Il “Ritorno” Di Una Delle Vecchie Leggende Della Chitarra. Jan Akkerman – Close Beauty

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Jan Akkerman – Close Beauty – Music Theories Recordings / Mascot Label Group                       

Ammetto che era da moltissimi anni che non seguivo più attentamente le vicende musicali di Jan Akkerman: mi capitava saltuariamente di leggere in modo distratto che era uscito un nuovo album del chitarrista olandese (e comunque dal 2011 non ne usciva uno, a parte live, antologie o cofanetti). Più che altro ho seguito le vicende della band che è legata alla vicenda musicale di Akkerman, ovvero i Focus, una delle migliori band prog rock dei primi anni ’70, soprattutto per i due ottimi album II (noto anche come Moving Waves) e Focus III, entrambi prodotti da Mike Vernon, e dominati dalle tastiere e dal flauto di Thijs van Leer, ma soprattutto dalla chitarra fenomenale di Jan Akkerman, che in virtù di ciò venne eletto nel referendum dei lettori del Melody Maker miglior chitarrista del mondo nel 1973, battendo Eric Clapton e Jimmy Page.

Comunque già  nel1976 Jan venne cacciato dai Focus, che poi hanno avuto varie reunion, sempre senza la presenza del chitarrista. Il nostro amico già dal 1972 aveva iniziato pure una carriera solista, il cui secondo album Tabernakel lo vedeva impegnato al liuto (!!), ma accompagnato da Bogert e Appice, uno strano connubio tra classica, rock, blues e jazz/fusion che è sempre stata la cifra stilistica della sua carriera,  e che viene ribadita dall’uscita di questo Close Beauty, che però uscendo per la olandese Mascot/Provogue, che sta facendo incetta di chitarristi in giro per il mondo da mettere sotto contratto, avrà comunque una rilevanza ben maggiore rispetto alle uscite delle decadi precedenti. Vi dico tutto ciò anche perché ho scritto questa recensione molto prima dell’uscita prevista per il 25 ottobre e non avendo molte informazioni mi sono arrabattato con quel poco che avevo: naturalmente si tratta di un album strumentale, come sempre per Akkerman, accompagnato da  Marijn van den Berg (batteria), David de Marez Oyens (basso) e Coen Molenaar (tastiere), che ha anche prodotto l’album.

Lo stile è la consueta miscela di rock sinfonico, progressive, molto jazz-rock e fusion, con la proverbiale abilità tecnica e virtuosistica del 72enne musicista olandese che di recente è stato anche nominato dalla regina Cavaliere dell’Ordine di Orange-Nassau. Chi ricorda il vecchio sound dei Focus non si può magari aspettare la violenza rock della celeberrima Hocus Pocus, ma i passaggi simil pastorali di Sylvia, Answers? Questions! Questions? Answers!e Eruption sono sempre presenti nel suono attuale di Akkerman, che attinge però maggiormente da stilemi jazz-rock e fusion rispetto al passato, e quindi potrebbe rimandare a musicisti come Steve Morse, Eric Johnson, Allan Holdsworth, Ollie Halsall dei Patto, il tutto, come detto, esclusivamente in modalità strumentale: dodici brani che spaziano da Spiritual Privacy, tra flamenco, new age raffinata, world music e jazz-rock, un po’ alla Al Di Meola, con Jan impegnato alla chitarra acustica, passando per Beyond The Horizon, classico rock progressivo dove la Gibson del musicista orange è ancora in grado di emozionare gli appassionati del genere, con il suo timbro elegante e la grande tecnica individuale rimasta inalterata negli anni, insomma il signore suona ancora alla grande.

Reunion è più scontata, elettroacustica ma poco significativa, mentre Close Beauty è una delle sue classiche melodie piacevoli e cantabili, con Retrospection che è il brano, anche grazie al vibrato inconfondibile, che più ricorda i vecchi brani dei Focus, con improvvise aperture sonore. Passagaglia (con la g, ma per favore!), per sola chitarra elettrica è un po’ narcotica, mentre la lunga Tommy’s Anniversary è un ottimo esempio di vibrante jazz-rock con la chitarra scintillante in bella evidenza, Meanwhile In St. Tropez, solare e vagamente latineggiante si potrebbe accostare agli strumentali più orecchiabili di Santana, French Pride è un funkettino anonimo e la conclusiva e sinuosa Good Body Every Evening ci permette di gustare ancora una volta la sua tecnica sopraffina.

