Una Festa Tra Amici Trasformata In Un Grande Disco! New Moon Jelly Roll Freedom Rockers Vol.1

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New Moon Jelly Roll Freedom Rockers – New Moon Jelly Roll Freedom Rockers Vol.1 – Stony Plain

Sul finire della prima decade degli anni 2000, quando la sua salute non era più quella di un tempo (anche se aveva 65-66 anni nel 2007) Jim Dickinson, che poi ci avrebbe lasciati due anni dopo nell’agosto del 2009, aveva l’abitudine di tenere informali incontri con amici, colleghi e congiunti stretti, da uno di questi vecchi incontri di recente Greg Spradlin, alla guida della sua Band Of Imperials, ha realizzato un ottimo album Hi-Watter https://discoclub.myblog.it/2020/10/16/piu-di-dieci-anni-per-completarlo-ma-e-venuto-veramente-bene-rev-greg-spradlin-the-band-of-imperials-hi-watter/ : in quel caso Dickinson era solo l’eminenza grigia che aveva dato il via al progetto con i suoi consigli. Nel caso dei New Moon Jelly Roll Fredom Rockers invece Jim è presente ad attivo, in questa registrazione in presa diretta, tutti insieme nei suoi studi Zebra Ranch in quel di Indipendence (un nome un programma), Mississippi, in una sorta di jam session mirata, per creare una serie di brani fatti e finiti, poi caduti nel dimenticatoio, che il figlio Luther, su richiesta della Stony Plain, ha prodotto e completato, per dare vita a questo progetto.

Dieci brani escono in questo volume uno, gli altri undici saranno utilizzati in un volume due che sarà pubblicato (si spera) la prossima primavera del 2021. In effetti il CD, al di là della spontaneità dei partecipanti, non ha l’aria di una serie di jam senza particolari velleità, ma di una manciata di canzoni, pensate e concepite all’impronta, seguendo comunque una sorta di fil rouge che è il blues, del 21° secolo se volete, ma che ricorda molto quello del 20°, secondo il motto che nulla si crea e forse si rinnova, ma comunque si perpetua nel tempo. Ed ecco quindi Charlie Musselwhite, Alvin Youngblood Hart, Jimbo Mathus, il bassista Chris Chew come ospite, e tre membri della famiglia Dickinson, Luther, Cody e il babbo Jim, ognuno a portare al mulino delle idee una serie di brani per concretizzare questa riunione di amici, del quale forse Musselwhite è stato l’istigatore principale. Proprio lui apre le danze con Oh Blues, Why You Worry Me?, un pezzo che tanto gli piaceva da inciderlo anche nel recente disco in coppia con Elvin Bishop https://discoclub.myblog.it/2020/10/01/piu-di-150-anni-in-due-per-rendere-omaggio-a-un-secolo-di-blues-elvin-bishop-charlie-musselwhite-100-years-of-blues/ : si tratta di un classico shuffle con uso armonica, dove su una base di chitarre, elettriche e slide, piano e una sezione ritmica pimpante, Charlie canta con assoluta nonchalance e calore, come lui sa fare quando è particolarmente ispirato,

Nel secondo brano una cover di Pony Blues dal repertorio di Robert Johnson, Alvin Youngblood Hart passa alla guida del combo con la sua elettrica suonata in fingerpicking e la sua voce roca da bluesman senza tempo, ben sorretto da tutti i suoi pard, che continuano a sparare 12 battute da slide, piano, chitarre assortite e una ritmica volutamente discreta ma incalzante, Jimbo Mathus offre un proprio brano, lo slow lento e scivolante Night Time, dove il suono si fa più “moderno”, ma con moderazione, tutti molto impegnati a regalare profondità a questo gioiellino, soprattutto Jim Dickinson che comincia a scaldare i tasti del suo piano sullo sfondo, mentre le chitarre agiscono in primo piano, poi tocca proprio a Jim ad andare di barrelhouse in una sorniona Come On Down To My House, che sembra sbucare da qualche vecchio juke-joint, mentre dal nulla sbucano anche un mandolino (Hart), un violino, non si sa suonato da chi e un basso tuba suonato da Paul Taylor, mentre il vecchio Dickinson officia il rito con la sua voce vissuta. K.C. Moan in modalità Memphis Jug Band degli anni ‘20 (del secolo scorso) è un blues primigenio cantato da Musselwhite, mentre poi tutti si divertono in una potente e tirata Let’s Work Together che sarebbe piaciuta sia a Dr. John, come ai Canned Heat e magari anche agli Stones, con Dickinson che va di organetto, mentre canta di gusto.

La travolgente Strange Land di e con Musselhite, è l’occasione per Luther, alla slide, Alvin e Jimbo, per scaldare le sei corde mentre Charlie soffia con forza nella sua armonica e Jim magheggia con il piano in sottofondo e pure a Jimbo Mathus non dispiace gigioneggiare a tempo di ragtime in una ondeggiante Shake It And Brake It dove tutti si divertono. A questo punto Alvin Youngblood Hart deve avere detto, perché non facciamo un pezzo di quel bluesman di Seattle? E allora tutti ci danno dentro di brutto in una cover di Stone Free di Jimi Hendrix, dove l’assolo non è affidato al wah-wah ma alla armonica di Musselwhite. L’attizzato Hart guida i soci anche in una antica Stop And Listen Blues dei Mississippi Sheiks, dove il suono fa di nuovo un consistente salto all’indietro nel tempo. Loro si sono sicuramente divertiti ad improvvisare allora, ma noi oggi possiamo ascoltare con grande piacere i frutti di quella festa tra amici.

