Anche Gli Avett Brothers Tengono Famiglia! Jim Avett & Family – For His Children And Ours

jim avett for his children and ours

Jim Avett & Family – For His Children And Ours – Ramseur CD

Questa recensione inizia con una ovvietà, e cioè che Scott e Seth Avett, noti in tutto il mondo come gli Avett Brothers, oltre ad essere fratelli hanno anche un padre (ma davvero, direte voi!): quello che è meno scontato è che anche il loro genitore abbia un background musicale notevole. Classe 1947, Jim Avett ha infatti iniziato ad amare la musica fin da bambino, con una particolare predilezione per il country a sfondo religioso della Carter Family, essendo la madre una pianista classica ed organista di chiesa; Jim ha quindi maturato negli anni una passione sconfinata per la musica, ha iniziato anche a farla per il suo piacere personale, collezionando più di sessanta chitarre, ed è chiaro che ha poi trasmesso ai figli questo suo amore. Jim non è un musicista professionista, ha solo tre dischi alle spalle e tutti usciti nel corrente millennio (per la piccola etichetta Ramseur, la stessa che aveva pubblicato i primi album dei figli), ed in tutti e tre i casi si respirava l’aria di casa, delle canzoni che la madre aveva insegnato al piccolo Jim, una serie di brani che avevano formato la sua cultura musicale, a base di country e gospel.

For His Children And Ours è il suo quarto e nuovissimo album, attribuito a sé stesso ed alla sua famiglia, in quanto sia Scott che Seth hanno una parte fondamentale per quanto riguarda l’architettura sonora e vocale dei brani (nonché in sede di produzione), e viene coinvolta anche la sorella Bonnie Avett Rini, pure lei cantante e possesso di un’ottima voce. Un vero disco di famiglia, ma anche un lavoro che, pur essendo di genere completamente diverso da quanto proposto dagli Avett Brothers, si può tranquillamente inserire in mezzo alla loro discografia, anche perché a completare il gruppo di musicisti coinvolti ci sono anche Bob Crawford e Tania Elizabeth, rispettivamente bassista e violinista della nota band della Carolina del Nord. Dodici brani, di cui undici cover o traditionals, una miscela purissima di country, folk e gospel così come si usava fare una volta, con chitarre acustiche e pianoforte sempre in primo piano e talvolta anche una sezione ritmica discreta, oltre ad un uso splendido delle voci, che oltre alla Carter Family (il punto di riferimento principale) rimanda a storici gruppi del folk revival come Peter, Paul & Mary, Kingston Trio e Weavers. Basta sentire la deliziosa apertura di Beulah Land, una splendida folk song con bell’uso di chitarre e piano e le voci che si sovrappongono (e Bonnie quasi sovrasta tutti), un brano incontaminato che predispone subito al meglio. Where The Roses Never Fade è uno squisito country-folk d’altri tempi, un po’ Carter Family ed un po’ Weavers (in passato l’hanno fatta anche gli Statler Brothers), con il violino della Elizabeth grande protagonista.

He Said, If You Love Me, Feed My Sheep è puro gospel, bellissimo l’uso delle voci a cappella: i fratelli Avett, guidati dal padre, si muovono in territori forse per loro insoliti, ma mostrano di non avere alcuna incertezza. I Saw The Light è il classico gospel di Hank Williams, e Jim la rifà come avrebbe potuto farla Pete Seeger, versione scintillante impreziosita da una leggera sezione ritmica, grande musica; ancora più vivace I’m Gonna Have A Little Talk (di Randy Travis, quindi siamo ai giorni nostri), proposta con un irresistibile arrangiamento country-gospel dal gran ritmo e con un bel piano da taverna suonato da Seth, mentre Here Am I, Lord, Send Me è una ripresa molto fedele di un classico di Mississippi John Hurt, un banjo, una chitarra e le voci della Avett Family al completo, un altro brano in purezza. Peace In The Valley vede Scott voce solista ed un botta e risposta tipico della tradizione gospel, altra grande versione di un brano che ha avuto centinaia di riletture, da Elvis Presley in giù, Jesus Lifted Me vede invece Bonnie in prima linea, ed è comprensibile dato che si tratta di un traditional tramandato da Elizabeth Cotten; Jim’s  Gospel Song è l’unico pezzo scritto da Avett Sr, (anche se riprende frammenti da varie canzoni popolari, tra cui In The Sweet By And By e Shall We Gather At The River), ed è ancora country-folk purissimo, splendido anche questo, seguito da una ripresa molto old-fashioned del noto traditional Just A Closer Walk With Thee. Chiusura con altri due famosi standard, Angel Band, pianistica ed ecclesiastica, e Precious Lord, puro folk al 100%, degna conclusione di una raccolta di delizie musicali che nobilita una volta di più il nome della famiglia Avett.

