Un Altro Disco “Fantasma”: La Sorpresa Che Non Ti Aspetti. William Topley – Amidst The Alien Cane

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William Topley – Amidst The Alien Cane – CD Baby – Download + Streaming

Come promesso qualche giorno fa, oggi parliamo con piacere del cantante inglese William Topley, che ha iniziato come cantante e leader nel gruppo dei Blessing (una meteora con soli due album all’attivo all’inizio degli anni ’90 https://www.youtube.com/watch?v=kesomrqNYn0 ), per poi lasciare la band per intraprendere la carriera solista con l’ottimo Black River (97), a cui farà seguire nell’arco di una decade Spanish Wells (99), Feasting With Panthers (01), Sea Fever (03), All In The Downs (06) per chi scrive il suo disco migliore, Water Taxi (09), South On Velvet Clouds (11), e due lavori usciti nell’assoluto anonimato come Aristocrats Of The South Seas (12) e Halved Moons & Hooded Mountains (16), per poi rispuntare come l’Araba Fenice con questo inaspettato Amidst The Alie Cane, che come al solito è, per usare un eufemismo, di difficile reperibilità.

Dotato di una bella voce scura, profonda e calda ( con i dovuti distinguo, alla Van Morrison per intenderci), il buon Topley è anche un ottimo compositore, che propone una musica molto influenzata dal blues e dal soul (che a dispetto delle sue origini ha ben poco di inglese, e considerando che vive negli Stati Uniti da oltre 20 anni), avvalendosi negli anni di “sessionmen” di qualità e della sua touring band, per una manciata di canzoni dalla durata media sui quattro minuti, di grande “feeling”. L’inizio è sorprendente con il sincopato ritmo di Pisco Sours, con un drumming secco e voce calda, a cui fa seguito The Sea Is My Religion, che inizia con dolci note di pianoforte, per poi trasformarsi in una classica “rock ballad” americana (alla Bruce Hornsby) con la voce potente dell’autore in evidenza, e una Harboured A Hope elettroacustica e malinconica.

Con Worn Out Heart si entra in un territorio caro al Joe Cocker d’annata, ma Topley predilige soprattutto le ballate lente come la malinconica Angels At The Ritz, e la coinvolgente High Lonesome, con la sua voce calda e personale che la domina, per poi arrivare alla bellezza disarmante di una Too Late Grace (qui troviamo molto Van Morrison), dove Topley può tirare fuori il meglio dalle sue corde vocali. Si cambia decisamente passo e ritmo con la versione acida di How Many Love Songs?, per poi passare al suono acustico delle chitarre in una confidenziale e quasi medioevale Somebody’s Heart, e andare a chiudere il viaggio con il bel rock-country di una Listen To The Band, dove sembra di sentire i primi Whiskeytown. Dai tempi dei Blessing e in tutta la sua carriera solista affrontata con tenacia e coerenza, William Topley non ha mai raccolto quanto effettivamente avrebbe meritato, nonostante una grande voce inconfondibile (capace di rendere interessante anche la lettura dell’elenco telefonico), che mischia una musicalità varia con liriche poetiche, con canzoni che parlano di solitudine, di amori spezzati, della vita di tutti i giorni, su melodie profonde e intense che creano forti emozioni nell’ascoltatore.

Non so se nel percorso artistico di William Topley questo Amidst The Alien Cane sia destinato ad essere un nuovo punto di partenza o di un’altra prova che come altre passerà inosservata, ma di una cosa sono sicuro, se ne accorgeranno forse in pochi ma questo ultimo lavoro è il suo disco migliore dai tempi eal citato All In The Downs. In definitiva belle canzoni più una grande voce, cosa volete di più!

Tino Montanari

Non Occorre Essere Americani Per Fare (Ottima) Musica Americana! The Blue Highways – Long Way To The Ground

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The Blue Highways – Long Way To The Ground – The Blue Highways CD

Nel panorama musicale mondiale ci sono casi di gruppi che, pur non essendo americani, suonano al 100% come se provenissero dagli Stati Uniti: in Italia per esempio abbiamo i casi di Cheap Wine, Lowlands e Mandolin Brothers, tanto per citare tre nomi vicini ai gusti di questo blog. Ovviamente una delle nazioni che guarda di più all’America è la Gran Bretagna, e tra le ultime proposte in tal senso mi ha colpito molto l’album di debutto dei Blue Highways, giovane rock band londinese (da non confondersi con i quasi omonimi Blue Highway, gruppo bluegrass quello sì americano, attivo dagli anni novanta). I BH sono una rock’n’roll band molto classica, due chitarre-basso-batteria, con influenze che vanno da Bruce Springsteen a Tom Petty, ma con un occhio di riguardo anche per un certo tipo di soul-rock sudista; il gruppo è composto da tre fratelli: Callum Lury, voce solista e chitarra ritmica (ma anche pianoforte, e suonato molto bene), Jack Lury, chitarra solista, e Theo Lury alla batteria, e sono completati dal bassista Pete Dixon.

Il quartetto lo scorso anno ha pubblicato un EP di quattro brani, che viene riproposto ora con l’aggiunta di sei canzoni nuove di zecca in questo ottimo e sorprendente album d’esordio intitolato Long Way To The Ground, un disco che, pur essendo autoprodotto, ha un suono pulito e professionale, e mostra un gruppo con le idee chiarissime: puro rock’n’roll, tante chitarre ma anche una serie di ballate elettriche e profonde, con un songwriting di alto livello che uno non si aspetterebbe di trovare in un’opera prima da parte di un combo di giovanotti. Pur avendo ben chiare e presenti le influenze citate poc’anzi l’album non suona per nulla derivativo ed il suono, già forte e nitido di suo, è ulteriormente arricchito qua e là dall’uso di una sezione fiati o di una steel guitar: dieci canzoni per meno di 37 minuti di musica, la durata perfetta per un disco come questo. Il CD si apre con il brano più lungo: Teardrops In A Storm è una suggestiva ballata pianistica con la steel in sottofondo ed il gruppo che entra in maniera potente dopo un minuto circa (ed i fiati sono usati in un modo che mi ricorda The Band), avvolgendo in maniera solida la voce arrochita ed espressiva di Callum (che qualcuno ha paragonato a Joe Cocker, anche se il cantante di Sheffield aveva un “growl” più pronunciato).

Una chitarra ruspante introduce la bella Blood Off Your Hands, un brano cadenzato che sembra quasi provenire dal songbook di una band del sud degli Stati Uniti, con un motivo diretto, un suono spettacolare e la voce del leader che dona un sapore soul. Thin Air è decisamente influenzata dal Boss, una ballata tersa e chitarristica che si apre a poco a poco fino a diventare una rock’n’roll song pulita ed immediata, tra le più coinvolgenti del CD: altro che Londra, qui sembra di essere su una lunga autostrada americana, di quelle ad orizzonti perduti https://www.youtube.com/watch?v=lnEGsABCWZo . Decisamente trascinante anche He Worked, un rock-got-soul dal ritmo sostenuto e con le chitarre che riffano alla grande insieme ai fiati, il tutto condito da un refrain irresistibile (e qui vedo tracce di Little Steven & The Disciples Of Soul); la title track ha il passo lento e quasi marziale, ma le chitarre non fanno mancare il loro apporto e nel ritornello si uniscono ancora pianoforte e fiati, con Callum che intona un motivo di notevole forza espressiva con la sua voce stentorea. Cover Me non è quella di Bruce ma bensì uno slow guidato dal piano e da una linea melodica intensa, con la solista che si fa largo gradualmente e la sezione ritmica che dalla seconda strofa entra prepotentemente portando il brano fino alla fine in deciso crescendo.

Matter Of Love è ancora puro rock’n’roll chitarristico e travolgente, con un refrain vincente ed il piano che “roybittaneggia”. Berwick Street vede ancora i nostri spostarsi idealmente al sud (ma non dell’Inghilterra), per una potente ballata elettroacustica dalla strumentazione coinvolgente e con un ottimo assolo di Jack; il CD si chiude con Borderline, un vivace pezzo che introduce elementi country nel suono (diventando una sorta di bluegrass elettrico, ancora con piano e chitarra a fare la differenza), e con Have You Seen My Baby (Randy Newman non c’entra), una vera e propria country ballad con tanto di steel che miagola languida sullo sfondo e l’ennesimo motivo orecchiabile.

