Lampi Dal Passato! Tony Joe White – That On The Road Look “Live”

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Tony Joe White – That On The Road Look “Live” – Rhino Handmade

Questo signore è un altro dei “Grandi Vecchi” (si fa per dire, è del 1943) della canzone americana. Uno degli inventori dello swamp rock o swamp music che dir si voglia, la sua musica si potrebbe sintetizzare come “Country got soul, soul got blues, blues got swamp” che è un po’ lungo ma efficace.

Se siete amanti di quelle musiche che si nutrono da varie “radici” della musica americana, Tony Joe White è sicuramente un numero uno in questo stile: in possesso di una voce profonda e risonante, quasi glabra (pensate a Chris Rea senza quella patina di orecchiabilità o al grandissimo cantautore Greg Brown in un ambito più country-folk, per chi non lo conosce già, ovviamente!), grande chitarrista sia all’elettrica come all’acustica e compositore di spicco con una lunga carriera alle spalle e un futuro davanti. Il 28 settembre esce anche il suo nuovo album The Shine (su etichetta Swamp Records, giustamente) che si spera proseguirà l’ottima serie di dischi degli anni 2000, dove brillano The Heroines del 2004 (un disco di duetti con voci femminili, Jessi Colter, Shelby Lynne, Emmylou Harris, Lucinda Williams) e Uncovered del 2008 (con Mark Knopfler, Eric Clapton, JJ Cale e Michael McDonald).

La Rhino records gli aveva già dedicato un cofanetto quadruplo intitolato Swamp Music – The Complete Monument Years dedicato al periodo 1968-1970, qui siamo in un imprecisato mese e giorno del 1971, in una imprecisata località del globo terracqueo, Tony Joe White azzarda che possa trattarsi della Royal Albert Hall di Londra come gruppo di apertura dei Creedence Clearwater Revival. E questo disco è “The Real Deal” in tutti i sensi: il vero articolo, perché White era un nativo originale della Lousiana e come scherzando (ma non troppo) ricordava al suo “rivale” – Vedi Fogerty, non ci sono alligatori a Berkeley, California – prima di cercare di cancellarlo dal palco con la sua formidabile band.

Perché in effetti ogni serata era una vera battaglia tra due dei migliori gruppi live di quel periodo: nel gruppo di Tony Joe White c’erano l’ottimo batterista Sammy Creason, il grande tastierista Michael Utley e il maestro Donald “Duck” Dunn, il fantastico bassista di Booker T & The MG’s, futuro Blues Brothers e collaboratore di Clapton. Una formazione che era una vera forza della natura ma il vero protagonista rimaneva sempre il vocione incredibile di White (e le sue basette che rivaleggiavano all’epoca con quelle di Fogerty e Presley).

Si capisce subito che la serata è di quelle da ricordare, l’apertura è affidata al groove irresistibile di Roosevelt and Ira Lee, con la sezione ritmica subito a mille, l’organo di Utley che colorisce il suono, l’armonica che dà il via alle operazioni e la chitarra di Tony Joe White che comincia ad estrarre il blues dalle sue corde prima di innestare un wah-wah micidiale (whomper stomper come lo chiama il nostro amico) e partire verso i paradisi del rock. Another Night in The Life Of A Swamp Fox sono altri sei minuti e mezzo di swamp rock non adulterato a tutta birra, con chitarra e organo in overdrive mentre la batteria picchia di gusto e Duck Dunn pompa sul suo basso come pochi altri saprebbero fare, anche qui siamo al livello dei migliori Creedence, veramente una bella lotta, ma questi musicisti sono anche superiori tecnicamente, certo Fogerty aveva dalla sua una miriade di brani di livello memorabile e indimenticabili. A questo punto White introduce una delle sue grandi composizioni, Rainy Night In Georgia (scritta nel 1962, era stata un successo incredibile nel 1970 per Brook Benton, vendendo un milione di copie) una fantastica soul ballad a livello delle migliori cose scritte dai grandi della black music, qui interpretata con grandissima raffinatezza, non vola un mosca in sala, tutti ascoltano rapiti dalla bellezza della musica.

A questo punto parte l’intermezzo acustico introdotto da una stupenda Mississippi River, con la voce che scende, scende, scende verso tonalità caldissime, quasi alla Elvis. Lustful Carl And The Married Woman è una lussuriosa swamp song acustica che non perde nulla del suo fascino anche in versione acustica. Willie And Laura Mae Jones è un’altro dei suoi grandi cavalli di battaglia, anche in questa versione, solo voce, chitarra acustica e armonica non perde un briciolo del suo fascino.