Marco Verdi

Avett Brothers – True Sadness: Il Disco Del Mese Di Giugno?

avett brothers true sadness

Avett Brothers – True Sadness – American Recordings/Universal

Ovviamente tra le uscite “importanti” del 24 giugno c’era anche il nuovo album degli Avett Brothers, e la risposta alla domanda del titolo è sì (anche se se la batte con il nuovo dei Mudcrutch di Tom Petty, tra gli album di studio, per quanto uscito il 20 maggio, e con Joan Baez Neil Young, tra le proposte dal vivo recenti, di cui leggerete nei prossimi giorni, o con la ristampa magnifica in cofanetto di It’s Too Late di Van Morrison): comunque questo True Sadness dei fratelli Avett è un gran bel disco, pure se forse non possiamo gridare al capolavoro. D’altronde il gruppo della Carolina del Nord non ha mai sbagliato un disco: che si sia trattato dell’eccellente disco dal vivo di fine anno scorso http://discoclub.myblog.it/2016/01/18/dal-vivo-sempre-bravi-avett-brothers-live-vol-4/, o di Magpie And The Dandelion del 2013, The Carpenter del 2012 http://discoclub.myblog.it/2012/09/22/pop-in-excelsis-deo-avett-brothers-the-carpenter/, o I And Love And You del 2009, tutti i tre prodotti da Rick Rubin, il quartetto americano – oltre a Seth Scott Avett, che si dividono strumenti a corda, elettrici ed acustici e tastiere, nel nucleo storico della band ci sono anche Bob Crawford, il bassista (che pare avere superato i suoi problemi di salute) e Joe Kwon al violoncello (con l’aggiunta di Paul DeFiglia, anche lui al basso, e tastiere, e di Mike Marsh alla batteria), più Tania Elizabeth, al violino e alle eccellenti armonie vocali e Jason Lader Dana Nielsen, a strumenti assortiti – conferma la sua vena melodica, con i consueti rimandi al pop classico dei Beatles, ma anche al miglior country-rock, elementi robusti di bluegrass e folk, ma pure tanto rock ed energia, cosa che li differenzia da altre formazioni più vicine alla roots music o al cosiddetto stile Americana, che forse erano più presenti nei primi album e poi si sono coagulate in Emotionalism, l’ultimo disco pubblicato per la loro etichetta, la Ramseur, e che insieme al primo prodotto da Rubin e a Magpie…,  a parere di chi scrive, sono le loro migliori prove.

Questo True Sadness, peraltro ottimo, mi sembra un gradino inferiore, ma, ripeto. è un parere personale e magari con ulteriori ascolti potrebbe crescere, siamo comunque a un livello qualitativo nettamente al disopra di quanto ci propone l’attuale scena musicale. Il disco si apre sulle note di Ain’t No Man, una sorta di Rock and Roll minimale misto a gospel, solo un giro di basso elettrico reiterato, un battito di mani corale e le voci dei fratelli Avett e del resto della gang che intonano questo pezzo semplice semplice, ma assai coinvolgente. Già il secondo brano, Mama I Don’t Believe, alza il livello qualitativo, una splendida ballata con agganci a Dylan o Young, per l’uso dell’armonica, e al country-rock anni ’70 per l’uso avvolgente delle chitarre, acustiche ed elettriche, il piano e poi quelle armonie vocali splendide (particolare che li accomuna ad altre band come Blue Rodeo Jayhawks), mentre l’aggiunta degli archi e il nitido break chitarristico rimandano anche ai Beatles, lato McCartney, veramente bello. No Hard Feelings è un brano più folk, intimo e gentile, giocato su delle chitarre acustiche e banjo appena accennate e discrete, come pure la sezione ritmica, con gli strumenti ad arco e l’organo che aggiungono spessore ad un brano che cresce lentamente e ti prende con la sua malinconia. Smithsonian, fin dal titolo, vuole essere un omaggio alle radici della musica americana e ai suoi simboli, ma lo fa con un suono comunque contemporaneo, dove il banjo e il violino sono perfettamente inseriti nel tessuto sonoro e apportano il loro tocco classico, mentre la sezione ritmica scandisce il tempo, senza esagerare, lasciando spazio alle magnifiche voci dei due fratelli, altro brano notevole https://www.youtube.com/watch?v=mlveMZVSHEQ .

