Grande Musica Dal Sud Degli States! Victor Wainwright & The Wildroots – “Boom Town”

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Victor Wainwright & The Wildroots – “Boom Town” – Blind Pig/Ird

L’etichetta è di Chicago, l’album è stato registrato tra la Florida e Memphis, Tennessee, dove vive il suo titolare, nato a Savannah, Georgia. Il risultato è un gran bel disco, non poteva essere altrimenti, perché l’aria che si respira dai solchi virtuali di questo CD è certamente quella: tanto blues, ma anche boogie woogie, soul fiatistico New Orleans style, tra Dr. John, Neville Brothers e Fats Domino, rock and roll, e rock sudista. Non per nulla Victor Wainwright, che anche fisicamente ricorda il “Dottore”,  è un pianista e organista “extraordinaire”, divide il suo tempo pure con i Southern Hospitality, l’ottima band sudista dove militano pure Damon Fowler e JP Soars, autrice di quel fantastico debutto che si chiamava Easy Livin’, pubblicato sempre dalla Blind Pig nel 2013, prodotto da Tab Benoit. Wainwright, ha “le physique du role”, anche extralarge, ma è un signor pianista, non per nulla vincitore del Pinetop Perkins Piano Player Of The Year ai due ultimi Blues Music Award del 2013 e 2014, nonché un cantante dalla voce perfettamente in linea con il fisico: rauca, vissuta, “grassa” (scusate!) e pimpante https://www.youtube.com/watch?v=74gYEbLQtqw  , in grado di convogliare sia lo spirito di Mac Rebennack (e anche del vecchio Leon Russell), quanto quello del citato Fats Domino, come i vocioni dei classici bluesmen, o nei momenti in cui i suoi Wildroots sembrano dei Little Feat in fregola, le tonalità vocali di Lowell George.

Questi Wildroots sono fior di band: tre musicisti ai fiati (e quindi qualche similitudine con combo tipo i Roomful Of Blues potrebbe pure starci), con Patricia Ann Dees anche dedita alle armonie vocali e voce solista con Victor in WildRoot Farm, Stephen Dees, il bassista, nonché chitarrista, vocalist, autore o co-autore di tutti i brani, compagno di avventura di Wainwright dai tempi del primo album solista di Victor, Piana From Savannah, uscito nel lontano 2005 e la cui title-track, un formidabile boogie woogie strumentale è presente in questo Boom Town. Aggiungete Stephen Kampa all’armonica, quando il blues si fa più urgente, e Nick Black alla chitarra, oltre a Billy Dean, batterista dal grande swing, e a questo punto ricordiamo anche gli altri due fiatisti, Charlie DeChant e Ray Guyser, tutti al sax, compresa la Dees. Si parte subito alla grande, con i florilegi pianistici di Wainwright, l’organo hammond di Chris Stephenson, i fiati che pompano, e la voce subito nella parte, potente e decisa, per una title-track minacciosa e poderosa che ci parla di un voodoo-rock-blues cadenzato e coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=SznI9mISJbg . Nella successiva Saturday Night Sunday Morning il ritmo aumenta vorticosamente e siamo in pieno R&R, un pezzo che avrebbe fatto vibrare anche i baffetti di Little Richard o le bacchette di Lionel Hampton ai tempi di Hey Ba-Ba-Re-Bop, fantastico. Anche Stop Me Bossin’ Me Baby rimane su queste coordinate, con Nick Black il chitarrista, voce duettante con Victor, uno è il rock, l’altro il roll, per questo swingante brano, dove piano, chitarre e tutta la band ci danno dentro sempre alla grande.

It Ain’t Got Soul – Part 1 sono i Little Feat in trasferta a New Orleans e in session con i Meters, grande groove e l’armonica di Kampa che si fa sentire, come Wainwright che raddoppia anche all’organo. When The Days Is Done è uno strano gospel soul con solo le voci di Victor, Dees, Black e Beth McKee (toh chi si risente http://discoclub.myblog.it/2012/03/04/musica-dal-profondo-sud-e-da-new-orleans-gran-bella-voce-bet/ ) accompagnate da percussioni, battito di mani, chitarra acustica e armonica. Genuine Southern Hospitality probabilmente prende il nome dall’altro gruppo di Wainwright (o viceversa) ed è un altro ottimo esempio di Little Feat sound, anche grazie alla slide dell’ospite Ernie Lancaster; altro fantastico boogie woogie è Two Lane Black Top Revisited, con le mani di Wainwright che volano sulla tastiera. WildRoot Farm, come ricordato, è un duetto con la Dees, puro Dr. John sound, sottilmente avvolgente, con Professor Stephen Kampa all’armonica, mentre per The Devil’s Bite arriva anche JP Soars all’acustica, un tuffo in atmosfere old time e fumose, con Wainwright che ricorda il giovane Tom Waits per lo stile vocale. Reaper’s On The Prowl, tra shuffle e surf music è un altro eccellente esempio della ecletticità di questo combo, con Back On Top che è un classico blues di quelli pigri e ciondolanti, il titolo preso a prestito dal chitarrista Robert “Top” Thomas, che duetta con il piano di Wainwright e l’armonica. In conclusione c’è WildRoot Rumble che è veramente un “rombo di tuono” di pezzo, un boogie rock devastante, chitarra, piano e armonica sugli scudi, ma tutta la band gira a mille e dimostra perché sono giustamente considerati uno dei migliori gruppi attualmente in giro nell’ambito del roots-rock e nelle cui fila milita uno dei pianisti più formidabili al momento in circolazione. Alzare il volume dello stereo e godere!

Bruno Conti

Big Easy Hillbillies! The Deslondes

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The Deslondes – The Deslondes – New West CD

E’ risaputo che una delle maggiori music cities americane è New Orleans, che però difficilmente sforna gruppi legati alla musica country: i Deslondes invece, pur provenendo dalla Crescent City, fanno country, anche se in maniera del tutto particolare. Infatti, pur avendo qua e là qualche elemento legato alla città di provenienza (penso sia inevitabile, non puoi fare il musicista a New Orleans senza subirne l’influenza), i Deslondes suonano una musica che è diretta figlia di Hank Williams, mantenendo il più delle volte suono ed arrangiamenti tipici dell’era pioneristica della nostra musica.

Quindi The Deslondes (disco di debutto assoluto del quintetto, formato da Sam Doores, Riley Downing, Dan Cutler,  Cameron Snyder e John James Tourville) è un gustoso disco di old-time country, con qualche spruzzata di rock’n’roll, un pizzico di soul e ben poche concessioni a sonorità più moderne: un album assolutamente creativo e godibile, con i cinque che si dividono democraticamente sia la scrittura dei brani che le parti vocali (anche se Doores e Downing fanno la parte del leone), e dove ogni canzone è diversa dall’altra, ma nello stesso tempo l’insieme risulta coeso e per nulla dispersivo. In certi momenti l’appartenenza alla Big Easy si sente (per esempio, nel brano iniziale), altre volte sembra di sentire una band texana, altre ancora un gruppo basato a Nashville che suona vintage country: l’attenzione ai particolari è sempre alta e la noia è bandita.