Bruno Conti

Segnarsi Il Nome, Ne Vale La Pena! Sari Schorr – A Force Of Nature

sari schorr a force of nature

Sari Schorr – A Force Of Nature – Manhaton Records

Ogni tanto, dal nulla (ma ci sono sempre anni di gavetta e lavoro alle spalle, nel caso in questione, con Popa Chubby e Joe Louis Walker) sbucano nuove voci femminili interessanti: all’inizio dell’anno mi era capitato di parlarvi della finlandese Ina Forsman http://discoclub.myblog.it/2016/02/06/sorpresa-dalla-finlandia-ecco-grande-nuova-voce-blues-ina-forsman/ , di recente anche Annika Chambers http://discoclub.myblog.it/2016/10/12/nuovi-talenti-scoprire-annika-chambers-wild-and-free/ , e pure non scherza la canadese Colleen Rennison dei No Sinner http://discoclub.myblog.it/2016/05/17/anteprima-dal-canada-band-solida-cantante-esagerata-sinner-old-habits-die-hard/ , tutte, chi più chi meno, con diverse sfumature di genere, legate a quel filone rock-blues da cui discendono Beth Hart e Dana Fuchs, aggiungerei anche la svedese Erin Larsson dei Blues Pills http://discoclub.myblog.it/2016/08/09/nuova-razione-pillole-rivigorenti-rock-blues-dal-nord-europa-blues-pills-lady-gold/ . L’ultima arrivata è questa Sari Schorr, americana, “scoperta” da Mike Vernon, il grande produttore inglese nell’epoca d’oro del british blues, mentre era in trasferta al Blues Challenge di Memphis nel 2015 per ricevere il premio “Keeping The Blues Alive” e da lui vista nel corso dei concerti che facevano da contorno alla consegna dei premi.

Favorevolmente colpito dalle notevoli capacità vocali della “ragazza” Vernon ha deciso di produrle il disco di esordio, nei suoi studi spagnoli di Siviglia, portandosi come ospiti, alle chitarre, gente come Walter Trout, Innes Sibun (chitarrista inglese, già nella band di Robert Plant, anni fa) e l’ex giovane prodigio Oli Brown, anche lui inglese e tra i protetti di Vernon. Nel disco suonano dei musicisti spagnoli che non erano apparsi nei recenti dischi (discreti ma non esaltanti) del suddetto Vernon http://discoclub.myblog.it/2015/12/29/il-ritorno-dei-fondatori-del-british-blues-mike-vernon-just-little-bit/ : gente che risponde ai nomi di Quique Bonal, alla chitarra Julian Maeso, tastiere, Jose Mena, batteria e Nani Conde, basso, a loro agio in questo A Force Of Nature, grazie alla voce potente e grintosa della brava Sari, temprata nel rock, ma con venature blues e qualche tocco soul e jazz, più simile come timbro alle citate Dana Fuchs, Larsson o la Rennison che a Beth Hart, più eclettica e francamente di un’altra categoria, rendendo comunque il sound a tratti piuttosto duretto e di chiaro stampo rock-blues, con decise sterzate anche nell’heavy-rock, peraltro di buona qualità, dipanandosi però senza eccessive forzature verso derive fastidiose e pure un po’ tamarre.

Insomma un buon disco nell’insieme: molti i brani firmati dalla stessa Sari Schorr, a partire dal fluido blues-rock dell’iniziale Ain’t Got No Money, dove le chitarre di Bonal e Sibun sono molto presenti e sostengono le vigorose sfuriate vocali della signora https://www.youtube.com/watch?v=NfRl3onLHvI. Aunt Hazel, è sempre un brano rock, ma con vaghi sentori country got soul, la voce molto simile a quella della bravissima Dana Fuchs e le chitarre sempre pungenti, come pure nella suggestiva hard ballad Damn The Reason dove si gusta pure l’ottimo lavoro della solista di Oli Brown. Cat And Mouse introduce elementi funky-soul, con un intrigante wah-wah a dare pepe ad un brano impertinente e sbarazzino, con l’organo sempre di supporto al lavoro brillante della chitarra. La cover di Black Betty più che all’originale di Lead Belly, citato nell’avvio folk, ovviamente si rifà alla versione rock dei Ram Jam, con il classico riff, rallentato e sparato a tutta potenza, a duettare con la voce grintosa della Schorr. Work No More è un brano di Walter Trout, con lo stesso chitarrista americano impegnato alla solista, ben coadiuvato dalle tastiere di Dave Keyes, un ottimo blues elettrico dove la voce di Sari è più misurata e meno sopra le righe.