You Are Mine parte anche questa con un banjo pizzicato, ma poi entra subito un moog d’altri tempi, la batteria, le chitarre elettriche, gli archi, e infine il piano, e si sviluppa una pop song raffinata e complessa, con continui cambi di tempo, dove probabilmente c’è lo zampino di Rubin, regista del brillante equilibrio tra radici e modernità da sempre presente nel sound del gruppo. Satan Pulls The Strings, che era già presente sul Live Vol.4, è un altro riuscito incrocio tra un moderno rock “indiavolato” e gli inserti di violino e banjo che rappresentano il lato country, brano minore ma comunque piacevole. Decisamente superiore la title-track, True Sadness è sulla falsariga delle loro cose migliori, la canzone ha tutto: ritmo, energia, splendide armonie vocali, una bella melodia, un arrangiamento di notevole complessità, e la voce in primo piano è un ulteriore esempio di come fare del perfetto rock and roll per i nostri tempi (con il tocco di classe del violino inserito in chiusura di brano) https://www.youtube.com/watch?v=s3PaIw7pFuI . I Wish I Was, sempre con un banjo evocativo, suonato da Scott, che la apre e si affianca alla voce limpida e partecipe di Seth, mentre il contrabbasso tiene il tempo sullo sfondo, è una sorta di folk song in crescendo, con gli strumenti che entrano lentamente, le acustiche, un organo, il cello appena accennato e addirittura con un assolo di banjo, caso rarissimo nella musica degli anni 2000 https://www.youtube.com/watch?v=uKkW_pjDQSA .

Ancora atmosfere raccolte per Fisher Road To Hollywood, un’altra folk song che quasi si inserisce nel filone dei brani narrativi dei migliori Simon And Garfunkel https://www.youtube.com/watch?v=gNRz2IXXCn0 , con Seth e il fratello Scott che la cantano all’unisono, mentre il cello di Kwon si innesta in modo discreto ma significavo nella tenue bellezza della canzone. In un disco degli Avett Brothers non può mancare il rock, o meglio lo spirito del rock, sotto la forma energica e travolgente di una arrembante Victims Of Life, tra chitarre spagnoleggianti arpeggiate, percussioni e il solito contrabbasso che marca il tempo, ci riporta al suono folk (rock) dei primi dischi, ma anche a quello dei primi Mumford And Sons. Divorce Separation Blues, per parafrasare il titolo dell’album è una canzone di “vera tristezza”, almeno nel titolo e nel testo, perché poi il brano, tra yodel appena accennati, uno spirito folk anni ’30 che si rifà ai fondamentali della canzone popolare americana e uno spirito nuovamente malinconico ma ironico, ha comunque una sua “modernità nella tradizione”, che è il tratto distintivo dei migliori brani del gruppo. Un florilegio magniloquente di archi apre la conclusiva May It Last, altra ballata, in questo caso più epica, che si regge sull’alternarsi delle due voci soliste che poi si ritrovano nella parte centrale e ci regalano ancora una volta le loro splendide armonie vocali, mentre tastiere, strumenti a corda e percussioni allargano lo spettro sonoro di questa canzone che vive ancora una volta nell’alternarsi tra pieni orchestrali e momenti più intimi, anche se forse gli manca quel quid che caratterizza i grandi pezzi. In conclusione un lavoro solido, onesto, con parecchie belle canzoni, suonato benissimo, cantato anche meglio e con la produzione di Rubin che valorizza l’insieme, probabilmente non un capolavoro ma un bel disco sicuramente!

