Festeggiano 25 Anni (E Spiccioli) Di Carriera Con Un Grande Disco! Blue Rodeo – In Our Nature

blue rodeo in our nature

Blue Rodeo – In Our Nature – Continental Song City/Blue Rose/IRD

Appartengo alla categoria di quelli che pensano che i Blue Rodeo siano una delle migliori band espresse dal rock degli ultimi trenta anni, sempre e comunque. Con due dei migliori autori e cantanti mai usciti dalla scena canadese: Jim Cuddy e Greg Keelor, con il sovrappiù di un ottimo bassista come Bazil Donovan, da sempre con loro. La critica più ricorrente (o il miglior complimento) che viene fatto alla loro musica è quella che i dischi sono sempre molto simili tra loro, ma secondo chi scrive è proprio questo il loro grande merito, il sound che hanno forgiato in questi anni è assolutamente perfetto, in un ambito più ampio che li inserisce nel filone country-rock-roots, Americana (anche se sono canadesi, il continente è quello), con mille rivoli e derivazioni che li uniscono alla Band, agli alfieri del country-rock anni 60/70 (Buffalo Springfield-Poco-Graham Parsons/Flying Burrito), ma anche al rock classico dei Beatles e dei Byrds (per l’eccellente uso delle armonie vocali e una facilità sopraffina nel creare melodie raffinate).

Forse giova loro il fatto di avere due leader, che fin dagli esordi, nella seconda metà degli anni ’80,i brani li firmano insieme Cuddy/Keelor, anche se poi si riconoscono quasi sempre la vena musicale e le voci, più tipicamente country-rock, dalle tonalità “alte”, dolce, ma in grado di essere più grintosa, per Jim Cuddy, più malinconica e riflessiva, dalle tonalità più “basse” per Greg Keelor, pur essendo in grado di essere interscambiabili. Di questo In Our Nature ho letto che è una sorta di ritorno alla forma migliore dopo un lunga assenza (veramente The Things We Left Behind era uscito quattro anni fa, ed era stato salutato, giustamente, come uno dei migliori in assoluto), ma i giudizi, anche il mio (grande-musica-dal-canada-blue-rodeo-all-the-things-we-left-b.html), sono assolutamente opinabili, quindi si accettano, ma si possono anche confutare. Per cui accetto il “ritorno alla forma”, ma è in corso già da parecchio tempo, ammesso che se ne sia mai andata, perché non ricordo dischi brutti dei Blue Rodeo, ma ammetto di essere parziale. La differenza rispetto al disco precedente risiede in un sound più rilassato, forse meno tirato a momenti (nel disco del 2009 c’erano alcuni lunghi brani con epiche cavalcate chitarristiche, tra Young e la psichedelia), frutto dell’ambiente più intimo in cui è stato registrato, ovvero nello studio situato nella fattoria di Greg Keelor dove era stato registrato, 20 anni fa, Five Days In July, uno dei loro dischi migliori in assoluto. Discograficamente parlando la band, tra l’altro, non è rimasta ferma in questo periodo: oltre ai dischi solisti di Cuddy e Keelor, sono uscite la ristampa potenziata di Outskirts, per il 25° dall’uscita originale e un bellissimo cofanetto 1987-1993, solo per il mercato canadese, che copre il periodo classico per la Warner Music, entrambi nel 2012.

E ora questo In Our Nature conferma il momento magico, l’aggiunta negli ultimi anni al nucleo originale, del multi strumentalista Bob Egan, già del giro Wilco, e dell’ottimo tastierista Michael Boguski (che copre il ruolo lasciato vagante dal grande Bob Wiseman, che era l’altro asso nella manica del gruppo nei primi anni) ha aggiunto una maggiore varietà di temi sonori, anche se l’apertura con New Morning Sun è puro Blue Rodeo sound, country-rock classico, con la voce di Cuddy in primo piano, su un tappeto di chitarre e tastiere fantastico e poi quelle armonie vocali incredibili, da ammazzare per averle, melodie ampie ed ariose che ricordano le terre sconfinate del Canada, le chitarre spiegate che si rincorrono dai canali dello stereo, gran musica, semplice ma irresistibile.