Davvero un bell’esordio questo Long Way To The Ground: i Blue Highways sono indubbiamente il gruppo inglese più “americano” da me ascoltato negli ultimi mesi.

Marco Verdi

*NDB Come al solito il grosso problema è la reperibilità: il CD viene venduto sul loro sito, ma pare venga spedito solo nel Regno Unito e in USA (aggiornamento del 17/4/2020, si può acquistare anche dall’Italia e dalla Spagna).

 

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Una Splendida Full Immersion Nella Leggenda, 3 Giorni Di Pace E Musica! Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive. Giorno 3

woodstock_deluxebox_productshot_1VV:AA: Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive – Rhino/Warner 38CD/BluRay Box Set

Terza ed ultima parte.

Day 3/CD 24-37. 

CD24/25 – Jefferson Airplane. Il terzo giorno inizia col botto, ovvero con il gruppo che forse incarna più di tutti la Summer Of Love. A distanza di 50 anni il sestetto Slick-Kantner-Balin-Kaukonen-Casady-Dryden (e con la non trascurabile presenza di Nicky Hopkins alle tastiere) suona però datatissimo, ma è una cosa che pensavo anche negli anni ottanta. Restano comunque una  band coi controfiocchi, che esegue un set solido con molte grandi canzoni suonate come Dio comanda (Somebody To Love, White Rabbit, Volunteers, Wooden Ships, ma anche The Ballad Of You & Me & Pooneil e la cover di The Other Side Of Life di Fred Neil si difendono): peccato che il tempo non sia stato galantuomo con queste sonorità. Discorso a parte per i due pezzi a carattere rock-blues nei quali Kaukonen assume il ruolo di leader (Uncle Sam Blues, bluesaccio elettrico e cadenzato, e la splendida e potente Come Back Baby), anticipando in un certo senso l’avventura degli Hot Tuna.

CD26/27 – Joe Cocker. Così come Santana anche il cantante di Sheffield era relativamente sconosciuto (aveva da poco pubblicato il primo album), e nello stesso modo la sua performance entrò nel mito, indirizzando nel verso giusto la sua carriera futura: gran parte del merito va sicuramente al pezzo che chiude lo show, una cover totalmente stravolta ma legggendaria della beatlesiana With A Little Help From My Friends, con Joe letteralmente posseduto, quasi trasfigurato. Ma anche prima il nostro ha intrattenuto la platea da consumato soul-rocker, accompagnato al meglio dalla Grease Band (che prima dell’ingresso di Cocker ha riscaldato l’ambiente con due brani strumentali): Joe propone una serie di standard (non è mai stato un songwriter, anche se le qui presenti Something’s Coming On e Something To Say portano la sua firma) eseguiti in maniera sanguigna e diretta, ed un accompagnamento perfetto da parte della Grease Band. Ben tre brani di Dylan (Dear Landlord, bellissima, Just Like A Woman e I Shall Be Released), due di Ray Charles (Let’s Go Get Stoned ed una monumentale I Don’t Need No Doctor) ed una notevole Feelin’ Alright dei Traffic, con un grande  Chris Stainton al piano elettrico.

CD28 – Country Joe & The Fish. Torna Country Joe McDonald in compagnia del chitarrista Barry “The Fish” Melton ed altri tre elementi per un set elettrico molto diverso da quello acustico del primo giorno. Sonorità principlamente tra rock e psichedelia (anche qui forse un po’ datate), come si evince dall’apertura di Rock & Soul Music, le potenti Love e Not So Sweet Martha Lorraine, in cui dominano chitarra ed organo (Mark Kapner) ed un suono molto simile a quello dei Doors. Lo show, piuttosto lungo, si segnala anche per lo sconfinamento in altri stili, come la gradevole pop song Sing Sing Sing, il folk-rock sotto steroidi Summer Dresses, la lenta e fluida Maria o la magnifica Crystal Blues, un bluesaccio elettrico degno dei grandi del genere, fino alla ripresa full band finale di I-Feel-Like-I’m-Fixin’-To-Die Rag.

CD29 – Ten Years After. Non poteva mancare il gruppo guidato da Alvin Lee, tra le band più popolari dell’epoca. Un concerto molto blues, con eccellenti riletture di brani di Willie Dixon (Spoonful), Sonny Boy Williamson (Good Morning Little Schoolgirl, con due false partenze dovute a problemi con gli strumenti, ed una straordinaria Help Me), o la suadente I Can’t Keep From Crying Sometimes, intrigante remake di un brano scritto da Al Kooper (con accenno a Sunshine Of Your Love dei Cream). Gli unici due pezzi originali sono Hobbit, scritta dal batterista Ric Lee (in pratica un lungo drum solo) e la sempre strepitosa I’m Going Home, in cui Alvin si conferma il “chitarrista più veloce del West”.

CD30 – The Band. A mio parere la chicca assoluta del box, dato che per 50 anni non era mai uscita neppure una canzone dal set del gruppo canadese. Ed il quintetto di Robbie Robertson non delude le aspettative, producendo un concerto in cui fa uscire al meglio il suo tipico sound da rock band pastorale del profondo Sud; solo tre brani originali (l’iniziale Chest Fever, la meno nota We Can Talk ed il capolavoro The Weight), un paio di pezzi di derivazione soul (Don’t Do It e Loving You Is Sweeter Than Ever), altrettanti standard (Long Black Veil e Ain’t No More Cane, entrambe splendide) e ben quattro canzoni di Dylan (Tears Of Rage, emozionante, This Wheel’s On Fire, Don’t Ya Tell Henry e I Shall Be Released, che diventa quindi l’unico brano ripreso nei tre giorni da tre acts diversi). Gran concerto, e d’altronde i nostri, oltre ad essere di casa a Woodstock, erano nel loro miglior periodo di sempre.

CD31 – Johnny Winter. Il texano albino si presenta alla testa di un power trio ed infiamma la platea con una performance ad altissimo tasso elettrico: subito in palla con due rock-blues tonici e vigorosi del calibro di Mama, Talk To Your Daughter e Leland Mississippi Blues (che servono come riscaldamento), il nostro poi piazza due prestazioni mostruose con il boogie Mean Town Blues e You Done Lost Your Good Thing Now (quest’ultima di B.B. King) di 10 e 15 minuti rispettivamente, due brani in cui dire che fa i numeri con la chitarra è persino riduttivo. Nelle seguenti tre canzoni, tra le quali spicca una dirompente Tobacco Road (John D. Loudermilk), Johnny è raggiunto sul palco dal fratello tastierista Edgar; chiusura con una formidabile e potentissima Johnny B. Goode di Chuck Berry, rock’n’roll come se non ci fosse domani.

CD32 – Blood, Sweat & Tears. Pur senza Al Kooper, che aveva già lasciato i compagni, il gruppo qua guidato da David Clayton-Thomas e Steve Katz suona un set potente, caldo e colorato, un vero esempio di rock band con fiati in leggero anticipo sui Chicago. Pochi i brani originali (I Love You More Than You’ll Ever Know, dal periodo con Kooper, Spinning Wheel e Sometimes In Winter), e soprattutto cover dalla provenienza disparata ma col marchio di fabbrica dei nostri: ottima la ballad di Randy Newman Just One Smile, e di pari livello sono le riletture di Smiling Phases (Traffic), God Bless The Child (Billie Holiday, molto intensa) e And When I Die (Laura Nyro). Un set creativo e stimolante, tra rock, jazz, swing, soul ed errebi.

CD 33 – Crosby, Stills & Nash (& Young). Altro dischetto tra i più attesi, si apre con la performance acustica del trio, che come dice Stephen Stills è appena alla sua seconda apparizione pubblica e quindi un po’ teso. Sette brani che mettono in evidenza le splendide armonie vocali dei tre, con menzioni speciali per Suite: Judy Blue Eyes, Helplessly Hoping e Marrakesh Express, mentre David Crosby ci delizia con la tenue Guinnevere. Poi arriva Neil Young che prosegue la parte “unplugged” con due ottime Mr. Soul e I’m Wonderin’, seguito ancora da Stills con You Don’t Have To Cry. Poi i quattro chiamano sul palco Greg Reeves al basso e Dallas Taylor alla batteria e ci danno dentro con cinque canzoni elettriche e decisamente rock, che anticipano di due anni le magnifiche evoluzioni di Four Way Street. Dopo l’orecchiabile Pre-Road Downs di Graham Nash abbiamo le celebri Long Time Gone e Wooden Ships di Crosby (due esecuzioni superbe), la meno nota Bluebird Revisited di Stills e Sea Of Madness, un inedito assoluto di Young che il canadese non riprenderà mai come solista (particolare importante: la Sea Of Madness apparsa all’epoca sul triplo album originale di Woodstock era stata registrata più avanti al Fillmore East, mentre in questo box appare per la prima volta quella del Festival). Finale ancora acustico con una brevissima Find The Cost Of Freedom e ritorno all’elettrico per la guizzante 49 Bye-Byes.