Bruno Conti

Dal Vivo Sempre Bravissimi! Avett Brothers – Live Vol. 4

avett brothers live volume 4

Avett Brothers – Live Vol. 4 –  CD+DVD American Recordings/UMG

Gli Avett Brothers sono quasi dei clienti fissi del Blog, http://discoclub.myblog.it/2012/09/22/pop-in-excelsis-deo-avett-brothers-the-carpenter/ e http://discoclub.myblog.it/2010/11/04/temp-38e44dc3108786660152b6bd09f62fa0/, ma anche dei concerti dal vivo, visto che questo Live Vol.4, come recita il titolo, è già il quarto capitolo della serie dedicata alle esibizioni in concerto, dal primo Live At The Double Inn del 2002, quando erano degli illustri sconosciuti. Per questa nuova puntata delle loro avventure concertistiche hanno deciso di abbinare nella confezione sia il CD come il DVD, mentre per esempio nel 3° volume i due formati erano usciti divisi. e, purtroppo, come al solito, il doppio non è edito né in Europa, né tanto meno in Italia. Oltre a tutto essendo stato pubblicato il 18 dicembre, nelle immediate vicinanze del Natale non ha fatto neppure in tempo ad entrare in molte classifiche dei migliori dischi dell’anno, magari almeno per i Live.

Il concerto è stato registrato il 31 dicembre del 2014 alla PNC Arena, a Raleigh, Carolina del Nord, quindi nella tana del lupo, a casa loro, dove la band è popolarissima, e i ventimila presenti praticamente pendevano dalle loro labbra. Non che ne abbiamo bisogno, visto che dal vivo (ma pure in studio) sono bravissimi, una delle migliori band del nuovo rock a stelle e strisce, sempre in bilico tra country, Americana, Bluegrass e, dal vivo, anche moltissimo rock: i due fratelli Scott Seth Avett hanno delle bellissime voci e anche il resto dei componenti del gruppo contribuiscono a questo suono fresco, frizzante e di eccellente qualità. Se proprio un appunto si può fare al CD è quello che essendo un tipico concerto “festivo”, la gag del vecchio “Father Time” che si aggira per le strade e sul palco e della sua compagna Mother Nature, viene tirata un po’ per le lunghe e anche le versioni del traditional Auld Lang Syne, preceduta dal countdown di fine anno e del vecchio brano di Roy Rogers, Happy Trails, non mi sembrano particolarmente memorabili. Per il resto pollice alzato.

L’apertura, sulle immagini del pubblico che entra nell’arena, è affidata a una lunga intro batteria e violino, suonato dalla bravissima Tania Elizabeth, con il resto dei componenti che salgono sul palco a mano a mano, sulle note di una inedita, e indiavolata, dato il nome del brano, Satan Pulls The Strings, che illustra il loro lato più bluegrass/country, tra banjo, chitarre acustiche, un secondo violino, il cello di Jim Kwon, il contrabbasso e la batteria di Mike Marsh. tutti vestiti in nero da bravi cowboys. Laundry Room è un bellissima ballata elettro-acustica e malinconica che era sull’album prodotto da Rick Rubin, quell’  I And Love And You che li ha fatti diventare popolarissimi negli States e piuttosto conosciuti nel resto del mondo, senza concessioni alla musica pop e con quelle armonie vocali e crescendo strumentali che sono il loro marchio di fabbrica. Another Is Waiting, altra canzone bellissima era su Magpie And The Dandelion, l’ultimo album del 2013, anche questo recensito sul Blog http://discoclub.myblog.it/2013/11/01/sono-sempr-5747492/Shame era su Emotionalism, il quinto ultimo, l’ultimo primo della fama globale, ma quando erano giù una band formata e dalle eccellenti aperture folk, confermate in questa calda versione (il brano era anche nel precedente Live Vol.3).

