Donald And Jen MacNeill – Due Scozzesi E Un Paio Di Lowlands (Forse Tre) A Pavia

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Ieri sera, 18 ottobre, a Spaziomusica di Pavia è partito il breve tour italiano di Donald And Jen MacNeill, una simpatica coppia di padre e figlia che hanno da poco pubblicato un CD Fathers And Sons accompagnati da alcuni componenti dei Lowlands, la band di Ed Abbiati e Roberto Diana, disco di cui vi ho parlato un paio di settimane fa, ma se volete rinfrescarvi la memoria lo trovate qui semplicemente-musica-folk-donald-and-jen-macneill-with-lowl.html. 

Prima del concerto ho fatto quattro chiacchiere con loro (non la definirei una intervista visto che abbiamo parlato nel locale con la musica in difffusione e quindi non ho potuto registrare il tutto) e si sono confermati due persone molto affabili, in possesso di quello che definirei uno “Scottish Humour” (conoscevo quello inglese ma anche gli scozzesi si difendono bene), che abitano in uno dei posti più belli e più speduti delle Isole Ebridi, Colonsay, popolazione dichiarata dalla coppia 120 abitanti anche se nella prefazione del disco fatta da Edward Abbiati, secondo i suoi ricordi, circa venti anni fa erano 80, quindi sembrerebbe esserci un incremento forse dovuto ai due nipoti che l’altra figlia di Pedie MacNeill ha nel frattempo sfornato. Ma nel corso del concerto Jen ha raccontato che ai tempi in cui suo padre andava a scuola (l’unica del paese, dove insegna la mamma, quindi tutto in famiglia) gli studenti erano circa una ventina, forse meno, in tempi più recenti quando lei l’ha frequentata gli scolari erano solo cinque e sembra che la popolazione stia decrescendo anche se “non è un cattivo posto per viverci” come recita la didascalia di questa foto tratta dal suo MySpace.

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Certo bisogna ingegnarsi per trovare dei lavori, incentivare le proprie passioni, come la musica e a questo proposito il MacNeill padre ogni anno organizza un Festival di musica Folk sull’isola al quale partecipano anche nomi importanti della musica scozzese, a partire dai Lau, Karine Polwart, Heidi Talbot e altri che non ricordo. Nello stesso tempo mi ha raccontato che si tiene al corrente anche della musica contemporanea e di avere molto apprezzato l’ultimo album di Laura Marling.

In teoria questo era il loro primo concerto al di fuori dei confini del Regno Unito ma la biondina Jen mi ha raccontato di essere venuta in tour lo scorso anno proprio in Italia con un gruppo femminile dove la cantante si è ammalata appena iniziata la serie di concerti e quindi hanno dovuto arrangiarsi ed eseguire un repertorio ridotto a causa di questo incoveniente. Proprio Jen Macneill si è rivelata la sorpresa della serata, con la sua bella voce a fare da compendio a quella del padre e con una ottima performance al fiddle dove ha sfoderato una buona tecnica e preparazione, sostituendo Chiara Giacobbe che non era disponibile per i concerti. Gli altri due Lowlands della serata erano il chitarrista Roberto Diana e il fisarmonicista (accordion, please) e tastierista Francesco Bonfiglio che hanno reso più corposo il sound folk della coppia scozzese.

Prima del concerto Ed Abbiati ha presentato un paio di nuovi brani che anticipano futuri sviluppi di cui non si può parlare e Roberto Diana ha eseguito tre brani alla chitarra acustica come presentazione di un mini CD molto ruspante intitolato Raighes Vol 1 (Rough Tapes) in tiratura limitata di ben 50 copie che dovrebbe fare da preludio ad un album completo. Lui, se conoscete, i dischi dei Lowlands è un ottimo chitarrista elettrico, tra i migliori in Italia, ma anche all’acustica se la cava alla grande con un po’ di tapping che mi ha ricordato Michael Hedges nel primo brano presentato Coffee Break dove convergono anche flatpicking, fingerpicking e altre tecniche varie per uno stile composito e completo. Gli altri due brani erano, credo, If You Are Happy e un altro di cui non ricordo il titolo, che dipingono vicende familiari e stati d’animo attraverso le 6 corde della chitarra nella migliore tradizione dei virtuosi dello strumento.

Nel concerto della famiglia MacNeill, Diana ha suonato soprattutto chitarre in stile slide con il bottleneck e ha aggiunto assoli e coloriture sonore al repertorio del due. Che hanno eseguito praticamente tutto il nuovo album, con l’eccezione dello strumentale Farewell To Govan visto che Jen non si era portata il low whistle, sostituito da un medley tra un traditional celtico e una scatenata sarabanda chiamata The Dirty Bee dove il violino eccellente e la fisarmonica si sono sfidati a velocità supersoniche. Anche The Last Trip che doveva essere l’ultimo brano del concerto secondo la scaletta è stato sostituito con un medley di gighe, reels e arie scozzesi per un finale scoppiettante dove anche il babbo Donald Mac Neill e Roberto Diana avevano eseguito una ottima Bouncing Babies l’altro strumentale tratto dall’album.

