Un Bellissimo Disco Di Uno Dei “Segreti” Meglio Custoditi Di New Orleans, Veramente Un Peccato Che Si Trovi Con Molta Difficoltà. Johnny Sansone – Hopeland

johnny sansone hopeland

Johnny Sansone – Hopeland – Short Stack Records

Johnny Sansone viene da New Orleans, e questo per il sottoscritto è già una nota di merito a prescindere, di solito la musica che arriva dalla capitale della Louisiana ha dei profumi e delle suggestioni che sono uniche. Poi scopriamo che il nostro amico non è un indigeno autoctono, è nato a West Orange nel New Jersey 61 anni fa, ma è comunque cittadino onorario in quanto è residente nella Crescent City dal lontano 1990 e lì ha proprio vissuto gran parte della sua vita e della sua carriera, a parte la fase iniziale quando facendo la  gavetta in giro per gli Stati Uniti, suonava da supporto a gente come Robert Lockwood, Jr., David “Honeyboy” Edwards e Jimmy Rogers. In seguito al suo trasferimento a Nola ha imparato anche a suonare la fisarmonica, ispirato da Clifton Chenier: tutte queste influenze sono quindi confluite nei suoi album, che anche se risultano poco conosciuti a causa della scarsa reperibilità, sono già la bellezza di 12, compresi un paio di Live Al Jazz Fest e questo nuovo Hopeland, uscito qualche mese or sono (quasi un anno per la verità), ma assolutamente meritevole di essere portato alla vostra attenzione in quanto è probabilmente il migliore della sua discografia.

Alcuni sono stati pubblicato come Jumpin’ Johnny Sansone e così lo conosceva chi scrive (e mi pare di avere recensito qualcosa sul Buscadero diversi anni fa), ma molti, quasi tutti quelli editi dalla Short Stack Records, portano semplicemente il suo nome. Quelli degli anni dal 2007 in avanti sono tutti molto interessanti perché, oltre ad alcune leggende locali come Stanton Moore, Ivan Neville, Monk Boudreaux e Henry Gray, vi appare quasi sempre un altro “oriundo” di New Orleans, il bravissimo Anders Osborne, che ha prodotto anche il nuovo disco, registrato agli studi Dauphin Street Sound di Mobile, Alabama, altra località storica, dove opera come ingegnere del suono la plurivincitrice di Grammy Trina Shoemaker, e dove lo aspettavano per registrare questo album anche Luther e Cody Dickinson dei North Mississippi Allstars, e in un brano anche Jon Cleary. Da tutti i nomi sciorinati (che contano sempre, non fatevi ingannare da chi dice il contrario) si evince che Hopeland è un signor album che, partendo dal blues canonico, tocca ovviamente anche le sonorità tipiche della Louisiana, con un suono sapido, pimpante, molto variegato: come dice lo stesso Johnny nel testo di Delta Coating “They call it the blues, they call it country, they call it rock ’n’ roll. It’s all just soul with a ‘Delta coating’”, che mi pare perfetto.

L’album, in tutto 8 brani, dura solo 35 minuti, ma non c’è un secondo di musica sprecato: dalla vorticosa Derelict Junction, dove la voce potente di Sansone e la sua armonica scintillante, unite al gruppo portentoso che lo accompagna, ci regala un blues elettrico dal suono classico e vibrante, con Dickinson e Osborne che iniziano a mulinare le chitarre, l’appena citata Delta Coating ci porta sulle ali di un train time raffinato in un viaggio dal country e soul di Memphis a quello di New Orleans, con la slide di Cody Dickinson che comincia a disegnare le sue traiettorie raffinate, poi portate alla perfezione nella splendida Hopeland, una ballata di grande intensità e spessore, che mi ha ricordato la celebre Across The Borderline di Ry Cooder (firmata, insieme a John Hiatt, anche dal babbo di Luther e Cody, Jim Dickinson, e quindi il cerchio si chiude), eccellente nuovamente il lavoro della slide di Cody e del piano di Cleary, oltre a Sansone che rilascia una prestazione vocale da brividi, siamo sui livelli del miglior Ry anni ’70-’80, come spesso succede in questo album. Plywood Floor, tra blues e R&R è un’altra iniezione di energia, con la band che tira alla grande a tutto riff, sempre con bottleneck in agguato e Osborne che risponde, come pure in Johnny Longshot, dal drive quasi stonesiano, di nuovo con Dickinson che sfodera il suo miglior timbro alla Mick Taylor o alla Cooder.

Con Can’t Get There From Here che aumenta ulteriormente il ritmo a tempo di boogie, prima di lanciarsi nel classico Chicago Sound alla Howlin’ Wolf della gagliarda One Star Joint, dove chitarre ed armonica si sfidano di nuovo a colpi di blues sanguigno e vibrante. La conclusione è affidata ad una classica ballata tipica del New Orleans sound, con uso di accordion, di cui Sansone è virtuoso come dell’armonica, e con una melodia che ricorda moltissimo quella di Save The Last Dance For Me, con l’ennesima prestazione eccellente di Dickinson alla slide, inutile dire che il risultato finale è affascinante, finezza e classe fuse insieme, come in tutto l’album.