Wondering ha un’andatura più malinconica, supportata da uno splendido piano elettrico, dal suono liquido, su cui si innesta la voce maschia e matura di Keelor, che poi si intreccia nuovamente con quella degli altri componenti, un “uno-due” da stendere chiunque e siamo solo agli inizi. Over Me è decisamente country west-coastiano, con un bell’incidere elettroacustico, sempre Cuddy in questa alternanza dei solisti (tra CSN e i migliori America, che nei primi album erano un fior di gruppo). Anche Never Too Late ha quell’incedere, tra florilegi di acustiche ed elettriche, ricorda una Sister Golden Hair degli America, cantata dai Beatles o dalla Band, con un bellissimo dancing bass di Donovan, suono caldo ed avvolgente. When The Truth Comes Out aggiunge un bellissimo organo hammond al suono nitido delle chitarre, molto beatlesiane.

Paradise, Tell Me Again, nuovamente country-rock d’annata, la byrdsiana Mattawa, la stupenda ballata pianistica Made Up Your Mind (che poi diventa sontuosa nel finale), la title-track nuovamente sulle ali del piano elettrico, che si schiude in un finale quasi jazz-psych, la deliziosa In The Darkness,la folkeggiante You Should Know e la delicata Tara’s Blues, con una bellissima pedal steel, fino alla conclusione gloriosa con la lunga Out Of The Blue, una lunga ballata (scritta da Robbie Robertson) che sembra un incrocio tra il Dylan di Pat Garrett e i Procol Harum (quell’organo magico bachiano), ma è quintessenzialmente Blue Rodeo. Mi prostro e confermo la mia ammirazione incondizionata, sono veramente bravi!

Bruno Conti     

“Prima Di Mezzanotte” Se Ne E’ Andato! JJ Cale 1938-2013

jj cale.jpeg

 

 

 

 

 

 

 

 

Se ne è andato venerdì sera intorno alle 20.00 allo Scripps Hospital di La Jolla in California, per un attacco cardiaco. Avrebbe compiuto 75 anni il 5 dicembre. Sul suo sito http://www.jjcale.com/, dove troverete molte notizie interessanti, viene detto che non sono richieste donazioni ma se siete amanti degli animali, come era JJ Cale, potete fare delle offerte ad associazioni e rifugi per i vostri “amici” preferiti: non fiori ma opere di bene, come si usa dire!

Come aveva dichiarato nel documentario To Tulsa and Back: On Tour With JJ Cale l’origine di quel misterioso “JJ”, essendo il nostro registrato all’anagrafe come John Weldon Cale derivava dalla solerzia del vecchio proprietario del locale Whisky a Go Go di Hollywood, California, che per non confonderlo con John Cale dei Velvet Underground decise di chiamarlo JJ Cale. E tale è rimasto per tutta la vita.

Una vita molto discreta e ritirata, che non gli ha impedito di scrivere alcune delle canzoni più belle degli anni ’70 e di essere considerato, insieme a Jimi Hendrix, il chitarrista preferito di Neil Young. Ma la sua fama è legata soprattutto al sodalizio con Eric Clapton, che ha portato ad imperitura fama brani come After Midnight e Cocaine, un intero album in collaborazione nel 2006 The Road To Escondido e la recente partecipazione all’album di Clapton Old Sock nel brano Angel, da lui scritta e dove cantava e suonava la chitarra.

Tra gli altri brani celebri di JJ Cale, cantati da altri, c’è sicuramente Call Me The Breeze che appariva su Second Helping dei Lynyrd Skynyrd, ma è stata interpretata anche da Johnny Cash, Mason Proffit, Bobby Bare ed altri. Come decine di versioni dei suoi brani nel corso degli anni. Il sottoscritto, in particolare, ricorda una bellissima cover di Magnolia, registrata dai Poco su Crazy Eyes.

Quello stile calmo, rilassato, tranquillo, dolce, ma ricco di blues e swing, era ben descritto da un singolo vocabolo americano: “laidback”. E anche Mark Knopfler ci ha costruito metà della sua carriera. I primi sei dischi da Naturally del 1972 (quello con Call Me The Breeze, After Midnight e Magnolia) fino a Shades del 1981, passando per Troubadour, quello del 1976 con Cocaine sono fondamentali, titoli brevi, stringati, facili da memorizzare.