CD34 – The Butterfield Blues Band. Pur senza Mike Bloomfield (ma con Howard “Buzzy” Feiten che si destreggia comunque abilmente alla sei corde) la BBB regala al pubblico un robusto set di blues al 100%, con Paul Butterfield in buona forma sia alla voce che soprattutto all’armonica, ed un gruppo notevole alle spalle (oltre a Feiten, segnalerei il bassista Rod Hicks, le tastiere di Ted Harris ed il sax della futura star David Sanborn). Belle versioni di classici come una sulfurea Born Under A Bad Sign di Albert King, una lenta e raffinata Driftin’ And Driftin’ di John Lee Hooker, quasi afterhours, fino al finale con una Everything’s Gonna Be Alright di Little Walter decisamente tonica e grintosa. Ma ci sono anche ottimi brani originali come la vigorosa No Amount Of Loving e la fiatistica Morning Sunrise, tra blues e jazz.

CD35 – Sha Na Na. La presenza a Woodstock di questo gruppo che portava avanti una sorta di revival del rock’n’roll e doo-wop degli anni cinquanta è sempre stata un mistero. Non perché non fossero bravi (anche se sparirono presto dalla circolazione), ma perché secondo me erano fuori posto in una manifestazione simile, ed ancora più incomprensibile la scelta di metterli appena prima del momento forse più atteso. Il loro breve set, che recupera brani anche poco noti della golden age del rock’n’roll (di gruppi come The Silhouettes, The Dell Vikings, The Monotones o Danny & The Juniors, anche se c’è spazio anche per una divertita (Marie’s The Name) Of His Latest Flame, portata al successo sia da Del Shannon che da Elvis) è comunque piacevole, divertente ed in alcuni momenti persino trascinante, ma, ripeto, abbastanza fuori contesto.

CD36/37 – Jimi Hendrix. Ed ecco il gran finale del Festival, che verrà ricordato per uno di quei momenti che hanno scritto la storia del rock, cioè quando all’alba del quarto giorno, davanti ad un pubblico stravolto, il mancino di Seattle ha tirato fuori dalla sua chitarra una versione allucinata, potente, psichedelica e distorta dell’inno americano The Star-Spangled Banner. Il resto dell’esibizione di Jimi (qui a capo di un sestetto battezzato per l’occasione The Gypsy Sun And Rainbows, che comprende comunque i fedeli Billy Cox e Mitch Mitchell) è sempre stata giudicata ottima ma forse non all’altezza di altre leggendarie (tipo quella a Monterey). Io la giudico eccellente, a partire da una strepitosa Voodoo Child di 13 minuti ed a seguire con bellissime versioni di Spanish Castle Magic, Foxy Lady e Purple Haze, una Fire sanguigna e diretta ed una delle migliori rese di sempre della bluesata Red House. Finale con due strepitose improvvisazioni strumentali con Jimi che fa cose non umane alla chitarra (Woodstock Improvisation e Villanova Junction) e con la sempre spettacolare Hey Joe.

CD38 – Appendix. Dischetto per completisti, che comprende tutti gli “stage announcements” pre e post concerto, oltre a tutto ciò di non musicale che è avvenuto durante i tre giorni. Dubito che qualcuno lo ascolterà mai.

Spero di non avervi tediato, ma secondo me valeva la pena rivivere quei tre giorni di Agosto 1969 che, volenti o nolenti, hanno rivoluzionato il mondo della musica contemporanea e hanno in un certo senso chiuso la stagione della Summer Of Love, preparando l’ingresso negli anni settanta nei quali il rock diventerà sempre di più un business perdendo la sua innocenza. So che quest’anno sono già uscite importanti riedizioni (il box della Rolling Thunder Revue) ed altre sono in arrivo (Abbey Road), ma credo che nessuno si offenderà se eleggo fin d’ora questo mastodontico cofanetto “ristampa del 2019”.

Marco Verdi

Si Può Fare Di Meglio, Grande Tecnica E Talento, Due Canzoni Notevoli, Il Resto Meno. Eric Gales – The Bookends

eric gales the bookends

Eric Gales – The Bookends – Mascot/Provogue          

Secondo album di Eric Gales per la Mascot/Provogue, dopo il discreto Middle Of The Road del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/02/21/anticipazione-nuovo-album-il-24-febbraio-esce-eric-gales-middle-of-the-road/ : come mi è capitato di dire più volte recensendo i suoi dischi, Gales è un vero talento, un ragazzo prodigio all’esordio a 16 anni con la Eric Gales Band in un eccellente album per la  Elektra. Poi da allora 15 album, fino a questo The Bookends, con risultati alterni: la tecnica del mancino di Memphis non si discute, come le sane influenze,  Jimi Hendrix in primis, e Muddy Waters e Howlin’ Wolf, con i quali il nonno di Eric, Dempsey Garrett Sr., era solito cimentarsi in jam sessions, ma anche, tramite i fratelli Eugene e Manuel (conosciuto come Little Jimmy King), Albert e B.B. King. Hendrix è rimasto un imprimatur indelebile, i bluesmen meno, a favore di elementi rock, che sconfinano anche nell’hard e nel metal, oltre, negli ultimi anni, a parer mio purtroppo, pure derive pop, R&B “moderno”, persino hip-hop, con risultati non sempre eccitanti: molti alti e bassi, per quanto, come testimoniano i suoi dischi Live, rimane sempre un grande chitarrista a livello concerti.

Anche questo nuovo album non risolve il dilemma, a fianco di un paio di brani strepitosi, ce ne sono altri veramente scarsi: nella prima categoria metterei una rilettura gagliarda di With A Little Help From My Friends, insieme alla voce femminile del momento, ossia Beth Hart, una versione a due voci dove si apprezza la capacità di interprete di Beth, sempre in grado di incendiare le canzoni dove mette il sigillo della sua voce imponente ed appassionata, e anche il classico dei Beatles che tutti conosciamo nella versione di Joe Cocker, riluce con forza in questa interpretazione magistrale, dove non manca il ruggito vocale della Hart, che è ormai un marchio di fabbrica del brano, naturalmente per chi se lo può permettere, e anche Gales sia a livello vocale che con la sua chitarra contribuisce alla riuscita del tutto. L’altro brano notevole, non casualmente, è un altro duetto, questa volta con Doyle Bramhall II (altro musicista, eccellente come gregario, meno continuo come artista solo https://discoclub.myblog.it/2018/10/09/bravo-come-gregario-chiedere-a-clapton-ed-altri-meno-come-solista-in-proprio-doyle-bramhall-ii-shades/ ), alle prese con Southpaw Serenade, una canzone anni ’40, che qui diventa un lungo blues’n’soul raffinato, ma ricco di trasporto, dove le soliste dei due mancini si scambiano assoli con libidine e classe, sullo sfondo creato dalla band di Gales, dove brillano i suoi compagni di avventura, Mono Neon (Basso), Aaron Haggerty (Batteria),  la moglie LaDonna Gales (alle armonie vocali) e Dylan Wiggins (Organo).

Se tutto il disco fosse così non dico che si griderebbe al miracolo, ma sarebbe un bel sentire: come avrete capito anche questa volta non ci siamo del tutto, per usare un eufemismo, anche se grazie a questi due brani il disco si meriterebbe la sufficienza, ma le collaborazioni con B. Slade, ex cantante gospel “pentito”, come Tonéx, e ora artista a cavallo tra neo soul, hip-hop, trance, con qualche ricordo della musica di famiglia, prima illudono nella bella intro acustica di Something’s Gotta Give che poi si trasforma in un discreto duetto di soul moderno, ma poi deludono nella pasticciata bonus Pedal To the Metal (remix), un funkettino insulso https://www.youtube.com/watch?v=UHjuqqZAG6Y , in entrambi i brani si salva giusto il lavoro della solista di Gales. E non è che It Just Beez That Way, dove Eric si cimenta con un beatboxing hip-hop (giuro!) sia molto meglio, anche se il brano contiene la prima volta su disco di Gales alla slide, anche con wah-wah, ma il suono ha sempre questo arrangiamento “moderno” che almeno a chi scrive non piace molto https://www.youtube.com/watch?v=U9kkoYEJEhE . Più interessante, anche se non memorabile, Whatcha Gon’ Do, con qualche spunto hendrixiano, epoca Band Of Gypsys; insomma la produzione di Matt Wallace, famoso per il suo lavoro con i Maroon 5 (!) e che ha sostituito David Bianco, scomparso durante la realizzazione del disco, non entusiasma molto. Discreta la soul ballad How Do I Get You e non male il poderoso rock Reaching For A Change e il vorticoso strumentale virtuosistico Resolution. Finirei con il solito” Mah” che dedico ultimamente alle sue recensioni.