Bruno Conti

Più Di Dieci Anni Per Completarlo, Ma E’ Venuto Veramente Bene. Rev. Greg Spradlin & The Band Of Imperials – Hi-Watter

rev. greg spradlin and the band of imperials - hi-watter

Rev. Greg Spradlin & The Band Of Imperials – Hi-Watter – Out Of The Past Music

Jim Dickinson, grande amico e mentore di Greg Spradlin, muore nell’agosto del 2009: a questo punto il nostro amico decide che forse è arrivato il momento di completare quell’album che era in fase di registrazione da un po’ di tempo. Ma essendo un tipico rappresentante del Sud degli States (viene da Little Rock, Arkansas, dove è stato registrato parte dell’album, il resto sulle colline di Silverlake, nei pressi di LA, anche se non manca un certo spirito Swamp), più di tanto non può accelerare le procedure, anche per una lunga serie di contrattempi, anche importanti, comunque canzone dopo canzone, e in un arco di tempo di nove anni, il lavoro procede, il Reverendo aveva coinvolto altri amici per registrare l’album: un altro bravo chitarrista, che come Spradlin sappia suonare anche il basso, e all’occorrenza la batteria, un certo David Hidalgo che suona nei Los Lobos potrebbe andare bene, ma un batterista comunque ci vuole, che ne dite di Pete Thomas degli Imposters di Elvis Costello, al basso Davey Farragher (con una r però), che suona anche lui con Costello, ma in passato con Hiatt e e di recente con Richard Thompson, se non può venire facciamo noi, per le tastiere Rudy Copeland, uno che ha suonato con Solomon Burke e Johnny Guitar Watson, scomparso nel 2018 e sostituito da Charlie Gillingham dei Counting Crows, anche lui alle tastiere.

A questo punto, per produrre l’album con Greg, pure lui dall’Arkansas, arriva Jason Weinheimer, che è anche un chitarrista e ha fatto dei dischi con Steve Howell https://discoclub.myblog.it/2020/09/21/tra-jazz-e-blues-acustico-un-trio-molto-raffinato-steve-howell-dan-sumner-jason-weinheimer-long-ago/ , e per mixare l’album, visto che nel frattempo, dopo una lunga gestazione, lo abbiamo finito, Tchad Blake, che ha già lavorato con Hidalgo. L’album, oltre ad essere finito, è venuto anche bene, esce per una piccola etichetta, dal nome propedeutico,Out Of The Past Music, quindi non sarà facile da trovare, ma questa miscela di soul classico, gagliardo rock, blues e musica della Louisiana funziona alla grande, e Hi-Watter è un disco che vale la pena di ascoltare. Scusate se forse vi ho tediato con la lista dei nomi, ma secondo me nella musica contano, eccome se contano: vediamo dunque le canzoni.

Gospel Of The Saint è una piccola meraviglia tra gospel e soul, con un call and respone tra due voci, quella di Greg e Rudy, in modalità Billy Preston, che evoca anche il sound degli Staple Singers, una chitarra pungente, l’organo scivolante di Copeland e il ritmo ondeggiante della ritmica che trasuda serenità e gioia, Hell Or Hi-Watter è uno dei pezzi più tirati e robusti, con chitarre acidissime e organo che ci danno dentro di brutto, mentre Stainless Steel è una soul ballad maestosa, quelle che solo nel deep South sanno fare (per la verità anche la Band sapeva come maneggiare questo materiale), la fisarmonica aggiunge quel tocco di fascino in più interagendo con organo e chitarra ispiratissimi, Jessica Lee, Holly Bradley e Ashley Courtney (non so dirvi quale delle tre o forse tutte) aggiungono un sapido tocco vocale femminile.

Per l’alternanza di brani lenti ed iniezioni rock I Drew Six è un sano rock and roll, come quelli che babbo Jim Dickinson aveva insegnato ai figli Luther e Cody, e quel po’ po’ di musicisti che suonano nel disco, soprattutto le chitarre, fanno sudare gli strumenti in una veemente scarica di R&R; la successiva Don’t Make Me Wait sarà mica una ballata? Certo che sì, una di quelle che Greg Spradlin ascoltava da ragazzino sui dischi Stax della mamma, ma anche di Sam Cooke e Solomon Burke, vista la frequentazione dell’organista Copeland con il “King of Rock ‘n’ Soul“, con Rudy che restituisce quello che ha imparato, a seguire il riff’n’roll della cadenzata Go Big, sempre con chitarre inc…ose e cattive che essudano suoni senza tempo, ma sempre attuali. What Would I Do indovinate, sarà mica un lento, questa volta si va sul blues, uno slow con chitarra d’ordinanza che ricorda il Clapton più ispirato dei primi anni ‘70, e che assolo ragazzi!

