone americana che era nel repertorio di Billie Holiday, Dinah Washington e Ella Fitzgerald, qui diventa uno splendido blues elettrico cantato in modo più che degno dalla bravissima Diane Blue. E non è, come vi dicevo, che il resto del CD sia si qualità scadente, anzi: pezzi come gli strumentali Southside Stomp e Howlin’ Blues farebbero un figurone in qualsiasi disco blues, come pure la maestosa e struggente gospel song Never Gonna Break My Faith, dove la Blue si misura con l’originale cantato da Aretha Franklin, e Ronnie Earl lavora di fino con la sua solista, senza dimenticare l’eccellente Sweet Vee dove il nostro amico rievoca i fasti dei “lentoni” di Santana, e ancora nell’omaggio ad uno dei maestri nella sontuosa e fiatistica Blues For Magic Sam. Come il buon vino Ronnie Earl ad ogni disco sembra sempre migliorare i suoi standard elevatissimi e anche questa volta centra in pieno l’obiettivo con un altro disco che definirei splendido se non avessi finito gli aggettivi.

Bruno Conti

E Dopo Il Piccolo Questa Volta Tocca Al “Grande Walter”! Various Artists – Blues For Big Walter

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Various Artists – Blues For Big Walter – Eller Soul Records

Dopo il tributo al “piccolo Walter” Remembering Little Walter, dedicato dalla Blind Pig nel 2013 a questo fenomenale armonicista http://discoclub.myblog.it/2013/05/18/e-dopo-i-chitarristi-una-pioggia-di-armonicisti-remembering/ , era quasi inevitabile che prima o poi ne giungesse uno anche per il Walter più grande (non nella accezione della Litizzetto), in tutti i sensi, quel Big Walter Horton che, non uno che passa per caso per strada o il vostro umile recensore, ma il “signor” Willie Dixon ha definito “il migliore che abbia ma sentito”. Forse meno celebrato di Little Walter, anche perché la sua discografia come solista è veramente, scarna, mi pare cinque o sei dischi in tutto, di cui nessuno è rimasto negli annali della storia del disco, anche se l’Alligator del 1972 con Carey Bell e lo Stony Plain del 1974 sono degni di nota, la carriera del grande armonicista, nato sul Mississippi e morto a Chicago, è stata soprattutto quella di un grande, anzi grandissimo, gregario, in pista dagli anni ’30, ma arrivato alla consacrazione quando sostituì nel 1952 Junior Wells nella band di Muddy Waters, e poi suonando con chi lo richiedeva (anche con Martin Stone dei Savoy Brown, con i Fleetwood Mac e Johnny Winter), sia in studio che dal vivo, con l’ultima registrazione effettuata nel 1980, un anno prima della morte.

Questo tributo, curato e  prodotto da Ronnie Owens, è strutturato in modo diverso rispetto a quello a Little Walter: in quel disco Mark Hummel aveva radunato un certo numero di armonicisti per partecipare ad una session in cui tutti suonavano insieme, magari alternandosi alla guida, mentre per questo Blues For Big Walter l’approccio è diverso. Diciamo che il nucleo dell’album è stato registrato in una seduta unica il 18 gennaio del 2016 al Montrose Studio di Richmond, Virginia, con varie sezioni ritmiche, chitarristi, pianisti e, ovviamente, armonicisti, che si alternano nei vari brani, ma ci sono anche alcuni pezzi registrati in altre locations, e alcune registrazioni provengono dal passato. Ma veniamo al dettaglio: diciamo che in questo caso non si è voluto calcare la mano sui classici (qualcuno c’è pero), privilegiando anche brani meno conosciuti; per esempio l’iniziale Someday era uno dei brani che Big Walter suonava con Koko Taylor, e per riproporla abbiamo uno dei migliori armonicisti di oggi, Kim Wilson, che si accompagna al giovane chitarrista Big Jon Atkinson, che è anche la voce solista della canzone, un classico Chicago Blues di quelli duri e puri. She Loves Another Woman, viceversa viene dagli archivi di Bob Corritore, si tratta di una registrazione dell’ottobre del 1992 con il grande Jimmy Rogers alla chitarra e alla voce, ancora ruspante e in gran forma, mentre Worried Life (Blues) era uno dei classici che Horton suonava con Johnny Shines, qui ripresa da Mark Wenner dei Nighthawks, altro grande virtuoso dello strumento, ma chi non lo è in questo disco?