Bruno Conti

Un “Grosso” Artista In Azione, In Tutti I Sensi! Victor Wainwright & The Train – Victor Wainwright And The Train

Victor Wainwright & The Train

Victor Wainwright & The Train – Victor Wainwright And The Train – Ruf Records

Se vi siete persi i dischi precedenti https://discoclub.myblog.it/2015/09/14/grande-musica-dal-sud-degli-states-victor-wainwright-the-wildroots-boom-town/ , non commettete l’errore ancora una volta: qui parliamo di “grosso” artista al lavoro, perché Victor Wainwright da Savannah, Georgia, residente in quel  di Memphis, è un personaggio che merita di essere conosciuto. Pianista, ma suona anche organo, piano elettrico, Mellotron e lapsteel, cantante in possesso di una voce strepitosa, con echi di Dr.John, Leon Russell, Fats Domino, ma pure di Little Richard, dei quali incorpora anche gli stili musicali. Ad ogni album, o quasi, cambia il nome del gruppo: dopo alcuni dischi con i Wildroots, questa volta si fa accompagnare dai The Train, combo di quattro elementi, compreso il titolare, ma se aggiungiamo ospiti vari, si superano facilmente i dieci elementi https://www.youtube.com/watch?v=ZeTGdk1fVO4 . Wainwright  suona(va) anche in un’altra band, gli eccellenti Southern Hospitality, con Damon Fowler e Jp Soars, ma Victor lo troviamo anche negli album di Nancy Wright, Mitch Woods, con la Backtrack Blues Band, fra i tanti.

Questo nuovo album  è stato registrato proprio nei leggendari Ardent Studios di Memphis, e se nei dischi precedenti Victor si era fatto aiutare da Tab Benoit, questa volta si affida al bravo Dave Gross. Il risultato in questo Victor Wainwright And The Train è un disco dove boogie pianistico, R&R, soul, blues, ballate, tocchi di jazz e New Orleans vengono mirabilmente fusi con il rock e lo stile di gruppi come Mad Dogs & Englishmen, Commander Cody, Little Feat, in un frullato eccitante. Ho esagerato? Forse, ma il disco si ascolta veramente con grande piacere: dodici canzoni, tutte firmate dal titolare, dove gli stili si alternano e si mescolano di continuo in un’oretta abbondante in cui il divertimento è assicurato. Con il leader sono impegnati Billy Dean alla batteria, Terence Grayson al basso e Pat Harrington alla chitarra, oltre ad una piccola sezione fiati, che si ascolta in quasi tutti i brani del CD, alcuni vocalist aggiunti, tre o quattro chitarristi ospiti: si parte subito fortissimo con il boogie woogie, misto R&R, misto soul revue della scoppiettante Healing, dove sembra di ascoltare la band anni ’70 di Elvis mista ai Commander Cody, con il figlio illegittimo di Joe Cocker e Ray Charles (leggi Wainwright stesso) alla voce solista, tra chitarre tiratissime, organo, piano impazzito, fiati ovunque, che macinano ritmo e sudore; Wilshire Grave aggiunge elementi voodoo di New Orleans à la Dr. John, il groove è sempre micidiale, non mancano gospel, soul e jazz, e la musica scivola goduriosa, con chitarra e organo che si fronteggiano con maestria.

Poi Victor ci invita tutti a bordo e parte The Train, una canzone che avrebbe fatto vergognare Little Richard perché faceva canzoni troppo tranquille, qui il pianoforte è devastante, ma anche il resto della band non scherza. Dull Your Shine rallenta per un attimo, una bella mid-tempo ballad raffinata con retrogusti errebì  e spazio per un finissimo assolo di chitarra di Greg Gumpel. Money è uno shuffle blues rivisto con il funky dei Little Feat ed il wah-wah di Gumpel ancora sugli scudi, per non dire, ci mancherebbe, del piano. Il nostro amico scrive anche una bellissima Thank You Liucille, canzone dedicata a B.B. King e alla sua chitarra, brano sullo stile di The Thrill Is Gone, con affetto, rispetto e notevoli risultati, forse il pezzo più bello del disco, Mike Welch ospite alla solista https://www.youtube.com/watch?v=az6mYrtRkG4 .Ma la qualità non scema in una Boogie Depression in cui dimostra che il Pinetop Perkins piano player assegnatogli per due anni di fila, non era stato un caso. E se serve Victor Wainwright scrive, suona e canta anche canzoni d’amore coi fiocchi, come la dolcissima Everything I Need, pura deep soul music. In Righteous si torna a viaggiare sul “treno” infoiato dell’amore , anche grazie alla slide tangenziale di Josh Roberts. I’ll Start Tomorrow è un voluttuoso brano à la Fats Domino, mentre la lunga  Sunshine introduce elementi psichedelici stile Dr. John primi anni ’70, con flauto e la solista scatenata di Harrington a guidare le danze. That’s Love To Me, quasi nove minuti, chiude degnamente il disco con una lunga e magnifica ballata, con un paio di assoli di chitarra da sballo, degna delle migliori di Leon Russell. Bellissimo disco!

Bruno Conti

Questo E’ Veramente L’Ultimo? Leon Russell – On A Distant Shore

leon russell on a distant shore

Leon Russell – On A Distant Shore – Palmetto Records/Ird  

Leon Russell è morto a novembre del 2016, a 74 anni http://discoclub.myblog.it/2016/11/14/il-2016-maledetto-volta-se-ne-andato-leon-russell/ ma nei mesi precedenti alla sua scomparsa, si è poi scoperto, aveva fatto in tempo ad incidere un ultimo album: tre canzoni del quale preparate per il “Tommy LiPuma’s Big Birthday Bash”, in onore dell’80° compleanno del grande produttore americano (nel frattempo anche lui deceduto a marzo del 2017). Il disco che ne è risultato, non raggiunge ovviamente i livelli di quello del 2010, The Union, in coppia con Elton John  e di quello si pensava fosse il disco finale di Russell, Life Journey, un disco di standard fatto proprio con LiPuma. In questo ultimo lavoro, aiutato a livello di produzione da Mark Lambert, il nostro amico appare ancora vispo e pimpante in una sequenza di dodici canzoni, nove nuove e tre che sono riletture di alcuni suoi classici, resi celebri da altri artisti. Come ricorda Lambert nelle note del CD, una delle più grandi aspirazioni di Russell era quella di essere ricordato come compositore, grazie ai suoi brani che sono stati incisi da grandi artisti nel corso degli anni: ma comunque con la sua voce particolare, la sua maestria al piano e ad altri strumenti, la sua abilità come arrangiatore, il musicista dell’Oklahoma ha saputo regalarci in una lunga carriera una serie di album notevoli, soprattutto quelli del periodo degli anni ’70.

Nel disco in questione, registrato nello studio ThirtySeventeen di Nashville, suona un nutrito numero di musicisti, oltre ad una sezione fiati e archi (sintetici, credo), i più noti sono Gregg Morrow alla batteria, Mike Brignardello al basso, Andre Reiss e Chris Leuzinger alle chitarre, l’ottimo Russ Pahl alla steel guitar, e ospite in un brano il giovane fenomeno della chitarra Ray Goren, ora 17enne. L’iniziale title track On A Distant Shore, in un florilegio di fiati ed archi, vede un Russell in sorprendente buona voce, con il suo timbro caratteristico, rauco, vissuto e laconico, anche se le armonie vocali delle figlie Sugaree e Coco Bridges, sono forse fin troppo “esagerate”, dando un tono crossover e pop al CD, accentuato anche dalla strumentazione molto lussureggiante. Questa è quasi sempre presente nei brani, anche se il sound altrove è più brillante e tirato, come in Love This Way dove chitarre e piano si fanno largo nell’orchestrazione, il tutto anche con un bel sound, quasi da major, insomma più che per sottrazione si è lavorato per addizione, ma il risultato non è totalmente disprezzabile; Here Without You è una delle sue classiche ballate romantiche, forse un filo troppo “schmaltzy” (un termine americano che potremmo tradurre con sdolcinato), ma con elementi che potrebbero richiamare il Willie Nelson a cavallo tra country e standards, pur se ogni tanto verrebbe da sparare agli orchestrali per eliminarne alcuni, anche se probabilmente il tutto è ricreato con le tastiere sintetizzate di Larry Hall.