Bruno Conti

Passato E Futuro Mirabilmente Fusi In Uno Splendido Album Da New Orleans. Walter Wolfman Washington – My Future Is My Past

walter wolfman washington my future is my past

Walter “Wolfman” Washington – My Future Is My Past – Anti- Records

Anche Walter “Wolfman” Washington fa parte di quella pattuglia di “arzilli vecchietti” (il musicista di New Orleans va ormai per i 75 anni) che ultimamente stanno realizzando una serie di ottimi album, dove l’età sembra non incidere su una freschezza e una ispirazione veramente invidiabili. Washington era da una decina di anni che non realizzava un nuovo album, ma con questo My Future Is My Past ci consegna forse il miglior disco della propria carriera. E lo fa con un cambio non indifferente di stile, per questa ultima fatica che lo allontana (non del tutto, soprattutto l’elemento funky https://www.youtube.com/watch?v=GjF66Hpg04w ) dai classici blues e soul che lo hanno sempre caratterizzato, fin dai tempi in cui era il chitarrista della band di Johnny Adams, il grande crooner soul, ma Wolfman ha suonato anche con Irma Thomas e Lee Dorsey ad inizio carriera, poi dagli anni ’80 con la sua band, i Roadmasters, quindi una lunga carriera per il nostro, più noto come chitarrista blues, infatti non per nulla i suoi zii erano Lightnin’ Slim e Guitar Slim, in ogni caso un musicista in possesso di una voce vellutata.

Ma, come dicevo poc’anzi, in questa occasione, convinto dal sassofonista (e produttore) dei Galactic, Ben Ellman, e sulla falsariga di quel bellissimo CD Tributo a Allen Toussaint dello scorso anno di Stanton Moore https://discoclub.myblog.it/2017/07/21/da-new-orleans-con-ritmo-galattico-per-allen-toussaint-stanton-moore-with-you-in-mind/ , presente peraltro alla batteria nelle sessioni per questo album, ha realizzato un’opera dove ci sposta verso il soul morbido più raffinato, ma anche il jazz, ancor di più, con piccoli tocchi dell’amato blues, certamente grazie agli altri componenti del trio di Moore, l’organista e pianista David Torkanowsky e il bassista James Singleton, oltre agli ospiti, sempre alle tastiere, Jon Cleary e Ivan Neville, e ad una ispiratissima Irma Thomas (solo in un brano), che duetta con Washington in una versione da sballo del soul lento Even Now, che era uno dei classici di Johnny Adams, e viene riletto in modo splendido, con le due voci appassionate e gli strumentisti che quasi ci accarezzano con passione e classe infinita, un capolavoro. Se tutto il disco fosse su questi livelli sarebbe stato un album da 5 stellette, ma anche così c’è comunque parecchio da godere. Si tratta quasi sempre di cover, alcune tratte dai dischi passati di Wolfman, altre scelte con cura da Ellman, il risultato è comunque notevole: Lost Mind, un vecchio brano di Percy Mayfield, che contiene il motto di questo disco “My Future Is My Past”, solo la voce e una chitarra acustica, è un piccolo gioiello di equilibri sonori tra jazz e canzone classica americana.

What A Difference (A Day Makes) il pezzo di Dinah Washington, e poi portato al successo nuovamente da Esther Phillips, viene rallentato ad arte, con il contrabbasso di Singleton e l’organo di Singleton a cesellare note sotto la voce da crooner jazz di un altro Washington, come fosse un novello Nat King Cole, e anche Save Your Love For Me è tenue ed elegante, solo la chitarra elettrica e la voce di Walter, che mi pare abbia un timbro quasi alla John Martyn. I Don’t Want To Be A Lone Ranger di Johnny Guitar Watson, è un’altra sciccheria sonora, con organo, basso, percussioni e chitarra a sottolineare la voce sublime del nostro https://www.youtube.com/watch?v=LY4i-sA0Fds , mentre in Steal Away, Washington lavora di fino pure alla chitarra, oltre che alla voce, in uno swing-jazz-blues di gran classe https://www.youtube.com/watch?v=Ryk6Axnt2Tw . E anche She’s Everything To Me, un’altra cover di Johnny Adams, è eseguita con un feeling immane, I musicisti quasi godono alla fine dei pezzi, ma pure gli ascoltatori: I Cried My Last Tear era un brano del cugino Ernie k-Doe (quello di Mother-In-Law), un pezzo tipico di New Orleans trasformato in una ballata pianistica con Jon Cleary strepitoso allo strumento, ma anche il nostro incide con la solista, per una interpretazione di cui Ray Charles sarebbe stato fiero. E anche Johnny Hartman avrebbe approvato la rilettura splendida della ballata I Just Dropped To Say Hello dall’omonimo album Impulse del grande vocalist jazz https://www.youtube.com/watch?v=m28QYerT7Ig , infine Are You The Lady, l’unico brano originale di Washington, non sfigura con le altre tracce, un’altra canzone incantevole, un blues jazzato, con il trio più solista del nostro quasi ipnotici, e che chiude in bellezza un album sorprendente da non lasciarsi sfuggire se amate la buona musica!

Bruno Conti

Per Estimatori Fedeli ! Rickie Lee Jones – The Other Side Of Desire

rickie lee jones the other side

Rickie Lee Jones – The Other Side Of Desire – TOSOD/Thirty Tigers

Per quei pochissimi che ancora non la conoscessero, Rickie Lee Jones è una delle “signore” della canzone d’autore  americana, una raffinata cantautrice di Chicago, a diciannove anni trasferitasi a Los Angeles in cerca di fortuna, e leggenda (e realtà) vuole che verso la fine del ’77 al Tropicana Motel la “signorina” incontri Tom Waits, che rimase affascinato dalle composizioni e dalla personalità di Rickie, dando vita a una relazione artistica e sentimentale che si protrasse fino al 1980 (con  scorribande e sbronze condivise e la copia che appare immortalata sulla cover di Blue Valentine di Waits). Con un contratto in mano della potente Warner Bros. e la produzione di Lenny Waronker e Russ Titelman, la “ragazza” esordisce con l’omonimo Rickie Lee Jones (79), con un cast di collaboratori d’eccezione tra i quali Randy Newman e Dr.John ( disco dove era incluso un brano meraviglioso come Chuck E’s In Love, dedicato al collega e amico Chuck E. Weiss). Il disco vende oltre un milione di copie, ma il grande successo non la scalfisce, Rickie si ritira sulle colline di Los Angeles a scrivere le canzoni di Pirates (81) un lavoro ancora più raffinato e ispirato (We Belong Together brilla su tutti i brani), a cui farà seguire un bellissimo EP di cover Girl At Her Volcano (83), tra cui un inedito di Tom Waits Rainbow Sleeves, un classico del jazz come My Funny Valentine, e una sontuosa Under The Boardwalk dei Drifters, e The Magazine (84), dove spiccano una ballata come It Must Be Love, e una intrigante Theme For The Pope con la fisarmonica su un ritmo mediterraneo.