L’opening track Fought The Blues And Won farebbe pensare ad un album maggiormente New Orleans-oriented: il tempo cadenzato, l’atmosfera d’altri tempi e soprattutto l’uso del piano lo fanno sembrare un pezzo di Fats Domino. Ma con Those Were (Could’ve Been) The Days siamo già in territori diversi: un notevole country-folk con tanto di botta e risposta voce-coro, spedito e gradevolissimo,  come si usava fare sessant’anni fa https://www.youtube.com/watch?v=94Ia1j9WWfI ; Heavenly Home, dalla lunga introduzione di armonica, è un brano corale sempre dal marcato sapore sixties, un tocco di country e riverberi a go-go, mentre la breve Less Honkin’ More Tonkin’ è uno splendido intermezzo tra country e skiffle, davvero coinvolgente e divertente (peccato duri meno di due minuti).

Low Down Soul è una country ballad anni cinquanta, The Real Deal è puro e diretto rock’n’roll, Still Someone una country song con pochi orpelli e la voce particolare di Downing a creare un bel contrasto, mentre la splendida Time To Believe In sembra uscita da una colonna sonora western di Ennio Morricone, un piccolo capolavoro: proprio da brani come questo si nota la preparazione dei cinque ragazzi e la serietà della loro proposta https://www.youtube.com/watch?v=dqsSF9gznJE . Louise è puro country, con una melodia molto bella (vi ricordate dei BR5-49? Ecco, siamo da quelle parti) https://www.youtube.com/watch?v=32lOKiDmelI , Simple And True, leggermente annerita, risente abbastanza dell’atmosfera della Louisiana https://www.youtube.com/watch?v=Cy6zEwrdt-Q , Same Blood As Mine è solare e saltellante, mentre Out On The Rise, che chiude il CD, è un bellissimo ed intenso country-blues eseguito con voci, piano, steel, batteria spazzolata e feeling a dosi massicce.

The Deslondes: un nome da tenere a mente.

Marco Verdi

Per Estimatori Fedeli ! Rickie Lee Jones – The Other Side Of Desire

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Rickie Lee Jones – The Other Side Of Desire – TOSOD/Thirty Tigers

Per quei pochissimi che ancora non la conoscessero, Rickie Lee Jones è una delle “signore” della canzone d’autore  americana, una raffinata cantautrice di Chicago, a diciannove anni trasferitasi a Los Angeles in cerca di fortuna, e leggenda (e realtà) vuole che verso la fine del ’77 al Tropicana Motel la “signorina” incontri Tom Waits, che rimase affascinato dalle composizioni e dalla personalità di Rickie, dando vita a una relazione artistica e sentimentale che si protrasse fino al 1980 (con  scorribande e sbronze condivise e la copia che appare immortalata sulla cover di Blue Valentine di Waits). Con un contratto in mano della potente Warner Bros. e la produzione di Lenny Waronker e Russ Titelman, la “ragazza” esordisce con l’omonimo Rickie Lee Jones (79), con un cast di collaboratori d’eccezione tra i quali Randy Newman e Dr.John ( disco dove era incluso un brano meraviglioso come Chuck E’s In Love, dedicato al collega e amico Chuck E. Weiss). Il disco vende oltre un milione di copie, ma il grande successo non la scalfisce, Rickie si ritira sulle colline di Los Angeles a scrivere le canzoni di Pirates (81) un lavoro ancora più raffinato e ispirato (We Belong Together brilla su tutti i brani), a cui farà seguire un bellissimo EP di cover Girl At Her Volcano (83), tra cui un inedito di Tom Waits Rainbow Sleeves, un classico del jazz come My Funny Valentine, e una sontuosa Under The Boardwalk dei Drifters, e The Magazine (84), dove spiccano una ballata come It Must Be Love, e una intrigante Theme For The Pope con la fisarmonica su un ritmo mediterraneo.

Dopo una pausa dovuta alla nascita di una bimba, la Jones pubblica Flying Cowboys (89) e Pop Pop (91), due album con diverse cover di carattere jazz, e brani di autori che vanno da Jimi Hendrix ai Jefferson Airplane (una toccante Comin’ Back To Me). Il ritorno a composizioni originali avviene con Traffic From Paradise (93), che grazie all’aiuto di “sessionmen” di lusso, tra i quali David Hidalgo (Los Lobos), Brian Setzer (Stray Cats) e Leo Kotte, la porta ad incidere alcuni dei brani migliori del suo “songbook”, oltre a una cover sorprendente di Rebel Rebel di David Bowie. Arriva anche il momento del primo live Naked Songs (95), frutto di una lunga tournèe in duo con il contrabbassista Rob Wasserman, a cui fanno seguito Gostyhead (97), un lavoro in cui la tecnologia ha un ruolo più che determinante, It’s Like This (00) con Ben Folds al pianoforte e ancora composto interamente da covers (su tutte Smile), mentre Live At Red Rocks (01) è una raffinata esibizione dal vivo che ripercorre il meglio della sua carriera e che fa da preludio al ben riuscito The Evening Of My Best Day (03), dove tra blues, jazz e funk trova il modo di scrivere una manciata di canzoni politiche, a cui farà seguito ancora una interessante e bella antologia della Rhino Duchess Of Coolsville (05), il dignitoso Balm In Gilhead (09), e infine rispunta con il quarto CD di covers The Devil Your Know (12), prodotto da Ben Harper, dove a suo modo rivisita vecchi brani di artisti rock e folk.

Finanziato con la solita campagna di “Pledge Music” The Other Side Of Desire arriva a distanza di sei anni dall’ultimo album di Rickie di registrazioni inedite, con la produzione del duo anglo-canadese John Porter (Roxy Music, Smiths, Billy Bragg, ma anche vari musicisti blues e soul) e Mark Howard e l’apporto di validi musicisti locali (il disco è stato registrato a New Orleans, dove la Jones, ma anche John Porter, risiedono): Jon Cleary all’organo e tastiere, James Singleton al basso, David Torkanowsky al pianoforte, Shane Teriot alle chitarre, Doug Belote alla batteria, e altri (tra cui troviamo come gradito ospite il grande Zachary Richard alla fisarmonica), per undici brani che risentono inevitabilmente dei suoni e dell’ambiente della città. “L’Altra Faccia Del Desiderio” parte con il singolo Jimmy Choos, un brano di indubbio spessore (dal ritmo un po’ sbilenco forse, ma è il suo fascino) e dalla melodia accattivante, seguito dal valzerone-country Valtz De Mon Pere (Lovers’ Waltz) cantato con Louis Michot dei Lost Bayou Ramblers, dove la voce di Rickie trasuda nostalgia https://www.youtube.com/watch?v=sj4HoLvO-Ns , per poi passare alle sonorità swing-blues di J’ai Connais Pas (un brano dove traspare l’antica passione per Fats Domino) https://www.youtube.com/watch?v=dT8CVhqrNPY , e raggiungere il punto più alto con la straziante e superba Blinded By The Hunt, un brano di atmosfera dall’andamento vagamente “reggae”. Le note meno buone, per chi scrive, iniziano con Infinity e I Want’t Here due canzoncine insulse e incompiute (dove stranamente Rickie gigioneggia con la voce), ma le cose brutte per fortuna finiscono qui, perché Christmas In New Orleans (anche se richiama troppo A Fairytale Of New York dei Pogues) è una signora ballata di grande fascino https://www.youtube.com/watch?v=PSO1zkXxClk , seguita dall’ammaliante “groove”di una Haunted in chiave soul (con la Jones che suona gran parte degli strumenti) https://www.youtube.com/watch?v=BOSJJu49DFY , una ballata evocativa come Fehttps://www.youtube.com/watch?v=x_7U6VbksL0et On The Ground  , la pianistica e monocorde Juliette, andando a chiudere con le atmosfere finali di una “circense” A Spider In The Circus Of The Falling Star, dal risultato lievemente noioso.