Il concerto come il disco si era aperto con Fair Tides una bella ballata evocativa che nell’incipit mi ha ricordato The Streets of London di Ralph McTell e a domanda precisa prima del concerto Donald ha risposto con un “maybe” dicendo, e questo è vero, che questi brani sono un po’ nell’aria che si respira per chi fa musica. Ottima anche la cover del brano di Allan Taylor The Morning Lies Heavy che Jen, che la canta,  si è meravigliata molto fosse conosciuta in Italia, forse più che in patria. L’altra cover, non contenuta del disco, è stata una versione di un brano Bedlam Boys cantato da Joan Baez ma scritto da Heidi Talbot. I momenti migliori della serata direi che sono stati la lunga Fathers and Sons che racconta la storia del disastro della nave Arandora Star affondata vicino alle coste scozzesi nel 1940 con più di 800 persone a bordo tra cui moltissimi italiani, la conclusiva Half Hebridean e Days of our lives entrambe malinconiche riflessioni sul tempo che passa e se ne va sulle isole Ebridi e nelle nostre vite.

Se volete godere anche voi dei piccoli piaceri della vita come ascoltare un bel concerto di musica Folk suonato come Dio comanda, stasera, 19 ottobre, se siete al centrosud potete andare a Roma al Lord Lichfield Pub oppure il 21 all’1.35 di Cantù e il 22 ottobre all’Ottagono di Bergamo.

That’s All Folks!

Bruno Conti

“Semplicemente” Musica Folk! Donald And Jen MacNeill With Lowlands – Fathers And Sons

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Donald And Jen MacNeill with Lowlands – Fathers and Sons – Standing Stone Music (distribuzione italiana Route 61 di Ermanno Labianca).

Dovrebbe essere disponibile dalla settimana prossima nei negozi (una volta si diceva più forniti), ma già qualche copia circola a livello furtivo: si tratta del disco di una coppia, padre e figlia più una serie di “figliocci” e condivide il titolo con una delle pietre miliari della musica, quel Fathers and Sons registrato da Muddy Waters con una serie di musicisti bianchi tra cui Mike Bloomfield in piena epopea della rinascita del Blues presso i musicisti bianchi. Ma non condivide lo stile, questa è “pura e semplice” musica folk quella che si fa da cent’anni sulle isole britanniche ma che tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 è diventata un “genere”. Prima attraverso alcuni pionieri come Davy Graham, le sorelle Shirley & Dolly Collins, Bert Jansch e John Renbourn (pensate che li ho visti tutti, ogni tanto faccio lo “sborone” come il scior Shomaker) e poi nella parte elettrica con Fairport Convention, Sandy Denny, Richard Thompson e di nuovo acustica con Planxty, Christy Moore, Moving Hearts e cantanti come Allan Taylor, Dick Gaughan, Mick Hanly o gruppi come la Bothy Band e i Chieftains. Ma anche personaggi più mainstream come Donovan o iconoclasti come Roy Harper, Michael Chapman e la Incredible String Band fino ad arrivare alla rinascita dei giorni nostri con gente come Kate Rusby, Dolores Keane, Mary Black, June Tabor e la Oyster band (ma questi sono in pista già da un po’) e poi l’ultimo folk revival più contaminato di Mumford and Sons, Laura Marling e tanti altri.

Ma Donald “Pedie” MacNeill e la sua musica in tutto questo dove si collocano? Giusto nel mezzo, nel senso che ci stanno bene insieme a tutti questi nomi citati (anche per investigare, se volete), una musica che sin dalle prime note del primo brano Fair Tides, con le note arpeggiate della chitarra che mi hanno ricordato l’incipit di Streets of London di Ralph McTell, si ispira a sua volta alla grande tradizione della musica popolare folk, sono “arie” che si respirano nell’atmosfera e nelle strade del Regno Unito e della vicina Irlanda. Si tramandano di generazione in generazione, come racconta nelle note del CD, Edward Abbiati dei Lowlands che insieme a Roberto Diana ha curato la produzione di questo Fathers and Sons: quando da ragazzino, d’estate,  lo spedivano alle isole Ebridi a passare le vacanze e lavorare, l’alternativa (oltre alle bevute di birra nei pub) alle probabili gare di tosatura delle pecore o mungitura della mucche, probabilmente era solo la musica che poi è diventata una passione. Anche per la famiglia MacNeill è una passione tramandata dal babbo Donald alla figlia Jen (e forse dalle generazioni precedenti) che quando canta The Morning Lies Heavy convoglia nelle sua voce bella ed espressiva tutta la storia delle voci femminili di questa musica (e anche quella di Allan Taylor che l’ha cantata).