JJ_Cale-Naturally_(album_cover).jpgJJ_Cale-Really_album_cover.jpgJJ_Cale-Okie_(album_cover).jpg

 

 

 

 

 

 

 

220px-Cover_-_troubadour.jpgJJ_Cale-5_album_cover.jpgjj cale shades.jpg

 

 

 

 

 

 

Ovviamente anche nella produzione successiva ci sono album validi e canzoni sparse qui è là che testimoniano l’unicità di questo personaggio e la sua gran classe e signorilità che non sono tratti secondari di un musicista che è sempre stato più amato dai suoi colleghi che dal grande pubblico.

E per questo a maggior ragione, grazie di tutto!

JJ Cale Oklahoma City 5-12-1938 / La Jolla 26-07-2013 RIP!

Bruno Conti

It’s Only Country-Rock (E Un Pizzico di Southern), But I Like It! Zac Brown Band – Uncaged

zac brown band.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Zac Brown Band – Uncaged – Atlantic Records – 10-07-2012

E per essere precisi e tassonomici, anche qualche tocco di bluegrass, reggae e jam rock (soprattutto dal vivo), ma fondamentalmente la Zac Brown Band fa del sano, onesto, country-southern-rock, come dicono peraltro loro stessi. Questo Uncaged è il loro quinto album di studio (il terzo per una major) a cui aggiungiamo tre dischi dal vivo, tra cui lo strepitoso Pass The Jar. Non saranno originalissimi (ma come dico spesso, chi lo è ultimamente?) però suonano con una freschezza, una grinta, una voglia di divertire e divertirsi, e soprattutto una bravura, invidiabili.

La formazione si è ampliata nel corso degli anni fino a stabilizzarsi nell’attuale settetto che vede violino e percussioni affiancarsi alle classiche tre chitarre del southern rock, ma Clay Cook e Coy Bowles, i due solisti con Brown, si alternano anche alle tastiere e a vari strumenti a corda, soprattutto nei tuffi nel country o nel bluegrass più classico. E in più c’è la voce di Zac Brown, una di quelle voci tipiche del country-rock della più bell’acqua, alla Richie Furay o Paul Cotton dei Poco più commerciali (ma sempre di gran classe, gruppo che ho amato molto), ma a chi scrive ricorda anche Kenny Loggins o il Craig Fuller dei Pure Prairie League, quel timbro arioso che consente di passare dal country al rock nello spazio di una battuta.

Anche questo Uncaged ha tutto gli elementi per piacere agli appassionati del classico suono americano: dalle arie scanzonate ed orecchiabili (nel senso più nobile del termine) dell’iniziale Jump Right In, scritta in coppia con Jason Mraz, con elementi caraibici e country miscelati con le consuete perfette armonie vocali si passa al rock sudista della tirata Uncaged con l’organo che si aggiunge al muro di chitarre e un suono che ricorda i classici di Marshall Tucker o Charlie Daniels Band, i due gruppi che meglio sapevano fondere il country e il rock nel filone southern. Goodbye In Her Eyes è una lunga ballata, l’unico brano che supera i cinque minuti, in un crescendo irresistibile, con gli strumenti che entrano nel tessuto acustico del brano, di volta in volta, chitarre acustiche, poi il violino, le fantastiche armonie vocali, le percussioni, fino all’ingresso di basso e batteria e la struttura aperta del brano che promette lunghissime jam strumentali, come d’uso, nei loro concerti dal vivo, il brano migliore del disco.

The Wind è un bluegrass elettrico frizzante, con violini, mandolini, chitarre, organo che si incrociano vorticosamente con le voci del gruppo per un intermezzo di puro country delizioso. Island Song (di Nic Cowan, l’unico brano non firmato da Brown con qualche componente della band, a rotazione), già dal titolo è una reggae song, genere che non amo particolarmente, ma in questo esercizio di white reggae rock si ascolta con piacere in questa calura estiva. Sweet Annie ha una apertura di organo alla Joe Cocker a Woodstock che poi diventa una ballata country mid-tempo con qualche retrogusto gospel, violino, steel e chitarre a contendersi il proscenio con le voci all’unisono dei componenti della band e la bella voce di Zac Brown che guida con autorevolezza le operazioni. Ancora l’organo in apertura di Natural Disaster che poi diventa una country song in crescendo con qualche reminiscenza con la Travelin’ Prayer del primo Billy Joel. Overnight è una trasferta virtuale in quel di New Orleans, una soul ballad morbida ed insinuante con la partecipazione di Trombone Shorty, sia a livello vocale che al suo strumento  di pertinenza, forse un tantino di melassa di troppo ma le classifiche e le radio hanno le loro esigenze (un piccolo peccatuccio ci può stare).