Per esempio Steve Guyger non è un nome celeberrimo, ma la sua prestazione in If It Ain’t Me, registrata in Finlandia (!) è da manuale. In un disco come questo non poteva mancare Mark Hummel, un altro dei grandi contemporanei dello strumento, la sua Hard Headed Woman è calda e vibrante come poche, sia la voce che l’armonica sprizzano blues a denominazione di origine controllata, mentre ammetto che Kurt Crandall, registrato in Olanda con musicisti locali, mi era del tutto sconosciuto, ma la sua versione di Great Shakes è ottima, con un suono dell’armonica arioso e potente. Bravo anche Ronnie Owens (in arte Li’l Ronnie Owens) l’ideatore del tributo, alle prese con una lenta e cadenzata We’re Gonna Move To Kansas City e fantastico il contributo di Sugar Ray Norcia & The Bluetones, con Mike Welch alla chitarra, con un Sugar Ray Medley di oltre 18 minuti, dove Norcia (soprattutto), Welch e il pianista Anthony Geraci suonano il blues alla grandissima, tra soli, ritmo e sudore, come le dodici battute classiche richiedono, il tutto registrato in quel di Quincy, Massachusetts, non una delle culle del blues, ma se suonano così chi se ne frega.

Anche Andrew Alli, alle prese con Evening Shuffle, mai sentito ma bravo; di nuovo Mark Hummel impegnato in Easy uno strumentale con Sue Foley, che dal fruscio iniziale sembra provenire da qualche vecchio vinile (ma è una impressione, è inciso benissimo, come tutto il CD) e poi Walking By Myself ancora con Mark Wenner e l’intenso Little Boy Blues, uno dei rari slow blues con Steve Guyger. Ma tutti i brani sono buoni, anche le ulteriori proposte di Owens ed Alli, oltre all’altra chicca di Corritore, questa volta con Robert Lockwood Jr. in Rambling On My Mind. Veramente un bel disco di armonica blues.

Bruno Conti

L’Unione Fa La Forza! Mannish Boys – Wrapped Up And Ready

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Mannish Boys – Wrapped Up And Ready – Delta Groove Music

Questa volta il grande capo, Randy Chortkoff, il boss della Delta Groove, ma anche componente dei Mannish Boys, aveva detto: “semplifichiamo, riduciamo le cose ai fondamentali, diminuiamo le dimensioni del progetto e della band”. Purtroppo Finis Tasby, che ha avuto problemi di cuore a fine 2012, dopo avere partecipato alle registrazioni del precedente Double Dynamite http://discoclub.myblog.it/2012/06/16/una-sorta-di-mini-supergruppo-questo-si-che-e-blues-mannish/ , non ci sarà, quindi saremo solo in sei in studio, all’Ardent di Torrance, California. Questo quanto detto prima. Poi: che dite, invitiamo qualche ospite? Voi che pensate, quanti ce ne saranno, conoscendo la struttura dei precedenti sei album della band e viste le premesse? “Venti”, ce ne sono venti, li ho contati, ok, compresi cinque background vocalist, ma mi sembrano le “semplificazioni” dei governi italiani! Anche se i risultati danno ragione al capo. Siamo di fronte al solito grande disco di blues, non quelli timidi e molto, troppo, legati alla tradizione, ma bello tosto, con tutte le variazioni delle dodici battute ben presenti, grandi cantanti, solisti a chitarre, piano, armoniche, delle più svariate provenienze, con una netta preponderanza di artisti bianchi, anche se il cantante, Sugaray Rayford e una delle due chitarre soliste, Kirk Fletcher, sono neri. Ad ennesima dimostrazione del famoso assunto che “i bianchi non possono suonare il blues”, che fa il paio con “non ci sono più le mezze stagioni”, per quanto la seconda mi paia più attendibile.

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Sedici brani, 74 minuti e spiccioli di ottima musica, il classico suono Delta Groove, pulito e ben definito, che ti spara la musica direttamente in faccia, a cura di Chortkoff, questa volta aiutato da Jeff Scott Fleenor, belle canzoni, un misto di originali e cover pescate nello sterminato serbatoio del blues, e poi tutti gli ospiti, usati nel modo migliore, per creare un piccolo gioiellino destinato agli appassionati ma che può essere goduto anche da chi si avvicina con sospetto alle dodici battute, me li vedo già, che palle il blues! E invece, almeno in questo CD non c’è occasione per annoiarsi. Caron “Sugar Ray” Rayford viene dal gospel, ma in breve tempo è diventato uno dei migliori vocalist in circolazione, come dimostrato subito dall’ondeggiante e gagliarda I Ain’t Sayin’, firmata dall’ex bambino prodigio Monster Mike Welch, che rilascia una scarica di chitarrate di inaudita potenza, con Fred Kaplan al piano, e gli altri Mannish Boys che cercano più che contenerne l’irruenza di elevarla all’ennesima potenza. Everything’s Alright, un classico blues swingato di Roy Brown è più contenuta, con le chitarre di Nico Duportal e Kid Ramos in punta di dita, Willie J. Campbell al contrabbasso e non al basso elettrico e Ron Dziubla che aggiunge con i suoi sax una ulteriore patina vintage.