Questo album peraltro raccoglie il meglio della produzione di MacNeill con l’aggiunta di nuovi arrangiamenti e di nuove canzoni registrate nella primavera del 2010 in una “casetta rosa” nei pressi di Pavia all the way from Colonsay, Scotland e poi “lavorate” nei mesi successivi da vari componenti dei Lowlands che hanno aggiunto i loro strumenti e le loro voci ai vari brani. Dalla fisarmonica di Francesco Bonfiglio nella suggestiva The Schoolroom cantata a due voci da padre a figlia, passando per il violino di Chiara Giacobbe nelle note senza tempo di The Spencer. Ma anche le chitarre e le voci di Roberto Diana e Ed Abbiati e nuovamente la fisarmonica di Bonfiglio e il violino di Chiara nel brano che dà il titolo a questo album, una Fathers And Sons che racconta una storia vera avvenuta durante la seconda guerra mondiale lungo le coste dell’Inghilterra, quando anche alcuni italiani persero la vita nel naufragio di una nave la “Arandora Star”, avvenuto nel luglio del 1940 e che è rimasto nella storia della piccola comunità di Colonsay e tramandato alle successive generazioni. Come in tutte le “grandi storie” della canzone popolare britannica la narrazione è viva e drammatica e fa rivivere le emozioni di quei lontani eventi con una musica vivida ed evocativa nella grande tradizione del genere.

C’è anche spazio per il low whistle di Jen MacNeill nel malinconico strumentale Farewell to Govan dove anche il violino e il piano si dividono le trame sonore del brano e il classico fingerpickin’ di un brano come Bouncing Babies ci trasporta sull’altro lato dell’oceano dove i chitarristi e i cantautori folk americani si reimpadronivano della materia nei primi anni ’60 nel Greenwhich Village. Brani come Wear Something Simple mi ricordano vecchi dischi dimenticati di Archie Fisher (altro scozzese Doc) o Wizz Jones altri maestri della musica folk tradizionale. The last trip è una bella ballata scozzese cantata con voce limpida da Jen MacNeill (che è brava anche di suo) e contrappuntata dalla chitarra alla Ry Cooder di Roberto Diana. Forse ho citato solo di passaggio la voce e lo stile di Christy Moore che mi sembra il massimo punto di riferimento per un album come questo di “Pedie” MacNeill, un brano come Days of your lives farebbe il suo figurone in un album del grande cantante irlandese che spesso inserisce anche brani di autori “non conosciuti” nel suo repertorio, il tocco del piano e dell’organo aggiunti alle sonorità delle acustiche sono la classica ciliegina sulla torta. In What’ll We Do fa anche capolino una armonica dylaniana che si aggiunge alle “influenze nobili” che si avvertono nella musica del nostro amico.

Per completare i contenuti di questo SSMCD004 della Standing Stone Music ( e questo fa supporre che per questa minuscola etichetta scozzese sono usciti altri tre dischi) e che sarà distribuito in Italia dalla IRD, e che è un prodotto confezionato con amore con un bel libretto con i testi e tutte le informazioni importanti, dicevo che per completare manca un ultimo brano Half-Hebridean, che è sì una canzone ma anche la storia di una vita, cantata ancora una volta dalle due voci della famiglia MacNeill. Se “allargate” le immagini del manifesto posto in apertura del Post potete vedere le date del breve tour italiano e se lo leggerete quando è già avvenuto potrete sempre “consolarvi” con l’acquisto del CD.

Piccole gioie semplici della vita come l’ascolto di questo album.  

Bruno Conti

Un’Altra Giovane, Bella E Talentuosa Songwriter Dagli States. Amanda Shires – Carrying Lightning

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Amanda Shires – Carrying Lightning – Silver Knife Records Self-released

Dove sta l’inghippo con un titolo di Post così? Giustamente, se così fosse, Amanda Shires dovrebbe essere già conosciutissima ovunque! Lasciatele tempo, ci sta lavorando. Intanto i suoi dischi li fa e li distribuisce in proprio, dalla sua sede in quel di Nashville. Ma è nata in Texas, dove ha vissuto tra Lubbock e Mineral Wells quando i suoi genitori si sono divisi. A dieci anni il padre le ha regalato il primo violino e da lì non c’è stato ritorno. A quindici anni saliva già sul palco con i Texas Playboys la band formata da Bob Wills. Poco dopo, come detto, era a Nashville, dove sperava di trovare fortuna, ma restando fedele ai suoi principi musicali e lontana dalle sonorità della Music City.

A 22 anni pubblicava un primo album solista Being Brave, prevalentemente strumentale ma che lasciava intravedere le sue attitudini di ottima cantante e compositrice, oltre che di violinista di gran classe e suonatrice di ukulele. Nel frattempo (e nel tempo libero, ma quando) entra a far parte anche dei Thrift Store Cowboys, ottimo ensemble texano con una manciata di bei dischi alle spalle. Molto indaffarata la ragazza, ma ha trovato anche il tempo per fare coppia con il bravo cantautore Rod Picott, insieme hanno pubblicato nel 2008 Sew Your Heart With Wires, altro disco molto bello al quale hanno fatto seguire una lunga serie di concerti in tutto il mondo, Europa ed Italia comprese.

Piccola digressione italiana: se il nome vi dice qualcosa potreste averlo letto tra gli ospiti, come cantante e violinista, nell’ultimo disco dei Lowlands Gypsy Child!