Sweet Baby interrompe l’alternanza, un brano che ci riporta al suono degli Stones “americani”, con il plus di un organo alla Garth Hudson, un’altra perla di canzone che conferma la classe di Greg Spradlin anche come chitarrista, che infine congeda l’ascoltatore con la lunga The Maker, una canzone dedicata all’Onnipotente, un formidabile brano dove David Hidalgo e Spradlin incrociano le loro soliste in un duello senza limiti di squisita fattura, che potrebbe rimandare alle sfide tra Betts e Allman, o anche a quelle dei Los Lobos più ispirati. Che aggiungere di altro, grande disco, veramente una bella sorpresa!

Bruno Conti

Replacements – Pleased To Meet Me. Altro Box “Ibrido” 3CD/1LP In Ristampa Per La Rhino il 9 Ottobre

replacements pleased to meet me

Replacements – Pleased To Meet Me – 3 CD + 1 LP Sire/Rhino – 09-10-2020

Altro cofanetto in uscita nella prima parte di ottobre, si tratta della ristampa di Pleased To Meet Me dei Replacements, l’album del 1987 della band di Minneapolis, l’ultimo con Bob Stinson in formazione alla chitarra e l’unico ad essere registrato come un trio, con lo stesso Stinson e Paul Westerberg a dividersi le parti di basso, oltre a Chris Mars alla batteria, più alcuni ospiti chiamati negli studi Ardent di Memphis dal produttore Jim Dickinson (che suonò anche le tastiere): i Memphis Horns, il loro idolo Alex Chilton, a cui dedicano anche una canzone, un giovanissimo Luther Dickinson che a 14 anni fece il suo esordio discografico con un assolo durissimo in Shooting Dirty Pool https://www.youtube.com/watch?v=avU5p9p6Z9A , e sempre ai fiati James Lancaster, Steve Douglas e Prince Gabe. Uno dei loro dischi più acclamati dalla critica, in particolare da David Fricke di Rolling Stone, che non ha scritto le nuove note del libro allegato alla ristampa: purtroppo chi lo vuole si deve beccare anche il vinile aggiunto. Nel primo CD, rimasterizzato nel 2019 in occasione della pubblicazione del box Dead Man’s Pop, è stato aggiunto il remix del singolo Can’t Hardly Wait di Jimmy Iovine.

Il secondo CD contiene i 15 Blackberry Way Demos registrati nel 1986 agli studios omonimi di Minneapolis in preparazione dell’album, mentre il terzo CD riporta altri 23 brani, tra outtakes, alternates takes e primi abbozzi delle canzoni, che porta a 29 il totale delle tracce mai pubblicate prima in queste versioni.

Ecco la lista completa dei contenuti del cofanetto.

Tracklist
[CD1: Pleased to Meet Me (2020 Remaster) + Rare, Single-Only Tracks]
1. I.O.U.
2. Alex Chilton
3. I Don’t Know
4. Nightclub Jitters
5. The Ledge
6. Never Mind
7. Valentine
8. Shooting Dirty Pool
9. Red Red Wine
10. Skyway
11. Can’t Hardly Wait
12. Election Day
13. Jungle Rock
14. Route 66
15. Tossin’ n’ Turnin’
16. Cool Water
17. Can’t Hardly Wait – Jimmy Iovine Remix

[CD2: Blackberry Way Demos]
1. Bundle Up – Demo
2. Birthday Gal – Demo
3. I.O.U. – Demo *
4. Red Red Wine – Demo *
5. Photo – Demo
6. Time Is Killing Us – Demo *
7. Valentine – Demo
8. Awake Tonight – Demo *
9. Hey Shadow – Demo *
10. I Don’t Know – Demo *
11. Kick It In – Demo 1 *
12. Shooting Dirty Pool – Demo *
13. Kick It In – Demo 2 *
14. All He Wants To Do Is Fish – Demo *
15. Even If It’s Cheap – Demo *

[CD3: Rough Mixes, Outtakes, & Alternates]
1. Valentine – Rough Mix *
2. Never Mind – Rough Mix *
3. Birthday Gal – Rough Mix *
4. Alex Chilton – Rough Mix *
5. Election Day – Rough Mix *
6. Kick It In – Rough Mix *
7. Red Red Wine – Rough Mix *
8. The Ledge – Rough Mix *
9. I.O.U. – Rough Mix *
10. Can’t Hardly Wait – Rough Mix *
11. Nightclub Jitters – Rough Mix *
12. Skyway – Rough Mix *
13. Cool Water – Rough Mix *
14. Birthday Gal
15. Learn How To Fail *
16. Run For The Country *
17. All He Wants To Do Is Fish
18. I Can Help – Outtake *
19. Lift Your Skirt *
20. ‘Til We’re Nude
21. Beer For Breakfast
22. Trouble On The Way *
23. I Don’t Know – Outtake

[LP]
1. Valentine – Rough Mix *
2. Never Mind – Rough Mix *
3. Birthday Gal – Rough Mix *
4. Alex Chilton – Rough Mix *
5. Election Day – Rough Mix *
6. Kick It In – Rough Mix *
7. Red Red Wine – Rough Mix *
8. The Ledge – Rough Mix *
9. I.O.U. – Rough Mix *
10. Can’t Hardly Wait – Rough Mix *
11. Nightclub Jitters – Rough Mix *
12. Skyway – Rough Mix *
13. Cool Water – Rough Mix *

Ovviamente la presenza del LP alza il costo del box intorno a una 70ina di euro, forse troppi, anche se è un gran bel disco.