Devo ammettere che inizialmente non ero molto propenso a fare questa recensione, in quanto, per il sottoscritto, il nome di Rickie Lee Jones sarà sempre legato a quell’album d’esordio con la famosa Chuck E’s Love (ho consumato i solchi del vecchio vinile per i ripetuti ascolti), ma devo riconoscere che se The Other Side Of Desire non è un disco perfetto (tutt’altro), è pur sempre un disco di Rickie Lee Jones, un’artista che durante la sua carriera ha saputo allontanarsi dal folk meticciato e composito delle origini per abbracciare un cantautorato intimista dalle mille sfumature, jazz, rhythm and blues, rock e negli ultimi tempi pop e trip-hop (con risultati alterni), ma sempre con un tocco di classe nelle sue canzoni.

Adesso la “signora” si è trasferita a New Orleans, viaggia verso le sessantuno primavere, parla un corretto francese e si occupa della figlia e, giustamente, tutto intorno a lei, odora di leggenda.

Bentornata quindi alla Duchess Of Coolsville!

Tino Montanari

Una ” Nuova Fratellanza”, Anche Migliore Della Vecchia! Royal Southern Brotherhood – Don’t Look Back

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Royal Southern Brotherhood – Don’t Look Back The Muscle Shoals Sessions – Ruf Records

E’ tempo di cambiamenti nella “fratellanza” dei reali del Sud, se ne vanno Mike Zito e Devon Allman e arrivano Bart Walker e Tyrone Vaughan: uno potrebbe pensare che l’avventura della band sudista possa essere arrivata al capolinea. E invece i RSB con Don’t Look Back realizzano quello che sembrerebbe essere il loro miglior album di studio (e lo è) https://www.youtube.com/watch?v=obQ6cdaJiAA . Come mi era capitato di dire parlando dei due dischi precedenti http://discoclub.myblog.it/2012/05/11/famiglie-reali-royal-southern-brotherhood/http://discoclub.myblog.it/2014/07/20/capitolo-secondo-piu-o-meno-royal-southern-brotherhood-heartsoulblood/, il gruppo non era mai riuscito ad essere, in studio (perché il Live Songs From The Road, era un fior di disco dal vivo), la somma dei notevoli talenti che lo componevano, il terzo membro della band il leggendario Cyril Neville, uno dei componenti originali dei Meters e dei Neville Brothers. Sia Mike Zito che Devon Allman avevano registrato vari dischi solisti in contemporanea alla vita del gruppo, dove la qualità dei contenuti erano decisamente superiore a quella degli sforzi collettivi (o così pareva a chi vi scrive, se avrete la pazienza di andarvi a rileggere quanto scritto dal sottoscritto ai link che trovate sopra). Intendiamoci, i due dischi non erano per niente brutti, ma qualcosa non quagliava completamente, a brani eccellenti se ne alternavano altri meno incisivi e le canzoni più rock e tirate, stranamente parevano essere più quelle di Neville che quelle dei chitarristi.

Forse i nomi dei nuovi arrivati non vi diranno molto (ma i cognomi, almeno in un caso, sì): Bart Walker, che prende il posto di Mike Zito sul lato sinistro del palco (così vuole l’iconografia), viene da Nashville, ha un buon disco solista a proprio nome, Waiting On Daylight, pubblicato sempre dalla Ruf nel 2013 (e un altro a livello indipendente del 2011), ed è stato in passato braccio destro del southern-country rocker Bo Bice nel terzo disco,  solista, ma ha suonato anche con Mike Farris, e cura appunto il lato southern rock-blues più energico della band. Tyrone Vaughan, ebbene sì, il cognome ci dice che è proprio il figlio di Jimmie Vaughan e quindi nipote di Stevie Ray Vaughan, una bella responsabilità: anche lui un disco solista alle spalle, Downtime, uscito per la Blues Boulevard, tra blues (e ci mancherebbe) e venature country. Un altro degli atout del nuovo disco è il fatto di essere stato registrato, come recita il sottotitolo dell’album, nei mitici studi Muscle Shoals, con la produzione di Tom Hambridge (che ultimamente non sbaglia un colpo, come testimonia il suo lavoro con Joe Louis Walker, Devon Allman, Buddy Guy, George Thorogood, James Cotton e mi fermo qui), la partecipazione di Jimmy Hall (sempre lui, Wet Willie, recentemente in tour e su CD, nella band di Jeff Beck) al sax e armonie vocali, e Ivan Neville, della premiata ditta Dumpstaphunk, alle tastiere, oltre ad una sezione fiati di un paio di elementi in alcuni brani. Uno come Cyril Neville, nonostante la gloriosa carriera, ha detto che comunque gli ha fatto un certo effetto essere nello stesso posto fisico dove aveva cantato un certo Wilson Pickett. Ovviamente Yonrico Scott e Charlie Wooton mantengono il loro posto come batterista e bassista dalla potenza e dalla duttilità incredibili.

Questo è il disco tosto  e dal piglio sudista, pur se meticciato, che ci si aspettava da loro, come dimostra subito l’iniziale I Wanna Be Free, con le chitarre dei due nuovi venuti che si scambiano sciabolate e riff, oltre ad assoli all’unisono, nella tradizione del miglior southern rock, una partenza micidiale e non guasta che i due abbiamo anche delle buone voci (ma anche Zito e Allman non scherzavano su quel lato). Reach My Goal, aumenta la quota funky-soul, con un bel organo a svisare in primo piano sull’irresistibile groove della sezione ritmica, mentre anche il piano lavora di fino e le chitarre “riposano”. Don’t Look Back, la canzone, costruita intorno a un giro superfunky del basso fretless di Wooton e al banjo di Walker, ha una atmosfera a cavallo tra il classico Neville sound di New Orleans e tocchi country-gospel (esiste, esiste, basta sentire)! Hit Me Once deve avere assorbito l’atmosfera che trasuda dai mitici studi Fame fondati dal grande Rick Hall (nume tutelare di questo album) negli anni ’60 quando il R&B e i soul si fondevano senza sforzi con le “nuove” sonorità del rock e le prime avvisaglie del funk, e le chitarre sinuose di Walker e Vaughan sono lì a testimoniarlo. Big Greasy è più funky che mai, tra clavinet, organo e chitarre wah-wah impazzite, il lato Meters e Neville del gruppo prende il sopravvento, ma poi Hard Blues, un titolo, un programma, lascia spazio nuovamente al suono texano di una certa famiglia, senza dimenticare quella quota sudista che è insita nella ragione sociale della band, e qui le soliste tornano a ruggire, se “il lupo ululì e il castello ululà” cosa fanno le chitarre? Sentite e poi me lo dite voi! E che dire di Better Half, una bellissima ballata soul dedicata da Cyril Neville alla sua amata, una meraviglia di equilibri e di particolari sonori raffinatissimi