Torniamo al mondo! Nel 2009 pubblica quello che considera il suo primo “vero” disco da solista, West Cross Timbers, che ha fatto scomodare nella critica paragoni con Dolly Parton (per il tipo di voce, ma non mi pare) e con Tom Waits per i testi “inconsueti” e l’approccio musicale. Lei cita tra le sue influenze Leonard Cohen e Richard Buckner, uno dei miei preferiti tra i “beautiful losers”, un bravissimo cantautore Californiano che ha regalato al mondo alcuni deliziosi album nello scorso ventennio. E questo depone ulteriormente a favore della signora per gli eccellenti gusti musicali.

Prima di approdare a questo Carrying Lightning ha trovato anche il tempo di partecipare in modo consistente all’ultimo disco dell’ex Drive-by-Truckers Jason Isbell, sentire Codeine da Here We Rest per apprezzare la sua voce e il suo violino. Ma non è tutto, qualcuno a Hollywood ha notato anche il suo bel aspetto ed eccola allora sul palco (finto) del film vero, Country Strong, quello con Gwyneth Paltrow che interpreta una stella del country decaduta, lei è la bella moretta che suona il violino nella band del film e la potrete vedere al cinema perché il film esce nei cinema italiani in questi giorni. Era candidato come miglior canzone sia ai Golden Globes che all’Oscar.

A questo punto due parole sul disco non le vogliamo dire? Ovvio che sì! Intanto il disco è prodotto dalla stessa Amanda Shires con la collaborazione più che fattiva di Rod Picott e David Henry. Alle chitarre troviamo gente come Neal Casal e Will Kimbrough. I brani sono tutti della stessa Amanda meno una bellissima cover di Detroit or Buffalo che è una delle più belle canzoni del repertorio proprio di Neal Casal.

Potremmo definire lo stile folk, country-rock: dall’inizio fischiettato del brano Swimmer al country che mi ha ricordato le Dixie Chicks di Ghost Bird, passando per una bellissima ballata con pedal steel d’ordinanza come When You Need A Train It Never Comes che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Townes Van Zandt e che mette in risalto la bella voce di Amanda Shires con un vibrato che la rende particolare e il suo fiddling incisivo e malinconico.

Mi piacciono molto anche She Let Go Of her Kite molto melodica e di nuovo con quel violino insinuante in contrapposizione con un’elettrica intrigante (e qui mi ha ricordato un’altra cantante e violinista molto brava, quella Carrie Rodriguez che ha collaborato a lungo con Chip Taylor).

E che dire di Love Like A Bird con la pedal steel di Chris Scruggs che sembra danzare un valzer con la voce di Amanda. 

Shake The walls con il suo tempo di tango sgangherato potrebbe ricordare in effetti qualcosa del Tom Waits meno radicale. Ma sono tutti belli i brani di questo album: la dolce Sloe Gin così come le derive folk quasi alla Joni Mitchell dell’evocativa Bees In The Shed. E ancora la deliziosa Lovesick I remain guidata dall’ukulele della Shires che potrebbe apparire anche in qualche spot televisivo o spopolare in qualche radio in un mondo alternativo.

Lei ci crede moltissimo. Tanto da avere decisivo di girare un video per ogni canzone presente nell’album (anche a cartoni animati). Le prime quattro le trovate sparse per il Post. Buon ascolto e buona musica!

Bruno Conti

Un Consiglio Spassionato. Lowlands Allo SpazioMusica di Pavia Venerdì 29 Aprile

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Non ve lo dico per l’ennesima volta perché chi legge il Blog lo sa. Musica italiana ne circola poca da queste parti ma ogni tanto ci vuole l’eccezione e per i Lowlands ho una particolare predilezione avendone magnificato le gesta in più occasioni. Quindi ricordo a coloro che non sono di Pavia e zone limitrofe (perché sicuramente lo sanno già) che la band di Edward Abbiati sarà in concerto allo Spaziomusica di Pavia questo venerdì 29 aprile 2011. Presentano l’ultimo album Gypsy Child, il meglio della loro produzione e, soprattutto, la nuova formazione: quindi concerto full band con Abbiati, Roberto Diana alla chitarra e Chiara Giacobbe al violino che sono il “cuore” della formazione classica più i nuovi elementi aggiunti.

Se volete ascoltare una delle migliori formazioni italiane che non fa musica italiana (anche se sembra un ossimoro), ma del sano rock classico dalle mille sfaccettature l’occasione è delle più propizie. Che dire? Intervenite numerosi!

Questo è un assaggino acustico ed amatoriale registrato qualche giorno fa, se volete l’emozione completa ed elettrica l’appuntamento è per venerdì!

Bruno Conti

Per Gli Amanti Dei Beatles E Di John Lennon (Ma Anche No): A Day In The Life – John Lennon Revisited

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A Day In The Life – John Lennon Revisited – 2CD – Martine Records – Distribuzione Indipendente

Ormai Pavia è divenuta una sorta di piccola Austin nel sud (della Lombardia): c’è un grande fervore di musica ed iniziative. L’ultima delle serie è questo doppio CD dedicato alla memoria di John Lennon, con e senza Beatles.

Il CD è stato realizzato in occasione del recente 30° anniversario della morte e quindi è stato pubblicato nei primi giorni di dicembre e venduto in occasione di alcune manifestazioni nell’ormai “famoso” locale di Pavia, Spazio Musica, qui sotto vedete la locandina della manifestazione con relativi partecipanti.

