Un Disco Di Una Bellezza Rara! Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You

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Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You – Elektra/Warner CD

Recensione tardiva di un disco uscito lo scorso mese di Febbraio (il classico caso di: lo fai tu – lo faccio io – non lo fa nessuno), ma talmente bello da meritarsi l’inclusione nella mia Top Ten di fine 2018. Brandi Carlile da quando ha iniziato a pubblicare dischi nel 2005 non ha mai sbagliato un appuntamento, ma fino ad oggi non aveva mai pareggiato la bellezza del suo secondo lavoro, The Story (2007), un album eccellente che contava su una serie di canzoni bellissime, a partire dalla magnifica title track, uno dei brani migliori in assoluto del nuovo millennio a mio parere. Give Up The Ghost (2009) era ottimo, ma non al livello di The Story, ed i seguenti Bear Creek (2012) e The Firewatcher’s Daughter (2015), pur validi, erano un gradino sotto (mentre l’unico disco dal vivo di Brandi, Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony, pur avendo ottenuto critiche contrastanti a me era piaciuto tantissimo). Lo scorso anno la songwriter originaria di Ravensdale (un sobborgo di Seattle) ci aveva regalato lo splendido Cover Stories, una sorta di auto-tributo per il decennale di The Story, in cui le canzoni del suo secondo album venivano rivisitate da una serie di artisti famosi, il tutto a scopo benefico. Quella esperienza deve aver fatto bene a Brandi, in quanto il suo nuovo album, By The Way, I Forgive You, è un disco davvero splendido, con dieci canzoni una più bella dell’altra, un lavoro ispiratissimo che personalmente colloco sullo stesso piano di The Story. L’album, che vede la nostra affrontare i brani con il consueto approccio folk-rock, vede alla produzione una “strana coppia” formata dall’onnipresente Dave Cobb e da Shooter Jennings, e proprio il suono è uno dei punti di forza del CD.

Infatti alcuni brani si differenziano dal classico stile di Cobb, fatto di suoni scarni e dosati al millimetro, quasi per sottrazione, in quanto ci troviamo spesso immersi in sonorità decisamente più ariose, anzi direi quasi grandiose, ma senza essere affatto ridondanti: un termine di paragone potrebbe essere il suono dei Fleet Foxes, folk elettrificato e potente dal forte sapore emozionale. E Brandi, forse spronata da questo tipo di sonorità, tira fuori alcune tra le sue performance vocali migliori di sempre, con un’estensione da paura; tra i musicisti, oltre ai due produttori (Cobb alla chitarra e Jennings curiosamente al piano ed organo, evidentemente deve aver imparato qualcosa anche da mamma Jessi Colter), troviamo i soliti collaboratori sia della Carlile (i gemelli Phil e Tim Hanseroth, co-autori anche di tutte le canzoni) che di Dave (il batterista Chris Powell), mentre ai cori partecipano Anderson East in un brano e le Secret Sisters in un altro, e due pezzi hanno un arrangiamento orchestrale ad opera del grande Paul Buckmaster (noto per le sue collaborazioni, tra gli altri, con Elton John, del quale Brandi è una nota fan), qui alla sua ultima collaborazione essendo scomparso nel Novembre del 2017. Il disco (a proposito, il bel ritratto di Brandi in copertina è stato eseguito da Scott Avett, proprio il leader degli Avett Brothers) inizia alla grande con Every Time I Hear That Song, una splendida ballata di ampio respiro, dall’incedere maestoso ed una melodia da pelle d’oca, con un arrangiamento semi-acustico e corale di sicuro impatto (il testo tra l’altro contiene la frase che intitola l’album).