Lance’s Song rimette a posto le cose, una bella slow song malinconica con il violino e la steel a duettare con gli strumenti acustici a corda della band mentre Zac, con il consueto aiuto a livello armonie vocali dal resto del gruppo ci regala una bella performance in perfetto stile country. Day That I Die è un altro bel duetto, questa volta con Amos Lee, una canzone dalla atmosfere ariose e molto piacevoli che sfociano in un sound più commerciale senza mai essere troppo fastidiose, anzi, fatte per piacere a tutti (la Zac Brown Band vende moltissimo negli States) e se vogliamo è forse l’unico fattore negativo di questo album che è serbatoio di nuove canzoni per il repertorio Live della formazione e, nelle parole del chitarrista Clay Cook, il primo disco concepito come una costruzione unica e non un semplice insieme di canzoni. Io non ho colto queste finezze rispetto agli album precedenti, comunque nell’insieme l’album (come da titolo Post) mi è piaciuto e la conclusiva Last But Not Least, dal titolo quanto mai esplicativo, firmata in società con Mac McAnally, è una degna conclusione, nuovamente in territori decisamente country, per questo Uncaged.

Bruno Conti

Buon Country Rock Dal Texas Via Nashville. Eli Young Band – Life At Best

eli young band life at best.jpg

 

 

 

 

 

 

 Eli Young Band – Life At Best – Republic Nashville

Vengono da Denton, Texas, sono attivi da una decina di anni e questo è il loro quarto album in studio più un live e sono il lato “accettabile” del country di Nashville. Mi spiego meglio: accettabile per chi segue il rock e non ama il country troppo “lavorato” che esce dalla capitale del Tennessee, per intenderci nelle classiche country americane a fianco di Miranda Lambert e Zac Brown Band, o Eric Church e Brad Paisley, trovate Taylor Swift, Lady Antebellum e ora Luke Bryan che sono i fondamenti di quel country-pop blando che però oppone una “strenua resistenza” (e con successo) all’hip-hop, rap, R’n’B e “tavanate” dance varie che dominano le classifiche Usa. In entrambi i lati dello schieramento ci sono cose buone ma perlopiù ad ascoltarli mi viene da piangere e non per la commozione. Peraltro, per documentarmi, devo ascoltarli e quindi non accetto critiche generiche tipo “perché non l’hai sentito!”, no purtroppo l’ho sentito e non ho fatto il mio compitino “copia e incolla” dei comunicati delle case discografiche, dove ovviamente tutto (per motivi promozionali) risulta bellissimo, stupendo, quand’anche addirittura innovativo, come risulta dall’80% dei Post che circolano in rete sulla musica. Preferisco fare da solo e dare dei pareri magari sbagliati ma personali.

Veniamo a questo Life At best della Eli Young Band che sto ascoltando in questi giorni insieme al nuovo dei Jayhawks Mockingbird Time che però esce il 13 settembre e quindi aspetto a recensirlo se no le case discografiche mi bacchettano e voi lo “dimenticate” prima ancora che esca. Ci sono delle analogie tra i due dischi: country-rock per entrambi, con abbondanti iniezioni pop per i Texani, più raffinato, quasi orchestrale a momenti, quello della band del Minnesota.