Dopo una pausa dovuta alla nascita di una bimba, la Jones pubblica Flying Cowboys (89) e Pop Pop (91), due album con diverse cover di carattere jazz, e brani di autori che vanno da Jimi Hendrix ai Jefferson Airplane (una toccante Comin’ Back To Me). Il ritorno a composizioni originali avviene con Traffic From Paradise (93), che grazie all’aiuto di “sessionmen” di lusso, tra i quali David Hidalgo (Los Lobos), Brian Setzer (Stray Cats) e Leo Kotte, la porta ad incidere alcuni dei brani migliori del suo “songbook”, oltre a una cover sorprendente di Rebel Rebel di David Bowie. Arriva anche il momento del primo live Naked Songs (95), frutto di una lunga tournèe in duo con il contrabbassista Rob Wasserman, a cui fanno seguito Gostyhead (97), un lavoro in cui la tecnologia ha un ruolo più che determinante, It’s Like This (00) con Ben Folds al pianoforte e ancora composto interamente da covers (su tutte Smile), mentre Live At Red Rocks (01) è una raffinata esibizione dal vivo che ripercorre il meglio della sua carriera e che fa da preludio al ben riuscito The Evening Of My Best Day (03), dove tra blues, jazz e funk trova il modo di scrivere una manciata di canzoni politiche, a cui farà seguito ancora una interessante e bella antologia della Rhino Duchess Of Coolsville (05), il dignitoso Balm In Gilhead (09), e infine rispunta con il quarto CD di covers The Devil Your Know (12), prodotto da Ben Harper, dove a suo modo rivisita vecchi brani di artisti rock e folk.

Finanziato con la solita campagna di “Pledge Music” The Other Side Of Desire arriva a distanza di sei anni dall’ultimo album di Rickie di registrazioni inedite, con la produzione del duo anglo-canadese John Porter (Roxy Music, Smiths, Billy Bragg, ma anche vari musicisti blues e soul) e Mark Howard e l’apporto di validi musicisti locali (il disco è stato registrato a New Orleans, dove la Jones, ma anche John Porter, risiedono): Jon Cleary all’organo e tastiere, James Singleton al basso, David Torkanowsky al pianoforte, Shane Teriot alle chitarre, Doug Belote alla batteria, e altri (tra cui troviamo come gradito ospite il grande Zachary Richard alla fisarmonica), per undici brani che risentono inevitabilmente dei suoni e dell’ambiente della città. “L’Altra Faccia Del Desiderio” parte con il singolo Jimmy Choos, un brano di indubbio spessore (dal ritmo un po’ sbilenco forse, ma è il suo fascino) e dalla melodia accattivante, seguito dal valzerone-country Valtz De Mon Pere (Lovers’ Waltz) cantato con Louis Michot dei Lost Bayou Ramblers, dove la voce di Rickie trasuda nostalgia https://www.youtube.com/watch?v=sj4HoLvO-Ns , per poi passare alle sonorità swing-blues di J’ai Connais Pas (un brano dove traspare l’antica passione per Fats Domino) https://www.youtube.com/watch?v=dT8CVhqrNPY , e raggiungere il punto più alto con la straziante e superba Blinded By The Hunt, un brano di atmosfera dall’andamento vagamente “reggae”. Le note meno buone, per chi scrive, iniziano con Infinity e I Want’t Here due canzoncine insulse e incompiute (dove stranamente Rickie gigioneggia con la voce), ma le cose brutte per fortuna finiscono qui, perché Christmas In New Orleans (anche se richiama troppo A Fairytale Of New York dei Pogues) è una signora ballata di grande fascino https://www.youtube.com/watch?v=PSO1zkXxClk , seguita dall’ammaliante “groove”di una Haunted in chiave soul (con la Jones che suona gran parte degli strumenti) https://www.youtube.com/watch?v=BOSJJu49DFY , una ballata evocativa come Fehttps://www.youtube.com/watch?v=x_7U6VbksL0et On The Ground  , la pianistica e monocorde Juliette, andando a chiudere con le atmosfere finali di una “circense” A Spider In The Circus Of The Falling Star, dal risultato lievemente noioso.

Devo ammettere che inizialmente non ero molto propenso a fare questa recensione, in quanto, per il sottoscritto, il nome di Rickie Lee Jones sarà sempre legato a quell’album d’esordio con la famosa Chuck E’s Love (ho consumato i solchi del vecchio vinile per i ripetuti ascolti), ma devo riconoscere che se The Other Side Of Desire non è un disco perfetto (tutt’altro), è pur sempre un disco di Rickie Lee Jones, un’artista che durante la sua carriera ha saputo allontanarsi dal folk meticciato e composito delle origini per abbracciare un cantautorato intimista dalle mille sfumature, jazz, rhythm and blues, rock e negli ultimi tempi pop e trip-hop (con risultati alterni), ma sempre con un tocco di classe nelle sue canzoni.

Adesso la “signora” si è trasferita a New Orleans, viaggia verso le sessantuno primavere, parla un corretto francese e si occupa della figlia e, giustamente, tutto intorno a lei, odora di leggenda.

Bentornata quindi alla Duchess Of Coolsville!