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Il CD l’ho ricevuto in regalo durante le feste natalizie e, soprattutto per amanti di Beatles e John Lennon (oppure dei musicisti pavesi) ve ne parlo, brevemente.

Si tratta di un doppio CD con 24 pezzi, dodici dell’epoca Beatles The Walrus (The Beatles Years) e dodici brani dal periodo successivo John (Soloist years). Parentesi: solo in Italia potevano definirlo Soloist years, è la prima volta che lo sento, non era meglio un più semplice The Solo Years?

Molti dei musicisti non li conosco, la maggior parte ad essere sinceri, non essendo della zona, ma globalmente questo tributo mi sembra onesto e ben realizzato. Si chiama A day in the life, anche se il brano omonimo non è incluso (e lì eran c…i acidi a farlo, in tutti i sensi) in quanto i musicisti che partecipavano all’operazione avevano un giorno per completare il loro brano negli studi Downtown di Pavia che sono stati il motore dell’operazione http://www.downtownstudios.it/ e sono quelli dove di solito registrano alcuni beniamini del buon rock “Made in Italy ma pensato per il mondo”.

Ovvero? In ordine di apparizione, i Lowlands di Edward Abbiati che eseguono una bella versione, acustica e raccolta, con il violino di Chiara Giacobbe in evidenza, di In My Life. Jimmy Ragazzon e Maurizio “Gnola” Glielmo con una versione molto folk-blues e dylaniana, com’è giusto che sia, di Got To Hide Your Love Away che ha perso l’ I’ve per strada. E ancora una versione molto tirata e stradaiola di Norwegian Wood dei Southlands. La ciliegina sulla torta, tra i musicisti conosciuti (da me) è una versione strepitosa molto roots alla Band con fisarmonica in grande evidenza di Working Class Hero che da sola vale il prezzo di ammissione. A proposito il prezzo dei CD era di 15 euro nelle tre serate sopra citate mentre nel sito dei Downtown Studios lo vendono (vendevano?) a 17 euro più spese di spedizione, ma questo era in sede di prenotazione adesso non so come funziona, informatevi!

Tra i musicisti che non conoscevo vorrei ricordare una piacevole All You Need Is Love di Francesco Montsesanti, una assai rallentata Help, come doveva essere all’origine del brano, cantata ottimamente da Elisabetta Citterio. Sempre sul fronte femminile non male anche la versione di Julia full band eseguita dagli Emily Plays (reminiscenze Barrettiane?) con la voce di Sara Poma in bella evidenza, piacevole anche Crippled Inside dei Green Like July e la versione quasi hard-rock da power-trio di Lucy In The Sky With Diamonds degli Iceberg.

Il resto mi sembra senza infamia e senza lode, piacevole ma l’argomento trattato, anche in tributi dove si sono alternati musicisti di grande spicco, è difficile da pareggiare o da superare, in fondo stiamo parlando dei Beatles e di John Lennon. La versione reggae di Come Together degli Jah Love me la potevano risparmiare! Scusate ma non la “reggo”. E con questa battuta che si è piazzata terza al Salone dell’umorismo di Bordighera direi che ci possiamo lasciare.

Bruno Conti

Ulteriori Dispacci Dalle BasseTerre. Lowlands – Gypsy Child

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Lowlands – Gypsy Child – Gypsy Child Records/Ird

Quando si dice la precisione! L’ultima volta che avevo parlato dei Lowlands in questo Blog ci eravamo lasciati dicendo che il nuovo album, questo Gyspy Child, sarebbe uscito all’inizio dell’autunno e zac, precisi come dei lombardi, il 23 settembre sarà in tutti i negozi (si spera!).

Per cominciare, una precisazione: visto che sia lui che famiglia ed amici tutti si sono preoccupati, ma esisterà ancora, si chiedevano? In effetti nella recensione apparsa in anteprima sul Buscadero (impossibile ma vero), nella lista dei partecipanti al disco vengono citati tutti, ospiti stranieri, componenti della band, inservienti e quant’altro ma, per un refuso o dimenticanza, non appare il nome di Roberto Diana, impegnato come al solito con una miriade di chitarre e co-produttore del disco, che dunque c’è e la sua presenza si sente!

Quindi viene citato prima di Edward Abbiati per riparare al piccolo torto: il co-produttore e cantante e autore anglopavese con i suoi soci affronta, come dicono le riviste inglesi che parlano bene,  “That Difficult Second Album”. Anche se devo dire che  i nostri amici hanno un po’ barato, mescolando le carte e pubblicando una nutrita serie di EP, CD e DVD a tiratura limitata hanno aggirato l’ostacolo e arrivano a questo nuovo album belli freschi e piene di idee.

La prima impressione, al primo ascolto, fatto camminando per strada e sentendolo su un lettore Cd portatile è stata la seguente: “Già finito?”. La seconda pure e via così all’infinito. No, scherzi a parte, i successivi ascolti, più attenti, rivelano ulteriori particolari e dettagli e la bellezza dei brani contenuti, ma la prima impressione, più che positiva è che si tratta di un album che non stanca anzi ne vorresti di più, non ti basta quello che trovi. E cosa trovi nel disco?