Anche Demolition Man viaggia ancora in territori blues, con Innes Sibun impegnato a una tagliente slide che punteggia il brano e Bonal alla solista, oppure è viceversa, non saprei, comunque il risultato è ottimo https://www.youtube.com/watch?v=4t_Qi9MM-Ys . Oklahoma ha un taglio più jazzato e raffinato, con la Schorr in grado di padroneggiare la sua esuberanza vocale, mentre Oli Brown lavora di nuovo di fino con la solista, con un solo ricco di feeling e tecnica, per un brano dal crescendo molto piacevole; Letting Go viceversa è una ballata più misurata e raccolta, ricca di raffinate sfumature vocali, con l’organo di Jesus Lavillas a dividersi gli spazi con la lirica chitarra di Sibun. Kiss Me è di nuovo un bel pezzo rock, ricco di riff e grinta, che poi lascia spazio ad una sorprendente e intensa cover di Stop In The Name Of Love, il classico Motown delle Supremes, che diventa una sorta di deep soul ballad di marca Stax, rallentata e rivoltata, in una operazione di restyling perfettamente riuscita, con la Schorr che la canta in modo splendido, da sentire per credere. E a confermare le grandi qualità della nostra amica, in conclusione troviamo una bellissima ballata pianistica come OrdinaryLife, dove si gusta ancora appieno il talento vocale di questa brava cantante. Segnarsi il nome, ne vale la pena.

Bruno Conti      

Poi Sarebbe Scomparso Nel Nulla Anche Lui! Jeremy Spencer (With Fleetwood Mac)

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Jeremy Spencer – Jeremy Spencer – Real Gone Music/Ird

Jeremy Spencer era uno dei due chitarristi della formazione originale dei Fleetwood Mac, i primi, quelli di Peter Green e del boom del british blues, noto soprattutto ai tempi per la sua passione sfrenata per lo stile bottleneck di Elmore James, di cui era un eccellente praticante nei primi due album della band, fino a che l’arrivo di Danny Kirwan nel 1968, lo mise un po’ in un angolo, anche se rimase nel gruppo fino al 1971, prima di “sparire nel nulla” per moltissimi anni con gli evangelici Children Of God (con i quali condivide tuttora il proprio credo religioso, e a causa del quale Spencer sostiene di essere stato accusato di abusi sui minori e pedopornografia). Ma la sua grande passione erano anche il R&R e la musica oscura melodica degli anni ’50 e ‘60 in generale, di cui, spesso sotto lo pseudonimo di Earl Vince & The Valiants, offriva accurate ricostruzioni di quel sound, in uno stile che era per metà omaggio e per metà affettuosa presa in giro. Proprio nel 1969, mentre la band stava registrando quello che sarebbe stato il loro album più rock fino a quel momento (lo splendido Then Play On, come sapete sono un patito di Peter Green, che considero uno dei dieci più grandi chitarristi della storia del rock) in contemporanea, anche su sollecitazione di Mike Vernon, il loro produttore,  pure lui appassionato di sonorità vintage come Spencer, venne deciso di registrare, sempre con i Fleetwood Mac come backing band, un EP di materiale costruito intorno alla passione di Jeremy per quel tipo di musica, dischetto che avrebbe dovuto essere allegato all’album come bonus.