.Royal Southern Brotherhood 2014

Penzi non so dirvi cosa voglia dire, però sembrano i Santana in trasferta a New Orleans con qualche retrogusto gitano alla Gypsy Kings, ma suonato al mandolino, mentre It’s Time For Love è solo del sano funky-soul, niente di memorabile, ma si lascia ascoltare (forse l’unico brano dove riaffora quel senso di incompiuto delle canzoni dei primi due dischi, piacevoli ma uguali a mille altre). Anche Bayou Baby svela le sue carte fin dal titolo, funky, soul, rock, reggae, gumbo music, blues, chitarre affilate, soprattutto la slide, una armonica (Jimmy Hall?) e begli intrecci vocali per quel melting pot sonoro che è una delle qualità migliori di questo disco. Poor Boy ha quell’andatura incalzante tra rock e funky, stile che qualcuno chiama “strut”, termine che viene dal fatto di camminare impettiti e leggermente ondeggianti, come il groove del brano lascia intendere, ma poi le chitarre nel finale si lasciano andare in piena libertà, per dirla alla Rocco, molto nasty https://www.youtube.com/watch?v=HH_rUtI9jr8 ! They Don’t Make ‘Em Like You No More è un funky hendrixiano con fiati e chitarre wah-wah che impazzano, e anche la tromba di Paul Armstrong (parente anche lui?) che cerca di farsi largo nel magma sonoro incandescente della canzone, questo è veramente funky come non se ne fa più, micidiale! Ci eravamo dimenticati un attimo del rock? Non temete, ritorna, con una poderosa Come Hell Or High Water, un brano che non so perché (anzi se lo scrivo, lo so) mi ricorda moltissimo i vecchi Doobie Broothers, un gruppo che sapeva fondere rock e ritmi ballabili, ma di gran classe. E per concludere, ciliegina sulla torta di un disco veramente notevole e consigliato a tutti quelli che amano la buona musica, troviamo una Anchor Me, che accanto alla firma di Cyril Neville porta quella di Anders Osborne, uno che di belle canzoni, anche ballate romantiche di stampo acustico, se ne intende.

Bruno Conti

Veterani, Cittadini Onorari Di New Orleans. Fo’Reel – Heavy Weather

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Fo’Reel – Heavy Water – Self-released

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I Fo’Reel sono un gruppo nuovo, almeno per me, ma i “nomi” (almeno uno in particolare, Johnny Neel) non sono quelli di novellini: il leader e chitarrista, Mark Domizio, viene da Philadelphia, ma da molti anni vive ed opera in quel di New Orleans, il succitato Johnny Neel, grande tastierista (più volte anche con gli italiani W.i.n.d.) è una sorta di membro aggiunto del giro Allman Brothers, ma nel corso degli anni ha suonato con moltissimi bluesmen e rockers di pregio, il cantante C.P. Love ha una voce da cantante nero di quelle importanti (forse perché nero lo e davvero), ed è nativo dei dintorni di New Orleans, l’altro black in formazione è il bassista David Barard, ma nel disco suona un altro David, Hyde, poderoso bassista che ha suonato, tra gli altri, con Tommy Malone, Bobby Charles, Clarence Gatemouth Brown, come lui artisti della Louisiana. Quindi, per capire il genere dei Fo’Reel, pensate a blues, soul, R&B, rock, funky e frullateli insieme (o teneteli divisi, comunque si sentono tutti) e a gruppi come i Subdudes, o ancor di più i Radiators, magari con una quota rock little featiana meno presente, con il piedino che non può fare a meno di muoversi a tempo con il groove ed il sound del gruppo.

c.p.love mark domizio

Dicevo all’inizio che il nome mi è nuovo, forse anche perché questo Heavy Weather è in effetti il loro primo album (già in giro da qualche mese, ma con la solita difficile reperibilità che ultimamente molti dischi di buona qualità purtroppo hanno), ma la musica sicuramente non lo è, variazioni su generi musicali consolidati ma eseguite con classe e grande gusto. Il tono dell’album lo stabilisce subito il primo brano, una cover di Breaking Up Somebody’s Home, un classico del blues funky, che forse si farebbe prima a dire chi non lo ha fatto, perché nel corso degli anni si sono cimentati con questa canzone, tra i tanti, Albert & BB King, Etta James, Ann Peebles, ma anche Bob Seger, Bette Midler e, recentemente, anche Kenny Wayne Shepherd con Warren Haynes, nell’ultimo disco Goin’ Home; e la versione dei Fo’reel è veramente da manuale, un bel funky blues fiatistico (forse avevo dimenticato di dire che nella formazione c’è anche un ottima sezione fiati, guidata dal sassofonista Jon Smith), con la voce superba da soulman di C.P. Love che guida la band, contrappuntata dai pungenti soli della chitarra di Domizio, l’organo di Neel che scivola sullo sfondo e in primo piano con grande libidine e il groove perfetto della sezione ritmica. Ancora più funky-rock la title-track, con il walking bass di Hyde che ancòra il sound, e con i fiati all’unisono che pennellano impressioni della Louisiana e Domizio e Neel impeccabili ai rispettivi strumenti. Ma la band ha puree un secondo vocalist ed autore (che si alterna con Love), Rick Lawson, altro veterano della scena blues, soul & R&B, che viene da poco lontano, dalle sponde del Mississippi, la sua Leave Your Love Alone è una deliziosa variazione più swingante e jazzata (l’organo di Neel è veramente da manuale) della musica della band, mentre nella potente Blues (semplicemente) si viaggia verso un suono alla BB King, un po’ alla Thrill Is Gone, con chitarra limpida e tagliente e Neel che aggiunge un piano elettrico al solito organo, ma il risultato è tutto da sentire.

david barard johnny neel

Gate è un eccellente strumentale, probabilmente in onore di Clarence “Gatemouth” Brown, uno dei grandi della musica della Crescent City, con il classico dualismo chitarra-organo punteggiato dai fiati, mentre in What Can I Do un sognante brano dalla atmosfera latina quasi santaneggiante, ma con la chitarra di Domizio in modalità slide ad evitare paragoni con Carlos, torna la voce forse più espressiva di Love (comunque Lawson non è male) https://www.youtube.com/watch?v=MtYYvo9AckA  e Neel si divide sempre con profitto tra piano elettrico e Hammond. What’s Going On In My Home è uno di due successivi brani entrambi a firma Luther Allison, molto funky, con wah-wah in fase ritmica e notevole performance vocale di Love che si ripete nell’intensa blues ballad Just As I Am dove le tastiere di Neel sono sempre protagoniste https://www.youtube.com/watch?v=FNgwcJ1t1Po . A seguire altri due brani dell’accoppiata Domizio/Lawson, una Shake N Bake, dove si sfiora quasi il funky alla James Brown, arricchito dalla solista di Domizio e con organo e fiati sempre sugli scudi, notevole l’assolo di Smith https://www.youtube.com/watch?v=_JRt8bxB-8M , mentre Outside Love è blues allo stato puro, con slide in bella evidenza e gli altri strumenti ben delineati https://www.youtube.com/watch?v=DzjleYUYCVA . Curioso che chitarre, voci, fiati e basso siano stati registrati a New Orleans, mentre tastiere e batteria in quel da Nashville, dall’ascolto del disco dove tutto ha un feeling molto live non si direbbe. Per concludere manca un ulteriore vivace e trascinante strumentale come Tater, dove i fiati tirano la volata e gli altri solisti non sono da meno. Per parafrasare il nome del gruppo “Veerameente” bravi!