Sono undici brani, dicansi undici, senza tracce nascoste, special o Deluxe Editions (un sollievo), solo della sana musica rock, genuina e piena di passione fatta da un manipolo di prodi appassionati che sciorinano le loro influenze vere o presunte con orgoglio e determinazione aiutati da alcuni amici giunti da tutte le contrade del mondo.

Le influenze si diceva: c’è un po’ tutto lo scibile della musica rock che conta (da Brooce a Mike Scott, Dylan, i Green On Red, Steve Wynn per citarne alcuni) e poi come si usa dire loro le “influenze le indossano” anzi di più, le invitano e così abbiamo Chris Cacavas a “rappresentare” i Green On Red e Steve Wynn, Mike Brenner i Marah e i Magnolia Electric Co., Joey Huffman i Soul Asylum, Tim Rogers gli You Am I e Amanda Shires se stessa e Rod Picott. Ovviamente alcuni di questi musicisti non sono delle influenze ma degli amici che condividono le stesse passioni musicali. Poi parlando dei vari brani magari approfondiamo.

Si parte con Gypsy Child che mescola Inghilterra e Stati Uniti con la voce di Edward Abbiati subito protagonista con quel suo timbro sabbioso e ruvido ma capace di grande dolcezza e partecipazione, gli altri si danno un gran daffare, con il violino di Chiara Giacobbe subito protagonista ma anche le chitarre, tante come al solito, acustiche ed elettriche, un pianino insinuante, la batteria che lavora di fino. E poi è un brano che più lo ascolti e più si insinua. Infatti se entrate nel loro sito home.html è lì in agguato che vi attende e a furia di ripetizioni non può non piacervi.

Ma le cose si fanno serie con la successiva Only Rain (il tempo di Pavia?): questo è un brano rock di grande potenza e coinvolgimento, con i fiocchi, i controfiocchi e il pappafico, lungo quei sei minuti che ci vogliono per goderselo appieno, se quello Springsteen evocato prima lo avesse sentito penso che una partecipazione “a gratis” avrebbe potuto pure farla ma anche quell’organo Dylaniano sempre di Huffman dà quel tocco di classe al tutto, poi c’è la chitarra di Roberto Diana che con le sue svisate (si dice così in italiano) ti esalta fino all’assolo liberatorio nel finale. Le continue accelerazioni e il tempo incalzante ti tengono inchiodato alla poltrona ma dal vivo devono essere da pugnetto alzato. Tra l’altro questo brano come il precedente si segnalano per la grande varietà degli arrangiamenti e per il “calore” del sound merito del mixaggio di Cacavas che evidenzia i vari strumenti e la voce di Edward come nei vecchi vinili d’epoca.

In Street Queen torna protagonista il violino di Chiara Giacobbe e la voce di Abbiati si sdoppia tra le tonalità di Mike Scott e quelle di uno Steve Wynn addolcito dalla maturità, solito grande lavoro di Diana alle chitarre e altro brano nettamente sopra la media.

L’aria paesana e folky di Between Shades And Light si divide equamente tra Pogues e Waterboys, con quella fisarmonica avvolgente e il ritmo saltellante della batteria e il violino zingaresco della Giacobbe che aggiunge un tocco mitteleuropeo al brano.

I nomi che generosamente vi elargisco sono solo dei segnali delle sensazioni che i vari brani evocano ma la musica è poi tutta farina del sacco dei Lowlands.

Il piano e l’armonica di Life’s Beautiful Lies ci introducono di nuovo alle grandi pianure del suono americano che vengono poi sorvolate con grande lirismo dalla chitarra di Roberto Diana (grande musicista) e dal violino con un crescendo strumentale che ti lascia quasi senza fiato per la sua bellezza. Veramente grande musica.

Cheap Little Paintings mi ha ricordato (vagamente) atmosfere vicine a De André o agli chansonniers francesi con quella sua andatura maestosa sottolineata da piano e armonica e nobilitata da mandolino (o è un bouzouki?) e slide oltre che da un contrabbasso profondo, affascinante e inconsueta, anche se in un’intervista ho letto che Edward Abbiati ha detto di avere imparato inglese e francese prima dell’italiano, quindi potrebbe…

Without A Sigh ci riporta a quelle atmosfere polverose del rock americano più genuino (chissà se anche il passato australiano di Abbiati c’entra qualcosa? Anche lì in fatto di grandi spazi non scherzano!), con il violino, la chitarra e le tastiere a sostenere con vigore la voce evocativa del leader che ci guida attraverso un altro brano di grande spessore sonoro (il solo di chitarra è breve ma ti dà quel giusto brividino lungo la schiena!).

He Left è un breve monologo acustico, solo la voce di Abbiati e una chitarra acustica, per le serate invernali o per i concerti unplugged, per ampliare il repertorio o per un (lontano) futuro da cantautore.