Finita la parte acustica riparte la festa con una trascinante Back To The Country, con Utley che passa al piano per un brano quasi rockabilly e dove il basso di Dunn duetta con la chitarra di Tony Joe White a velocità veramente supersoniche, prodigioso. Travellin’ Bone concede un attimo di respiro al pubblico con un altro intermezzo acustico, poi il concerto si avventura in lidi Blues con una bellissima versione di Stormy Monday piegata ai voleri sonori di questo grande musicista. My kind Of Woman è un altro di quei brani che potrebbero figurare indifferentemente nel repertorio di White o dei Creedence, qui riaccende il wah-wah per un altro fantastico viaggio  nelle “Paludi”.

Polk Salad Annie era stato il suo più grande successo (al n°8 nel 1969) e poi sarebbe diventato uno dei capisaldi della rinascita di Elvis apparendo sia in That’s The Way It Is che in On Stage come pure nel concerto del Madison Square Garden ma questa versione di Tony Joe White è insuperabile, oltre 10 minuti di pura libidine sonora con i musicisti che distillano l’essenza della grande musica dal vivo in questo brano dall’andatura ondeggiante tra boogie, country, soul e qualsiasi genere vi venga in mente, non si può resistere al crescendo strumentale nella parte centrale quando i musicisti iniziano ad improvvisare con una veemenza inusitata, in due parole, grandissima musica.

Si poteva anche terminare qui ma manca la coda affidata alla bella country-folk ballad che dà il titolo a questo album, That On The Road Look che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Willie Nelson o Townes Van Zandt, bellissima.

Così, detto per inciso, perché magari la conoscete, anche quella Steamy Windows che avrebbe contribuito al rilancio di Tina Turner ad inizio anni ’80 l’ha scritta lui!

Si fa un po’ fatica a trovarlo (per usare un eufemismo) visto che è della Rhino Handmade ma è una delle Pietre di Rosetta per capire la musica di quegli anni.

Eccolo, con le sue basette e con Johnny Cash.

Bruno Conti

John Lennon. News E Altro

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Ieri abbiamo parlato dell’anniversario della morte di Jimi Hendrix ma altre ricorrenze si avvicinano: il 9 ottobre si festeggia il 70° Anniversario della nascita di John Lennon (e poi l’8 dicembre, purtroppo, saranno 30 anni dalla sua morte).

Naturalmente la sua casa discografica, la EMI non si poteva lasciare sfuggire la ghiotta occasione e quindi il 5 ottobre ci sarà una alluvione di ristampe.

Prima di tutto il Signature Box, un cofanetto di 11 CD che comprende gli 8 album di studio (per un totale di 9 CD perché Sometime in New York City torna in versione doppia), un CD con i 6 brani che erano apparsi come singoli e quindi non appaiono negli album originali e infine un CD di demo e outtakes che è il vero motivo per cui bisognerà acquistare il Box. Il tutto accompagnato da un libretto di 65 pagine, stampe commemorative e tre brevi saggi firmati da Yoko Ono, Sean Lennon e Julian Lennon inseriti in quella confezione candida che vedete sopra effigiata. Il prezzo, a seconda dei paesi, dovrebbe oscillare tra i 150 e i 200 euro (o dollari).

Naturalmente non finisce qui: per i più poveri o i meno interessati esce anche un cofanetto quadruplo, a prezzo molto contenuto, intitolato Gimme Some Truth, una antologia che raccoglie quattro album tematici chiamati rispettivamente Borrowed Times, Roots, Working Class Hero e Woman per un totale di 72 brani. Quindi una antologia più che esaustiva considerando che i brani totali contenuti nel cofanetto di 11 Cd sono 100 oltre ai 19 che appaiono nei dischi aggiuntivi (quindi vuol dire che il tutto poteva essere racchiuso in un cofanetto massimo di 5 o 6 CD chiamato, che so, Songs e i dischi originali venire pubblicati come singoli album rimasterizzati a parte, ma essendo già stato fatto in anni recenti si è preferito percorrere, come al solito, la strada del cofanetto costoso. Come già detto altre volte si chiama “Marchetting”!

Ecco i brani dell’11° CD.

CD 11:
1. MOTHER (STUDIO OUTTAKE)
2. LOVE (STUDIO OUTTAKE)
3. GOD (STUDIO OUTTAKE)
4. I FOUND OUT (STUDIO OUTTAKE)
5. NOBODY TOLD ME (HOME RECORDING)
6. HONEY DON’T (STUDIO OUTTAKE)
7. ONE OF THE BOYS (HOME RECORDING)
8. INDIA, INDIA (HOME RECORDING)
9. SERVE YOURSELF (HOME RECORDING)
10. ISOLATION (STUDIO OUTTAKE)
11. REMEMBER (STUDIO OUTTAKE)
12. BEAUTIFUL BOY (DARLING BOY) (HOME RECORDING)
13. I DON’T WANNA BE A SOLDIER MAMA I DON’T WANNA DIE (STUDIO OUTTAKE)

Poteva mancare una bella raccolta singola che va ad aggiungersi a quelle esistenti? Certo che no e quindi ecco pronto Power To The People – The Hits, una antologia con 15 brani disponibile anche in versione Deluxe con DVD allegato che contiene i video di tutti i brani dell’album.