Poi inizia la parte più elettrica del concerto: Kick Drum Heart è un formidabile pezzo rock, quasi springsteeniano, ideale per gasare il pubblico, sempre da I And Love And You, con fioriture di piano, organo e violino, oltre all’elettrica di Seth che si produce in un veemente assolo nella parte finale del brano, mentre anche l’altra canzone nuova, Rejects In the Attic, conferma la sempre eccellente vena compositiva dei fratelli, ben coadiuvati da Bob Crawford, il bassista storico e co-autore della gran parte dei brani della band, in questo caso una delle loro tipiche ballate melodiche ed avvolgenti, tipico brano “invernale” che ben si inserisce anche metaforicamente nel periodo più freddo dell’anno. Ancora dal loro album di maggior successo, dopo un altro intermezzo di Father Time, ecco la dolcissima ed acustica, solo due chitarre, Ten Thousand Words, dove la sorella Bonnie si aggiunge alle formidabili armonie vocali della famiglia Avett. Talk On Insolence, di nuovo a tutto bluegrass, viene dal loro non dimenticato passato di grande band country-folk, di nuovo in in un florilegio di banjo, acustiche, violini e continui cambi di tempo che esaltano il pubblico presente che viene trascinato in un gorgo di divertimento.

Di Auld Lang Syne che arriva dopo il conto alla rovescia di fine anno e l’ennesima apparizione di Father Time, con la sua clessidra, si è detto, molto più travolgente una fantastica versione di The Boys Are Back In Town dei Thin Lizzy, di cui Phil Lynott il suo autore, sarebbe stato orgoglioso: cantata da Valient Thorr, il leader dell’omonima band locale, e con i fratelli alle twin leads conferma il suo status di grande pezzo di R&R. Poi c’è ancora tempo per due brani tratti da I And Love And You, la travolgente Slight Figure Of Speech, con vari finti finali e la title-track di quel disco che è una ballata tra le più belle mai firmate dagli Avett Brothers. Chiude il tutto Happy Trails. Luca Carboni una volta disse che Dustin Hoffman non sbagliava un film, ma poi ha iniziato a “ciccarli” a ripetizione, i nostri amici, per il momento, viceversa, non sbagliano un disco!

Bruno Conti

P.s Filmati ufficiali del concerto in rete non se ne trovano per cui ho inserito materiale da altri concerti, passati e recenti.

“Neo-Acoustic-Folk” Dal Canada! Duhks – Beyond The Blue

duhks beyond the blue

Duhks – Beyond The Blue – Compass Records

Tornano a bussare dalle nostre parti i magnifici Duhks, e confermano le buonissime impressioni ottenute in passato con i precedenti Your Daughters & Your Sons (03), l’omonimo The Duhks (sottotitolato anche The Duhks Are Coming) (05), Migrations (06), e Fast Paced World (08). I Duhks sono un combo bluegrass-folk rock proveniente per lo più da Winnipeg, Manitoba (Canada),anche se alcuni membri vengono da Victoria, nella British Columbia. La band è stata fondata nel 2002 dal suonatore di banjo Leonard Podolak (dopo aver sciolto il suo gruppo precedente Scruj MacDuhk, da qui il nuovo nome), dalla brava Jessee Havey, voce solista, da Tania Elizabeth al violino e seconda voce (ultimamente spesso in tour con Mary Gauthier), e dal chitarrista di area celtica Jordan McConnell, ottenendo subito un contratto con la mitica Sugar Hill Records https://www.youtube.com/watch?v=KOjr2LXjtZ0 .

duhks

Pur attingendo principalmente dalla musica acustica di stampo tradizionale, il gruppo produce un esuberante “folk-country-bluegrass” dove i vari stili si fondono con disinvoltura, richiamando ad ogni uscita l’attenzione di appassionati ed addetti ai lavori. E’ quindi un piacere vederli tornare, dopo una pausa di sei anni e vari cambi di formazione, con una nuova line-up del gruppo: oltre allo storico fondatore Leonard Podolak, assistiamo al ritorno della cantante Jessee Havey, con l’aggiunta dei nuovi membri, la violinista Rosie Newton, il batterista e percussionista Kevin Garcia, il suonatore di bouzouki e chitarrista Colin Savoie-Levac, e, come ospiti, gli ex colleghi e amici di sempre Tania Elizabeth e Jordan McConnell, il tutto sotto la produzione di Mike Merenda e Ruth Unger dei Mammals.