The Joke è il primo singolo, ed è una scelta per nulla commerciale: si tratta infatti di un’intensa ballata pianistica, cantata dalla Carlile in maniera straordinaria, con un toccante motivo di pura bellezza, impreziosita da una leggera orchestrazione e da un crescendo strumentale emozionante. Hold On Your Hand è una folk song che inizia in modo quasi frenetico, con Brandi solo voce e chitarra, poi nel refrain entrano gli altri strumenti ed i cori, e ci ritroviamo di nuovo in mezzo a sonorità grandiose, atipiche per Brandi (e qui vedo parecchie somiglianze con i già citati Fleet Foxes), ma il ritornello è di quelli che colpiscono da subito, grazie anche al contributo essenziale dato da un coro di sette elementi (tra cui Brandi stessa, i due Hanseroth ed Anderson East). The Mother è dedicata dalla Carlile alla figlia Evangeline, avuta tramite inseminazione artificiale dalla sua compagna, e vede una strumentazione più raccolta, un folk cantautorale puro e cristallino, tutto giocato sulla voce, un accompagnamento molto classico ed un motivo anche stavolta splendido; la lenta Whatever You Do è dominata dalla voce e dalla chitarra di Brandi, poi a poco a poco entra il piano (Shooter si rivela un ottimo pianista), altre due chitarre e la sezione ritmica, ma il tutto assolutamente in punta di piedi, ed anche gli archi di Buckmaster accarezzano la canzone con estrema finezza.

Fulron County Jane Doe è più diretta e solare, ha perfino un feeling country (un genere poco esplorato da Brandi negli anni), e degli accordi di chitarra elettrica che curiosamente rimandano alla mitica For What It’s Worth dei Buffalo Springfield: la Carlile canta al solito in maniera impeccabile ed il brano risulta tra i più godibili. Sugartooth è l’ennesima fulgida ballata di un disco quasi perfetto, un lento dall’approccio rock, con uno scintillante arrangiamento basato su piano e chitarre ed il consueto refrain dal pathos incredibile; stupenda anche Most Of All, un altro pezzo dalla struttura folk e con una linea melodica fantastica, il tutto eseguito con un’intensità da brividi: anche questa la metto tra le mie preferite. Il CD, una vera meraviglia, si chiude con la spedita Harder To Forgive, altro pezzo folkeggiante, cantato alla grande ed arrangiato ancora in maniera corale ed ariosa (ancora similitudini con lo stile del gruppo di Robin Pecknold), e con Party Of One, un finale pianistico ed intenso, che ha dei punti di contatto con le ballate analoghe di Neil Young.

A quasi un anno di distanza dalla sua uscita By The Way, I Forgive You rimane un disco splendido, e fa parte di quei lavori che continuano a crescere ascolto dopo ascolto.

Marco Verdi

pegi young

P.S: a proposito di voci femminili (e di Neil Young), vorrei ricordare brevemente Pegi Young, scomparsa il primo Gennaio all’età di 66 anni dopo una battaglia di un anno contro il cancro. Nata Margaret Morton, la figura di Pegi è sempre stata legata a doppio filo a quella del grande musicista canadese, al quale è stata sposata per quasi quaranta anni prima che il Bisonte prendesse la classica sbandata della terza età per l’attrice Daryl Hannah.

Dal punto di vista musicale Pegi, che è stata in diverse occasioni in tour con il marito come corista, non ci lascia certo delle pietre miliari, ma una serie di onesti lavori di soft rock californiano https://discoclub.myblog.it/2014/12/08/laltra-meta-della-famiglia-o-piu-pegi-young-the-survivors-lonely-crowded-room/ : l’ultimo, il discreto Raw, è del 2017. Nel 1986 Pegi è stata anche la fondatrice con il famoso consorte della Bridge School, un istituto per la cura dei bambini con gravi tare fisiche e mentali (la coppia ha avuto due figli, entrambi con seri problemi: Ben è affetto da paralisi cerebrale, Amber da epilessia) https://discoclub.myblog.it/2011/10/04/25-anni-di-buone-azioni-e-di-belle-canzoni-the-bridge-school/ .