Prendete la ripresa di This Masquerade, uno dei suoi cavalli di battaglia, questa versione più che alla sua o a quella jazzy di George Benson, si avvicina a quella dei Carpenters, ma senza la voce fatata di Karen https://www.youtube.com/watch?v=ljWyIKyua8c . In Black And Blue, dove appare Goren alla chitarra solista (aiutato dal suo mentore Eddie Kramer, (mai dimenticato ingegnere del suono e collaboratore di Jimi Hendrix): il suono è più grintoso, tra blues e rock, ma subito in Just Leaves And Grass si torna in parte allo stile un po’ melodrammatico delle canzoni precedenti, troppo cariche per Russell che deve sforzare la sua voce oltre i limiti, cosa che si ripete anche in On The Waterfront dove si sfanga il risultato grazie alla classe del vecchio Leon, ma a fatica. La jazzata e notturna Easy To Love lascia intravedere il suo tocco magico al piano, sempre in questa produzione che maschera il resto dei musicisti; Hummingbird era nel suo disco omonimo del 1970 e anche in Mad Dogs And Englishmen, cantata da Joe Cocker, la canzone è sempre bellissima, malinconica ed avvolgente, ma non raggiunge i vertici delle versioni citate. The One I Love introdotta da un clarinetto, potrebbe quasi far parte di un disco di standard, grazie alla facilità con cui Russell ha sempre scritto melodie cantabili, però la sovrapproduzione non giova; meglio Where Do We Go From Here dove Lambert trattiene gli arrangiamenti orchestrali di Hall e lascia affiorare la melodia deliziosa del brano. A Song For You l’hanno incisa quasi tutti, una canzone splendida che chiude questa ultima fatica di Leon Russell https://www.youtube.com/watch?v=37dw2r45Xzg , un album che avrebbe potuto essere migliore senza tutte le “sovrastrutture.” ma rimane un discreto disco postumo, pur senza la qualità sopraffina di quello recente di Glenn Campbell http://discoclub.myblog.it/2017/08/10/se-lungo-addio-deve-essere-questo-e-uno-dei-migliori-glen-campbell-adios/ .

Bruno Conti

Ci Mancava Un Ennesimo Bel Tributo A Bob Dylan! Various Artists – Take What You Need

take what you need uk covers of bob dylan songs

Various Artists – Take Whay You Need: UK Covers Of Bob Dylan Songs 1964-69 – Ace CD

Uno degli infiniti modi per capire l’importanza di Bob Dylan è notare che nel 2017, a 55 anni dal suo esordio discografico, sono usciti ben tre tributi alla sua arte, e tutti da parte di artisti di una certa importanza (Old Crow Medicine Show, Willie Nile e Joan Osborne, il tutto mentre Bob era sempre più impegnato ad omaggiare Frank Sinatra): ora la Ace, etichetta londinese indipendente che aveva già pubblicato How Many Roads: Black America Sings Bob Dylan, ha ideato questo originale Take What You Need, che come recita il sottotitolo si occupa di radunare alcune cover dylaniane da parte di artisti britannici, uscite negli anni sessanta. Quella era infatti la decade nella quale Dylan, oltre che essere già importante, era anche “cool”, e se volevi essere al passo coi tempi dovevi giocoforza incidere una sua canzone prima o poi; in diversi casi le cover ottennero più successo degli originali (per esempio Blowin’ In The Wind di Peter, Paul & Mary o la Mr. Tambourine Man dei Byrds), in altri si occupavano di canzoni che Bob non aveva neppure pubblicato (Farewell Angelina di Joan Baez o The Mighty Quinn dei Manfred Mann), in altri, assai raramente, la rilettura surclassava nettamente la versione di Dylan (una su tutte, All Along The Watchtower di Jimi Hendrix). Take What You Need è interessante in quanto racchiude tutte cover abbastanza poco note, certamente rare (non inedite, ma vi sfido a trovarle comunque in giro) anche se va detto che in quasi nessun caso superano l’originale.

L’ascolto è però tutto sommato piacevole, grazie anche al libretto incluso che fornisce note dettagliate canzone per canzone, ma soprattutto per la bellezza dei brani stessi. Si inizia con The Fairies, un gruppo-meteora che fece uscire appena tre singoli, con una deliziosa Don’t Think Twice, It’s All Right, tra folk-rock e country, con la melodia del brano che si presta alla perfezione a questo trattamento, in contrasto con la voce arrochita e “beat” del cantante Dane Stephens. Una giovanissima Marianne Faithfull ci presenta una Blowin’ In The Wind molto leggiadra, tra folk e pop, gradevole anche se un po’ barocca, diciamo che quello della folksinger non era il vestito giusto per lei; la corale Oxford Town dei Three City Four (un gruppo folk che comprendeva Leon Rosselson alla voce e soprattutto il grande Martin Carthy alla chitarra) ha il sapore dei vecchi canti appalachiani, con il banjo come strumento guida, mentre Ian Campbell ed il suo Folk Group rileggono The Times They Are A-Changin’ in maniera rigorosa, con la stessa enfasi dei gruppi del folk revival di casa al Village (cover già datata allora, era il 1965 e Dylan era tre passi avanti ed aveva già attaccato la spina). I Manfred Mann sono famosi per la già citata The Mighty Quinn, ma qui la scelta è ricaduta su If You Gotta Go, Go Now: bella versione, molto Dylan ’65 grazie all’uso di chitarre ed organo; It’s All Over Now Baby Blue (canzone che contiene la frase che intitola il CD) dei misconosciuti The Cops’n’Robbers, un gruppo errebi-garage che sparì dopo tre singoli, si salva per la bellezza della canzone, ma sparisce in confronto con quella dei Them.

Mr. Tambourine Man del duo folk-rock Chad And Jeremy è letteralmente copiata da quella dei Byrds, riff di chitarra compreso, ad un ascolto disattento potrebbe sembrare la stessa canzone, cover senza la minima personalità, mentre Noel Harrison, figlio dell’attore Rex, riesce a fare sua la splendida Love Minus Zero/No Limit proponendo una rilettura di ottimo livello. One Too Many Mornings da parte della folksinger Julie Felix (che allora veniva spacciata per la Joan Baez inglese) è forse scolastica ma comunque bella, pura e cristallina; la grandiosa Visions Of Johanna è materia pericolosa, ma gli sconosciuti The Picadilly Line (è giusto con una “c” sola) la ripropongono con mano leggera, rispettosa e preservando la melodia originale. Il folksinger scozzese Alex Campbell, troppo tronfio, non rende un gran servizio a Just Like Tom Thumb’s Blues, meglio The Alan Price Set, con l’ex Animals che ci regala una versione essenziale, voce e piano, della bellissima To Ramona, mentre The Factotums (un gruppo di Manchester scoperto da Andrew Loog Oldham che però non ebbe fortuna) rilasciano una Absolutely Sweet Marie decisamente dylaniana, ma piacevole e riuscita. I poco noti The Alan Bown sono presenti con una All Along The Watchtower bella, roccata e potente: pare addirittura che Hendrix fu influenzato da questa versione, più che dall’originale di Bob (la voce solista, Jess Roden, poi nei Bronco, sarebbe stato uno dei candidati a sostituire Jim Morrison nei Doors, ma questa è un’altra storia); Boz altri non è che Raymond Burrell, futuro membro prima dei King Crimson e poi dei Bad Company, e la sua I Shall Be Released in veste soul-rock è una delle più belle del CD.