Ma detto questo, lasciamo da parte i Jayhawks per il momento: il nuovo album della Eli Young Band ha finora prodotto un singolo Crazy Girl, molto ruffiano verso il gentil sesso, che ha totalizzato più di mezzo milione di download (ufficiali) nelle classifiche digitali e si prepara a trascinare il CD nelle vette delle classifiche americane. E il brano, se volete saperlo, è estremamente piacevole, ritornello orecchiabile, bella voce, quella di Mike Eli, gradevole impasto di chitarre acustiche ed elettriche fornito da James Young, armonie vocali a tre voci come se i Poco o i Jayhawks non se ne fossero mai andati (appunto). Ma hanno anche dei buoni gusti nella scelta delle cover e la versione di If It Breaks Your Heart di Will Hoge anche se più “caramellosa” dell’originale ha quella andatura vagamente pettyana che può piacere agli amanti del rock e gli assoli di Young hanno la giusta urgenza.

Non tutto il resto brilla per originalità e per qualità, 14 brani per oltre cinquanta minuti forse sono troppo, specie quando le derive pop imposte dall’essere distribuiti da una major si fanno sentire. Ma come giustamente ha detto Eli in una intervista se vuoi farti conoscere in tutta l’America devi scendere a qualche compromesso, paradossalmente per loro sarebbe stato più facile rimanersene in Texas dove erano popolarissimi ed avrebbero guadagnato di più. Quindi “biscotto, biscotto, biscotto” come avrebbe detto Muttley e merito alla ballatona uptempo country Every Other memory ancora con grandi armonie vocali e pedal steel in evidenza. 

Se ai tempi gli America, per semplificare, erano la versione “orecchiabile” di CSN&Y ora questi Eli Young Band sono i figli “bastardi” del’alternative country di Uncle Tupelo, Wilco e Son Volt accoppiato con le “nuove” proposte di Zac Brown o dei conterranei della Randy Rogers Band come evidenziato nella solare On My way. Poi fateci caso, tutti questi gruppi citati. dal vivo sono moolto meglio che in studio, più brillanti, in grado di improvvisare senza problemi.

Per non tirarla troppo per le lunghe, il disco è assai piacevole con i pregi e i difetti che si controbilanciano e quindi alla fine si merita una sufficienza abbondante. Fate finta di essere negli anni ’70 quando accanto ai dischi di Captain Beefheart, Soft Machine, Tim Buckley, Can o Neu,che facevano figo, ho citato a capocchia, c’era anche il “piacere segreto” di ascoltarti di nascosto gli ELO o i Supertramp o i già citati America.

Niente di nuovo d’accordo, ma neppure Mumford and Sons, o i Fleet Foxes o perfino il recentemente citato Jonathan Wilson (mi assumo le mie responsabilità e confermo) fanno niente di nuovo, ma lo fanno un gran bene, è vero, meglio degli Eli Young Band (che mi sono anche simpatici  perché prima di uno dei vari incontri di football americano dovevano cantare l’inno americano e il cantante si è clamorosamente dimenticato le parole, lo trovate su YouTube), ma c’è posto per tutti, per il momento e c’è in giro molto di peggio, quindi se vi piace il country-rock orecchiabile qui trovate “trippa per gatti”!

Bruno Conti

Novità Di Luglio Parte II. R.e.m., Suzanne Vega, George Thorogood, Graham Parker, Kasey Chambers, Jimmie Vaughan Eccetera

graham parker box of bootlegs2.jpggeorge thorogood.jpgsuzanne vega close up vol.3.jpg

 

 

 

 

 

 

 

La calura non accenna a diminuire e neppure il numero delle uscite discografiche.

Iniziamo con il secondo volume degli archivi “pirata” di Graham Parker. The Bootleg Box vol. 2. sempre pubblicato dalla Voiceprint/Retroworld/distr.IRD, sempre cofanetto da 6 CD, sempre prezzo molto speciale intorno ai 30 euro. Contiene 6 concerti:  

 “Graham Parker & The Rumors  – Live at the Rainbow 1977”, “Live alone- The Bastard Of Belgium ”, “Graham Parker And The Latest Clowns – “Live clowns” “Graham Parker & The Rumour S&+ Hot!”, Graham Parker & the Figgs “more live cuts from somewhere”, Graham Parker And The Latest Clowns – “More Live clowns”.

Quindi anche materiale più recente con i Figgs e in solitaria.

Il buon George Thorogood torna con 2120 South Michigan Avenue sempre su Emi Records. Per i più attenti in effetti si tratta sia dell’indirizzo dei mitici studi di Chicago della Chess Records che il titolo di un brano strumentale degli Stones. Come al solito per Thorogood un misto di brani originali e classici del Blues che questa volta prevalgono. Ospiti Buddy Guy e Charlie Musselwhite in due brani.