Bruno Conti

Disco Bellissimo, Peccato In Teoria Non “Esista”! NMO/ Anders Osborne + North Mississippi AllStars – Freedom And Dreams

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NMO – Anderson Osborne & North Mississippi Allstars – Freedom And Dreams solo download

Come sapete chi scrive (e gli altri collaboratori del Blog), sono fedeli seguaci del disco fisico e contrari per principio al download digitale degli album, ma quando i dischi sono così belli come questo Freedom And Dreams dei North Mississippi Osborne, NMO per abbreviare, l’eccezione conferma la regola, e quindi mi sono affrettato a scaricare questa collaborazione tra alcuni dei migliori musicisti che attualmente graziano il panorama americano della buona musica: vogliamo definirlo un disco roots and blues, con la voce splendida di Anders Osborne, grande vocalist (e chitarrista) di origine svedese, ma da anni cittadino di New Orleans, Lousiana, dove ai Dockside Studios, nel cuore dello stato del Sud, e sotto la produzione di Mark Howard, è stato registrato questo meraviglioso disco. Un disco dove si respira grande musica, sembra a tratti un disco di quelli belli del Ry Cooder degli anni ’70, a momenti sembra di ascoltare la Band (tanto per volare bassi), ma perlopiù si tratta di questa riuscitissima fusione tra il soul-blues di Osborne e il groove e la musica folk-rock-blues dei NMA, ovvero i fratelli Luther e Cody Dickinson. Non so dirvi se ci siano altri musicisti coinvolti (si sentono qui e là piccoli interventi di tastiere, fisarmonica e qualche strumento acustico) e anche se dalla foto qui sotto pare esserci un quarto elemento nella line-up, non avendo trovato note nel download non posso confermarlo.

North-Mississippi-Allstars-Anders Osborne

Comunque la musica parla da sola, dai primi ripetuti ascolti mi sembra una delle cose migliori mai fatte dai musicisti coinvolti (e dischi belli sia Anders Osborne, quanto i fratelli Dickinson, nelle loro varie personificazioni, ne hanno fatti parecchi in passato): ma in questo caso deve essere scattato quel quid che si accende quando si incontrano spiriti eletti. Registrato in quattro giorni di sessions non-stop ai citati Dockside Studios l’album (mi suona strano definirlo così, ma il futuro, speriamo lontano, sembra essere questo) nasce da una serie di brani di Osborne costruiti con questo spirito collaborativo, da jam session, dove l’improvvisazione ha ovviamente una sua parte, ma le canzoni hanno pure una loro solida costruzione ed una notevole varietà di temi sonori. Il disco si apre con il blues puro di Away Way Too Long che sembra quasi un brano di Blues Jam At Chess dei Fleetwood Mac, dove maestri stregoni delle 12 battute ed apprendisti si scambiano impressioni a colpi di slide e voce, ma in modo molto rispettoso della tradizione. Back Together è la prima di una serie di blues soul ballads, marinate nell’aria della Lousiana e caratterizzate dalla bellissima voce di Osborne, con le chitarre che pigramente intessono un finissimo lavoro di cesello ed interscambio degno dei “sudisti” più raffinati degli anni ’70, un piccolo gioiello di equilibri sonori, grazie anche all’eccellente groove impostato dall’inconsueto drumming di Cody Dickinson, e Lonely Love con le soliste di Luther e Anders che navigano a vista di conserva https://www.youtube.com/watch?v=wLdE0TUHlBc , potrebbe essere una traccia perduta di qualche vecchio vinile dei Free di Paul Kossoff (magari, come atmosfera, Molten Gold, tratta dal suo primo disco solista https://www.youtube.com/watch?v=WmKPNaV2HX0), tra improvvisazione e leggera psichedelia.

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Molto bella anche Dyin’ Days, altro pregevole esempio della grande capacità di Osborne di riappropriarsi della tradizione sonora del Sud degli States, grazie ancora una volta al preciso lavoro, molto minimale, ma direi essenziale dei fratelli Dickinson raramente così ispirati https://www.youtube.com/watch?v=tXMvz24WU0Y ; Shining (Spacedust), viceversa, altra ballata sontuosa, potrebbe avvicinarsi al Ry Cooder legato alle radici blues e soul dei suoi dischi migliori della decade fine anni ’70, primi anni anni ’80,  addirittura con qualche retrogusto dylaniano e messicano che avevano canzoni di frontiera come Across The Borderline (che porta anche la firma di Jim Dickinson, il babbo) https://www.youtube.com/watch?v=wzWuTxNfLQI . Brush Up Against You è il brano più lungo del disco e qui la slide viaggia, perentoria e minacciosa, appaiata alla voce distorta e incattivita di Anders, per creare un groove che viene dalle colline del Mississippi, da quei juke joints dove si praticava un blues elettrico primevo e malandrino, egregio nuovamente il lavoro delle chitarre, sempre in grande spolvero e libere di improvvisare, come il gruppo nel suo insieme https://www.youtube.com/watch?v=OAwhFBC7EbI . Annabel è pura southern music della più bell’acqua, una bella voce, una melodia delicata, un liquido piano elettrico che si aggiunge alle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=MwChOeTUVes  e il risultato ricorda la Band più legata al sound del Sud, che qui viene replicato in un brano che vuole essere un ricordo di un avvenimento mai dimenticato dagli abitanti di New Orleans, Katrina, una delicata ballata pianistica cantata con grande trasporto e partecipazione da Osborne, che si conferma vocalist dal feeling innato, prima di lasciare spazio all’essenziale lavoro della solista slide che imbastisce un lavoro di breve ma intenso raccordo con il piano.

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Kings And Peasants si incentra su un elegante groove ritmico, un brano quasi cantautorale, dove le chitarre lavorano ancora una volta di fino, in un sottile lavoro dove toni e volumi sono impiegati con precisione e classe squisita https://www.youtube.com/watch?v=iDweTJxIeLw . Ancora due brani prima della conclusione, Many Wise Men ricorda le migliori ballate mainstream scritte da Anders Osborne per i suoi dischi solisti https://www.youtube.com/watch?v=RptHWExz2Oo , quelle canzoni dove lo spirito di Jackson Browne sembra aleggiare benevolo su queste morbide ed aggraziate atmosfere, tra folk e canzone d’autore, mentre Junco Parda è un’ultima scarica di blues cooderiano, semplice, raffinato ed estremamente coinvolgente, come peraltro tutto il disco. Veramente niente male per un disco che “non esiste”.