Julie Driscoll e Brian Auger (che sono i due raffigurati in copertina) colorano I Am A Lonesome Hobo di soul-errebi, trasformandola completamente, mentre I’ll Keep It With Mine dei Fairport Convention è fin troppo nota (ma allora perché non mettere la drammatica Percy’s Song?); il quartetto The Mixed Bag è tra i meno conosciuti del CD (hanno all’attivo appena due 45 giri), anche se questa pimpante e divertente Million Dollar Bash è prodotta dal grande Tim Rice ed è tra le più gradevoli. Il chitarrista folk-blues Cliff Aungier non sbaglia con una vivace Down Along The Cove (ma il flauto c’entra poco), mentre i Country Fever, che è uno dei gruppi meno noti tra quelli in cui ha militato il grande chitarrista Albert Lee, si cimentano con la non facile Tears Of Rage e riescono nell’intento, bella versione. Il CD si chiude con due degli artisti più popolari: Joe Cocker alle prese con una Just Like A Woman un po’ troppo pop per i miei gusti (ci suona anche Jimmy Page, ma non fa molto per farsi sentire), e Sandie Shaw, la “cantante scalza”, che propone un’eterea Lay, Lady, Lay, bell’arrangiamento ma voce troppo infantile. In definitiva Take What You Need è un dischetto gradevole, non troppo impegnativo, ma interessante, con diverse buone versioni di classici di Bob Dylan e qualcuna meno valida: mi sento comunque di consigliarlo soltanto ai dylaniani incalliti.

Marco Verdi

Il Nuovo British Blues? Forse Era Meglio Quello Vecchio, Per Quanto… Sean Webster Band – Leave Your Heart At The Door

sean webster band leave your heart at th door

Sean Webster Band – Leave Your Heart At The Door – Sean Webster Band.Com   

Quando si pensa ad un movimento blues nel Regno Unito (ed in Irlanda) siamo comunque su un ordine di grandezza abbastanza importante: il numero dei gruppi e solisti praticanti è piuttosto consistente, però a differenza degli Stati Uniti, lo stile è decisamente più meticciato con il rock e spesso con l’hard-rock, per quanto di qualità, e quindi parliamo più di blues-rock che di blues vero e proprio, con qualche eccezione anche storica. In effetti le nuove generazioni, e comunque in generale, citano di solito come influenze, a fianco dell’immancabile trittico dei King (Albert, B.B e Freddie). Albert Collins, Robert Cray, più raramente Muddy Waters e Howlin’ Wolf, ma soprattutto gente come Gary Moore, Mark Knopfler, persino Jonny Lang, oltre a Eric Clapton, che è il punto di riferimento massimo. O quantomeno questi sono i nomi che cita Sean Webster, chitarrista inglese, titolare di una band che ha al proprio attivo già cinque album e un EP, e una cospicua serie di tour in giro per il mondo: al solito non stiamo parlando di un fenomeno assoluto, ma di un chitarrista e cantante (che qualcuno ha paragonato a Joe Cocker, ma al sottoscritto ricorda più Zucchero quando fa Cocker, quindi diciamo adeguato), comunque di buona qualità, i cui dischi si ascoltano con piacere, e questo Leave Your Heart At The Door, il sesto della serie, non fa eccezione.

Accompagnato da una band internazionale, composta da musicisti olandesi e canadesi, Greg Smith al basso, Joel Purkess alla batteria e Bob Fridzema alla batteria, Webster ci propone undici brani originali, con l’unica eccezione di una cover firmata da Keith Urban, che non è proprio il primo nome che mi vien in mente come bluesman. Comunque niente paura, ribadisco, il disco è piacevole: sin dall’apertura, con un rock and soul ondeggiante appunto tra Joe Cocker e Clapton, Give Me The Truth, dove si apprezza anche il mixaggio dell’album, affidato a Jon Astley (uno che ha lavorato per Who, Charlie Watts, George Harrison, Eric Clapton, Rolling Stones,Van Morrison, Paul McCartney, Peter Gabriel e mille altri), quindi sound brillante, con la chitarra spesso pimpante e in bella evidenza. Wait Another Day è una ballata, melodica e claptoniana (si può dire, ormai è un aggettivo assodato), rock classico, niente blues neanche a cercarlo col lanternino, ma Webster e soci suonano veramente bene, con l’assolo, quando arriva nel finale, molto alla Manolenta, ricco di feeling e buon gusto. Non male anche l’intensa Broken Man, con un buon interscambio tra organo e chitarra e il solito assolo, quasi alla Gilmour per l’occasione, e You Got To Know, dove finalmente si vira verso un blues(rock) grintoso e tirato, che poi si appalesa in tutta la sua forza in un lungo slow blues classico come Start Again, dove Webster  lascia andare la solista con feeling e tecnica.

Hands Of Time, leggera e scanzonata, seppur non memorabile è di nuovo dalle parti del Joe Cocker meno ingrifato, pure con arrangiamento d’archi aggiunto, mentre Silence Echoes In My Heart è quasi un composito tra Pink Floyd e Procol Harum, con qualche eco soul. Rimaniamo dalle parti del british pop-rock anche per la ritmata You Can Say, con la title-track Leave Your Heart At The Door che è di nuovo una bella balata, dalle parti del blue eyed soul raffinato. PennyLeen Krebbers, non conosco ma brava, aggiunge la sua ugola per una I Don’t Wanna Talk About It che viaggia dalle parti dei duetti Beth Hart/Joe Bonamassa, con meno grinta e classe, ma buona attitudine. Infine ‘Til Summer Comes Around è una canzoncina che denota lo stile del suo autore (Keith Urban), niente di deleterio, ma ce ne sono mille così in giro, si poteva scegliere meglio. In definitiva piacevole e ben suonato, una sorta di controparte inglese di Jonny Lang o di John Mayer, se vi interessa.

Bruno Conti

Una Storia Complicata Ma Ricca Di “Gloria”. Joe Cocker – Mad Dog With Soul

joe cocker mad dog with soul

Joe Cocker – Mad Dog With Soul – Eagle Rock/Universal DVD

Sono passati ormai più di 2 anni dalla scomparsa di Joe Cocker http://discoclub.myblog.it/2014/12/23/conclusione-anno-terribile-livello-decessi-nellambito-musicale-ieri-morto-anche-lacciaio-sheffield-joe-cocker-1944-2014/ ,  quindi pareva quasi inevitabile che prima o poi al grande cantante di Sheffield venisse dedicato un documentario che ne tracciasse il percorso umano e musicale. Di DVD dal vivo di Cocker ne esistono molti, a partire dallo splendido Mad Dog And Englishmen, quello da avere assolutamente, e poi vari concerti dal vivo registrati soprattutto nella seconda parte della sua carriera, ma nessuno si era spinto a tracciare in modo così approfondito la sua biografia, e questo Mad Dog With Soul (titolo che dice già tutto) lo fa in modo eccellente, anche se come quasi tutti i vari tipi di “rockumentary”, lo fa, purtroppo, a scapito della musica, perché di materiale dal vivo ce n’è veramente poco. Intendiamoci, il film è fatto molto bene, con familiari, amici e musicisti che lo hanno conosciuto che raccontano la storia della sua travagliata vicenda con ricchezza di particolari, in modo molto umano, a tratti persino emozionante nei continui saliscendi della sua vicenda artistica e umana, ma su 90 minuti di durata (più altri 30 minuti di materiale extra), a voler esagerare, ci saranno dieci forse quindici minuti di pezzi tratti da concerti o apparizioni televisive, sempre in brevissimi spezzoni che finiscono praticamente quasi subito.