Infine esce anche una versione doppia di Double Fantasy che aggiunge all’album originale un secondo CD intitolato Double Fantasy Stripped Down che contiene gli stessi 14 brani ai quali il produttore Jack Douglas e Yoko Ono hanno tolto tutti gli orpelli tipici delle produzioni anni ’80 per riportare il suono e la voce di John Lennon al suo splendore originale! E questo suona assai interessante e ha da prendersi insieme al disco di rarità contenuto nel cofanetto. Quindi iniziate a piangere e mettete mano al vostro portafoglio di coccodrillo.

Dimenticavo. Forse si intuiva parlando del box ma Sometime In New York City esce per la prima volta nella versione doppia rimasterizzata quindi con jam sessions con la band di Zappa ripristinate, mentre nella ultima versione uscita era stato accorciato a un solo CD.

A parte, per i nababbi, esce anche questo http://www.boxofvision.com/johnlennon/

Per finire vi anticipo alcune cose che riguardano ancora i Beatles e materiale affine. Il 19 ottobre usciranno per la prima volta in versione remastered e doppia a prezzo pieno le due antologie 1962-1966 (la Rossa) e 1967-1970 (la Blu). Poi si vocifera, non confermato, qui lo dico e qui lo nego, che poco dopo verranno raccolte in un cofanetto quadruplo entrambe, quindi altra versione da collezionare.

Il 26 ottobre escono anche le ristampe di tutti gli album degli altri artisti della Apple, anche queste rimasterizzate per l’ennesima volta e con varie bonus tracks in ciascuna, quindi il primo James Taylor, Badfinger, Jackie Lomax, Billy Preston, Mary Hopkin eccetera, eccetera, quindi altro salasso.

Poi vi lasciano qualche giorno di tregua e arriva la Hear Music/Concord/Universal (che ha acquisito i diritti di tutto il catalogo di Paul McCartney, quindi occhio per il futuro) che pubblicherà la versione Deluxe e SuperDeluxe di Band On The Run dei Wings rispettivamente in 2CD+DVD e 3CD+DVD e qui son dolori. Uscita il 2 novembre, poi ci torniamo con calma e altri dettagli.

Bruno Conti

Musica Dell’Anima! Mavis Staples – You Are Not Alone

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Mavis Staples – You Are Not Alone – Anti Records

Questo disco è uscito da alcuni giorni con eccellenti recensioni ovunque ma non credeteci! E’ molto meglio di qualsiasi cosa abbiate letto!

Ha 70 anni ma la sua voce ne dimostra 30 di meno. Grandissimo disco, non solo Gospel, musica per tutti!

Bruno Conti

Un Segreto Ben Custodito! Darden Smith – Marathon

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Darden Smith – Marathon – Darden Smith records

Questo signore è un altro dei segreti meglio custoditi del cantautorato (l’ho detto di nuovo!) di qualità. Texano, residente a Austin, con una discografia nutrita che parte dal lontano 1986 con lo stupendo Native Soil e passando per l’omonimo esordio per la CBS/Epic del 1988 e il disco in coppia con l’inglese Boo Hewerdine, Evidence del 1989 arriva ai giorni nostri. Se volete farvi un’idea dei suoi dischi, questa è una discografia molto dettagliata che ho trovato in rete compilata da un “benefattore” darden.html.

Per chi già lo conosce e ammira la sua musica, per cominciare dirò che questo Marathon è uno dei dischi più belli di Darden Smith, forse il più bello in assoluto e guardate che molti erano veramente belli. Per chi vuole farsi un’idea, un paio di anni fa è uscita l’antologia AFter All This Time The Best Of Darden Smith: per entrambi il problema è la reperibilità, Www.Darden Smith Records non è viatico di facile ricerca ma ne vale assolutamente la pena.