Tino Montanari

C’è Sempre Qualcuno Bravo Che Sfugge! Greg Koch Band – Plays Well With Others

GREG KOCH-cover1.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Greg Koch Band – Plays Well With Others – Rhymes With Chalk Music

C’è sempre in giro qualcuno di talento da “scoprire”. Questa volta parliamo di chitarristi. Greg Koch non è un novellino, questo Plays Well With Others (finalmente un titolo di un CD che chiarisce i suoi intenti fin dal titolo, ma ci arriviamo fra un attimo) dovrebbe essere il 12° titolo pubblicato, in una carriera discografica iniziata nel lontano 1993 con Greg Koch & The Tone Controls, ma i cui risultati non sono facilmente reperibili nelle nostre lande (e un po’ ovunque per la verità). Per tornare al “chi è costui?” di Manzoniana memoria che non utilizzavo da un po’ nei miei pezzi, direi che Greg Koch è un virtuoso della chitarra, originario di Milwaukee, Wisconsin, lo stato di Les Paul, dove tuttora registra i suoi album, ma che, curiosamente, lavora come “clinician” per la concorrente Fender, è stato fatto conoscere (si fa per dire) al grande pubblico da Steve Vai, che gli ha pubblicato un disco per la sua etichetta, la Favored Nations, nel 2001. Che altro? Tom Wheeler di Guitar Player lo ha definito “a friendly Talent”, nel senso che la sua tecnica è umana e godibile, altri hanno detto che è “il segreto meglio custodito del mondo dei chitarristi”. Joe Bonamassa ha detto “Credo che Greg Koch sia oggi il miglior chitarrista del mondo”, in definitiva, tradotto in parole povere, un talento! Lui, modestamente, ma non troppo, nelle note di The Grip, il CD di cui si diceva poc’anzi, ha definito il suo stile: “Chet Hendrix che incontra i King (BB, Albert e Freddie) alla prima convention Zeppelin-Holdsworth”, arzigogolata ma efficace, come descrizione.

Venendo al nuovo album il titolo lascia intendere che il nostro suona, bene, con altri? E’ proprio così! Nei dieci brani originali, più tre bonus che ripropongono tre dei pezzi già eseguiti, ma in radio mix, che, tradotto per gli ascoltatori, vuole dire praticamente identici alle versioni “normali”, ma più corti (misteri della discografia)! Allora dicci chi c’è? Calma, se state leggendo la recensione, avete già visto la copertina del disco, che riporta i nomi degli ospiti. Comunque questo album è leggermente (o notevolmente, secondo i punti di vista) diverso dalla prove precedenti, prevalentemente strumentali, Greg Koch è uno della famiglia dei Buchanan o dei Gatton, cioè cantare “minga bun” o quasi, come si dice dalle mie parti (ma sono stato cattivo, non è proprio verissimo, c’è di peggio in giro) quindi giustamente in questo disco si è fatto aiutare da John Sieger dei Semi-Twang, che oltre ad avere scritto i dieci brani con Koch, se li canta, meno uno, con profitto. Della sua band ci sono Dylan Koch alla batteria, che immagino parente, Theo Merriweather alle tastiere e Eric Hervey al basso, più parecchi ospiti.

Nel rock-blues sinuoso, vorticoso e riffato di Simone, dopo il primo assolo molto “lavorato” della solista di Greg arriva Joe Bonamassa ed i due cominciano a scambiarsi fendenti nella migliore tradizione delle (Super)sessions, nel secondo brano, Robben Ford, il bassista Roscoe Beck e Brannen Temple alla batteria rinnovano i fasti dei vecchi Blue Line, con un blues raffinato e virtuosistico, a colpi di scale impossibilmente fluide, in Walk Before You Crawl, uno dei pezzi forti di questa raccolta. E non è finita, arriva Jon Cleary che con il suo pianino ci porta dalle parti delle paludi della Louisiana e di New Orleans, come dite, sembrano un po’ i Little Feat? Non sapete come siete nel giusto, infatti nella successiva The Whole Town Has A Broken Heart ecco Paul Barrère (che per motivi che mi sfuggono, sulla copertina, ha l’accento sull’ultima e), che con la sua slide magica tramuta questo brano in una sorta di novella People Get Ready, che ricorda molto nella melodia.

Ancora un paio di gagliarde collaborazioni, a tempo di blues, con Robben Ford e soci, nelle ottime Sho Nuff e What You Got To Lose, con scambi di timbriche e assolo felpati per la gioia degli amanti della chitarra. Whiskey Rainstorm, di nuovo con Paul Barrère, ha un che di funky e sudista nella migliore tradizione featiana, con i due che fanno i George e i Barrère della situazione, anche scambiandosi i ruoli. Down The Road è una bella slow blues ballad dove si apprezza anche la voce di John Sieger, cantante dotato ed apprezzabile, mentre Night Owl Now è l’unico brano cantato da Greg della raccolta e l’occasione per sbizzarrirsi per Barrère e Koch,  che trovato un groove alla Little Feat, aiutati dall’organo di Merriweather, lo portano alle giuste conseguenze. Conclude Hey Godzilla, ancora con Barrère, il brano più rock ed hendrixiano (un eroe della gioventù di Koch) del disco, tirato e cattivo il giusto. Bel disco e grande chitarrista(i). Se vi piacciono quelli che sanno suonare!