Poi non ne se fece nulla e le registrazioni non vennero utilizzate, ma il germe dell’idea era stato gettato e i cinque ( con Green solo in un brano), tutti comunque più o meno appassionati di quello stile (Kirwan più orientato verso Beatles e Cream), decisero di registrare un intero album con questo tipo di musica, che comunque suonavano spesso all’interno del loro repertorio, quando Jeremy Spencer assumeva la guida della band nelle sezioni di dischi e concerti in cui Green si faceva da parte per concedere spazio al suo pard. Il disco quindi venne registrato, con l’aiuto di Steve Gregory (sassofonista che aveva suonato con l’Alan Price Set e in Honky Tonk Women degli Stones) e Dick Heckstall-Smith dei Colosseum, aggiunti ai fiati in un paio di brani, e con la presenza di quasi tutto materiale originale firmato dallo stesso Spencer, oltre a tre oscure cover pescate nel repertorio amato dal nostro, il tutto però rigorosamente legato a quel tipo di suono, anche se non mancano alcune derive decisamente più blues dove il nostro amico può dare fondo alla sua passione per Elmore James. Diciamo subito che l’album non è imprescindibile, discreto  ma non eccelso, con Jeremy, che oltre che buon chitarrista slide, ribadisce anche le sue doti già conosciute di pianista e si conferma cantante sempre in bilico tra il divertito e il divertente, con la giusta dose di british humor, mescolata al suono tipicamente americano.

Così possiamo ascoltare il R&R alla Buddy Holly dell’iniziale Linda (che ha qualche parentela con Peggy Sue), The Shape I’m In, una delle cover, anche se era stata scritta da Otis Blackwell, quello di Great Balls Of Fire e mille altri successi, era stata cantata da tale Johnny Restivo, ma sembra un pezzo di Elvis, e pure di quelli belli, anche grazie all’assolo di sax nella parte centrale, mentre Mean Blues, è appunto uno dei rari blues duri e puri, con i Fleetwood Mac in gran spolvero, soprattutto Kirwan alla solista, e presentazione dove si prendono in giro da soli, ma poi suonano come loro sapevano fare  https://www.youtube.com/watch?v=4N2pUu8dpuQ. String-a-long, la seconda oscura cover, è un delizoso doo-wop alla Sha Na Na con Peter Green al banjo (?!?) https://www.youtube.com/watch?v=yDZ1UYdz57o , mentre Here Comes Charlie (With His Dancing Shoes On), è nuovamente un grintoso R&R alla Rave On e Teenage Love Affair, sempre una delle canzoncine dei primi teen idols. Jenny Lee, leggera leggera e cantata con quella aria da presa per il culo, sembra uno dei romantici brani dei primi Dion o Ricky Nelson, con Don’t Go Please Stay, che viceversa pare un brano di B.B. King, se fosse stato un praticante della arte della slide come Jeremy Spencer https://www.youtube.com/watch?v=8So2t8Kd9j8 . You Made A Hit, la terza cover, è un pezzo di Charlie Rich, di quando faceva R&R con la Sun, ed è nuovamente deliziosamente retrò. Dopo un paio di rutti (giuro), parte una Take A Look Around Mrs. Brown, che potrebbe essere Give Peace A Chance come l’avrebbe cantata la Bonzo Dog Doo-Dah Band, con tanto di finto sitar da Summer Of Love. Surfin’ Girl, non è il brano dei Beach Boys, ma il genere è quello, e If I Could Swim The Mountain, è una ballata strappalacrime alla Presley, sempre ai limiti, e anche oltre, della parodia https://www.youtube.com/watch?v=o2UtqJnSQmY . Cè pure, come bonus track, Teenage Girl, che era il singolo dell’epoca, uscito nel 1970, come d’altronde il resto dell’album. Se volete passare poco più di 35 minuti di puro divertimento, in tutti i sensi.

jeremy spencer coventry blue

Ma poi è riapparso, a livello musicale https://www.youtube.com/watch?v=UQRTxZTYGhc !

Bruno Conti

Il Ritorno Di Uno Dei Fondatori Del British Blues. Mike Vernon – Just A Little Bit

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Mike Vernon – Just A Little Bit – Cambaya Records/IRD 

Mike Vernon è stato uno dei personaggi più influenti della scena musicale inglese, e dell’allora nascente british blues, dal 1965 in avanti; prima come produttore alla Decca ( ma la sua prima produzione è stata per Five Long Years di Eddie Boyd, su etichetta Fontana), iniziando con l’esordio di John Mayall con i Bluesbreakers, e tutti gli album successivi fino a Blues From Laurel Canyon, ma anche le prime prove di David Bowie, dei Savoy Brown, dei Ten Years After, dei Chicken Shack, nel frattempo fondando anche la Blue Horizon, gloriosa etichetta che tra il 1966 e il 1971 pubblicò alcuni dei migliori dischi del genere, a partire da quelli dei Fleetwood Mac di Peter Green (Di cui avete letto ieri nel Blog, anche se erano quelli “californiani”), tra cui il seminale Blues Jam In Chicago, album che fondeva in modo mirabile i grandi bluesmen neri e le loro controparti bianche, caratteristica sempre presente nelle produzioni di Vernon, grande amante della musica nera, dagli anni ’40 in avanti.