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Frank “Paris Slim” Goldwasser assume la guida del gruppo, voce e chitarra solista, per una propria composizione, Struggle In My Hometown, con il piano e il Wurlitzer di Rich Wenzel che donano una maggiore profondità e modernità ai continui cambiamenti di tempo del brano. Wrapped Up And Ready, la canzone, ancora firmata da Rayford, ci introduce ai talenti dell’armonica di Kim Wilson che duetta con la chitarra di Kirk “Eli” Fletcher, per un brano che ci riporta agli splendori dei primi Fabulous Thunderbirds https://www.youtube.com/watch?v=qPBAyRMyYak . It Was Fun, più lenta e rilassata, firmata da Chortkoff, è l’occasione per ascoltare l’ottimo lavoro della solista di Steve Freund, altro maestro del genere, mentre in I Can Always Dream, sempre del boss, niente ospiti, solo i Mannish Boys duri e puri, con Goldwasser impegnatissimo alla solista e i risultati si sentono, ottimo come sempre Sugar Ray. Candye Kane, con la sua chitarrista Laura Chavez al seguito, ci propone una salace rilettura della famosa I Idolize You firmata da Ike Turner, con Randy Chortkoff all’armonica, in una delle sue rare apparizioni in mezzo a tanti ospiti.

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You Better Watch Yourself non la conosco, ma è l’occasione per Chortkoff per introdurre una sua nuova scoperta, tale Jacob “Walters” Huffman, armonicista, un nome, una promessa, niente male. Però quando torna l’originale, Kim Wilson, ben spalleggiato da Welch, alle prese con una cover di Something For Nothing di Robert Ward, siamo dalle parti del Chicago Blues più osservante, con piano, fiati e tutto il gruppo in grande spolvero. Il capo si riserva una solo canzone https://www.youtube.com/watch?v=nF4woyfLB8M , Can’t Make A Livin’, dove conferma di non essere poi questo gran cantante, discreto armonicista, e quindi lascia spazio alla voce di Trenda Fox e alle chitarre di Fletcher e Welch, in modalità tremolo. The Blues Has Made Me Whole, di nuovo con e di Steve Freund, dà piena conferma al proprio titolo e vi pareva che in un disco di blues recente non ci fosse Bob Corritore? Ci sta, ci sta, con la sua armonica a spalleggiare Welch e il rientrante Rayford in una potente I Have Love, prima di lasciare il posto a Wilson per uno dei rari lenti del disco, Troubles; ottima anche la cover di She Belongs To Me un Magic Sam d’annata con Kid Ramos che sembra Peter Green. Don’t Say You’re Sorry con Goldwasser alla slide e alla voce è un’ulteriore variazione sul tema blues e la conclusiva, strumentale Blues For Michael Bloomfield, firmata da Fletcher è una occasione per tutti i chitarristi di lasciarsi andare in un sentito e bellissimo omaggio ad uno dei grandi dello strumento https://www.youtube.com/watch?v=G3FCtvr1aIk .

Bruno Conti

E Anche Questa “Canta”! Ursula Ricks – My Street

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Ursula Ricks – My Street – Severn Records

Il suo nome è Ricks, Ursula Ricks, viene da Baltimora, Baltimore per gli americani, una importante città fluviale del Maryland, nel nord-est degli States, una delle più “antiche”, sede di una importante Università, la John Hopkins, musicalmente è la patria di gente come Frank Zappa, Philip Glass, Billie Holiday (ma solo come città adottiva, negli anni dell’infanzia, è nata a Filadelfia), quindi non una scena musicale attivissima. Perché vi dico tutto questo, se non c’entra con il resto? Perché un incipit è importante, attira il lettore verso quello che è il contenuto successivo. In effetti, a ben guardare, un ulteriore nesso con Ursula Ricks c’è, Annapolis, dove è stato registrato il disco per la Severn (che è anche il nome del fiume della città, fine della lezione di geografia), è la capitale del Maryland.