Bruno Conti

Continua “L’Invasione” Delle Band Pavesi! Lowlands – Love Etc… Il Nuovo Disco

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Lowlands – Love Etc… – Harbour Song Records/distr. IRD

Questo è il sesto album dei Lowlands, più 3 EP, il disco in collaborazione con Chris Cacavas, alcune partecipazioni a compilation varie, la produzione del disco di Donald MacNeill con la figlia Jen, non male per un cosiddetto “musicista part-time” come Ed Abbiati, diviso tra la passione per la musica e la necessità di sbarcare il lunario. Mi pare che il tratto distintivo della sua musica sia sempre stato quello di cambiare per rimanere sempre uguali a sé stessi. Mi spiego: il genere musicale di fondo si potrebbe definire roots music, d’altronde, nel 2007, hanno preso il nome poprio da un brano dei texani Gourds, degni rappresentanti di questo filone, ma poi hanno fatto dischi dove rock, folk, musica delle radici, si intrecciavano in modo assolutamente fluido, a volte dischi con un suono più “rude” e chitarristico, come Beyond, altre volte alle radici della musica popolare americana, Better World Coming, il progetto dedicato alla musica di Woody Guthrie, o il detour nella musica tradizionale scozzese rivisitata, con i MacNeill, questa volta siamo ad una sorta di neo folk soul con fiati, che al sottoscritto ricorda, con i dovuti distinguo, il sound della Band con i fiati, o il celtic soul del Van Morrison americano, ma anche dei Dexys Midnight Runnners. Mi rendo conto che si tratta di paragoni impegnativi ma questo mi appare,e quindi lo dico. Anche questa storia dell’unplugged, che starebbe per spina staccata, ovvero non ci sono strumenti elettrici, o meglio chitarre elettriche (mi spiace per Roberto), è quantomeno spiazzante: sul palco di Milano ad Aprile ho contato, in certi momenti, almeno sedici elementi sul palco, e nel disco ci sono, se non ho fatto male i conti (ma in qualità di Bruno non credo), addirittura 25 musicisti.

Non male per un album che viene presentato come intimista e rarefatto, probabilmente nei sentimenti, nei testi e nell’atmosfera che viene creata in questo tuffo nell’amore e nelle sue mille sfaccettature. Le 12 canzoni catturano tanti differemti momenti e stati d’animo raccolti da Ed Abbiati nel corso degli anni e ora rilasciati in questo Love Etc… Dato che a chi scrive piace anche essere analitico vediamoli questi contenuti musicali: si parte con la dolce How Many, dove piano, Francesco Bonfiglio e una weepin’ lap steel guitar, Mike Brenner si dividono il mood del brano con i fiati, che aggiungono una sorta di propulsione sonora, ma c’è spazio per alcuni particolari ricercati, un tocco dell’acustica di Roberto Diana qui, il mandolino di Alex Cambise là, il violino e il cello di David Henry a completare il tutto, con il cantato partecipe di Ed Abbiati, che migliora disco dopo disco, a cementare l’insieme. La successiva Love Etc… è anche meglio, un bel valzerone che profuma di soul, con un ritornello che non si può fare a meno di memorizzare, la ritmica che si aggiunge alle procedure, begli inserti di voci di supporto, i fiati che si fanno ancora più protagonisti, lap steel, mandolino ed acustica che non possono fare a meno di rimandare alla Band (in fondo i Gourds sono sempre stati considerati dei discepoli della band di Robbie Robertson e di Levon Helm, andare direttamente alla fonte del suono non è poi male). I wanna be, che ricorda Dylan nel testo, è un’altra piccola delizia elettroacustica, con quel suono americano o se preferite “Americana”, ma con i fiati che sono sempre lì, ai lati del Mississippi, nei pressi di New Orleans, che danno quel tocco vincente in più.

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Sempre per non fare paragoni, quando la Band ha voluto usare i fiati, l’arrangiatore era un certo Allen Toussaint,  quindi dalla Crescent City. You, Me, The Sky And The Sun, una canzone spensierata, che riempie di buoni sentimenti è sempre su quelle coordinate sonore, ma anche il suono della Caledonia Soul Orchestra di un certo Van Morrison ci può stare, 19 musicisti si amalgano, aggiungete armonie vocali stile sixties, battiti di mano, l’immancabile armonica di Richard Hunter, una rarissima apparizione di una chitarra elettrica, Tetsuya Tsubata “Bakki”, il basso elettrico di “Rigo” Righetti a dare il tempo, piano e organo in bella evidenza, ma soprattutto tanti fiati, orchestrati con maestria da Andres Villani, come piovesse. Cambio d’atmosfera per la breve, raccolta, quasi cameristica e malinconica, You And I, un contrabbasso, Simone Fratti, a scandire il suono, cello e violino e il piano ad evidenziare il carattere riflessivo e quasi cupo del brano, comunque molto bello. Dopo la pioggia torna il sereno con Happy Anniversary, che si potrebbe definire “classic Lowlands sound with brass”, Roberto Diana colora il suono con una insinuante slide acustica e i fiati, soprattutto il clarinetto di Claudio Perelli, ci portano ancora dalle parti di New Orleans, deliziose anche le armonie vocali, per la serie anche il particolare ha la sua importanza. Scordatevi pro-tools e sovraincisioni, qui vige la genuinità! Can’t Face The Distance, nel libretto interno con i testi posta in coda, è un’altro brano intimista, quasi per sottrazione sonora, solo la voce di Ed, la sua acustica accarezzata, il cello di David Henry e l’armonica di Richard Hunter. Armonica che rimane per la gioiosa Wave Me Goodbye, con Ed che ci assicura che tutto va bene, ma, nonostante il carattere uptempo della canzone, non ci convince del tutto.

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L’ultimo quartetto di brani si apre con My Baby, solita ventina di musicisti in studio, per un brano che sta tra folk, country e blues, vogliamo chiamarla hootenanny music, preferite swing jazz? Cambise è alla chitarra elettrica, l’ospite Maurizio “Gnola” Ghielmo aggiunge la sua Slide Resophonic e i fiati dixieland nel finale vanno ancora in gita per le strade di New Orleans. Doing Time è una deliziosa ballata mid-tempo attraversata dalla insinuante lap steel di Brenner, dall’organo Hammond di Joey Huffman, e con il basso di Righetti e la batteria di Mattia Martini che tengono il tempo ammirevolmente. Still I Wonder, almeno all’inizio, mi ricorda moltissimo l’incipit di You Can’t Always Get What You Want degli Stones, ma poi lo spirito stonesiano rimane, in un intrecciarsi di chitarre acustiche e lap steel, voci eteree sullo sfondo, organo e piano, molto bella. Un disco dei Lowlands senza fisarmonica non poteva essere, e quindi Francesco Bonfiglio la sfodera per una sorta di ninna nanna finale, intitolata Goodbye Goodnight, che chiude dolcemente un album tra i migliori della discografia dei Lowlands.

Come dico spesso, non sembrano neanche italiani (forse anche perché alcuni di loro, almeno in questo disco, non lo sono), e quindi donano un sapore anglo-americano a questo ottimo Love Etc…, che conferma ancora una volta, se ce n’era bisogno, la bontà del repertorio della band di Ed Abbiati e soci.