Track Listing:
1.) Simone (with Joe Bonamassa)
2.) Walk Before You Crawl (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
3.) Spanish Wine (with Jon Cleary)
4.) This Whole Town Has A Broken Heart (with Paul Barreré)
5.) Sho Nuff (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
6.) What You Got To Lose (with Robben Ford, Roscoe Beck and Brannen Temple)
7.) Whiskey Rainstorm (with Paul Barreré)
8.) Down The Road
9.) Night Owl Now (with Paul Barreré)
10.) Hey Godzilla (with Paul Barreré)
BONUS TRACKS
11.) Spanish Wine, radio mix
12.) What You Got To Lose, radio mix
13.) Hey Godzilla, radio mix

Bruno Conti

Da New Orleans Tommy Malone – Natural Born Days

tommy malone naural born days.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tommy Malone – Natural Born Days – M.C. Records/Ird

Questo Natural Born Days, tanto per mettere subito le cose in chiaro, è uno dei migliori dischi dell’anno in quel genere che potremmo definire “Country Got Soul”?, “Soul Got Blues”,?, fate voi, qualsiasi buona musica che sia “Got qualcosa”!. Sia rock, blues, country, R&B, funky, ballate, musica di New Orleans, prendetela e miscelatela ed otterete questo ibrido, questo Gumbo sonoro, che può provenire solo dalla Crescent City. Se i fratelli principali della città della Louisiana sono indubbiamente i Neville Brothers, anche la famiglia Malone ha dato un importante contributo alla reputazione di New Orleans. La storia dei fratelli Malone prende il suo abbrivio ad inizio anni ’70 con una band chiamata Dustwoofie, di cui ammetto di non avere mai ascoltato nulla, poi la carriera di Tommy Malone prosegue con agli altrettanti “oscuri” Cartoons, una band di R&B dove militava anche l’ottima vocalist Becky Kury (mi fido di quello che dicono le note del CD) e si incrocia anche con quella dei Continental Drifters, che da lì a poco (metà anni ’80) si sarebbero trasformati nei grandi Subdudes, che a fine decade avrebbero pubblicato il loro omonimo e ottimo disco d’esordio, proseguendo poi per altre due decadi (in due fasi, anni ’90 e reunion anni 2000) a deliziare gli amanti della buona musica, con una consistente serie di dischi, culminata con la pubblicazione di Flower Petals nel 2009 e la partecipazione alla colonna sonora di Treme e spero proseguirà anche dopo la pubblicazione del secondo disco da solista di Malone.

Lungo il suo percorso musicale ha collaborato, come Malone Brothers (ma non hanno inciso nulla a parte un live della serie Live At Jazzfest), con il fratello Dave Malone, co-leader dei formidabili Radiators (From New Orleans), che nel corso degli anni hanno inciso una dozzina di album più una miriade di dischi dal vivo, culminati con l’uscita del fantastico triplo The last Watusi, che riporta la registrazione del loro ultimo concerto al Tipitinas di New Orleans, a chiudere 33 anni di onorata carriera. Fine della digressione. Torniamo a Tommy Malone, che sino ad ora aveva pubblicato un unico album solo in precedenza, dodici anni fa, l’ottimo Soul Heavy, che peraltro, vista la difficile reperibilità, per usare un eufemismo, della etichetta locale Louisiana Red Hot, pochi avevano visto e meno ancora sentito. Il nostro amico Tommy è un ottimo chitarrista ma soprattutto è dotato di una voce espressiva, ricca di soul, che mette in evidenza le sue capacità compositive e la varietà di stili impiegati in questo Natural Born Days. Disco che segna il suo ritorno alla città nativa, dopo cinque anni di “esilio” in quel di Nashville, Tennesse, a seguito dell’uragano Katrina. Per l’occasione Malone ha anche riallacciato i rapporti con Jim Scheurich, musicista che faceva parte, una quarantina di anni fa, di quei Dustwoofie citati ad inizio articolo. I due hanno composto insieme ben sei brani, tra cui la struggente, a livello di testo, Home, ma la musica del brano d’apertura è un southern rock con uso di slide, degno dei migliori Allman, con il pianino di Jon Cleary (magico alle tastiere in tutto il disco) in grande spolvero e la voce di supporto di Susan Cowsill, che può ricordare quella di Susan Tedeschi. 

Grande partenza, ma è tutto il disco che soddisfa, anche grazie alla produzione di John Porter, mitico bassista inglese dei primi Roxy Music, ma da moltissimi anni uno dei migliori produttori in quel di New Orleans, l’ideale per chi vuole fare dei dischi ricchi di blues, soul e musica nera in generale, ma contaminati dal miglior rock. E così possiamo ascoltare l’intenso blues acustico di Hope Diner o l’accorata e bellissima deep soul ballad God Knows (I Just Ain’t Talkin’), con le tastiere solo per l’occasione affidate a Nigel Hall, degna dei migliori Delbert McClinton o John Hiatt, una piccola meraviglia. O ancora il funky carnale e vagamente reggato di Wake Up Time, scritto propria con il pard di McClinton, Gary Nicholson, alla pari coi migliori Neville o con i Radiators del fratello Dave Malone, con una chitarrina choppata e insinuante che si fa strada tra organo e sezione ritmica, per poi rilasciare un solo à la Radiators, quindi dalle parti di Lowell George. Distance è un’altra ballata, come le migliori scritte nel corso degli anni con i Subdudes, sempre con la seconda voce della Cowsill in evidenza e un alto tasso di soul nei contenuti. Mississippi Bootlegger, dedicata al padre, è uno swamp rock assatanato, dalle parti delle paludi della Louisana, ma che ricorda anche i migliori Creedence.

Didn’t wanna hear it è un altro brano lento, molto “atmosferico” e lavorato nei suoni e ci permette di gustare ancora una volta la voce molto espressiva di Tommy Malone, cantante ricco di pathos e tecnica vocale sopraffina. Natural Born Days scritta con Johnny Allen e il fratello Dave, è un bel country-funk o se preferite country got soul, degno ancora, nei suoi retrogusti gospel, del miglior Fogerty, o degli ultimi Subdudes che in Flower Petals avevano virato verso un sound più country, ma anche il sound classico della Band non si può dimenticare, molto bello. Altrettanto belle le melodie solari della dolce No Reason, con Malone che sfodera le sue capacità melodiche più accattivanti per un’altra chicca sonora, che chissà perché mi ha ricordato il miglior Costello, forse per la costruzione sonora, semplice ma raffinata al tempo stesso. Non manca neppure il country puro Nashville della caramellosa (ma di quelle buone) Important To Me, con John Porter al mandolino e Malone ad una twangy guitar. Life Goes On con slide acustiche ed elettriche che si incrociano, sta a cavallo tra Subdudes, Radiators e Little Feat, che non è un brutto andare, Susan Cowsill sostiene, non Pereira, ma l’ottimo Malone e Jon Cleary titilla ancora una volta il suo pianino magico. “Magica” anche la ballata Word In The Street che conclude in gloria le operazioni di un dischetto sorprendente che mi sento di consigliare a chi ama la buona musica che viene dal profondo del cuore e dell’anima!