Terzo capitolo della serie di album che Suzanne Vega dedica alla riedizione dei suoi vecchi brani in versioni più scarne ed acustiche. Close-up vol.3, States Of Being, esce come al solito per la Cooking Vinyl/Edel e contiene anche un brano scritto per l’occasione in coppia con Duncan Sheik.

Data di uscita per tutti i 3, oggi 12 luglio.

kasey chambers little bird.jpgjimmie vaughan plays more blues.jpgr.e.m. life's rich pageant.jpg

 

 

 

 

 

 

Kasey Chambers è una cantautrice australiana molto brava (vagamente una sorta di country-rock-pop down under) e in effetti questo Little Bird in Australia era già uscito lo scorso anche in versione Deluxe doppia (ma il secondo CD per la maggior parte è parlato). Etichetta Welk, tra gli ospiti Missy Higgins, Patty Griffin, il marito Shane Nicholson, il babbo Bill e il fratello Nash Chambers. Produce lei ma non vi aspettate un prodotto familiare ma, come già detto, dell’ottima country-roots music con ampie aperture pop. In Australia vende a carrettate.

Giusto un anno fa anche dalle pagine (virtuali) di questo Blog vi parlavo del nuovo album, molto bello, di Jimmie Vaughan Plays Blues, Ballads & Favorites. Aggiungete un More al titolo per il secondo capitolo, ma Lou Ann Barton e l’etichetta Proper rimangono, ovviamente cambiano i brani e il colore della copertina. Uscirebbe il 26 luglio ma visto che è già approdato nelle nostre lande ve lo segnalo.

E sempre più o meno un annetto fa usciva la ristampa per il 25esimo di Fables of The Reconstruction. Quest’anno tocca a Lifes Rich Pageant dei R.E.M., versione doppia, etichetta IRS/Emi con la solita valanga di inediti, demos e rarità, anzi per la verità questa volta il secondo CD sono tutti demo:

2011 25th Anniversary Edition reissue bonus tracks (The Athens Demos)
  1. “Fall On Me” (Demo)
  2. “Hyena” (Demo)
  3. “March Song (King of Birds)” (Demo)
  4. “These Days” (Demo)
  5. Bad Day” (Demo)
  6. “Salsa (Underneath the Bunker)” (Demo)
  7. “Swan Swan H” (Demo)
  8. “Flowers of Guatemala” (Demo)
  9. “Begin the Begin” (Demo)
  10. “Cuyahoga” (Demo)
  11. “I Believe” (Demo)
  12. “Out of Tune” (Demo)
  13. “Rotary Ten” (Demo)
  14. “Two Steps Onward” (Demo)
  15. “Just a Touch” (Demo)
  16. “Mystery to Me” (Demo)
  17. “Wait” (Demo)
  18. All the Right Friends” (Demo)
  19. “Get On Their Way (What If We Give It Away?)” (Demo) 

Come al solito, se volete spendere una decina di euro in più (e non abitate là o avete amici americani), la versione USA ha un boxettino più carino e alcune cartoline nelle confezione.

Anche per questo trittico la data è il 12 luglio.

michael martin murphey tall grass.jpgpoco head over heels - rose of cimarron.jpgwilliam elliott whitmore.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Ingrandendo la copertina questo sarebbe il volume 6 delle Cowboy Songs e capitolo 3 del Buckaroo Bluegrass per Michael Martin Murphey. L’album si chiama Tall Grass & Cool Water, esce per Rural Rhythm e anche se dopo ha fatto una valanga di album per me Murphey rimane sempre quello di Geronimo’s Cadillac e Cosmic Cowboy Souvenir due dei più bei dischi di country-rock cantautorale di tutti i tempi. Non che quelli che continua a fare non siano sempre belli ma uno ha le sue preferenze.

In tema di country-rock la BGO ristampa in uno dei loro classici twofer, due album in un cd, Head Over Heels e Rose Of Cimarron, l’ultimo con Timothy B. Schmit che poi sarebbe andato negli Eagles, Rusty Young e Paul Cotton, presenti anche nel disco precedente. Molto belli entrambi e hanno circolato molto poco in CD.