Altro grande brano, There’s A World, Con una lap steel in grande evidenza (o è una pedal steel? strumento giustamente e nuovamente sdoganato, nei dischi recenti di Dylan Leblanc e Caitlin Rose come vi dicevo recentemente ma anche nel nuovo Lloyd Cole come vi riferirò prossimamente, fine della digressione): ma non è solo la chitarra, anche le tastiere di Huffman nuovamente in grande spolvero e la voce appassionata che evidenzia le belle armonie e un ritornello ricorrente, potremmo dire per parafrasare il sound del disco “Arrangiamento ricco mi ci ficco”.

Gotta Be ospita il lavoro di armonica di un altro ospite “fisso” del gruppo, l’ottimo James Hunter, bluesata e tirata, con un minaccioso wah-wah in sottofondo ( o è una slide distorta?) potrebbe essere l’ideale conclusione di un concerto se il disco fosse da vivo visto l’energia che trasmette.

Invece la conclusione è affidata alla dolce e malinconica Blow, Blue Wind Blow una ballata acustica a pastello, con la seconda voce e il Violino (è lei o non è lei?) di Amanda Shires in prestito dal compagno di avventure musicali Rod Picott.

Come vi dicevo peccato finisca così presto (ma dura i suoi bei 42 minuti!), non vi rimane che rischiacciare il tasto play e ripartire per l’avventura. Come ho già detto in relazione all’ultimo Tom Petty (quindi ottima compagnia) con una efficace allocuzione lombarda “Insci Aveghen!) – Averne Così per gli abitanti sotto la linea gotica.

Bruno Conti

Piacevolezze! Lowlands Acoustic Record Store Day E Altre Storie

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Continuando nella tradizione di questo Blog di promuovere la buona musica (e i buoni musicisti, questi in particolare) volevo ricordarvi che anche in Italia, in varie località, si è tenuto il 17 aprile scorso il Record Store Day, il giorno dei negozi indipendenti.

In quel di Pavia hanno suonato i Lowlands e dal concerto tenutosi la mattina di quel giorno presso il negozio CD Delfino sotto la libreria omonima hanno ricavato un DVD di mezz’ora circa, acustico, girato tra il colore e il bianco e nero, molto piacevole e informale. Non dovrebbe essere in commercio ma visto che me l’hanno dato ne parlo lo stesso e colgo l’occasione per ricordarvi che se siete in quel di Londra il 19 di giugno, il gruppo si esibirà al famoso e storico locale “The Windmill”.

In attesa del nuovo album che dovrebbe uscire ad inizio autunno non è mai troppo tardi per scoprire il CD The Last call e l’EP Vol.1, ora distribuiti per il mercato italiano dall’IRD,  se usate la funzione cerca nel Blog trovate i relativi post.

Per la serie la pubblicità è l’anima del commercio e un po’ di sana promozione non ha mai fatto male a nessuno.

Bruno Conti

Postcards From Italy. Lowlands – Radio & Kitchen Sessions

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Lowlands Radio & Kitchen Sessions

Questo CD non esiste! No, così suona male! Non esiste ufficialmente ma lo potete scaricare, per esempio, dal sito del chitarrista Roberto Diana index.php ma anche dal facebook del gruppo di Pavia, sul loro sito http://www.lowlandsband.com/ sinceramente, non so dove cacchio sia, probabilmente c’è ma non l’ho trovato!

Si tratta, come dice i il titolo, di un mini album registrato nel mini-tour italiano appena concluso, tra febbraio e marzo del 2010: tutto mini ma non il contenuto, ottimo! Sei brani, quattro originali e due cover, I Still Miss Someone di Johnny Cash e Friend of The Devil di Jerry Garcia, uno dei capolavori dei Grateful Dead, ripresi da concerti radiofonici, tre brani da Radio Icaro di Rimini, uno da Radio Gold di Alessandria (si cita sempre perché trattasi di eroici resistenti al piattume radiofonico italiano dominato dalle playlists, ovvero tutte uguali tutte brutte!), mancano le due cover registrate in qualche cucina di qualche località ignota del vasto stivale italiano.

Canta e scrive tutte le canzoni Edward Abbiati, suonano Stefano Brandinali al piano, Roberto Diana, chitarre, lap steel e slide, Simone Fratti al contrabbasso e Chiara Giacobbe al violino, che in questa dimensione acustica ha ampio spazio.

Un Ep tira l’altro, un concerto tira l’altro e prosegue il progetto di una lenta ma costante conquista e poi dominazione del globo terracqueo. Basta fare buona musica e nuovi proseliti si aggiungono: se volete farvi un ripasso sui Lowlands (ma avranno imparato Hallelujah?) il post a loro dedicato è del 6 dicembre 2009.

Bruno Conti

Southern Men. “Rock delle radici” dal profondo Sud (della Lombardia): Lowlands

Prima il dovere, poi il piacere!

I Lowlands saranno in trasferta “su al Nord”, a Milano per la precisione, il 10 dicembre 2009 ore 21,30 Le Scimmie, ma saranno anche il 16 dicembre al Teatro al Parco di Parma alle 21.00 e il 31 dicembre per un bel veglione allo Spaziomusica di Pavia, ore 23,45, questo per la cronaca e per un po’ di sana promozione!