Intanto facciamo un po’ di nomi per inquadrarlo: è stato paragonato a Nick Drake (per la malinconia di fondo), Leonard Cohen (non per la voce, ma per la profondità dei temi e le atmosfere musicali assai raffinate), John Hiatt (e qui, a parte il fatto che sono entrambi bravissimi non ho notato molte analogie), Elvis Costello (non so, non mi pare!). Io aggiungerei il Bruce Cockburn infallibile degli anni ’70 (nel senso che non faceva un disco brutto e le due voci hanno molte cose in comune), il Jackson Browne balladeer romantico della prima parte della carriera. Come vedete non sparo basso ma l’amico merita. Tra i “contemporanei” quello con cui vedo più analogie ed unità di intenti musicali è Joe Henry, sarà l’uso della tromba, saranno certe atmosfere vagamente jazzate ma secondo me Darden Smith è anche più bravo dell’ottimo Henry che mi piace moltissimo sia come cantante che come produttore e al quale non saprei trovare difetti, beh forse uno, aver sposato la sorella di Madonna, ma nessuno è perfetto e poi se a lui piace saranno affari suoi.

Tornando a questo disco, narra la storia di Marathon una piccola cittadina texana che è però un pretesto per quello che lui racconta come “Un luogo della mente, qualche parte dove volevo andare e un luogo che non potevo raggiungere. Il deserto mi ricorda tutto ciò: è arido e duro. Sei da solo là fuori. E’ scoraggiante ma ne sono attratto!”

Quello che sembra il rumore di un treno e una sirena (ma forse è un pick-up o un camion) apre il disco e lo chiude come fosse un viaggio. Il primo brano Sierra Diablo è una meraviglia della Canzone, il piano e l’organo di Michael Ramos (che è texano pure lui e ha suonato con Mellencamp e BoDeans ma da anni è compagno di avventura di Smith e che cura anche la produzione dell’album) costruiscono una struttura sonora densa e raffinata, con l’ottimo bassista Roscoe Beck (vi cito solo tre con cui ha suonato e ho detto tutto, Robben Ford, Eric Johnson e Leonard Cohen, perché i nomi sono importanti, non è solo noziosismo) e il batterista J.J.Johnson (anche lui di Austin, suona nella band di John Mayer). A questo punto basta parentesi, se no ne devo aprire una quadra, gigantesca per contenerle tutte. Torniamo al brano: si diceva di questa atmosfera musicale raffinata e assai ricercata che avvolge la voce calda e partecipata di Smith nella sua descrizione di questa Sierra Diablo, luogo vero o della mente che sia la musica ti affascina.

Michael Ramos è anche un ottimo virtuoso dell’accordion e lo dimostra nella successiva Bull by the horns, dove ritmiche rock più energiche si uniscono al suono della fisarmonica. Gli undici brani principali sono uniti fra loro da alcuni intermezzi strumentali come l’affascinante Vertigo ancora per piano e fisarmonica.

Delle vigorose pennate di una chitarra acustica suonata dallo stesso Darden Smith (che suona anche il piano) ci introducono ad un altro brano magnifico Don’t It Go To Show dove l’eclettico Ramos aggiunge ai suoi strumenti anche una evocativa tromba che va ad affiancare l’accordion già citato e l’agile sezione ritmica per un brano che non ha nulla da invidiare ad alcuni momenti tra i più gloriosi dei citati Cockburn  e dell’ultimo Joe Henry (sarà la tromba?). Made It back to you è una bellissima ballata che ci spedisce dritti filati nella California degli anni ’70 e del Jackson Browne più malinconico ma anche sulle coordinate sonore di altri cantautori texani, non dimentichiamo che nel suo album d’esordio partecipavano Nancy Griffith e Lyle Lovett che di talenti e talento se ne intendono.

Ultimamente sto recensendo molti album dove la pedal steel fa la sua bella figura: anche in questo disco e in particolare nel brano Mortal Coil appare questo strumento affidato all’ottimo Mike Hardwick, tra l’altro utilizzato non nella sua forma più vicina al country ma come strumento di coloritura del suono per aggiungere spessore sonoro alle percussioni, alla chitarra acustica e al contrabbasso in un brano prettamente acustico ma sempre avvolgente nei suoi risultati finali.

Dopo un altro breve intermezzo strumentale ci tuffiamo di nuovo nella raffinata Truth Of The Rooster caratterizzata ancora dal suono della tromba e del piano e della voce più sussurrata di Darden Smith che ha delle improvvise aperture ma rimane molto cockburniana in questo brano e quindi a maggior ragione affascinante, i deserti texani e le vaste distese nevose del Canada evidentemente hanno dei punti in comune (a proposito di canadesi, il buon Darden ha imparato a suonare la chitarra studiando ogni singolo brano di Harvest e After The Gold Rush di Neil Young).

That water esce pari pari dal songbook di Leonard Cohen: Smith per l’occasione, nella parte iniziale, canta con una tonalità bassa e profonda, quasi recitata che ricorda moltissimo quella del citato Cohen.

Over my beating heart con una bella chitarra elettrica con il vibrato a dividersi con il piano le trame sonore è un brano più aperto, allegro mi pare troppo, diciamo più movimentato. breve ma intenso come sempre.