Bruno Conti

Novità Di Aprile Parte V. Jon Cleary, Jerry Jeff Walker, Waco Brothers, Josh Abbott Band, Kevin Ayers, Of Monsters and Men,Oli Brown, Kip Moore, Doug Paisley, Eccetera.

of monsters and men.jpgjon cleary occapella.jpgdoug paisley golden.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Ultima lista di uscite discografiche per il mese di Aprile (forse), alcune in uscita oggi 24 aprile altre già disponibili.

Partiamo con il “nuovo” gruppo del momento, perché sapete che quasi ogni settimana ce n’è uno: questi Of Monsters And Men di cui è uscito il 3 aprile (ma non in Italia, dove uscirà il 15 maggio) l’album di debutto, questo My Head Is An Animal, sono una band islandese, ebbene sì, ma non c’entrano nulla con Sugarcubes o Sigur Ror, sono sotto contratto per la Universal Republic e lo scorso anno avevano pubblicato un EP. Al momento sono molto popolari in America dove hanno riscosso un significativo successo al South by Southwest ma anche le riviste specializzate inglesi ne hanno parlato bene e pure in Italia qualcosa si muove (lo sto ascoltando in questi giorni e conto di approfondire nei prossimi giorni). Per il momento diciamo che sono una formazione dove le voci di Nanna Bryndis Hilmarsdottir e Ragnar Porhalsson, quindi una femminile e una maschile, ben si amalgamano in uno stile che è stato paragonato a quello di Arcade Fire, Decemberists, Great Lake Swimmers, Death Cab For Cutie, Mumford and Sons, il filone del cosiddetto “nuovo folk-rock”, vogliamo dire retromani, così facciamo contenti i fans di Simon Reynolds (che mi ricorda un po’ il Catalano dei tempi di Arbore, viste le cose ovvie che dice).

Il pianista e sideman Jon Cleary contrariamente a quanto pensano tutti non è di New Orleans ma è originario del Kent in Inghilterra, comunque la musica della Crescent City è il suo pane quotidiano. Questo Occapella, edito la scorsa settimana dalla Fhq Records, lo vede alle prese con il repertorio di Allen Toussaint, con l’aiuto di Dr.John e della sua frequente datrice di lavoro Bonnie Raitt, entrambi presenti in questo CD. Per chi ama il funky-soul-R&B di New Orleans e il piano.

Doug Paisley è un eccellente cantautore canadese autore di due ottimi album tra cui Constant Companion di cui mi sono occupato per il Blog nell’Ottobre 2010, se volete verificare, temp-3507313775689154ecbe16f0fb3900d1.html. Questo Golden Embers è un mini album con 5 brani che conferma quanto di buono si era detto su di lui. Etichetta No Quarter.

kevin ayers The harvest years.jpgT.Rex Electric warrior Deluxe.jpgjerry jeff walker ridin' high plus.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Tre ristampe interessanti.

La Emi inglese prosegue con la sua meritoria serie di cofanetti quintupli a special price dedicati ai nomi di “culto” che hanno fatto parte del proprio catalogo: Kevin Ayers The Harvest Years 1969-1974 raccoglie i cinque album incisi dall’ex Soft Machine per l’etichetta inglese, nelle versioni rimasterizzate e potenziate uscite qualche anno fa. Se non li avevate già acquistati si tratta di alcuni tra i migliori dischi della musica britannica di quel periodo: Joy Of A Toy, Shooting At The Moon (May I è uno dei brani più eleganti degli anni ’70) , Whatevershebringswesing, Bananamour e The Confessions of Dr.Dream che sono sicuro ai tempi (1974) era della Island, ma comunque è un bel disco e ci sta bene in questa antologia.

Dei T.Rex vi avevo già annunciato da mesi l’uscita di questo Electric Warrior, anche in versione SuperDeluxe oltre a quella canonica doppia distribuita dalla Universal. La settimana prossima riescono a special price anche tutti gli altri album della Band.

Jerry Jeff Walker rimarrà perennemente nella memoria degli appassionati per avere scritto Mr. Bojangles ma nel corso degli anni ha pubblicato anche un consistente (direi una quarantina) numero di album: questa ristampa doppia dell’australiana Raven raccoglie Walker’s Collectibles del 1974 e Ridin’ High del 1975, due tra i migliori, con sei tracce bonus + un raro singolo. Eccellente qualità sonora (anche il prezzo, purtroppo) e confezione molto curata come di consueti.

oli brown here i am.jpgkip moore.jpgemmylou harris cowboy.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Oli Brown, come già ricordato nel Post dedicato a Danny Bryant, fa parte di quella ondata di giovani bluesmen (Matt Schofield, Simon McBride, Ainsley Lister ed altri) che allietano le giornate degli appassionati del rock-blues britannico. Brown, poco più che ventenne, è il più giovane,ma con questo Here I Am è già al suo terzo album per la Ruf Records e conferma quanto di buono avevo scritto su di lui per il Buscadero.

Kip Moore è l’ultimo di una serie di cantanti che dai tempi di Springsteen fonde blue-collar rock e country (vogliamo dire Heartland Rock?). Questo Up All Night che esce in questi giorni per la MCA Nashville ne è un ulteriore esempio. Si aggiunge ad una lista di epigoni springsteeniani da Joe Eddie a Joe D’Urso passando per i molto più dotati Michael McDermott e Will T. Massey. Qui c’è più country ma non è malaccio.