Bruno Conti

La Donna “Illustrata”! Marcia Ball – The Tattoed Lady And The Alligator Man

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Marcia Ball – The Tattooed Lady And The Alligator Man – Alligator/IRD

Recensisco dischi di Marcia Ball (prima in vinile e poi in CD) da più di trent’anni, ma non mi ero mai accorto che la pianista texana avesse una così impressionante serie di tatuaggi da far invidia a Johnny Winter, anzi non mi pareva di averne mai visto uno ed ora sulla copertina del nuovo album appare come una sorta di “illustrated woman”. Ma, niente paura, c’è lo scherzetto! Una maglietta e un paio di calze molto colorate e la nostra amica si trasforma nel fenomeno da circo della title-track di questo The Tattooed Lady and The Alligator Man, 17° album di una carriera abbastanza prolifica, con tre live e un paio di collaborazioni, Dreams Come True con Lou Ann Barton e Angela Strehli e Sing It! con Tracy Nelson e Irma Thomas, candidato al Grammy, come pure l’ultimo Roadside Attractions, mai vinto però, anche se avrebbe meritato. La Ball è uno dei massimi esponenti viventi di quella miscela di Texas Blues (è nata a Orange, nella Gulf Coast) e Crescent City Sound della vicina Louisiana, dove è stata allevata: nella sua musica, ed in particolare anche in questo ottimo disco, confluiscono pure influenze zydeco, cajun, un pizzico di jazz, boogie woogie, barrelhouse, R&B e quanto vi possa venire in mente, per realizzare questi dischi divertenti, coinvolgenti, ben suonati e cantati con voce pimpante, a dispetto dei 65 anni, anche quelli suonati (sempre dire l’età delle signore!).

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Per questo settimo album per l’Alligator si è affidata alla produzione di Tom Hambridge, uno dei migliori nel genere ultimamente, come testimoniano i recenti album di Buddy Guy, Joe Louis Walker e James Cotton, solo per citarne alcuni, questa volta eccezionalmente in trasferta dai suoi studios di Nashville in quel di Austin, per unirsi con una pattuglia di ottimi musicisti locali, a partire dalla band di Marcia Ball, con Don Bennett e Damien Llames, la sezione ritmica, Thad Scott, sax tenore e il bravo Michael Schermer, chitarra, i due solisti insieme alla stessa Marcia al piano. Non mancano ospiti come Delbert McClinton, armonica, nel vorticoso barrelhouse blues di Can’t Blame Nobody But Myself dove il piano viaggia più che altrove (ma in tutto il disco la Ball dimostra la sua maestria con gli 88 tasti), Terrance Simien, accordion e armonie vocali nel super coinvolgente zydeco di The Squeeze Is On https://www.youtube.com/watch?v=44y9ASuoP_4 , Red Young all’organo hammond B3 nel blues più “cattivo” della tiratissima Hot Springs, dove si apprezza anche l’ottima solista di Schermer, il delicato deep soul della deliziosa ballata Human Kindness, dove si gustano anche le armonie vocali di Shelley King, Carolyn Wonderland e Amy Helm e Get You A Woman, che viaggia a tempo di R&R, con i sax di Thad Scott e Mark “Kaz” Kazanoff che punteggiano il suono https://www.youtube.com/watch?v=qOzKUB4GT-M .

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Come peraltro fanno anche nella latineggiante Just Keep Holding On, che invita tutti sulla pista da ballo o nell’unica cover, una He’s The One, che viene dalla penna di Hank Ballard, uno dei maestri del primo R&B salace, o nella scanzonata e divertente Like There’s No Tomorrow, che ricorda i Little Feat in trasferta a New Orleans, ma anche il miglior Dr.John, Fats Domino o Professor Longhair, fate voi, senza dimenticarsi  delle armonie vocali di Wendy Moten. Cosa manca in questo incrocio di ospiti? Gli altri fiati, Jimmy Shortell, tromba e Randy Zimmerman, trombone, presenti nell’irresistibile drive di The Tattooed Lady And The Alligator Man, dove tutta la band viaggia alla grande https://www.youtube.com/watch?v=gZgF1jRm2Ls , come pure nella pimpante Clean My House, sempre costruita intorno al volteggiare del piano e della voce della Ball, che si placa solo nella conclusiva The Last To Know, una sorta di jazz-blues afterhours, raffinato e di gran classe e in Lazy Blues, altra ballata sofisticata e di gran pregio, cantata con passione e misura sopraffine, a dimostrazione che la classe che non è acqua, mi sa che prima o poi il Grammy glielo daranno.

Bruno Conti

Siamo Tutti Sulla Stessa Barca (Del Blues)! Elvin Bishop – Can’t Even Do Wrong Right

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Elvin Bishop – Can’t Even Do Wrong Right – Alligator/IRD

Elvin Bishop se non può essere considerato uno dei “grandissimi” del Blues elettrico dell’epoca d’oro, a cavallo anni ’60 e ’70, ne è comunque uno dei più longevi esemplari (72 anni a ottobre). Già sulle scene di Chicago (pur essendo originario della California) fin da inizio anni ’60, è stato il secondo chitarrista, a fianco di Michael Bloomfield, della Butterfield Blues Band, e di questo gliene saremo eternamente grati. Ma pur essendo solista di pregio, anche alla slide, non è mai stato un grande cantante, pur avendo, stranamente, migliorato, con il passare degli anni le sue performances vocali. Il suo periodo migliore, e di maggior successo commerciale, è coinciso con la sua permanenza alla Capricorn Records, nella seconda metà degli anni ’70, quando si era dato decisamente al rock, pur mantenendo inalterate le sue capacità di bluesman di vaglia https://www.youtube.com/watch?v=OIyWTB5vMuY . Come molti, ha avuto varie fasi stilistiche, cambiando diverse etichette nel corso degli anni: ad esempio ha già avuto un passaggio in casa Alligator tra il 1988 e il 2000, incidendo per loro ben cinque album, poi per i casi della vita le strade si sono divise e Bishop. dopo vari passaggi, nel 2008 era approdato alla Delta Groove, per cui ha registrato tre album, tra cui un eccellente disco dal vivo Raisin’ Hell Revue, che riprendeva le tracce del suo miglior disco degli anni settanta.

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Il titolo di una delle canzoni, Everybody’s In The Same Boat (“siamo tutti sulla stessa barca”, non sapevo che anche gli americani utilizassero questo modo di dire, peraltro universale), ci permette di esaminare una delle peculiarità della musica di Elvin, che ha sempre avuto questa caratteristica, per ovviare alle sue non grandi capacità vocali, del “raconteur”, piccoli aneddoti e storielle, spesso divertenti, con cui il nostro intrattiene l’ascoltatore, sorta di mini talkin’ blues, nel disco ce n’è un altro, in coppia con Charlie Musselwhite, Old School, dove i due si raccontano a vicenda dei bei tempi andati, senza dimenticare di cimentarsi ai rispettivi strumenti, su un groove che ricorda molto i vecchi classici (qualcuno ha detto Walkin’ Blues?). https://www.youtube.com/watch?v=omyYA2syhhk  Anche Can’t Even Do Wrong Right,  posta in apertura, ha questo scorrere discorsivo, con Bishop che ce la racconta prima di rilasciare un breve e ficcante assolo. Più grintosa la cover di Blues With A Feeling, dal repertorio di Walter Jacobs, con Elvin ben supportato alle armonie vocali dall’ottimo Mickey Thomas e poi protagonista di ottimi assolo sia alla slide quanto alla solista. Mickey Thomas, vecchio pard nei dischi anni ’70 https://www.youtube.com/watch?v=DyMMEmwFQUE , e poi cantante dei Jefferson Starship, è uno di quei bianchi che sanno cantare il blues ed il soul con voce chiara e potente, come dimostra in una Let Your Woman Have Her Way dal piglio gospel-soul e dalla notevole intensità, con tutta la band che segue il cantante e il leader, alla chitarra, in una interpretazione di rara efficacia, nel brano forse migliore dell’intero album, grande l’assolo di slide. Eccellente anche No More Doggin’, uno strumentale di Chicago Blues, dove l’interplay fra Bishop e Musselwhite dimostra che la classe non è acqua e la coppia, ai rispettivi strumenti, è ancora in grado di alzare la temperatura.