duhks 1

L’album si apre con la title track Beyond The Blue, una splendida cover di un brano di Beth Nielsen Chapman (già ospite su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2010/04/04/beth-nielsen-chapman-back-to-love/ ) e Gary Nicholson (autore e produttore) con in evidenza il martellante banjo di Leonard (non per nulla in inglese, si chiama clawhammer banjo) https://www.youtube.com/watch?v=KrSBhU3Y53E , a cui fanno seguito un’aggressiva Banjo Roustabout , e il dolce valzer acustico Suffer No Fools, cantato in duetto da Jessee e Tania, mentre Burn mostra il lato più robusto ed elettrico del sound della band. I fiati aprono e accompagnano poi la voce di Tania nell’incedere di These Dreams, preludio ad una delle canzoni più dolci e romantiche sentite quest’anno, Black Mountain Lullaby firmata dalla sempre più brava Caroline Herring (una sottovalutata folksinger di Austin, Texas, spesso citata nel Blog) https://www.youtube.com/watch?v=W2MWqLkoTDo , passando per il brano strumentale Tonderhoning, con le chitarre e il banjo in spolvero, e per il suono “cajun” di Lazy John https://www.youtube.com/watch?v=Iyv5tnTEB0c .

duhks 2

Con Je Pense à Toi, delicata ballata cantata in “francofono” si viaggia verso le atmosfere tipiche del Quèbec unite all’Africa di Amadou Et Miriam, gli autori della canzone https://www.youtube.com/watch?v=YSgPQzUij_A , mentre il secondo strumentale You Go East, I’ll Go West ribadisce questo abbraccio con la “world music”, dai paesi dell’Est https://www.youtube.com/watch?v=aaJDdGuJhVY , andando poi a chiudere in territorio “gospel” con Just One Step Away https://www.youtube.com/watch?v=qXg8JSEUnp8 , e, in coda, una ripresa  strumentale di Je Pense A’ Toi, sulle note ariose di fisarmonica e violino.

duhks 3

Innovativi e spericolati nelle loro escursioni acustiche, i Duhks sono tra gli alfieri della nuova frontiera “neo-acoustic-folk” (uno sviluppo del suono acustico), e per quel che mi riguarda ci sono similitudini con i cugini australiani dei Waifs (anche se poi i percorsi si sono differenziati) e se in questo Beyond The Blue, rispetto ai capitoli precedenti, le cose non sembrano poi essere cambiate molto, si tratta pur sempre di un disco magnificamente suonato, dai suoni brillanti e con arrangiamenti ricchi di sfumature, dodici canzoni, circa cinquanta minuti, con i brani originali che si alternano alle cover e ai brani tradizionali, il tutto contrassegnato comunque da una geniale varietà di temi. Per il sottoscritto, se vorrete seguire il suggerimento, si tratta di soldi spesi bene.

Tino Montanari

Poco Glamour E Tanto Talento Per Una Grande Cantautrice! Mary Gauthier – Live At Blue Rock

mary gauthier live at blue rock.jpg

 

 

 

 

 

 

Mary Gauthier – Live At Blue Rock – Proper Records

Mary Gauthier viene da New Orleans, ma vive a Nashville. Non la Nasvhille dei lustrini e della musica leccata, ma quella dei cantautori (e delle cantautrici) di talento. Il suo disco precedente, The Foundling, (uno-dei-dischi-dell-anno-mary-gauthier-the-foundling.html), che in un certo senso è la storia della sua vita, come ha raccontato in alcune interviste, non è stato un grande successo a livello commerciale, ma ciò nonostante rimane uno dei dischi più belli in assoluto del 2010. Lei stessa, nonostante una carriera tardiva iniziata a quasi 35 anni nel 1997, attualmente è una delle voci femminiili più straordinarie del panorama musicale dei giorni nostri, tra le ultime generazioni possono rivaleggiare con la Gauthier a livello qualitativo, forse, solo Lucinda Williams e Mary Chapin Carpenter, mettiamoci anche Patty Griffin e Gillian Welch, e Natalie Merchant, che però ha diradato molto le sue uscite discografiche. I suoi “colleghi” Tom Waits e Bob Dylan l’hanno spesso citata e inserita nelle playlists di trasmissioni radiofoniche come Theme Time Radio Hour per Dylan e la radio australiana per Waits, con brani come I Drink e Your Sister Cried, entrambi presenti in questo Live.