Bruno Conti

Una Ristampa Apprezzata Nonché “Riparatrice”. Ry Cooder – The Border Soundtrack

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Ry Cooder – The Border Soundtrack – BGO/Universal CD

Quando nel 2014 la Rhino fece uscire Soundtracks, un box di 7 CD che comprendeva altrettante colonne sonore tra le più famose ed ormai fuori catalogo ad opera di Ry Cooder (uno specialista del genere, oltre ad essere il grande musicista e ricercatore che conosciamo), avevo avuto un moto di disappunto per l’assenza di The Border, album di musiche a commento di un film del 1982 del regista britannico Tony Richardson con Jack Nicholson e Harvey Keitel (Frontiera nel nostro paese). Nel box erano comprese alcune tra le soundtracks più belle ed amate dell’artista californiano come The Long Riders, Paris Texas, Alamo Bay e Crossroads, ma anche un paio di episodi di difficile digeribilità come Johnny Handsome e soprattutto Trespass, due album con musiche strettamente connesse alle immagini dei rispettivi film e di non facile ascolto: a maggior ragione l’assenza di The Border gridava vendetta, in quanto stiamo parlando forse della miglior colonna sonora di Cooder, e quella più vicina in assoluto ad un suo normale album di canzoni (qualche anno fa era uscita su CD per la Raven australiana in coppia con Alamo Bay, ma anche questa è irreperibile da tempo).

Oggi la BGO ristampa finalmente The Border con tutti i crismi del caso, rimasterizzando il suono a dovere ed accludendo un corposo libretto con note scritte ex novo: e l’album si conferma splendido, tra le cose migliori della discografia di Cooder (meglio anche del suo album “rock” dello stesso anno, The Slide Area), sicuramente la sua soundtrack più bella insieme a Paris Texas, Alamo Bay e Crossroads. Un album dove, tra brani strumentali e cantati, il nostro mescola musica rock, folk, country e tex-mex con l’aiuto della sua inimitabile slide guitar (ma anche dell’acustica) e di una super band che comprende John Hiatt alla voce e chitarra ritmica (John all’epoca non era ancora popolare come sarebbe diventato da Bring The Family in poi), Jim Dickinson al piano, Flaco Jimenez naturalmente alla fisarmonica, Domingo Samudio (proprio il Sam “The Sham” di Wooly Bully) all’organo, Tim Drummond al basso, Jim Keltner alla batteria e Ras Baboo alle percussioni, oltre alle voci in background dei soliti noti Bobby King e Willie Green Jr., nonché dell’ex moglie di Samudio Brenda Patterson.

The Border è famoso innanzitutto per la presenza della straordinaria Across The Borderline, stupenda e toccante ballata in bilico tra Texas e Messico affidata alla voce vellutata di Freddy Fender, brano scritto da Cooder con Hiatt e Dickinson che è per il sottoscritto tra le più belle canzoni degli anni ottanta, e che perfino uno come Bob Dylan riprenderà più volte dal vivo negli anni a seguire. Altri due sono i brani scritti insieme dai tre musicisti, affidati entrambi alla voce di Hiatt: Too Late, una rock ballad intensa e melodicamente impeccabile con Ry e Jim che lavorano sullo sfondo con slide e piano (una sorta di anticipo di Bring The Family con Dickinson al posto di Nick Lowe, dato che c’è anche Keltner), e la potente Skin Game, un pezzo elettrico dalla ritmica nervosa ed uno stile vagamente blues, ancora con Ry che fa scorrere con maestria le dita sul manico della sua chitarra https://www.youtube.com/watch?v=mTx860Viz_E . C’è spazio anche per sentire la voce di Dickinson nella trascinante Texas Bop, un boogie dal ritmo acceso con grande senso dello swing ed un arrangiamento elettrico dominato ancora da chitarra e piano; Samudio si prende il centro della scena con due brani di alto livello: la bellissima Palomita, gioioso tex-mex dal gran ritmo e con la splendida fisa di Flaco in evidenza, e No Quiero, un limpido e struggente bolero che ci porta idealmente a Veracruz.

Anche la Patterson ha un pezzo tutto per lei, cioè Building Fires una country ballad dal motivo diretto (scritta da Dickinson con Dan Penn) ed ancora Ry a ricamare con classe in sottofondo. Cooder non canta nel disco, ma i restanti pezzi (tutti strumentali quindi) hanno lui come protagonista assoluto: a parte l’inquietante Earthquake, che apre l’album con sonorità quasi ambient, abbiamo la struggente e folkie Maria, per chitarra acustica e fisa, l’elettrica Highway 23, con la slide che domina in mezzo ad un background di percussioni, la delicata Rio Grande, in cui Ry riprende il tema di Across The Borderline per sola chitarra acustica, il breve frammento rock di El Scorcho ed il finale con la tenue Nino, pura e cristallina e di nuovo con solo Cooder e Flaco. The Border si conferma anche a 37 anni di distanza un ottimo disco, adattissimo anche ad un ascolto “slegato” alle immagini del film corrispondente.