Escalator con il suo inizio di chitarra acustica pizzicata potrebbe ricordare certe atmosfere malinconiche del citato Nick Drake, magari quello di Bryter Layter anche se la tromba non era tra gli strumenti utlizzati e il brano nel prosieguo assume calde tonalità quasi messicane, in ogni caso un bellissimo brano. 75 Miles of Nothing, già dal titolo è una canzone “desertica”, giocata sui vibrati di chitarre e steel che circondano la voce misteriosa di Smith.

Ci avviciniamo alla conclusione del viaggio, l’ultimo intermezzo, preceduto e percorso da treno e sirena si chiama Tinaja, mentre la conclusiva, maestosa No One Gets Out Of here è un altro fulgido esempio delle capacità compositive di questo magnifico compositore, serena e malinconica conclude alla grande un disco che mi sento di consigliarvi quasi accoratamente. Uno dei casi in cui la ricerca vale la pena di essere fatta! Quello che trovate di Darden Smith vale comunque la pena di essere ascoltato, questo è uno dei suoi brani più famosi, suonato ad un tavolo da picnic!! Per la serie ottimizzare i costi.

Rispetto alla richiesta nei Commenti su dove trovare il box di Emerson, Lake & Palmer, io, purtroppo, non ho più il negozio il cui logo campeggia nell’intestazione del Blog e quindi non vi posso aiutare direttamente ma so che il cofanetto è stato importato regolarmente anche in Italia per cui si dovrebbe trovare abbastanza facilmente anche a un prezzo piuttosto contenuto (occhio se vi chiedono cifre elevate perché vi stanno turlupinando!).

Bruno Conti

Blues, Boogie And Roll! Rick Holmstrom, John “Juke” Logan, Stephen Hodges – “Twist-O-Lettz

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RICK HOLMSTROM, JOHN “JUKE” LOGAN, STEPHEN HODGES

Twist-O-Lettz

Mocombo Records

***1/2

Diventa sempre più difficile fare dei dischi di Blues interessanti: o sei un Padreterno o uno dei grandi del blues (ma a questo punto hai i tuoi annetti e quindi o vivi di rendita con dischi “tributo” o Live with friends e l’occasionale colpo di genio, tipo l’ultimo B.B. King prodotto da T-Bone Burnett). In caso contrario ti devi inventare o re-inventare qualcosa se non di nuovo almeno di originale.

Rick Holmstrom, che non è più un giovanotto, nato nel 1965 in Alaska (si direbbe uno dei posti meno Blues del mondo), si è fatto lentamente una reputazione come uno dei migliori stilisti della chitarra in circolazione, suonando con vari musicisti blues californiani (dove si era trasferito con la famiglia a metà anni ’80) e in particolare nei Mighty Flyers di Rod Piazza.

Poi nel 1996 con l’album strumentale Lookout e negli anni 2000, i famosi noughties, ha iniziato una carriera solista che lentamente lo ha portato alle luci della ribalta. Devo essere sincero e dirvi che i suoi album (già recensiti sul Busca) non mi hanno mai particolarmente entusiasmato, li ho sempre trovati “bellini”, tecnicamente ineccepibili ma un po’ come dire, turgidi. Faccio mea culpa, sulla scia di questo album in trio e delle ottime performances nelle ultimo bellissimo album di Mavis Staples anche se il disco del 2007, Late In The Night, al di là dell’ottima cover di Dylan continua a non entusiasmarmi.

Ma questo Twist-O-Lettz sì! Cosa è andato a pensare questo diavolo di un Holmstrom (perché l’idea è sua): mi prendo il mio batterista Stephen Hodges, chiamo il mio amico, l’armonicista e cantante John “Juke” Logan (che ha suonato con chiunque, dai Los Lobos a Ry Cooder, Etta James, Lucinda Williams, Dave Alvin, Leon Russell perfino John Lee Hooker e che è matto come un cavallo) e ci chiudiamo in un vecchio studio di registrazione, Pacifica Studio (The ‘Soul Cauldron’) a El Lay, California, tutti, musicisti, strumenti, equipaggiamenti selvaggi e vecchi impianti di amplificazione, microfoni vintage da tutte le parti, appesi al soffitto, nascosti, spariamo l’eco a mille e poi iniziamo a dare fuori da matti e improvvisare.

Il risultato, contro ogni aspettativa (o forse no) funziona alla grande: pensate ai grandi Houserockers di Hound Dog Taylor (indispensabile almeno un suo disco in una discoteca blues che si rispetti) o, in tempi recenti, i Black Keys, due formazioni senza bassista, rispettivamente per il boogie e per il roll, unite il Blues dell’armonica (e della voce) di Logan, la “follia” sonora, almeno in questo disco, di Rick Holmstrom che sperimenta una quantità di sonorità che dal blues originale passano per i primi grandi chitarristi rumoristi (Link Wray e Lonnie Mack, ma anche i Ventures e Cliff Gallup) del rock and roll.