D’accordo, la storia è appassionante e ricca di colpi di scena, però il DVD non ha neppure i sottotitoli in italiano e qualche pezzo musicale completo ci sarebbe stato molto bene. Comunque la vicenda parte nell’Inghilterra della fine anni ‘50 attraverso le voci dei vari protagonisti: lo stesso Joe Cocker con interviste d’archivio, il fratello Victor, la vedova Pam Baker Cocker che entra nella vicenda solo verso la fine degli anni ’70, e poi Chris Stainton, Jerry Moss, Rita Coolidge, Billy Joel, Jimmy Webb, Randy Newman, uno dei suoi manager Michael Lang (proprio lui, l’organizzatore del Festival di Woodstock) e altri “interpreti minori”. Il film, tra l’altro parte alla grande, con un filmato di Joe Cocker, dal vivo a New York, nel 1970, che canta una With A Little Help From My Friends tratta dal tour di Mad Dog, con Leon Russell e il suo cilindro che lo affiancano, ma in meno di un minuto è già finito. E questo già indica come sarà il contenuto del film: interviste con un giovane ed arruffato Joe, spesso trasandato, timido, ma ancora dotato del bene dell’intelletto, che racconta di quando da bambino, intorno ai dodici anni, a casa, davanti allo specchio, si esercitava con una racchetta da tennis in quella che poi sarebbe stata definita “air guitar”; Phil Crookes, uno dei suoi primi amici nella Sheffield degli anni ’50, racconta che sin da allora Joe ascoltava molto la radio e aveva già sviluppato la sua passione per quello che sarebbe stato il faro e il modello di tutta la sua carriera, Ray Charles. Insomma, il film si vede con piacere, nella sua narrazione che ci porta dal primo brano di successo, scritto con Chris Stainton, Marjorine, al primo album, prodotto da Denny Cordell, e con Jimmy Page, Steve Winwood e altri luminari dell’epoca impegnati nel disco, l’incontro con i Beatles, Harrison e McCartney che gli regalano Something e She Came In Through The Bathroom Window, per il secondo disco, e anche quello con Jerry Moss, il boss dell’A&M che lo lancerà, dopo il grandissimo successo di Woodstock (anche qui proprio un filmato da intramuscolo, con Billy Joel che ricorda di averlo visto ed essere rimasto folgorato da quella voce incredibile).

E ancora, Rita Coolidge che ricorda l’esperienza del tour di Mad Dog, guidato da Leon Russell, delegato dallo stesso Cocker, e al termine del quale gli oltre 50 protagonisti erano praticamente senza un soldo, e Joe sviluppò la sua dipendenza per qualsiasi tipo di droga, alcol e pasticche, che nel giro di un anno lo avrebbero trasformato in una sorta di relitto umano, e  le foto e i filmati di un Joe Cocker simile a un barbone, ormai privo del lume della ragione sono impressionanti: fino al culmine del suo concerto di rientro, in cui c’era tutta l’industria discografica e Joe non riuscì non dico a cantare ma neppure a muoversi. Poi ci sono i tentativi di recupero con l’aiuto di Lang, alcuni momenti felici, dall’incontro con l’idolo (anzi il Dio)  Ray Charles, al piano di fianco ad un adorante Cocker mentre cantano You Are So Beautiful, a quello con la futura moglie Pam che dividerà con lui gran parte della vita, il ritorno al successo con Up Where We Belong in coppia con Jennifer Warnes e You Can Leave Uour Hat On, fino agli anni ’90 e oltre, quando grazie all’incontro con il nuovo manager (mollando Lang senza un ringraziamento), lo stesso di Tina Turner, tornerà ad essere una superstar in giro per tutto il mondo, anche se, aggiungo io,  i livelli qualitativi dei primi anni non verranno mai più raggiunti. Motivi quindi per guardare questo DVD ce ne sono, pur se con i limiti espressi all’inizio.

Bruno Conti

Anche Questo Succedeva 50 Anni Fa, Ancora Grande Musica! Beach Boys – 1967 Sunshine Tomorrow

beach boys sunshine tomorrow

The Beach Boys – 1967 Sunshine Tomorrow – 2 CD Capitol – 30-06-2017

Oltre a Sgt. Pepper’s dei Beatles http://discoclub.myblog.it/2017/06/01/it-was-really-fifty-years-ago-today-ovvero-era-giusto-50-anni-fa-oggi-the-beatles-sgt-peppers-lonely-hearts-club-band/, nel 1967 uscivano anche due dischi dei loro rivali storici oltreoceano, i Beach Boys: a settembre Smiley Smile, e a dicembre Wild Honey. Proprio in questi giorni la Universal, nuova proprietaria dei diritti degli album Capitol del gruppo americano, pubblica il doppio CD che vedete effigiato qui sopra, e che è una sorta di “combinato disposto” dei due album in questione, ma arricchito da una quantità spropositata di bonus tracks ed al prezzo di un CD (ogni tanto i miracoli accadono, delle ristampe a “prezzi umani). Vediamo (e sentiamo) cosa contiene. Prima di tutto vi riporto nuovamente la lista completa dei contenuti, poi andiamo ad esaminarla più nel dettaglio.

CD 1

Wild Honey (New Stereo Mix) (original mix released as Capitol ST 2859, 1967)
(New stereo mix, except as noted *. Recorded September 15 to November 15, 1967 at Brian Wilson’s house and at Wally Heider Recording in Hollywood, California)

1. Wild Honey (2:45)
2. Aren’t You Glad (2:16)
3. I Was Made To Love Her (2:07)
4. Country Air (2:21)
5. A Thing Or Two (2:42)
6. Darlin’ (2:14)
7. I’d Love Just Once To See You (1:49)
8. Here Comes The Night (2:44)
9. Let The Wind Blow (2:23)
10. How She Boogalooed It (1:59)
11. Mama Says * (Original Mono Mix) (1:08)

Wild Honey Sessions: September – November 1967 (Previously Unreleased)
12. Lonely Days (Alternate Version) (1:45)
13. Cool Cool Water (Alternate Early Version) (2:08)
14. Time To Get Alone (Alternate Early Version) (3:08)
15. Can’t Wait Too Long (Alternate Early Version) (2:49)
16. I’d Love Just Once To See You (Alternate Version) (2:22)
17. I Was Made To Love Her (Vocal Insert Session) (1:35)
18. I Was Made To Love Her (Long Version) (2:35)
19. Hide Go Seek (0:51)
20. Honey Get Home (1:22)
21. Wild Honey (Session Highlights) (5:39)
22. Aren’t You Glad (Session Highlights) (4:21)
23. A Thing Or Two (Track And Backing Vocals) (1:01)
24. Darlin’ (Session Highlights) (4:36)
25. Let The Wind Blow (Session Highlights) (4:14)

Wild Honey Live: 1967 – 1970 (Previously Unreleased)
26. Wild Honey (Live) (2:53) – recorded in Detroit, November 17, 1967
27. Country Air (Live) (2:20) – recorded in Detroit, November 17, 1967
28. Darlin’ (Live) (2:25) – recorded in Pittsburgh, November 22, 1967
29. How She Boogalooed It (Live) (2:43) – recorded in Detroit, November 17, 1967
30. Aren’t You Glad (Live) (3:12) – recorded in 1970, location unknown

31. Mama Says (Session Highlights) (3:08)
(Previously unreleased vocal session highlights. Recorded at Wally Heider Recording, November 1967)

CD 2

Smiley Smile Sessions: June – July 1967 (Previously Unreleased)
(Recorded June and July 1967 at Brian Wilson’s house, Western Recorders, SRS, and/or Columbia Studios, except as noted *)
1. Heroes And Villains (Single Version Backing Track) (3:38)
2. Vegetables (Long Version) (2:55)
3. Fall Breaks And Back To Winter (Alternate Mix) (2:28)
4. Wind Chimes (Alternate Tag Section) (0:48)
5. Wonderful (Backing Track) (2:23)
6. With Me Tonight (Alternate Version With Session Intro) (0:51)
7. Little Pad (Backing Track) (2:40)
8. All Day All Night (Whistle In) (Alternate Version 1) (1:04)
9. All Day All Night (Whistle In) (Alternate Version 2) (0:50)
10. Untitled (Redwood) * (0:35)
(Previously unreleased instrumental fragment. Studio and exact recording date unknown. Discovered in tape box labeled “Redwood”)

Lei’d In Hawaii “Live” Album: September 1967 (Previously Unreleased)
(Recorded September 11, 1967 at Wally Heider Recording in Hollywood, CA, with additional recording September 29, 1967 (except as noted *). Original mono mixes from assembled master ½” reel, dated September 29, 1967, discovered in the Brother Records Archives.)
11. Fred Vail Intro (0:24)
12. The Letter (1:54)
13. You’re So Good To Me (2:31)
14. Help Me, Rhonda (2:24)
15. California Girls (2:30)
16. Surfer Girl (2:17)
17. Sloop John B (2:50)
18. With A Little Help From My Friends * (2:21)
(Recorded at Brian Wilson’s house, September 23, 1967)
19. Their Hearts Were Full Of Spring * (2:33)
(Recorded during rehearsal, August 26, 1967, Honolulu, Hawaii)
20. God Only Knows (2:45)
21. Good Vibrations (4:13)
22. Game Of Love (2:11)
23. The Letter (Alternate Take) (1:56)
24. With A Little Help From My Friends (Stereo Mix) (2:21)