Vorrei ricordare Pegi con la bellissima Unknown Legend del marito Neil, brano che apriva l’album Harvest Moon nel 1993 e che era a lei ispirato: infatti quando i due si conobbero nel lontano 1974 lei lavorava come cameriera in un diner vicino al ranch di Young.

Un Po’ Di Sano Classic Rock Al Femminile! Heart – Live At The Royal Albert Hall

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Heart – Live At The Royal Albert Hall (With The Royal Philarmonic Orchestra) – Eagle Rock CD – DVD – BluRay

Chi mi conosce sa che, tra i vari generi musicali, non disdegno il rock anni settanta di matrice classica, e fra i vari gruppi e solisti che formano questo tipo di panorama ho sempre avuto un occhio di riguardo per le sorelle Ann e Nancy Wilson (per Nancy, anche due occhi…), meglio conosciute come Heart. Nel corso della loro carriera, le due musiciste di Seattle hanno conosciuto il successo a fasi abbastanza alterne: il primo periodo (la seconda metà dei seventies), caratterizzato da una discreta popolarità e da sonorità decisamente influenzate dai Led Zeppelin, un inizio di anni ottanta piuttosto difficile, subito seguito da una incredibile metamorfosi dal 1985, sia nel look che nel sound, che ha fatto conoscere loro il successo planetario consacrandole vere e proprie star del panorama AOR, per poi ripiombare nuovamente nel corso degli anni novanta quasi nell’oblio generale. Verso la fine della prima decade del nuovo millennio le due Wilson hanno ricominciato ad incidere con una certa regolarità ed a buoni livelli, prima con Red Velvet Car (2010), molto legato a sonorità più roots del solito, seguito dal più duro Fanatic e, quest’anno, dal discreto Beautiful Broken, più vicino al loro classico suono.

Negli ultimi anni non sono mancati neppure gli album dal vivo, dall’ottimo Fanatic Live del 2014, al natalizio Home For The Holidays di un anno fa, fino a questo Live At The Royal Albert Hall, appena uscito sia in formato audio che video (ma con i tre classici supporti pubblicati separatamente), che senza dubbio è il più riuscito dei tre, in quanto prende in esame in egual misura tutte le fasi della carriera delle due sisters, ma anche perché è registrato insieme all’Orchestra Filarmonica di Londra (che non è mai sovrastante, ma sottolinea con molta misura i brani del disco) in uno dei templi mondiali della musica dal vivo, tra l’altro mai frequentato prima d’ora da Ann e Nancy. E la serata è di quelle giuste, con le due “ragazze” in ottima forma, sia la bionda Nancy, che non è mai stata una axewoman ma se la cava benissimo con la ritmica e soprattutto con l’acustica, sia soprattutto la mora Ann, che passano gli anni ma non passa mai la bellezza della sua voce, potente il giusto nei pezzi più rock e seducente e profonda nelle ballate; la band di supporto è formata da quattro elementi (Craig Bartok alla solista, Christopher Joyner alle tastiere, Daniel Rothchild al basso e Benjamin Smith alla batteria), mentre l’orchestra è arrangiata e condotta nientemeno che da Paul Buckmaster, una vera e propria leggenda per quanto riguarda gli archi trapiantati nel rock (avendo in passato collaborato soprattutto con Elton John, ma anche con David Bowie, Rolling Stones, Leonard Cohen, Grateful Dead, Dwight Yoakam, Harry Nilsson, Stevie Nicks e persino Miles Davis).