https://www.youtube.com/watch?v=BQjBdROOwH8

Come avranno notato i più attenti lettori ho usato il passato remoto per descrivere il nostro, in quanto da allora in poi il buon Mike ha un po’ vivacchiato, con qualche soprassalto, come quando ha fondato le etichette Indigo e Code Blue negli anni ’90, o quando è ritornato alla produzione nel marzo 2010 per il secondo album del ragazzo prodigio Oli Brown (che si è un po’ perso per strada). Vernon ha anche pubblicato un album solista, Moment Of Madness, nei primi anni ’70, e poi ha partecipato alla storia di alcuni gruppi che definire “minori” è un eufemismo. Quindi, senza volere mancare di rispetto, non è che un nuovo album di Mike era una delle nostre priorità assolute: ma lo ha fatto e quindi parliamone, brevemente. Registrato a Antequera, con una band spagnola, Los Garcia https://www.youtube.com/watch?v=fC2nykC_c0s , il disco ci riporta alle grandi passioni di Vernon: il R&B, il R&R e ovviamente il blues, con note dottissime che tracciano la storia dei brani contenuti in questo Just A Little Bit, che si lascia comunque ascoltare con estremo piacere, anche se il buon Mike non è un cantante formidabile e la sua perizia al kazoo non sopperisce certo ai suoi limiti vocali.

https://www.youtube.com/watch?v=vYdCkS7-B54

Il suono è pimpante e piacevole, molto simile a quello dei dischi fine anni ’60 che il nostro produceva: due chitarre, tastiere, una piccola sezione fiati in alcuni brani, per esempio nell’iniziale Kansas City, ripresa dalla versione più celebre, quella di Wilbert Harrison. Non ci saranno Clapton, Green o Taylor ma i due solisti, presumo fratelli, Gabi e Luis Ignacio Robledo, si disimpegnano con gusto, come altri ospiti che ruotano nella formazione. All By Myself è puro R&R alla Fats Domino, Just A Little Bit è quel R&B che avrebbe influenzato le prime blues band inglesi, The Seventh Son dei due Willie, Dixon e Mabon, è puro Chicago Blues di scuola Chess, Hot Little Mama è un pungente blues di Johnny Guitar Watson. Black Night è un “lentone” di quelli super classici dal repertorio di Charles Brown, mentre Money Honey è proprio il brano poi reso celebre da Elvis Presley e When Things Go Wrong un blues di Tampa Red pescato dalle origini delle 12 battute. Bloodshot Eyes addirittura sfiora territori country/western swing misti a Jump &Jive, molto divertente, come pure la tirata I’m Shakin,’ e Please Send me Someome To love è sempre una signora canzone, come pure le successive Keep Your Hands Off Her e All Around The World, per concludere con una delle canzoni manifesto del R&R Shake Rattle And Roll. In definitiva il CD la sufficienza se la merita, anche per rispetto verso uno delle “eminenze grigie” della storia della nostra musica, mister Mike “Boogie Man” Vernon, anni 71 il 20 novembre.

Bruno Conti

Il Meno Famoso Dei “Re” Del Blues. Freddie King – Going Down At Onkel Po’s

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Freddie King – Going Down At Onkel Po’s – Rockbeat Records

Ultimamente, nella esponenziale crescita delle uscite di vecchi concerti più o meno ufficiali, i compilatori di queste chicche (perché di questo spesso parliamo), si stanno interessando anche al materiale di archivio relativo ai grandi del Blues, bianchi e neri che siano: per l’occasione parliamo di Freddie King. Tra l’altro non sempre questi Live vengono pubblicati da etichette sconosciute di provenienza britannica, ci sono anche case come la Cleopatra e la Rockbeat che operano regolarmente sul mercato americano. Poi la fonte è spesso quella dei vecchi bootleg, al limite i “promo” di antica memoria; facendo alcune ricerche risulta che questo concerto, registrato il 19 ottobre del 1975 all’Onkel Po’s Carnegie Hall (nome completo del locale!) di Amburgo in Germania, era uno dei mitici dischi della serie King Biscuit Hour, ora ampliato in  versione doppia.