Marco Verdi

Il Supplemento Della Domenica Dello Springsteen: Dagli Archivi Live Del Boss: Ottimo Anche Senza La Band! Bruce Springsteen – The Christic Shows 1990

bruce springsteen christic shows

Bruce Springsteen – The Christic Shows 1990 – live.brucespringsteen.net 3CD – Download

Un po’ di tempo fa, in un post dedicato al riepilogo dei CD dal vivo tratti dagli archivi di Bruce Springsteen http://discoclub.myblog.it/2016/02/14/supplemento-della-domenica-bruce-springsteen-sempre-comunque-grandissimo-performer-il-punto-sugli-archivi-live-del-boss/ , alla fine mi domandavo quale sarebbe stato il prossimo episodio, ma non avrei mai immaginato che ci si sarebbe rivolti ad un momento così particolare come i due show acustici che il Boss tenne allo Shrine Auditorium di Los Angeles il 16 e 17 Novembre del 1990, due spettacoli benefici conosciuti come The Christic Shows, dal nome dell’associazione no profit Christic Institute, una sorta di studio legale che si occupa (esiste ancora) di cause e class actions dedicate a problemi a sfondo ambientale e sociale ed azioni a favore di gruppi o soggetti vittime di soprusi (una cosa che fa molto romanzo di John Grisham). Questi due spettacoli sono sempre stati tenuti in grande considerazione dai fans di Bruce (ed i bootleg di queste due rare serate erano tra i più ricercati), in quanto furono i suoi primi spettacoli acustici di sempre, dato che dopo Nebraska non c’era stato alcun tour e dischi come Tom Joad e Devils & Dust e relativi concerti in solitario erano di là da venire, ma anche perché rompevano un periodo di silenzio che durava da due anni (e ne sarebbe durato ancora due), nel quale il Boss aveva sciolto la E Street Band e non aveva ancora formato il gruppo che lo avrebbe accompagnato a supporto dei futuri album Human Touch e Lucky Town.

Ma la cosa forse più importante da dire riguardo a queste due serate è che Bruce è in forma eccellente, è ispirato e voglioso di suonare (oltre alla chitarra e armonica, si esibisce anche al piano), ma anche di sperimentare arrangiamenti diversi per canzoni famose in altra veste sonora, oltre al fatto che in entrambe le serate presenta alcuni pezzi in anteprima da Human Touch, qualche inedito e, last but not least, una sorpresa finale particolarmente gradita. Due concerti decisamente intensi e coinvolgenti quindi, che non lasciano affiorare la noia neppure per un minuto, merito senz’altro della bellezza delle canzoni ma anche della bravura del nostro come intrattenitore, anche senza l’ausilio di una band alle spalle (forse l’unico pezzo che risente un pochino dell’assenza di un gruppo è Brilliant Disguise, che apre entrambe le serate): i due concerti, più corti delle solite maratone a cui Bruce ci ha abituati (17 canzoni il primo, 18 il secondo), stanno comodamente su tre CD, ordinabili come anche gli altri volumi della serie su una sezione del sito di Springsteen (mentre, per i più tecnologici, c’è la possibilità di scaricare i live in diversi formati). E’ chiaro che la dimensione acustica giova particolarmente ai (molti) brani che Bruce prende da Nebraska nel corso dei due shows (la title track, Mansion On The Hill, State Trooper, la quasi mai eseguita, ma bella, My Father’s House, Reason To Believe, Atlantic City), ma anche all’allora inedita Red Headed Woman, all’intensa Wild Billy’s Circus Story (una rarità, era nel secondo album) ed alla sempre toccante Thunder Road, qui eseguita al piano.

Poi ci sono, come già detto, alcuni brani che dopo due anni compariranno sul controverso Human Touch, come la vibrante Real World, meglio forse in questa versione, la sofferta Soul Driver ed il futuro singolo 57 Channels (And Nothin’ On), che in studio era un vero pastrocchio mentre questa veste spoglia la dona un gradevole sapore rock’n’roll. Alcuni pezzi cambiano volto, come Darkness On The Edge Of Town che riconosco solo quando arriva il ritornello, una curiosa Tenth Avenue Freeze-Out pianistica ma sempre coinvolgente, una My Hometown decisamente più riuscita della versione mainstream apparsa su Born In The U.S.A., ma soprattutto, nel secondo show, una Tougher Than The Rest, ancora al pianoforte, semplicemente da brividi, una rilettura di grande valore per quello che già in origine era il brano più bello di Tunnel Of Love. Tra gli inediti, due canzoni che dopo qualche anno Bruce pubblicherà nel cofanetto Tracks: When The Lights Go Out, non eccelsa, e The Wish, decisamente meglio.

Il doppio CD sarebbe già stato ottimo ed abbondante così, ma poi, in tutte e due le serate, abbiamo lo stesso tipo di finale, e che finale: Bruce viene infatti raggiunto sul palco da Jackson Browne e Bonnie Raitt (i promotori dell’iniziativa benefica), che accompagnano il Boss prima in una versione trascinante di Highway 61 Revisited di Bob Dylan, riletta in puro stile boogie acustico con Bruce all’armonica, Jackson alla chitarra e Bonnie al tamburino (e Browne, per l’arrangiamento che dona al brano, viene scherzosamente soprannominato Jackson Lee Hooker dagli altri due), per finire con una emozionante Across The Borderline, con il bellissimo brano scritto da John Hiatt con Ry Cooder e Jim Dickinson che viene deliziosamente rifatto con il Boss che riprende la chitarra, Browne che si sposta al piano e la Raitt che imbraccia la sua slide. Nell’attesa di godermi l’atteso uno-due di Springsteen a San Siro, questo The Christic Shows 1990 è un validissimo, seppur acustico, antipasto.