La serata, che si apre con la potente Magic Man, decisamente zeppeliniana (provate a fare il giochino immaginario di sostituire la voce di Ann con quella di Robert Plant) e con un buon break nel ritornello, dà chiaramente spazio all’ultimo lavoro del duo, Beautiful Broken, con cinque canzoni, tra le quali spiccano la maestosa Heaven (nella quale esordisce l’orchestra), anche questa con abbondanti tracce del Dirigibile, come peraltro anche la complessa I Jump, con i suoi palesi riferimenti a Kashmir, mentre Two è una delicata ballata pianistica, cantata benissimo da Nancy, che non avrà la potenza della sorellona ma se la cava egregiamente. Non mancano naturalmente le megahits degli anni ottanta, e se These Days non mi ha mai convinto più di tanto (troppo pop ed annacquata), What About Love, pur essendo decisamente ruffiana e costruita per le classifiche, ha un’ottima melodia (copiata pari pari qualche anno dopo dal duo pop-rock-AOR svedese dei Roxette per la loro Listen To Your Heart, mentre Alone è semplicemente straoordinaria, una delle migliori ballate degli eighties: da anni le Heart la ripropongono in una versione più lenta e spogliata dal big sound dell’originale, valorizzando ancor di più il motivo splendido e la voce strepitosa di Ann, ed anche questa sera i brividi non si contano.

Non mancano neppure i successi della prima ora, come la scintillante Dreamboat Annie, title track del loro primo album del 1975 (e con l’orchestra che commenta con grande gusto in sottofondo), la grandiosa Crazy On You, forse la loro migliore rock song di sempre, e l’incalzante e trascinante Barracuda, posta nei bis giusto prima del finale di Kick It Out (un rock’n’roll tosto e vibrante). E non dimenticherei l’omaggio proprio agli Zeppelin, con una magistrale No Quarter, che mantiene intatta l’atmosfera minacciosa ed inquietante dell’originale, una rilettura lunga e potente che anche i tre membri superstiti della storica band inglese apprezzeranno (in passato sia Plant che Page hanno avuto parole più che lusinghiere per le due sorelle Wilson). Come ho scritto nel titolo, un po’ di sano rock al femminile ogni tanto ci vuole, e le Heart sono sempre tra le migliori interpreti in tal senso.

Marco Verdi

 

From Seattle With Love. Brandi Carlile – Live At Benaroya Hall

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Brandi Carlile – Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony – Columbia/Sony

Seattle è stata la città che ha dato i natali a Jimi Hendrix e poi è stata la patria del grunge e dei suoi alfieri Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, Mudhoney e tanti altri. Sempre a Seattle, anzi nelle immediate vicinanze, Ravensdale, il 1° giugno del 1981 nasceva Brandi Carlile, una delle più brave cantautrici delle ultime generazioni americane. Innamorata delle Indigo Girls e di Elton John, Brandi ha iniziato la sua carriera agli inizi degli anni 2000 con un serie di CD Demo ed EP che l’hanno portata ad essere messa sotto contratto dalla Columbia che nel 2005 ha pubblicato il suo omonimo album d’esordio. Ma è con The Story il disco del 2007 prodotto da T-Bone Burnett, e indubbiamente il suo migliore, che la sua carriera prende un abbrivio notevole. Intanto i suoi brani vengono utilizzati a manetta in varie serie televisive e film, a partire da Grey’s Anatomy, poi l’album entra nelle classifiche americane ma soprattutto riceve, giustamente, critiche entusiastiche in tutto il mondo (qualcuno ha detto 1° posto in Portogallo?). Il successivo Give Up The Ghost, prodotto da Rick Rubin, secondo il sottoscritto rimane a livelli qualitativi molto elevati ma molta parte della critica la abbandona a favore del “Flavor of the month”, il Gusto del Mese del momento.

Questo disco dal vivo chiude il cerchio: registrato alla Benaroya Hall di Seattle (che è un po’ l’equivalente della nostra sala del Conservatorio di Milano anche se è stata fondata solo nel 1998), con l’accompagnamento di una orchestra sinfonica di 30 elementi più il suo gruppo abituale, raccoglie il meglio dei due mondi, rock e raffinatezza, bella voce e belle canzoni, brani originali e cover di qualità.

La giovin signora ha una classe indiscutibile, gusti musicali raffinati, è una delle record women mondiali in quanto a video su YouTube (ma non ha mai pubblicato un DVD) e con una valanga di duetti con i noti e gli ignoti (a partire dal Gregory Alan Isakov citato ieri su questo Blog).