William Elliott Whitmore è una delle ultime “scoperte” della Anti in ambito country-folk alternativo. Questo Field Songs segue l’ottimo Animals In The Dark del 2009 che lo aveva fatto conoscere ed apprezzare. Ma tra ufficiali e autoprodotti di dischi ne ha già fatti una decina.

Anche per questa settimana è tutto per le uscite.

Bruno Conti

Non Solo Southern Rock. Billy Crain – Skeletons In The Closet

billycrain.jpgbilly-crain.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Billy Crain – Skeletons In The Closet – Slidebilly Records

Ci sono dei dischi (che sono tanti, molto più di quello che si pensa) che navigano in una sorta di limbo che si trova tra le riviste di settore, il mondo degli appassionati, la rete e altre forme di divulgazione e che attendono che qualcuno li scopra o quantomeno che contribuisca alla diffusione degli stessi. Senza la pretesa di essere il Piero Angela della situazione con un approccio scientifico (che non sempre paga) altri appassionati cercano di approfondire con piglio critico per scremare e andare a pescare quello che di valido c’è in circolazione magari avvisando sulle eventuali bufale. Ovviamente chi scrive esprime un parere non sempre condivisibile per cui è importante anche dare il maggior numero possibile di informazioni e riferimenti per aiutare il lettore.

Questo disco (che è in circolazione da un po’ di tempo) fa parte della categoria dei dischi che vale la pena di cercare (perché anche questo è un problema non indifferente): si tratta del primo album solista di un personaggio che mi diceva qualcosa a livello mnemonico. Crain, Crain, Tommy Crain, quello è il fratello, per oltre 15 anni chitarra solista nella Charlie Daniels Band, Billy ha iniziato la carriera con lui poi ha militato in molti gruppi che hanno fatto la storia del Southern Rock, prima la Henry Paul Band dell’ex chitarrista degli Outlaws, poi il country dei Bellamy Brothers, passando per Sue Medley una canadese di cui mi ero occupato ai tempi per il Buscadero, per le sue contiguità musicali con Mellencamp e Hiatt. Billy Crain ha fatto anche l’autore di brani for hire, scrivendone uno in particolare, Let’er rip che è finito sul disco di esordio delle Dixie Chicks, che ha venduto 13 milioni di copie e poi ha collaborato con molti altri artisti country.

Nella scorsa decade il richiamo sudista si è fatto sentire di nuovo e Crain è entrato nella ultima formazione degli Outlaws sempre a fianco di Henry Paul. E quindi arriviamo a questo Skeletons in The Closet che porta alla luce i suoi “scheletri nell’ armadio”, che non sono nulla di cui vergognarsi anche se ad un primo impatto, anzi prima, leggendo le note di copertina, alla scritta “ Billy Crain did everything but mix on this records”  mi è venuto uno scioppone perché di solito non è una buona notizia. Il mondo è tappezzato di solo album fai da te che si sono rivelate delle cioffeghe terribili!

E invece devo dire che mi sono ricreduto perché il nostro amico suona bene tutti gli strumenti presenti in questo album ma soprattutto chitarre, chitarre e ancora chitarre, molte chitarre, acustiche ed elettriche ed il suono della sua solista è quello che domina questo CD. Che non è un disco di southern rock come si potrebbe pensare bensì classico rock americano con molte venature country che possono ricordare i primi Eagles o i Poco tanto per fare dei nomi ma anche gli stessi Outlaws che hanno sempre avuto una forte componente country nel loro sound.

Il suono è fresco e pimpante, la voce non è fantastica ma molto funzionale, la produzione è semplice ma curata, i brani in sé non sono memorabili, tra power pop, country, rock da FM e southern ma miscelati insieme sono molto piacevoli e quando la canzone inizia ad ammosciarsi o ad annoiare Billy Crain ti piazza uno o più assoli di chitarra, ficcanti e piccanti, con un gusto sempre molto vario che vivacizza l’ascolto e rende il sound meno “commerciale”, quello che potrebbe essere il difetto del disco si rivela il suo pregio perché il nostro amico non è un caciarone proto-metallaro ma un musicista di ottime virtù e l’ascoltatore quando le chitarre salgono al proscenio trova pane per i suoi denti.