Marco Verdi

*NDB Non a caso questo Post viene pubblicato nel giorno del primo dei due concerti di Bruce Springsteen allo stadio di San Siro!

Il Meglio Di Uno Dei Migliori! John Hiatt – Here To Stay: The Best Of 2000-2012

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John Hiatt – Here To Stay – Best of 2000 -2012 New West Records

Penso che esistano almeno una decina di raccolte dedicate a John Hiatt, non le ho contate esattamente, forse anche di più, oltre a parecchi dischi dal vivo e tributi vari. E ogni casa discografica ha dedicato un suo Best of al periodo in cui Hiatt incideva per loro: la Epic nella preistoria, poi la MCA-Geffen, il lungo periodo con la A&M e infine la Capitol. E’ uscita anche qualche antologia multi-label e delle raccolte con inediti e rarità. Mancherebbe qualcosa relativo al periodo Vanguard, ma visto che i due album sono stati ristampati dalla New West, appaiono in questo Here To Stay, il titolo del disco non solo un incitazione a rimanere, ma anche quello dell’unica canzone inedita inserita nella raccolta, una canzone che vede la partecipazione di Joe Bonamassa alla solista, sia in considerazione del fatto che il buon Joe non resiste ad un invito, sia perché da qualche anno condividono lo stesso produttore, ovvero Kevin Shirley.

Sia di produttori che di chitarristi Hiatt ne ha avuti di ottimi in questi anni 2000 (e anche prima), oltre a Shirley, Jay Joyce, Don Smith e Jim Dickinson tra i primi e Sonny Landreth, Luther Dickinson e Doug Lancio, nel reparto chitarre, oltre all’ottimo David Immergluck, presente nel disco che apre questa carrellata sui “migliori” brani che compongono la raccolta, Crossing Muddy Waters. Il disco, giustamente, si chiama Best of e non Greatest Hits, perché Hiatt nel corso degli anni di successi, purtroppo, ne ha avuti veramente pochi, pensate che il disco con il miglior piazzamento in classica è proprio l’ultimo, Mystic Pinball, arrivato “ben” al 39° posto della classifica di Billboard. Se ci leggete della amara ironia non vi sbagliate, per fortuna che la critica e i colleghi lo hanno sempre considerato, giustamente, uno dei migliori cantautori che abbia graziato la faccia di questo pianeta negli ultimi 40 anni. Genere: rock, folk, country, blues, roots, Americana? Scegliete voi, un po’ di tutti questi e molto altro, forse buona musica può andare? Per chi ama John Hiatt, forse, questa antologia è superflua (il pensiero di comprarsi un CD per un brano è duro, potevano fare uno sforzo, magari un bel doppio con un live in omaggio), ma per chi non ha nulla o vive di raccolte, potrebbe essere l’occasione di ampliare il proprio panorama sonoro, se ci state pensando non è una cattiva idea, musica così buona ne fanno poca in giro. Tra l’altro il nostro amico, in Italia, è conosciuto, dal grande pubblico, per una canzone, Have A Little Faith, che era contenuta nello spot di una nota marca di budini, oltre tutto sotto forma di cover, che non rendeva neppure un decimo della bellezza di quella straordinaria canzone.

Tornando a bomba, ossia a questa antologia, direi che i compilatori sono stati molto democratici, due brani per ognuno degli otto album che coprono il periodo 2000-2012, prolifico come sempre per Hiatt e ricco di belle canzoni, come ricorda il giornalista americano Bud Scoppa (ma che scrive per la rivista inglese Uncut), nelle interessanti note del corposo libretto che accompagna il CD: si parte con il suono acustico, volutamente scarno di Crossing Muddy Waters, rappresentato dalla raffinata e dolce title-track oltre che dalla grintosa e tirata Lift Up Every Stone, dove il mandolino e la chitarra di Immergluck, uniti al basso di Davey Faragher, disegnano traiettorie blues, mai disdegnate da John Hiatt, anche nel passato. Per il successivo The Tiki Bar Is Open il boss riuniva i grandissimi Goners, con Kenneth Blevins alla batteria e Dave Ranson, al basso, nonché il ritorno del mago della chitarra slide, Sonny Landreth, tutti eccellenti nella ballata My Old Friend, dove Hiatt sfodera anche una armonica d’annata, oltre all’utilizzo delle tastiere, affidate al produttore Jay Joyce e allo stesso Hiatt, Everybody Went Low è uno dei tanti capolavori scritti nel corso di una carriera prodigiosa con un Landreth devastante.