Il disco è dal vivo ma è anche molto “vivo”, sicuramente uno dei migliori live dell’anno e album in generale, la simbiosi tra il gruppo rock e l’orchestra è perfetta, gli arrangiamenti non assurgono a quelle vette di “tamarrità” che ogni tanto affliggono questi tipi di dischi.

Lo si capisce subito dal primo brano. Se negli album precedenti Brandi Carlile si era avvalsa dell’operato di due produttori come Burnett e Rubin questa volta ha chiamato per arrangiare i brani orchestrali un “mito” come Paul Buckmaster, quello di David Bowie, Leonard Cohen, Stones e dei primi album di Elton John. Proprio la partitura originale di Sixty Years On di quest’ultimo viene ripresa per l’inizio di questo album e la versione che ne risulta mantiene inalterata la tensione e il pathos della canzone e la Carlile ci regala una performance vocale di grande intensità. Poi quando i gemelli Hanseroth, Tim & Phil, compagni inseparabili dall’inizio della carriera, danno il via a Looking Out capisci che sei a bordo per un viaggio che si rivelerà ricco di emozioni e buona musica, con chitarre acustiche ed elettriche e gli archi dell’orchestra che si integrano con grande semplicità e senza sforzo, belle armonie vocali, lunghi crescendo ed improvvisi momenti più intimi ed acustici ma senza soluzioni forzate. Il piano di Brandi fa da collante al tutto in brani di grande appeal come la ballata Before It Breaks dove la voce sale e scende con naturalezza (che è in fondo il pregio della sua musica e del suo modo di cantare) ma anche nella stupenda I Will uno dei suoi piccoli capolavori, ricca di melodie che assumono un nuovo fascino negli arrangiamenti orchestrali di Buckmaster.

Shadow On the Wall non è il vecchio brano di Mike Oldfield ma una delle composizioni della Carlile che più si rifanno al canone del “vecchio” Elton John, quello dei primi anni, quando in coppia con Bernie Taupin realizzava alcuni dei suoi dischi più belli, malinconica ed avvolgente ma non triste e lugubre.

Forse i suoi brani assumeranno raramente tempi e modalità rock ma canzoni come Dreams possiedono comunque una energia che si trasmette al pubblico presente, anche se bisogna ammettere che gioca in casa e il pubblico conosce a menadito il repertorio. Come conferma la versione corale della bellissima Turpentine dove gli spettatori sono coinvolti da Brandi Carlile in un singalong di grande effetto in cui ho notato una impressionante somiglianza tra la voce di uno dei gemelli Hanseroth (credo Tim) e quella di Chris Martin dei Coldplay (così, mi scappava di dirlo)!

Poi i due gemelli improvvisano (!?!) una versione “perfetta” di The Sound Of Silence ma la prima versione, quella acustica, per cui se siete lì che aspettate l’entrata della batteria sappiate che non arriverà mai, ma la cover rimane bellissima. Poteva mancare la canzone di maggiore successo e forse anche la più bella del suo repertorio (scritta da Phil Hanseroth)? Certo che no! E allora vai con The Story un brano che ti accoglie nel suo crescendo vocale e ti emoziona in questa nuova possente versione orchestrale che mantiene inalterato l’intervento centrale della chitarra solista.

Molto bella anche la lunga Pride and Joy un altro dei brani migliori della nostra amica che si avvicina ai brani più emozionanti delle Indigo Girls o alla produzione migliore della canadese Sarah McLachlan. L’ultimo brano del CD è una versione stupenda di Hallelujah di Leonard Cohen via Jeff Buckley (riconosciuta dal pubblico al primo nanosecondo), canzone della quale la Carlile è da anni una delle migliori interpreti, la sua cover rivaleggia con quella di kd Lang tra le più riuscite. In effetti c’è una hidden track, la mitica traccia nascosta: si tratta di Forever Young. Quando qualcuno mi ha detto “guarda che alla fine c’è Forever Young” come a dire, mica cotica, pensavo al brano di Dylan. Invece, più prosaicamente, si tratta del brano degli Alphaville, in ogni caso bella versione che non assomiglia per niente all’originale e conclude in gloria un bellissimo disco dal vivo che raccoglie il meglio della sua produzione fino ad oggi.