Vi potrei citare l’iniziale Rise Up, l’ottima Muddy Waters o White Picket Fence, quella che tanto ricorda i Poco degli anni d’oro o ancora l’eccellente Hard Times At Ridgemont High, ma i titoli non vi direbbero niente senza il CD tra le mani come succede al sottoscritto per cui mi limito a consigliarvi questo genuino artefatto di artigianato rock americano, è buona musica, garantito! File under Rock.

Bruno Conti

Blast From The Past. Sbucati Dal Passato. Johnny Winter And – Poco – Hot Tuna – John Denver

johnny winter live at the fillmore east.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Per i non addetti ai lavori, la Collectors’ Choice è una etichetta americana specializzata nelle ristampe, una di quelle meritevoli istituzioni che si occupano di tenere vivo il “mercato della memoria”, vecchi e meno vecchi album, che in caso contrario sarebbero consegnati all’oblio.

Di tanto in tanto avviene che dal loro cilindro estraggano il classico coniglio: in questo caso ne hanno estratti addirittura quattro. Questi CD di cui vado a parlarvi brevemente sono in effetti dei concerti inediti e quindi vedono la luce per la prima volta, o meglio vedranno visto che dovrebbero uscire sul mercato americano il 20 aprile. Ogni tanto per gli strani casi della vita il mercato italiano anticipa quello americano e quindi da noi sono già disponibili e in vendita, pure a prezzo speciale!

Il primo, quello che vedete effigiato sopra è Johnny Winter And Live At The Fillmore East 10/3/70 che sta per 3 ottobre 1970, sapete che gli americani invertono perversamente mesi e giorni nei loro datari, uno straordinario disco dal vivo registrato nel corso dello stesso tour da cui è stato tratto il celebre e fantastico Johnny Winter And Live. Ebbene, sembra impossibile ma questo disco è ancora superiore, se volete leggere la recensione completa la trovate sul Buscadero del prossimo mese.

poco live at columbia studios.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Il secondo Poco Live At Columbia Studios Hollywood 9/30/1971 come esplicita chiaramente il titolo è un concerto inedito registrato negli studi della loro casa discografica dell’epoca ad un anno di distanza dall’altro Live Deliverin’ e con una delle prime apparizioni della formazione a cinque con Paul Cotton ad affiancare il leader Richie Furay (per i meno attenti uno dei fondatori dei Buffalo Springfield con Stills e Young), nonchè con il futuro Eagle Timothy B. Schmidt, Rusty Young alla pedal steel e George Grantham alla batteria. Uno dei gruppi che ha inventato il country-rock in una serata di grazia.

Per chi non li conosce questo si trova in Dailymotion, è più recente, ma la vecchia magia affiora spesso.


POCO Live In Nashville
Uploaded by kikachannel. – See the latest featured music videos.

hot tuna live at the new orleans house berkeley california.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Il terzo disco di cui ci occupiamo, dal titolo lunghissimo Hot Tuna Live At The New Orleans House Berkeley Ca. Sept. 69 è gemello del famoso primo disco degli Hot Tuna, quello omonimo con la copertina rossa e blu, un disco elettroacustico strepitoso di questa band costola dei grandi Jefferson Airplane con Jorma Kaukonen e Jack Casady ai vertici della loro creatività. I brani sono registrati in una serata diversa da quella utilizzata per il vecchio disco visto che la loro residenza nel locale di Berkeley in California durò una settimana, imperdibile per gli amanti del genere.

john denver live at cedar rapids.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Il quarto CD non sembrerebbe quagliare con gli altri tre, siamo nel 1987 e John Denver registra questo doppio Live At Cedar Rapids 12/10/87 un concerto diviso in due parti, una acustica e una con un quartetto d’archi che illustra le migliori qualità di questo cantautore spesso vituperato dalla critica ma che negli anni ’70 e poi alla fine della carriera (è morto prematuramente nel 1997) spesso ha saputo regalare dell’ottima musica. Questa è una delle occasioni.

Magari ci ritorniamo più estesamente prossimamente, non so vediamo compatibilmente con lo spazio a disposizione.

Bruno Conti