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Questo era per la categoria non tutti sanno che, ora veniamo ai Carbonari: se i nostri amici fossero nati a Lodi (pronunciato Lodai), Southern California, tutto avrebbe avuto più senso, ma vengono dal Profondo Sud della Lombardia, da Pavia, grande terra di fermenti rock, prima i Mandolin Brothers, poi Fabrizio Poggi Chicken Mambo, ma anche i Southlands vengono da lì, ecchessaràmai, l’aria buona, le vibrazioni del terreno, affinità elettive inconsce (ma si conoscono tra loro? Mi sa di sì!). Comunque veniamo alle cose piacevoli, una breve cronistoria.

Partiamo dalla fine, estate 2009, esce il nuovo mini dei Lowlands, si chiama Ep vol.1, titolo breve ma circostanziato, il contenuto è fulminante, il viiolino di Chiara Giacobbe ha assunto un ruolo decisivo, ma è la scrittura della voce, leader ed autore del gruppo, Edward Abbiati a far fare un ulteriore salto di qualità alla musica del settetto (dieci, con la panchina, però!): Leevee Man ha un incipit che è puro blues, poi si sviluppa con sicurezza nei meandri della musica americana, meglio della Americana, quella strana fusione tra country, folk e rock che tanto ci piace, il violino disegna arzigogoli sonori su un tappeto country e l’appassionato di buona musica gode. Lowlands, un nome, un programma, è ancora meglio, scritta all’origine da Kevin Russell dei Gourds (un grande gruppo americano similBand), il gruppo l’ha fatta propria trasformandola in un’epica canzone rock, tra piano, violino e la solista di Roberto Diana, unico difetto, finisce troppo presto, ma come…My prison walls, un mini duetto familiare si direbbe dalla note (backing vocals Louise Abbiati), folk-country-blues direbbero quelli che parlano bene. Walking Down the Blues era già uscita nel 2008 in un raro pezzo della loro discografia, un mini cd con due soli brani, lato A e B, ma la  nuova versione suona molto meglio, un suono più pimpante, col violino ancora una volta in grande evidenza, una piccola chicca di equilibri sonori tra atmosfere irlandesi (Waterboys?) e classico suono americano. La conclusiva Lullaby, lo dice il titolo, è una piccola ninnananna country-folk. Gran bel disco, l’hanno detto in tanti, in Italia e all’estero.

Passo indietro, In Between, nel mezzo: marzo 2009, esce un articolo sul Corriere della Sera!?! sui Lowlands, il passaparola all around the world, prima all’estero, ma anche la stampa specializzata italiana, li ha fatti piombare sulle pagine del Corrierone, un bell’articolo che racconta le gesta e le genesi del gruppo pavese, nato dall’unione tra Edward Abbiati, artista giramondo di madrelingua inglese (nel senso che la mamma è inglese) e un manipolo di musicisti pavesi, uniti dall’amore per la musica anglosassone.

Ulteriore passo indietro: nel 2008 era uscito il loro primo album, The Last Call, sempre rigorosamente sulla loro etichetta Gypsy Chld Records, distribuita intrepidamente, come direbbe Fantozzi, “brevi mani”. Come è, come non è il disco è diventato un album di culto, mertitamente aggiunge il sottoscritto.

La tripletta folgorante che lo apre merita di essere ascoltata: le pennate di acustica che introducono l’hard country-roots di Ghosts in this town, chiarificano le intenzioni sin dall’inizio, folate di slide, weeping pedal-steels e ritmi alla Green on red dei tempi d’oro elaborano il tessuto sonoro. La successiva What Can I do è anche meglio, l’allegra malinconia che ne pervade i solchi (lo so è un cd ma i suoni sono quelli dei gloriosi vinili americani anni ’70), al sottoscritto ha ricordato una outtake, un inedito da Travelin’ Wilburys vol.2, quello mai uscito ( e forse mai inciso), Orbison, Dylan, il Beatle George Harrison (la slide), Petty, roba seria, ma i Lowlands, anzi divertono nel continuo rilancio sonoro del brano, un piccolo bijou. You can never go back mi ha fatto rivivere l’epico country-rock di un paio di Beautiful Losers degli anni ’70, Guthrie Thomas e Tom Jans, due meravigliosi musicisti che dubito qualcuno ricordi (ma forse sì), che pubblicarono i loro album su Capitol e Columbia, quando le majors non avevano paura di rischiare ed erano guidate da appassionati da musica (anche se questo non li esimeva, ove possibile, dal cercare di metterlo in quel posto ai musicisti!).

Attualmente le possibilità per i Lowlands di un contratto con una major sono legate a tre possibiltà: partecipazione al Festival di Sanremo, possibilità scarse, partecipazione a X-Factor, anche qui visti i giudici direi poche; terza possibiltà partecipazione a X-Factor, cantando Hallelujah, e qui forse forse, se ha funzionato in tutto mondo…hai visto mai, e quindi vi consiglierei di studiarla.

Per ulteriori informazioni, nel loro sito trovate tutto quello che c’è da sapere.

http://www.lowlandsband.com/

Buon ascolto.

Bruno Conti