Questo titolo non è pubblicato dalla Left Field Media ma il principio è sempre quello: prendere dei broadcast radiofonici classici e renderli disponibili in questi Live semiufficiali. Cowboy Angels di Emmylou Harris è l’ultimo della serie: con la Hot Band alla Boarding House di San Francisco questo è il periodo d’oro di Emmylou. Etichetta All Access, repertorio del primissimo periodo e molte cover, questi i titoli:

1. Cash on the Barrel Head
2. That s All It Took
3. Feelin Single, Seein Double
4. Coat of Many Colors
5. Amarillo
6. Together Again
7. Return of the Grievous Angel
8. Bluebird Wine
9. Tonight the Bottle Let Me Down
10. Boulder to Birmingham
11. Cry One More Time
12. Ooh Las Vegas
13. Shop Around
14. Hickory Wind
15. Jambalaya

the 44's.jpgwaco brothers and paul burch.jpgjosh abbott band small town.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Tre album che girano tra Blues, roots, country-rock, southern e Americana.

The 44’s, nonostante il titolo del CD, Americana, fanno del blues-rock, con Kid Ramos che suona e produce, fondono i vecchi Canned Heat, Roomful Of Blues e Fabulous Thunderbirds, anche qualcosa dei primi Blasters. Etichetta Rip Cat Records, è il secondo album che fanno (ho come l’impressione che mi capiteranno tra le mani per il giornale)!

I Waco Brothers sono il side group di Jon Langford dei Mekons quando vuole fare del country-punk di qualità, incidono per l’etichetta Bloodshot, da cui il titolo Great Chicago Fire e questa volta è della partita anche l’ottimo Paul Burch dei Wpa Ballclub (ma ha suonato anche con Lambchop, Mark Knopfler, Vic Chesnutt, Exene Cervenka).

Cadenza biennale per gli album della Josh Abbott Band: questo Small Town Family Dreams è il terzo disco per il gruppo texano che fonde Red Dirt, Country e southern rock con ottimi risultati. Già il nome dell’etichetta è tutto un programma, Pretty Damn Tough Records.

E’ tutto, alla prossima.

Bruno Conti

Un Altro “Grande” Giovane Bluesman Da Manchester! Matt Schofield – Anything But Time

matt schofield.jpg

 

 

 

 

 

 

 Matt Schofield –  Anything But Time – Nugene Records

Il disco precedente di Matt Schofield Heads Tail And Aces ha ben figurato in molte polls di fine anno, miglior disco Blues, miglior chitarrista, anche la rivista Mojo l’aveva segnalato tra i 5 migliori CD Blues dell’anno.

Questo nuovo Anything But Time mi sembra anche meglio. Prodotto dal grande John Porter (uno che di dischi blues se ne intende) in quel di New Orleans ritorna al formato trio, chitarra, organo, batteria, senza bassista ma con Johnny Henderson che provvede alla bisogna con i pedali dell’organo.

Schofield, inglese di Manchester fa parte di quella NWOBB (New Wave Of British Blues) che sta rinvigorendo un settore che aveva stagnato per un certo periodo. Ian Siegal di cui è uscito di recente l’ottimo The Skinny, di cui Schofield aveva prodotto i tre album precedenti, Aynsley Lister, di cui vi ho parlato in varie occasioni, Oli Brown, Danny Bryant, Simon McBride tanto per ricordare i primi che mi sono venuti in mente ma ce ne sono altri. Che fanno da contraltare ai vari Kenny Wayne Sheperd, Bonamassa, Derek Trucks, John Mayer, Johnny Lang, la lista è lunga, che operano in America. Insomma la scena rock-blues è fresca e pimpante e questo album non fa altro che confermarlo. Si tratta del suo quarto disco di studio, più i due live iniziali che avevano fatto seguito ad un lungo apprendistato come chitarrista nella band di Dana Gillespie.

Insomma Schofield la sua gavetta l’ha fatta e se all’inizio veniva spesso inserito tra gli artisti jazz il suo genere è decisamente Blues. Raffinato, con molti punti in comune con Robben Ford, a cui spesso viene avvicinato ma anche allo stile di chitarristi come Ronnie Earl o Duke Robillard, insomma quelli molto tecnici e raffinati. Ed è anche veramente bravo, molto vario e in possesso di una tecnica che gli consente un continuo passaggio tra ritmica e solista per ovviare alla mancanza, peraltro voluta, del bassista. Il nuovo batterista è Kevin Hayes che ha suonato per 18 anni nel gruppo di Robert Cray e l’ospite di riguardo è Jon Cleary, un residente di New Orleans.

Come Ford, Bonamassa, Lister e altri, Schofield non è un fulmine di guerra come cantante ma è più che adeguato e disco dopo disco sta migliorando aumentando sempre più il numero dei brani cantati rispetto agli strumentali, questa volta “l’en plein”.

E’ anche un buon autore come dimostrano gli otto brani originali (firmati con la partner Dorothy Whittick) a fronte di due sole cover, inconsuete: la prima è un brano di Steve Winwood At Times We Do Forget, un brano recente tratto da Nine Lives che ce l’ha proprio stampato in fronte, Winwood Winwood Winwood, inconfondibile in quel blue-eyed soul piacevole del grande musicista inglese. L’altro brano, molto più consistente, è una cover di Where Do I Have To Stand di Albert King uno slow blues che permette lo strike (brani di Freddie e BB King già fatti nei dischi precedenti), la chitarra scorre fluida, torrenziale e melliflua in uno stile molto vicino a quello del già citato Robben Ford. In questo disco, in un brano, Dreaming Of You Schofield si avvicina per la prima volta anche alle sonorità ritmiche e soliste di Jimi Hendrix, una influenza musicale mai accostata in passato e in questo caso “omaggiata” con gusto e bravura tecnica (perché bravo il “ragazzo” è bravo)!