Il risultato,si diceva, in alcuni brani è strepitoso e, in generale di ottima qualità: sentitevi i sei minuti iniziali della cover di The Land Of A Tousand dances di Chris Kenner (il titolo del disco prende il nome dalla sua band), il rollare della batteria, la voce filtrata e urlante, gli effetti di chitarra e il sound potente ma che viene pari pari da un qualche disco di R&R degli anni ’50, l’insieme sprigiona una energia incredibile e richiama, per certi versi, quanto in un ambito più blues facevano gli artisti della Fat Possum, poi quando le apparecchiature fischiano e scoppiettano sembra di essere in qualche laboratorio di sgangherati scienziati di film di serie B.

Anche quando prende il sopravvento l’anima più blues di Logan e la sua armonica fronteggia la chitarra di Holmstrom come nel blues più tradizionale di If I Should Die l’ambito sonoro “live” del disco è sempre presente e loro si divertono come pazzi. Be Home Soon con la bass-harp-from-hell (non sono normali!) di Juke Logan a segnare il ritmo e la chitarra di Holmstrom molto fifties è un altro buon esempio. Ma anche il blues atmosferico di Lone Wolf e quello più classico di Let’s Rock and Roll con la sua anima boogie piacciono.

Waitin’ Too Long è ancora un R&R molto coinvolgente mentre Jukestaposition (che titolo!) è un altro di quei momenti di misurata anarchia sonora, uno strumentale con l’armonica di Logan a duellare ancora una volta con la chitarra di Holmstrom, ma prima che il Rock venisse inventato. Ottimo anche il funky di I’d Like to see e la cavalcata freeform finale dell’ottima Ways of action per citarne ancora un paio ma tutto l’album è una piacevole sorpresa.

Bruno Conti

Un Disco Del Cactus – Ultra Sonic Boogie 1971

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Oggi non ho fatto in tempo a preparare un nuovo post, sto “studiando” il nuovo bellissimo Darden Smith Marathon, ma non era pronto, per cui vi propongo, in anteprima, una delle mie recensioni per il prossimo numero del Busca, a gratis!

CACTUS

Ultra Sonic Boogie 1971

Purple Pyramid Records

***

I Cactus erano stati definiti i Led Zeppelin americani (per la verità si erano autodefiniti così, ancora oggi il loro sito recita Cactus – The American Led Zeppelin): non erano così bravi ma sono stati sicuramente una delle bands più valide dell’hard rock blues dei primi anni ’70.

La formazione, a fine 1969, avrebbe dovuto comprendere Jeff Beck alla chitarra, Rod Stewart alla voce e la sezione ritmica dei Vanilla Fudge, Tim Bogert e Carmine Appice. Poi l’incidente automobilistico di Beck e la susseguente nascita dei Faces di Rod Stewart bloccarono il tutto sul nascere e quella sarebbe stata una formaziocina mica da ridere che avrebbe dato del filo da torcere anche ai Led Zeppelin (la rivalità tra Beck e Page in quegli anni era accesissima). A questo punto Bogert e Appice si sono guardati intorno e hanno scelto Rusty Day, cantante e armonicista che veniva dagli Amboy Dukes di Ted Nugent e il chitarrista Jim McCarthy, il meno conosciuto, che però aveva suonato nei Detroit Wheels di Mitch Ryder e con Buddy Miles. Una formazione più che rispettabile che ha registrato tre ottimi album, Cactus, One Way…Or Another e Restrictions, ha partecipato a molti festival dell’epoca e alla fine del 1971 si è disintegrata consentendo a Bogert e Appice di riunirsi con Jeff Beck.

In quel breve periodo la loro esplosiva miscela di blues, hard rock e una sezione ritmica eccezionale ha permesso loro di avere un buon successo di pubblico e critica e di essere ricordati ancora oggi con piacere dagli appassionati di rock. Qui siamo ad uno show radiofonico alla WLIR di Long Island, per promuovere il nuovo album Restrictions che sarebbe uscito nel novembre del 1971, viene organizzato un concerto ad inviti con il pubblico formato da amici del gruppo agli Ultra Sound Studio a due passi da dove abitavano all’epoca. Quindi atmosfera informale e super rilassata con i musicisti liberi di improvvisare senza problemi in un ambiente che ben conoscevano visto che erano gli studi dove avevano registrato il primo album. Dopo la messa in onda dello show in radio, i nastri originali, come spesso succede, si erano persi nella notte dei tempi e sono stati ritrovati solo recentemente e ora vedono la luce a livello ufficiale.