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Everybody’s In The Same Boat, come detto, è una di quelle favolette con morale che piacciono al nostro amico, ma è anche fior di blues, down & dirty direbbero quelli che se intendono, con il coretto che stempera la “serietà” dell’argomento. Al settimo brano, improvvisamente, Bishop ci trasporta in quel di New Orleans, il pianista Steve Willis si sposta alla fisarmonica e a ritmo di gumbo, Dancin’ ci porta dalle parti delle paludi della Louisiana. Anche lo strumentale Honest I Do, grazie al suono della fisa, mantiene questo spirito, ma a dominare sono le due soliste spesso all’unisono (l’altra è quella di Bob Welsh, ottimo in tutto il disco e co-produttore dell’album). Boo Weevil, scritta da Fats Domino, più che cajun e fatta a tempo di zydeco, divertente e trascinante come si conviene al genere, con il vocione vissuto di Bishop che ben si adatta alla filosofia della canzone, ovvero quella di divertire. Stesso obiettivo ma diversa provenienza per una scatenata Hey-Ba-Ba-Re-Bop, registrata dal vivo, che avrebbe fatto la gioia del suo autore, quel Lionel Hampton che è stato uno degli “antenati” del R&R e che va a concludere un disco che se non ci porta a riva quantomeno ci garantisce una quarantina di minuti di onesta musica da parte di un “arzillo vecchietto” https://www.youtube.com/watch?v=kQvrAwNDisU !

Bruno Conti

Non Otis, Sempre L’Altro! Bobby Rush With Blinddog Smokin’ – Decisions

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Bobby Rush With Blinddog Smokin’ – Decisions – Silver Talon Records CD/DVD

Il disco dello scorso anno di Bobby Rush, Down In Louisiana, era, per chi scrive, un buon disco, ma non un grande disco (per quanto, forse, sia il sottoscritto a pretendere troppo, visto che il disco era candidato ai Grammy come miglior disco blues, anche se il premio negli anni ha perso parte della sua autorevolezza) e pure questo Decisions viaggia più o meno sugli stessi livelli qualitativi. Se volete leggervi la storia di Bobby Rush andate a recuperare la recensione http://discoclub.myblog.it/2013/03/03/non-quello-giusto-ma-non/ , qui posso aggiungere che il nostro amico ama circondarsi, quando possibile, di ottimi musicisti, per mantenere la sua reputazione di inventore del folk-funk, definizione che si è affibbiato da solo. Questa volta si tratta dei Blinddog Smokin’, ottima formazione funky-soul-blues capitanata da Carl Gustafson, autore della traccia di apertura (e di altre nel CD), una eccellente Another Murder In New Orleans, un brano sul lato violento della Crescent City, interpretata in modo egregio da Rush, che duetta per la prima volta in carriera con l’amico e concittadino Dr. John, un blues carico di soul, mid-tempo, ideale per la voce (e il piano) del buon Mac Rebennack e che è uno dei motivi per cui varrebbe la pena di avere questo album https://www.youtube.com/watch?v=iK1AdcX0Djg (nella foto qui sotto, non si direbbe vedendola, ma il più giovane dovrebbe essere Dr. John).

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Album che si avvale, oltre che dei Blinddog, di una serie impressionante di ottimi musicisti provenienti da quell’area geografica, New Orleans e dintorni, dove il disco è stato registrato: Sherman Robertson, Carl Weathersby e Shane Theriot, oltre allo stesso Rush, alle chitarre, David Torkanowsky alle tastiere, una nutrita serie di fiatisti, tra i quali Mindi Abair e Chuck Findley, per ricordare i più noti, Billy Branch all’armonica e moltissimi altri. Purtroppo non sempre i risultati, per quanto apprezzabili, sono all’altezza di questo spiegamento di forze: Rush, che è un arzillo quasi ottantenne (secondo alcune biografie li ha anche superati) ha una (in)sana mania, che però ogni tanto devia verso l’ossessione, per le donne “grosse”, quantomeno in quella specifica parte del corpo e nelle canzoni ama farcelo sapere.

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Bobby Rush’s Bus è un funky-blues gagliardo, con armonica, fiati e voci femminili ben piazzate nella canzone, ma Dr.Rush, un hip-hop elettronico dove Bobby “rappa” (?!?) da par suo, è una ciofeca tremenda, mentre Skinny Little Women tratta l’argomento quantomeno a tempo di blues classico, ancora con l’armonica di Branch in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=cz4OToB0g5A  e Funky Old Man (che sarebbe lui), con quel fior di musicisti che lo accompagnano, ha qualche evidenza dello splendore di Rufus Thomas o James Brown, divertente, per quanto sopra le righe https://www.youtube.com/watch?v=Iq2KsjaHads . Decisions è un buon blues, New Orleans style, con organo, armonica e chitarre in bella evidenza, forse le voci femminili di supporto sono troppo invadenti e la voce di Rush mostra i segni del passare del tempo, ma è ancora gagliarda https://www.youtube.com/watch?v=_3Rni2rbd5M . If That’s The Way You Like It I Like It, uno scioglilingua più che un titolo, con i suoi fiati in overdrive e la sezione ritmica in spolvero, è un altro funky che permette alla chitarra di salire al proscenio, ma evidenzia troppo i limiti attuali della voce di Bobby.

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Love of a woman è un altro blues classico, scandito ed eseguito con vigore dalla sua band https://www.youtube.com/watch?v=N5Vqi0HuXvA , bene anche Rush che si fa largo tra chitarre, piano, organo ed armonica. Discreta anche Stand Back, come molti dei brani presenti in questo album firmato da Carl Gustafson,  musicalmente sembra un brano dei Santana, solista in evidenza, fiati e vocalists di supporto ben piazzati, la voce non è memorabile e il risultato finale ricorda più i Santana delle “canzoni” recenti che la band rock dei tempi che furono. In Too Much Weekend Rush imbraccia la  chitarra acustica e ci presenta anche un lato più folk della sua produzione, un bel blues carico dove la voce è sul pezzo, vivace e decisa più che in altri brani del disco. Sittin’ Here Waiting è la bonus posta in conclusione, un altro blues elettroacustico di buona fattura che conferma il giudizio tutto sommato positivo – suonato bene, cantato anche, a parte qualche eccesso e cedimento qui è la – su questa nuova fatica del “vecchio” Bobby. Il DVD riporta il video del primo brano, l’interessante making of delle sessions dell’album e qualche intervista.

Bruno Conti