Cambio di etichetta per il successivo Beneath This Gruff Exterior, dalla Vanguard alla New West, ma i musicisti rimangono i Goners, produce Don Smith, i brani scelti sono My Baby Blue e Circle Back, due robusti pezzi rock, da riscoprire. Da Master Of Disaster, altro disco gagliardo da riascoltare, con babbo Dickinson alla produzione e i figli Cody e Luther, batteria e chitarra, oltre a David Hood al basso, per una title-track, anche questa volta tra le cose migliori della sua carriera, molte volte “coverizzata”.  Same Old Man, altro signor album, con il ritorno di Blevins e l’arrivo di Patrick O’Hearn al basso, oltre a Luther che rimane alla chitarra, la figlia Lily alle armonie, una produzione “semplice” a cura dello stesso Hiatt, e due ballate di una bellezza sopraffina come Love You Again e What Love Can Do.

Nel successivo The Open Road arriva Doug Lancio, altro mostro della chitarra e si ritorna all’Hiatt rocker. Il gruppo, ironicamente, ora si chiama Ageless Beauties e inizia l’era Kevin Shirley, con due album bellissimi come Dirty Jeans & Mudslide Hymns, Damn This Town e Adios To California i brani scelti, e Mystic Pinballs, con l’ottima We’re Alright Now, classico Hiatt con Lancio grande alla slide e Blues Can’t Even Find, una delle canzoni più tristi (e più belle) del canone hiattiano. Anche Here To Stay, l’inedito, è un blues con Bonamassa alla slide che fa i numeri e non si capisce perché sia stato lasciato fuori da Dirty Jeans, ma adesso è qui, insieme alle altre 16 canzoni, a testimoniare la classe immensa di uno più bravi cantanti e autori (di culto) di sempre. Quattro stellette per le canzoni, mezza in meno per l’operazione commerciale, un inedito, si sono sforzati!

Bruno Conti    

Un Gradito Ritorno. North Mississippi Allstars – Keys To The Kingdom

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North Mississippi Allstars – Keys To The Kingdom – Songs of The South Records

Non è che fossero lontani poi da molto, l’ultimo disco a loro nome, Hernando, era del 2008 e con una svolta dal suono più “metallico” non mi aveva soddisfatto a fondo (ma era sempre un buon album). Nel frattempo non è che i due fratelli Luther e Cody Dickinson e il bassista Chris Chew se ne siano stati con le mani in mano, tutt’altro, le produzioni collaterali se possibile si sono addirittura intensificate. Cody e Chris hanno fondato il gruppo parallelo degli Hill Country Revue che ha già pubblicato due ottimi album, Luther Dickinson era entrato a far parte in pianta stabile dei Black Crowes (che, come forse saprete, sono purtroppo in “pausa di riflessione” a tempo indeterminato) e ha trovato il tempo per pubblicare Home Sweet Home con il side project dei South Memphis String Band, nominato per i Grammy Awards. Pure nominato per i Grammy è il disco Onward & Upward a nome Luther Dickinson & The Sons of Mudboy pubblicato nell’immediatezza della scomparsa di loro padre il geniale musicista e produttore, Jim “Mudboy” Dickinson.

Proprio da tutto questo coacervo di elementi prende spunto questo nuovo Keys To The Kingdom, tutti questi elementi sono convenuti nella realizzazione di questo album che secondo il mio parere è il loro migliore (in studio) dai tempi dell’esordio Shake Hands With Shorty. Prodotto, in excelsis Deo, da Jim Dickinson, o così riporta il disco si tratta di un album che in dodici brani ripercorre il meglio della musica rock americana (e non solo).

Dall’iniziale, ruvido, rustico, rurale e ribaldo (avevo esaurito le “ru) This Away che sempra provenire diritto dai solchi di qualche disco degli Stones di inizio anni ’70 passando per il downhome blues-rock di Jumpercable Blues con una slide malandrina e un ritmo finto campagnolo (nel senso di country) si arriva al blues tinto di gospel di The Meeting dove i fratelli duettano con una Mavis Staples in grande spolvero. Non bastasse questo inizio da paura, nell’ottavo brano arriva anche un vecchio pard del babbo, quel Ry Cooder che due o tre cose sull’uso della slide le può insegnare al pur ottimo Luther e in Ain’t No Grave impartisce una lesson #1 da antologia, in una canzone che già di suo è un sentito omaggio a chi non c’è piu: “I Would Hope To be As brave As he was/On Judgement day/Ain’t No Grave Can Hold His Body Down…”.

Ma prima di arrivare lì passiamo anche per la bella ballata mid-tempo How I Wish My Train Would Come e per Hear The Hills un lungo brano (quasi 7 minuti) dalle sonorità e dall’attitudine anni ’70 (qualche reminiscenza Black Crowes), due chitarre, un piano in sottofondo (Spooner Oldham) e un paio di falsi finali, quando tutto sembra finito parte una bella coda strumentale, con tanto di fiati, veramente goduriosa. L’unica cover è veramente strepitosa, una rilettura quasi irriconoscibile di Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again, con i tempi e l’arrangiamento del brano completamente stravolto ma resa, se possibile, ancora più affascinante, questo sì che si chiama “rivisitare” il lavoro di un autore, sono (quasi) sicuro che Dylan apprezzerrebbe. Let it roll è uno slow blues con uso di slide e piano, molto canonico e ancora carico di retrogusti gospel. Di Ain’t No grave abbiamo detto, Ol’ Cannonball è un blues acustico e strascicato con Alvin “Youngblood” Hart ospite all’armonica e alla seconda voce e non manca neppure un mandolino quasi d’obbligo.