Qualità sonora più che accettabile e ottimo concerto: 8 brani piuttosto lunghi ed improvvisati con qualche concessione di troppo ad una certo autoreferenzialismo. Per intenderci l’iniziale Evil scorre gagliarda e poderosa tra la voce potente e sorprendentemente efficace (non me la ricordavo così) di Rusty Day e i virtuosismi chitarristici di Jim McCarthy che non hanno nulla da invidiare a quelli dei colleghi del tempo, la sezione ritmica è fantastica con il basso di Bogert e la batteria strabordante di Carmine Appice a legare il tutto, poi dopo 5 o 6 minuti di veemente rock blues scatta l’assolo di batteria che allora era quasi indispensabile e oggi quasi impensabile. Una lunga e rilassata introduzione di Day(sospettosamente troppo rilassata, cosa si era fumato?) ci introduce a Bro.Bill un brano bluesato che faceva parte del primo omonimo album e che suona molto simile alle varie versioni di Spoonful che giravano all’epoca con l’armonica di Day che si aggiunge alla chitarra di McCarthy come strumento solista.

Oleo con la sua introduzione di armonica e il ritmo boogie ricorda molto il groove dei Canned Heat un’altra della grandi band che all’epoca rinverdivano l’epopea del Blues-rock, Jim McCarthy è in grado di passare con disinvoltura anche ad un ottimo stile slide per il suo lungo assolo e il tutto dura quegli 11 minuti, tempo minimo per riscaldarsi.

No Need To Worry era uno dei loro cavalli di battaglia, uno slow blues acido e tiratissimo con una lunga introduzione chitarristica che poi si dipana con grande perizia tecnica per quei 14 minuti che occorrono.

Taken’ Chokin’ l’unico brano sotto i quattro minuti, era il singolo dell’epoca, con la particolarità di Carmine Appice che passa alla chitarra ma è l’unico particolare memorabile del brano. Big mama boogie, un nome un programma è l’ultimo brano del programma e viene diviso addirittura in tre parti, I-II e Outro per un totale di una dozzina di minuti, l’armonica di Day sparisce a momenti nel mixaggio del disco per probabili problemi tecnici ma gli altri per compensare ci danno dentro alla grande.

Un onesto documento sonoro di una ottima band al picco della loro carriera e non ho neppure detto che era un disco del Cactus!

Bruno Conti

Com’è Diventato Vecchio (Ma Bravo)! Lloyd Cole – Broken Record

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Lloyd Cole – Broken Record – Tapete Records Eu/Self-released Usa

Quando escono questi dischi (belli) è come ritrovare un vecchio amico. Ho inizato a frequentare Lloyd Cole quando nel 1984 uscì il primo disco con i Commotions quel Rattlesnakes che ancora oggi fa la sua bella figura, in versione Deluxe, nella mia discoteca. Anzi direi che la conoscenza iniziò con un vecchio vinile 12″, un mix si usava dire, non ricordo se era Perfect Skin o Forest Fire, ma non ha importanza visto che erano entrambe belle canzoni e comunque non li ho più da secoli (problemi di spazio).

Comunque quel disco resiste gagliardamente all’usura del tempo e non è più stato superato da Lloyd Cole e raramente avvicinato a livello qualititivo. Periodicamente ho rinnovato la conoscenza con la sua produzione ma soprattutto negli ultimi anni ho avuto pochi motivi di soddisfazione a parte forse il box di outtakes e rarities Cleaning Out The Ashtrays ma era tutto materiale d’archivio, peraltro ottimo.

Quando ho visto le prime news di questo disco ero piuttosto scettico, le foto ci presentavano un signore ormai quasi 50enne (a gennaio) che da giovane musicalmente sembrava più vecchio di quello che era e che oggi ha raggiunto la parità tra aspetto esteriore ed età anagrafica: ma la musica mi ha convinto pienamente!

Sono solo undici brani, poco più di 35 minuti di musica, ma non c’è una canzone di valore scarso, perfino la stampa inglese che lo ha quasi sempre massacrato gli ha dato quattro stellette come piovesse soprattutto analizzando il contenuto dei suoi testi, ma quelli sono sempre stati e sono rimasti brillanti. L’incipit del primo brano e quindi del disco tutto, quello che recita “Not That I Had That Much Dignity Left Anyway” li ha mandati addirittura in sollucchero.