Il New Orleans Sound trova terreno fertile nella ritmata One Look (And I’m Hooked) con il Wurlitzer e il clavinet di Jon Cleary che “fiancheggiano” la chitarrina funky insinuante di Schofield e l’organo di Henderson. Oltre che nella già citata cover di Winwood il piano di Jon Cleary è presente anche nell’ottimo slow blues See Me Through con la chitarra di Schofield che mi ha ricordato molto il miglior Ronnie Earl (e anche il Santana meno latineggiante). L’iniziale Anything But Time è un omaggio al sound Stax di Booker T and The Mg’s con organo e chitarra a fare le parti che furono di Cropper e Jones.

Anche Where Do I have to stand vira verso il blues classico o organ power trio come lui stesso lo definisce mentre Shipwrecked è più ritmato e funky con il solito interplay micidiale tra l’organo e la chitarra fiammeggiante di Schofield.

Mancano la Claptoniana Wrapped Up In Love e la conclusiva Share Our Smile Again che si spinge in territori più leggeri, quasi pop, alla Lang o John Mayer e diminuisce l’impatto complessivo dell’album che rimane comunque ottimo e abbondante. Per chi ama la chitarra e il blues solido contemporaneo di gran classe e tecnica.        

Bruno Conti

Un “Grande Chitarrista”. In Tutti I Sensi! Walter Trout – Common Ground

walter trout.jpgwalter trout common ground.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Walter Trout – Common Ground – Provogue/Edel

Ogni giorno, settimana, mese, escono decine, centinaia di dischi di blues e rock-blues, quelli veramente interessanti alla resa dei conti non sono poi moltissimi (più di quello che si crede): poi c’è una ristretta cerchia di musicisti che opera ai margini di questo filone: gente come gli Allman Brothers, i Gov’t Mule, i North Mississippi Allstars o i Black Crowes, tanto per citare qualche nome, non sono sicuramente Blues anche se sono blues oriented.

Ultimamente anche Walter Trout (l’ultimo grande chitarrista a uscire dai Bluesbreakers di John Mayall) ha spostato l’asse della sua musica dal blues-rock assatanato dei primi dischi verso un genere più roots-oriented o rock classico.

Questo è avvenuto in coincidenza con la nascita della nuova versione della sua band che non è più la Walter Trout Band o Walter Trout and the Radicals ma semplicemente Walter Trout: l’occasione è avvenuta con la pubblicazione di The Outsider l’album del 2008, sarà la presenza del produttore  John Porter, uno dei migliori in circolazione, sarà la consistenza dei musicisti che formano la nuova sezione ritmica, con il fantastico Kenny “Pestaduro” Aronoff e con il travolgente James “Hutch” Hutchinson al basso, l’unico punto debole poteva essere il tastierista Sam Avila, detto fatto in questo Common Ground sul sedile del tastierista è salito il grandissimo Jon Cleary.
Praticamente con due musicisti della vecchia band di Bonnie Raitt più il batterista di Mellencamp era lecito attendersi un ulteriore salto di qualità rispetto al già ottimo The Outsider e in effetti questo CD rivaleggia con i nomi citati in quanto a consistenza della musica.

Walter Trout ci mette molto di suo, con una voce forte e vibrante e una chitarra in grado di spaziare in tutto lo spettro del rock, da momenti acustici a violentissimi assalti chitarristici quasi hendrixiani, passando per raffinati passaggi alla Little Feat o alla Band e incursioni sonore in quel di New Orleans, con il pianino impazzito di Cleary.

Volete ascoltare una band in grado di rivaleggiare con gli Experience di Hendrix con organo di Winwood al seguito (sempre con le dovute prospettive temporali)? Andatevi a sentire la travolgente No regrets con la chitarra di Trout in overdrive, la batteria di Aronoff allo stato puro e gli altri due che impazzano in libertà come se gli anni ’60 non fossero finiti mai. Volete risentire gli Allman degli anni d’oro (lo so che ci sono ancora, si fa per discutere), Danger Zone potrebbe fare al caso vostro, Trout ispiratissimo a voce e chitarra, Aronoff devastante (d’altronde deve fare la parte di due batteristi).

La Band era il vostro gruppo preferito ma anche i Little Feat non erano male? Pronta per voi una ottima Hudson Had Help. Ma anche Loaded Gun dove il quartetto prende un drive fenomenale con il piano di Cleary a fiancheggiare i devastanti interventi della solista di Trout che canta anche alla grandissima.
Se i nomi dei brani (a parte i riferimenti sonori) non vi dicono nulla è perché trattasi di materiale originale tutto farina del sacco di Walter Trout che si conferma anche ottimo compositore, sarà anche musica derivativa ma scusate l’interiezione lombarda, minchia se suonano!

Ci sono anche fior di ballate, ballate rock ma pur sempre ballate, come l’ottima Her Other Man con le chitarre acustiche ed elettriche del leader a disegnare traiettorie rock di gran classe con il supporto dell’organo di Jon Cleary (è proprio quel gran musicista di New Orleans che ogni tanto si cimenta anche in proprio) e la musica che continua a rilanciare verso nuove vette sonore come nel migliore rock classico di derivazione vagamente southern. La title-track Common Gound è una ulteriore variazione sul tema della ballata rock, grande impatto d’insieme del gruppo e assolo molto lirico della solista di Trout.

Non manca il devastante slow blues classico nel repertorio di Trout e Excess Baggage svolge perfettamente il suo compito, ma non manca neppure il classico rock-blues che ti aspetti sempre in un disco del nostro amico, in questo caso Wrapped Up In The Blues.
Ma tutti i dodici brani soddisferanno le brame degli amanti del buon rock: caldamente consigliato.
Bruno Conti