freddie king taking care of businessfreddie king texas flyer

La stessa Bear Family, oltre al monumentale cofanetto Taking Care Of Business 1956-1973, che se le vostre finanze lo consentono è fondamentale per conoscere l’opera omnia di Freddie King in studio, ha pubblicato anche un compendio in 5 CD, Texas Flyer 1974-1976, composto di materiale inedito, per l’80% dal vivo, che ha qualche brano in comune con l’Onkel Po’s in questione. La versione Rockbeat ha una qualità sonora decisamente buona, Freddie King è  nel pieno del suo vigore come chitarrista e cantante, uno dei tre Re del blues, morto a soli 42 anni, nel 1976, quando la sua traiettoria artistica non era certo in fase calante, i due ultimi album in studio usciti per la RSO, Burglar e Larger Than Life, il primo prodotto da Tom Dowd, il secondo da Mike Vernon, riflettevano sì la nuova svolta più elettrica e rock che molti bluesmen neri stavano affrontando, ma erano comunque ottimi dischi, e le sue sessions ai Criteria Studios con “Manolenta”, inserite come bonus in Give Me Strength: The ‘74/’75 Recordings dimostrano che King era ancora uno dei più grandi chitarristi di blues in circolazione https://www.youtube.com/watch?v=-fz0Jip2CDk , uno che con le sue registrazioni per la King e la Federal, in CD per la Real Gone, ha forgiato la carriere di gente come Eric Clapton, Peter Green, Jeff Beck,  i fratelli Vaughan e generazioni intere di chitarristi che poi hanno fatto la storia del blues-rock.

Armato della sua chitarra Gibson Les Paul, in possesso di una tecnica solista aggressiva, nel suo repertorio ci sono strumentali come Hideway e The Stumble, blues lancinanti come Have You Ever Loved A Woman e versioni di grandi classici del blues, suonate con vibrante forza e tecnica sopraffina. Accompagnato da un solido quintetto che prevede una chitarra ritmica, piano, organo, basso e batteria, Freddie King ancora una volta ci dimostra perché è stato uno dei più grandi chitarristi (e cantanti) della storia del blues elettrico. Certo il suo stile di vita on the road, 300 concerti all’anno, una dieta a base di bloody marys, party in continuazione, non giovavano al suo stomaco, tanto che alla fine le sue ulcere sono deteriorate in pancreatite e il 28 dicembre del 1976 ci ha lasciato, ma in questa serata tedesca pare ancora in gran forma: si parte con la consueta introduzione della band,  poi arriva il Grande Capo, con una funky Big Legged Woman, sostenuta da un forte uso delle tastiere, sempre molto presenti in tutto il concerto, ma con quella chitarra magica che si arrampica su tonalità vibranti e note lunghissime, e la voce, ancora piena di forza ed energia, poi The Moon Is Rising, puro Chicago Blues ad alta tensione, anche se, a ben vedere, King era texano, il primo slow micidiale Woman Across The River, Boogie Funk, tirata a velocità impossibili, e ancora 56th And Wichita, oltre dieci minuti di pura magia sonora, un altro lento incredibile, la sua versione di Feelin’ Alright dei Traffic, un’altra esplosione di pura potenza come Mojo Boogie, poi un uno-due da leggenda con la “sua” Have You Ever Loved A Woman, intensissima e una Rock Me Baby gigionesca ma canonica.

Concludono la prima parte il soul di Something You Got e una tirata Messin’ With The Kid. Si riparte con Sweet Home Chicago, un altro lento d’atmosfera come You’re The One, una poderosa Woke Up This Morning con la chitarra che viaggia alla grande, il vecchio standard Ain’t Nodoby’s Business, altro lento intensissimo in crescendo, lo strumentale King’s Thing, una lunghissima Going Down, il suo cavallo di battaglia del periodo, The Things That I Used To Do, sempre molto intensa, la celebrazione di Let The Good Times Roll e la conclusione con una chilometrica, oltre quindici minuti, versione di Stormy Monday, dove Freddie King dà una ennesima lezione di blues, tra picchi e vallate, silenzi e ripartenze, tutto il repertorio della sua arte a disposizione del pubblico, prima di chiudere con una Hideaway non riportata nei credits del disco ma riconoscibilissima. Sono passati 40 anni ma non si direbbe!

Bruno Conti