Che potrebbe essere considerato una sorta di Greatest Hits, se fossimo in un mondo ideale ed il disco avesse venduto, ma essendo “solo” una sorta di resoconto di una serata in compagnia di Mary Gauthier e di alcune delle sue più belle canzoni (e tre scritte da Fred Eaglesmith), dovremo accontentarci di inserirlo tra i migliori dischi dal vivo di questo 2012 che si avvia a conclusione. Il disco è uscito per il momento solo sul mercato europeo (in America verrà pubblicato a febbraio del prossimo anno) ma per una volta non ci possiamo lamentare. Registrato in questo Blue Rock Artists Ranch And Studio di Austin, Texas, una sorta di via di mezzo tra uno studio di registrazione e una piccola sala da concerto, il disco ha una intensità notevole, nonostante il piccolo numero di musicisti impiegati per l’occasione: la stessa Mary, chitarra e voce (uno “strumento” in grado di ricordare una tonalità musicale che, per chi scrive, è una via di mezzo tra quella dolente di Lucinda Williams e la poco ricordata, ma grandissima,per il sottoscritto, Ferron, voce risonante e profonda in grado di improvvise aperture vocali), il percussionista Mike Meadows e una violinista fantastica (ma anche alle armonie vocali) che risponde al nome di Tania Elizabeth, che oltre a dividere regolarmente i palcoscenici di tutto il mondo con la Gauthier, è stata una delle fondatrici dei Duhks e ha pubblicato anche un piacevole disco folk&country quest’anno, Gods And Omens, che sto cercando ancora di recuperare, oltre a due ad inizio carriera, una dozzina di anni e più fa, caratterizzato dal suono di quel violino, lirico ed elegiaco, che è ovunque anche nel CD di Mary Gauthier, senza che la Elizabeth, in proprio, ne raggiunga la potenza e il carisma interpretativo.

Questo disco dal vivo si apre con una intensissima Your Sister Cried (proprio il brano di Eaglesmith) e per più di un’ora non ti lascia andare, affascinato dalla musica che scorre fluida, malinconica e dolorosa, più raccolta che nelle versioni di studio, dove era stata prodotta peraltro da gente del calibro di Gurf Morlix, Joe Henry e Michael Timmins, che avevano stampato, su dischi come Mercy Now, Between Daylight and Now e The Foundling anche la propria impronta, negli arrangiamenti e nella costruzione delle canzoni, che però comunque godono della personalità della Gauthier, che più che scriverle ed interpretarle, le vive e le rivisita ogni volta, come se fossero sempre nuove, dei piccoli “trovatelli” da non abbandonare. E così possiamo ascoltare brani bellissimi come Last Of The Hobo Kings, la dolorosa, malinconica e portatrice di redenzione, Blood Is Blood, brano portante di The Foundling. E ancora, Cigarette Machine (sempre di Eaglesmith, che è un altro cantautore di talento che varrebbe la pena di investigare), Our Lady Of The Shooting Stars, The Rocket,ancora del buon Fred, la storia di Karla Faye, giustiziata dopo lunghi anni passati nel braccio della morte, vissuta con una empatia e una carità quasi cristiana.

Lei canta con grandissima passione, il violino folleggia, le percussioni vengono percosse, ma non soffrono, anzi (non mi è venuto di meglio) e le canzoni si susseguono, una più bella dell’altra: I Drink, lucida ed amara, è quella che è piaciuta tantissimo a Dylan, Sugar Cane ci permette di assaporare ancora una volta la sua voce, quasi unica e molto particolare, vissuta ma sempre viva. Drag Queen In New Orleans, una sorta di omaggio a Bob Wills e alla sua città, è considerata uno dei suoi capolavori, ricca di immagini e fraseggi vocali che sfiorano la perferzione in questo folk minimale, ma allo stesso tempo quasi cinematografico che si apprezza nella sua musica, che si può considerare di pari livello, in molte canzoni, di quelle scritte da gente come Dylan o Cohen. La conclusione sarebbe affidata a Wheel Inside The Wheel (altro brano bellissimo), se alla fine del CD, dopo pochi secondi di silenzio, non partisse la solita hidden track,  una versione di studio di Mercy Now, un altro dei suoi brani più rappresentativi, per chi vuole apprezzare, ancora una volta, le gioie della sua musica, anche in versione full band, e i dischi di studio sono, sia detto per inciso, veramente belli anche loro. Un altro signor disco da inserire nelle “nostre” playlists di fine anno. Solo buona musica, niente glamour od orpelli!

Bruno Conti