Ci avviamo alla conclusione ma c’è ancora tempo per una New Orleans Walkin’ Dead, a ritmo di voodoo, che sarebbe piaciuta al babbo Jim, per Ain’t None Of Mine che profuma di Led Zeppelin via Black Crowes, l’unico brano in cui Cody picchia sulla sua batteria e il rock-blues chitarristico sale alla ribalta e ancora per la conclusiva Jellyrollin’ All Over Heaven, gioiosa e vagamente old time con slide, piano e il basso sincopato in evidenza.

Bel disco. Facciamo disco del mese per febbraio, visto che gennaio l’abbiamo dato ai Cowboy Junkies e Over The Rhine e marzo è già prenotato per il nuovo Lucinda Williams (ce l’ho, ce l’ho, ma mi hanno detto di aspettare ancora un po’ prima di parlarne), salvo sorprese.

Alla prossima.

Bruno Conti

Shannon McNally Coldwater

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Torniamo al dovere del “bravo Blogger” (come il bravo presentatore di Frassica): ovvero ricerca e condivisione di musica valida dal mondo intero. Questa volta parliamo di una delle voci femminili più interessanti della scena indipendente americana, Shannon McNally e del suo nuovo album Coldwater.

Bella e brava, o come direbbe Paolo Hendel “una bella topona”, detto con affetto se no mi massacrano, una semplice constatazione, verificare da foto e video

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I suoi dischi, in Italia, sono come l’Araba Fenice, introvabili, quest’ultimo Coldwater, in particolare ha avuto una vita travagliata (come la Fenice è risorto dalle sue ceneri), registrato in quel di Coldwater, Mississippi agli Zebra Ranch Studios, è l’ultima opera portata a termine da Jim Dickinson, ma nasce da più lontano, dal 2007, da un album registrato per la Back Porch, completato e mai pubblicato.

Ma questa è una storia già conosciuta dalla McNally, nel 1997, fresca dalla laurea in antropologia delle religioni viene messa sotto contratto da una major, la Capitol, the next big thing, la nuova Sheryl Crow o Maria McKee, mandata in studio con Greg Leisz, Jim Keltner e Benmont Tench, il risultato Jukebox Sparrows verrà pubblicato nel 2002!! Capito l’andazzo, la nostra amica decide di dedicarsi ad ad una carriera più defilata ma non priva di soddisfazioni discografiche. Gli album si susseguono, lei si circonda di ottimi musicisti, registra in coppia con Neal Casal, collabora con Dave Alvin e alla fine del percorso approda a questo Coldwater.

Nel frattempo ha formato una band, gli Hot Sauce, con il batterista Wallace Lester (anche suo compagno di vita e padre della bambina avuta recentemente), il bassista Jake Fussell e l’ottimo chitarrista Eric Deaton (che ha sostituito l’altrettanto bravo Dave Easley che giganteggiava nel live North American Ghost Music del 2006). Deaton è più knopfleriano rispetto al torrenziale Easley ma altrettanto valido nell’economia del nuovo disco, che ha spostato gli orizzonti sonori verso uno stile Roots Americana con venature country got soul. La voce di Shannon McNally ha sempre quello strano sapore sudista (pur essendo una nativa di New York, Long island) che la avvicina a colleghe come Lucinda Williams o Mary Gauthier, ma al sottoscritto ricorda anche la già citata Maria McKee, entrambe godono di questo dono di natura di avere una voce perennemente “imbronciata”, alla “cosa ci faccio qui?”, altra socia del club, Stevie Nicks.

Jim Dickinson ha rivestito la musica di sapori sudisti, bluesy, ma anche dylaniani, l’attacco di batteria iniziale da This Is Ain’t My Home viene direttamente da Blonde on Blonde, poi si sviluppa in un country blues tra i primi Dire Straits e l’ultima Lucinda Williams, in sottofondo o in primo piano c’e sempre il suo pianino malandrino che duetta con le linee di chitarra di Eric Deaton. Jack B. Nimble è un capitolo perduto dell’opera di Lee Clayton, dove il country con influenze dylaniana si incontrava con la chitarra fiammeggiante di Philip Donnelly. Lonesome, Ornery and Mean è una cover di un brano del grande Steve Young, ma la faceva anche Waylon Jennings all’epoca degli Outlaws, country music per chi non ama Nashville. Lovely è una ballata stupenda dal retrogusto soul alla Curtis Mayfield, raffinata e coinvolgente, ricorda per certi versi il Dylan romantico di Blonde on Blonde, visto dalla parte femminile: Shannon McNally la canta con una “soprannaturale leggiadria”, ogni nota cesellata, l’epitome del “cool”, non saprei dire in italiano, brano meraviglioso, punteggiato dalla chitarra delicata di Deaton, praticamente una meraviglia. Deliziose anche Bohemian Wedding Prayer Song e la pianistica Freedom to stay. Dal passato viene ripresa una Bolder Than paradise che dava il titolo all’EP di esordio del 2000, sempre molto laidback, mentre la conclusione è affidata, poteva essere diversamente, ad una cover di Dylan, Positively 4th Street, rivisitata con dolcezza e personalità, altra piccola gemma di questo “tesoro nascosto”. Occhio, perchè si fatica parecchio per trovarlo, download digitale o cd che sia, ma ne vale la pena.

Bruno Conti