Live In Hawaii: August 1967 (Previously Unreleased)
(The Beach Boys recorded two complete concerts and rehearsals in Honolulu on August 25 and 26, 1967. Brian Wilson rejoined the group onstage for these shows; Bruce Johnston was not present. The following tracks derive from the original 1″ 8-track master reels discovered in the Brother Records Archives.)
25. Hawthorne Boulevard (1:05)
26. Surfin’ (1:40)
27. Gettin’ Hungry (3:19)
28. Hawaii (Rehearsal Take) (1:11)
29. Heroes And Villains (Rehearsal) (4:45)

Thanksgiving Tour 1967: Live In Washington, D.C. & Boston (Previously Unreleased)
(The touring Beach Boys – Mike, Carl, Dennis, Al, and Bruce – embarked on a Thanksgiving Tour immediately after delivering the finished Wild Honey album to Capitol Records. For this tour, the band was augmented by Ron Brown on bass and Daryl Dragon on keyboards.)
30. California Girls (Live) (2:32) – recorded in Washington, DC, November 19, 1967
31. Graduation Day (Live) (2:56) – recorded in Washington, DC, November 19, 1967
32. I Get Around (Live) (2:53) – recorded in Boston, November 23, 1967

Additional 1967 Studio Recordings (Previously Unreleased)
33. Surf’s Up (1967 Version) (5:25)
(Recorded during the Wild Honey sessions in November 1967)
34. Surfer Girl (1967 A Capella Mix) (2:17)
(Previously unreleased mix of Lei’d In Hawaii take from the Wally Heider Recording sessions in September 1967)

Come vedete in tutto 65 brani, di cui ben 54 tracce inedite, in studio e dal vivo, con Wild Honey che appare su CD mixato per la prima volta in stereo. La sequenza cronologica vorrebbe che prima vengano le sessions per l’album Smiley Smile, iniziate al 3 giugno del 1967 e terminate a luglio (poco dopo l’ultima sessione del maggio 1967 per il leggendario Smile, che verrà poi accantonato per uscire postumo, solo nel 2011), mentre quelle per Wild Honey si tennero tra il 15 settembre e il 15 novembre dello stesso anno, con in mezzo, tanto per gradire, anche alcune registrazioni dal vivo, vere e “fasulle”, in quella a Honolulu dell’agosto del 1967 c’è anche Brian Wilson, e una traccia registrata pure nel 1970. Nel doppio 1967 Sunshine Tomorrow la sequenza viene rovesciata, nel senso che nel primo CD troviamo il materiale di Wild Honey (e molto altro), mentre nel secondo CD quello di Smiley Smile. Andiamo a sentire!

Wild Honey è il loro album soul/R&B, diciamo visto da una prospettiva “bianca”, ma comunque assai godibile, forse leggero, benché di buona qualità: negli anni addirittura è stato rivalutato a livello critico, anche se non mancano i detrattori. Al sottoscritto non dispiace per nulla, certo, se doveva essere la risposta (insieme a Smiley Smile) al Sgt, Pepper’s dei Beatles, forse non ci siamo, ma alcuni giornalisti musicali americani, tra cui lo stimato Robert Christgau del Village Voice, lo hanno addirittura inserito nella loro Top 10 all time, e anche il produttore Tony Visconti lo inserisce tra i suoi preferiti di sempre, mentre Rolling Stone lo cita tra i migliori “dischi estivi” (e visto il gruppo ci sta). Non mancano i detrattori come detto, ma visto che stiamo facendo una recensione positiva, al limite ve li andate a cercare voi. Le undici canzoni (per 25 minuti scarsi di durata!) sono tutte firmate da Brian Wilson Mike Love, meno una da Love, con Brian Johnston, Al Jardine Carl Wilson, più una cover della celebre (e molto bella) I Was Made To Love Her di Stevie Wonder. La title track è un classico brano alla Beach Boys metà anni ’60, con gli effetti sonori (vale a dire un uso più marcato delle testiere) che Wilson iniziava a padroneggiare in grande souplesse, unito a questo stile R&B “bianco”, che era una primizia; Aren’t You Glad sembra quasi un brano di Bacharach dell’epoca, quindi bello, piacevole pure la cover di I Was To Made To Love Her, anche se Carl Wilson forse fatica a calarsi in questo ruolo di “nero bianco”. Country Air è uno dei loro pezzi cantati coralmente, con le solite splendide armonie vocali, e non male, per usare un eufemismo, l’intricata One Thing Or Two; Darlin’, cantata nuovamente da Carl, rivaleggia con le loro migliori canzoni di sempre. A seguire i due brani cantati da Brian, I’d Love Just Once To See You Here Comes The Night, al solito allegre e spensierate, magari forse non dei super classici. Ottime ancora Let The Wind Blow, scritta e cantata coralmente dai fratelli Carl e Brian e dal cugino Mike e anche la danzereccia How She Boogalooed, scritta da tutto il gruppo. A chiudere il tutto la cortissima e a cappella Mama Says. E nella brevità delle canzoni sta forse l’unico limite di questo album, la più lunga dura due minuti e 40 secondi, le altre meno. Ottimo comunque il nuovo mix stereo.

Tra le chicche inedite, tutte molto belle, nel primo CD, dalle sessions di Wild Honey: Lonely Days, non inserita nell’album, la malinconica e quasi sperimentale Cool Cool Water, incisa per Smile, e pubblicata poi su Sunflower in un’altra versione. La quasi barocca Time To Get Alone, uscita poi su 20/20 e anche Can’t Wait Too Long, che uscirà addirittura solo nel 2008 nel disco solo di Brian Wilson, That Lucky Old Sun. Con l’aggiunta di questi quattro pezzi probabilmente Wild Honey sarebbe stato un signor album, in grado forse di rivaleggiare con Pet Sounds, forse. Poi nel CD troviamo diverse versioni alternative e frammenti di canzoni inserite nell’album, tra cui una  I’d Love Just Once To See You più bella dell’originale e una I Was Made To Love Her più lunga e grintosa. A seguire cinque o sei inserti strumentali assai interessanti che ci fanno tuffare nel mondo del gruppo, il migliore forse quello di Darlin’. Ci sono poi alcuni pezzi dal vivo del 1967, qualità sonora ottima e sorprendente, soprattutto le versioni di Wild Honey Country Air a Detroit e quella di Darlin’ a Pittsburgh, sono quasi pari agli originali di studio, alla faccia della scarsa tecnologia live dell’epoca; e molto interessante il lungo ed intricato estratto vocale per le prove in studio di Mama Says. 

Il secondo CD contiene alcune versioni alternative di brani che erano stati pubblicati su Smiley Smile, l’altro album del 1967 dei Beach Boys: partendo con due capolavori come Heroes And Villain Vegetables, come pure i due frammenti di All Day All Night che sarebbe uscita come Whistle In sull’album. Il famoso disco Lei’d In Hawaii avrebbe dovuto essere un album dal vivo registrato a Honolulu, ma paventando il disastro fu cancellato all’ultimo minuto, e ri-registrato dal vivo in studio, come direbbe The Donald un fake album Live, inciso ai Wally Heider Recording Studios di Hollywood, CA, l’11 settembre del 1967, e che sentito oggi, è un concerto della Madonna: ricco di cover sorprendenti e splendide e di alcuni classici (si fa per dire, visto che sono solo sette pezzi in tutto), tra cui The Letter dei Box Tops e una delicatissima With A Little Help From My Friends dei Beatles cantata da Brian Johnston (che curiosamente anni dopo sarebbero state incise entrambe da Joe Cocker)Help Me Rhonda, California Girls Sloop John B. A seguire troviamo le prove senza pubblico del concerto di Honolulu, con versioni da sballo di God Only Knows, Good Vibrations e le due cover appena citate. E anche 5 brani registrati davvero dal vivo ( lo si capisce dal pubblico urlante) alle Hawaii, ripescati dagli archivi della band, insieme ad altri tre registrati a fine anno tra Washington e Boston, tra cui una splendida California Girls e una malinconica Graduation Day, il tutto con qualità sonora (e di esecuzione) sorprendentemente buona. L’ultima rarità  inclusa nel secondo CD è una lunga versione di Surf’s Up che verrà poi inclusa nell’album omonimo nel 1971, ma che in questa versione venne registrata nel novembre del 1967.

Esce venerdì 30 giugno: come si usa dire in queste occasioni, imperdibile!

Bruno Conti