Nel frattempo la nostra amica ha già registrato il suo nuovo album di studio prima di partire per il tour estivo con Ray Lamontagne (una supplica: visto che l’anno scorso causa vulcano è saltata la data di Milano non si potrebbe fare un altro tentativo, vi giuro che ne vale la pena!).

Bruno Conti

Nell’attesa! Brandi Carlile – Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony

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Brandi Carlile – Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony  – Columbia 03/05/2011

L’attesa del titolo del Post è riferita sia a questo album sul quale torniamo tra un attimo sia a quella per il nuovo disco di Paul Simon So Beautiful Or So What di cui da tempo vi prometto la recensione. Però in questi giorni leggo che il disco in Inghilterra è stato posticipato a Giugno (il 13 per la precisione) e anche in Italia non c’è più una data di uscita sicura mentre negli States sembrerebbe confermato per il 12 aprile. A questo punto non so se rompere gli indugi e lanciarmi con la recensione (visto che l’advance CD ce l’ho da illo tempore) o aspettare ancora qualche giorno.

Nel frattempo aggiorniamo la situazione del nuovo disco di Brandi Carlile: intanto come vedete ha una copertina e la data è confermata per il 3 maggio. Ulteriori dettagli che si sono aggiunti: il CD è tratto da due concerti sold-out che si sono tenuti a Novembre in quel di Seattle accompagnata da una orchestra e con gli arrangiamenti curati da Sean O’Loughlin (che ha lavorato con Chris Isaak, Belle & Sebastian e Feist tra gli altri) e, soprattutto, dal leggendario (e qui il termine ci vuole) Paul Buckmaster che ha lavorato con Elton John, David Bowie (Space Oddity), Shawn Phillips, Leonard Cohen e una valanga di altri tra cui Angelo Branduardi (di cui avrei da raccontarvi un aneddoto, quando mi ricordo).

Naturalmente c’è anche la band di Brandi Carlile: Tim Hanseroth chitarra, Phil Hanseroth basso, Josh Neumann cello, Alison Miller batteria oltre a lei che suona il piano. Sono dodici brani come da lista che vedete qui sotto:

1. Curtain Call
2. Sixty Years On
3. Looking Out
4. Before It Breaks
5. I Will
6. Shadow On The Wall
7. Dreams
8. Turpentine
9. The Sound Of Silence
10. The Story
11. Pride And Joy
12. Hallelujah

Nove brani originali e tre cover di gran classe. Sixty Years On è il famoso brano di Elton John e il fatto di avere lo stesso arrangiatore della versione originale aggiunge al fascino, The Sound Of Silence (visto che si parlava di Simon) e Hallelujah è quella di Leonard Cohen anche se molti la conoscono nella versione di Jeff Buckley ( e di mille altri visto che ormai è diventato uno standard come Summertime o Yesterday, immancabile nei talent show). Ma questa non è una versione da talent show. La ragazza è una delle migliori delle nuove leve di cantautrici, brava e bella!

Naturalmente in Italia non verrà pubblicato come tutti i precedenti (ma la Sony ha tempo per smentirmi) e quindi vai con l’import!

Questo è il duetto con il suo idolo ( e amico) Elton John nell’ultimo album Give Up The Ghost del 2009.

Lo scorso anno doveva venire in Italia ma poi prima il vulcano islandese e poi la mancanza di fondi hanno fatto saltare tutto (lo so, lo avevo già detto ma la delusione brucia!). Speriamo per il 2011. Se no ci acconteremo del CD ( o di YouTube, di filmati suoi ce ne sono a iosa)!

Bruno Conti