Proprio la Severn, ultimamente, si sta segnalando come una delle etichette più attive ed interessanti della scena indipendente blues & soul americana: tra i loro progetti recenti, l’ottimo ultimo album di Bryan Lee, di cui vi ho parlato nei mesi scorsi, l’ultima fatica dei Fabulous Thunderbirds, la doppia antologia di Alan Wilson ed ora questo My Street che segna l’esordio di Ursula Ricks. Dopo oltre venti anni di attività nei locali con il suo Ursula Ricks Project, un gruppo dedito all’interpretazione di cover soul, R&B e blues, la nostra amica, non più giovanissima, pubblica il suo primo album di materiale originale (con solo un paio di cover), un po’ come era successo per Charles Bradley (visto dal vivo di recente, è veramente bravo) pochi anni orsono. Magari la Ricks è un poco più giovane, ma lei e i suoi amici “paciarotti” del progetto, come potete vedere da molti video che si trovano in rete, è una notevole interprete di musica nera: presenza scenica, gran voce, bassa, risonante e potente, feeling a tonnellate.

Quelli della Severn le hanno messo intorno la loro house band, più alcuni ospiti di spicco e voilà, ecco questo piacevole e trascinante My Street, un disco di funky blues, se così vogliamo definirlo. Producono Kevin Anker, anche alle tastiere, Steve Gomes, pure al basso e il boss, David Earl, gli arrangiamenti di fiati ed archi sono del grande musicista di Chicago Willie Henderson, lo stesso team di Bryan Lee, ed i risultati sono eccellenti. Dal vigoroso blues iniziale, Tobacco Road (non quella famosa, un caso di omonimia), con Kim Wilson ospite all’armonica e Johnny Moeller alla chitarra, peraltro presente in tutto il disco, che con l’aggiunta del veterano Rob Stupka alla batteria garantiscono un sound bluesy alle procedure, che però spesso e volentieri virano verso motivi soul ed errebì veramente sanguigni. Come ad esempio nella ballata soul Sweet Tenderness dove la vociona espressiva della Ricks (che, modestamente, ringrazia l’Universo (!) per i suoi talenti, nelle note) assume quasi delle tonalità alla Nina Simone (una che ha fatto un disco intitolato Baltimore, per i corsi e ricorsi della vita), carezzata dagli archi e dai fiati di Henderson e dalle deliziose armonie vocali di Christal Rheams e Caleb Green, sembra un brano di Al Green o di Isaac Hayes del primo periodo. Mary Jane non sembra, è proprio una cover di una canzone di Bobby Rush, funky e ritmata il giusto, con un basso sinuoso, la chitarra di Moeller che fa lo Steve Cropper della situazione e tutto il gruppo che gira alla grande.

Sempre il giusto ritmo anche nella title-track My Street che ci permette di gustare appieno la vocalità della Ricks. Che è ancora più avvolgente in Due, un altro dei brani dove archi e fiati, più l’organo di Anker contribuiscono a creare quel mood raffinato à la Stax anni d’oro, Mike Welch, un altro degli ospiti nell’album, ci piazza un assolo dei suoi. E si ripete nella decisamente più bluesata Right Now dove lui e Moeller si scambiano licks chitarristici di gran classe intorno alle evoluzioni vocali della brava Ursula. The NewTrend ha di nuovo quell’afflato soul Staxiano se mi passate il termine, ma quello degli anni ’70, meno ruspante e più raffinato. Make Me Blue, di nuovo con le raffinate traiettorie orchestrali di Henderson, ha un qualcosa del miglior Barry White, quello “soffice” pre-disco, con chitarrine e fiati che colorano la performance vocale di gran qualità della Ricks. Che si ripete ancora alla grande in un brano come Just A Little Bit Of Love, che ti fa esclamare Curtis Mayfield ancora prima di avere letto l’autore del brano, bellissima e con una nota di merito ancora per Johnny Moeller che con la sua chitarra wah-wah pennella un sound vecchio stile di gran classe. Di nuovo Moeller sugli scudi nella ondeggiante What You Judge, ma tutto il gruppo suona come un orologio di marca, preciso e puntuale intorno alla vocalità corposa di Ursula Ricks, una veramente brava e meritevole di essere scoperta, se ne avete voglia segnatevi il nome!                                              

 Bruno Conti