Ma è la musica che convince. Il suono ritorna quello di un gruppo, con Fred Maher alla batteria, il vecchio pard Blair Cowan che si occupa nuovamente delle tastiere, uno stuolo (va bè ho esagerato, sono 3) di chitarristi tra cui una pedal steel guitar suonata da Bob Hoffnar, che conferma che questo strumento che appare in moltissimi dischi recenti è tornato di moda. E poi c’è Joan Wasser (Joan As A Policewoman per chi la segue con il suo nome d’arte) che si occupa delle deliziose armonie vocali e dei contrappunti vocali femminili nonché di violino, piano e chitarra.

Il risultato, fin dall’iniziale Like A Broken Record, è gioiosamente malinconico (che sembra una contraddizione di termini): la pedal steel e il banjo pizzicato gli conferiscono un suono quasi country,un bel valzerone, ma la voce, che assomiglia moltissimo, tra tanti, al glorioso Al Stewart (non sono stato l’unico a notarlo) ma anche, aggiungo io, a George Harrison (tornato molto in auge tra le influenze attuali dei musicisti), la voce si diceva è tornata sicura e in primo piano con le belle armonie della Wasser. Writers Retreat, con un testo delizioso, ha di nuovo quella perfezione pop dei primi anni, tra mandolini, armoniche e chitarre che si muovono agili su un tessuto sonoro delicato ma forte al tempo stesso (con qualche reminiscenza del suono del primo Rod Stewart, quello di Every picture tells a story).

The Flipside è un’altra stupenda ballata ancora con quelle melodie malinconiche ma solari che erano un marchio di fabbrica del terzo Beatle e che Lloyd Cole fa sue, candidandosi ad ideale erede di quel mondo sonoro. Una più bella dell’altra, Why In The World è un altro bijou sonoro, una perfetta rappresentazione di equlibri sonori, tra canzone d’autore e dolcezze folk-pop. Westchester County jail accelera i tempi e si riavvicina a sonorità più country (ancora la pedal steel) ma di nuovo con quelle fantastiche armonie vocali e una chitarra che sembra provenire da un vecchio disco degli anni ’60 o da un vecchio disco di Lloyd Cole se è per quello, breve ma perfetta.

If I Were A Song dopo un inizio acustico e raccolto si distende di nuovo verso raffinati e complessi arrangiamenti di gran classe e lui canta con una totale nonchalance; in That’s Alright fa la sua comparsa addirittura una certa grinta rock, la batteria arrota i tempi e i musicisti si scompongono un po’, le chitarre ruggiscono, alla Lloyd Cole quindi con la dovuta moderazione, ma in modo comunque trascinante.

Oh Genevieve con la sua saltellante andatura falsamente francese (mais oui) e qualche vocabolo gettato lì con noncuranza è un’altra perfect pop song, la vocina di Joan Wasser si accosta a meraviglia con quella del nostro amico.

Man Overboard si avvicina quasi a stilemi neo-folk da cantautore dei vecchi tempi ma è forse uno dei brani che più ricordano il vecchio Al Stewart che però, soprattutto, nei primi dischi, era molto più bravo in questo genere. (Cercatevi Past, Present and Future che è un disco straordinario).

Infine arriva anche un pezzo di puro country, a partire dal titolo, Rhinestones, con mandolino, banjo e chitarre acustiche che avvolgono la voce di Cole.

Last but not least l’ottima Double Happiness finisce le procedure in gloria. Secondo miglior risultato della sua carriera, per il sottoscritto, forse, poi magari ci ripenso, ma per il momento è così!

Bruno Conti

Ulteriori Dispacci Dalle BasseTerre. Lowlands – Gypsy Child

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Lowlands – Gypsy Child – Gypsy Child Records/Ird

Quando si dice la precisione! L’ultima volta che avevo parlato dei Lowlands in questo Blog ci eravamo lasciati dicendo che il nuovo album, questo Gyspy Child, sarebbe uscito all’inizio dell’autunno e zac, precisi come dei lombardi, il 23 settembre sarà in tutti i negozi (si spera!).

Per cominciare, una precisazione: visto che sia lui che famiglia ed amici tutti si sono preoccupati, ma esisterà ancora, si chiedevano? In effetti nella recensione apparsa in anteprima sul Buscadero (impossibile ma vero), nella lista dei partecipanti al disco vengono citati tutti, ospiti stranieri, componenti della band, inservienti e quant’altro ma, per un refuso o dimenticanza, non appare il nome di Roberto Diana, impegnato come al solito con una miriade di chitarre e co-produttore del disco, che dunque c’è e la sua presenza si sente!

Quindi viene citato prima di Edward Abbiati per riparare al piccolo torto: il co-produttore e cantante e autore anglopavese con i suoi soci affronta, come dicono le riviste inglesi che parlano bene,  “That Difficult Second Album”. Anche se devo dire che  i nostri amici hanno un po’ barato, mescolando le carte e pubblicando una nutrita serie di EP, CD e DVD a tiratura limitata hanno aggirato l’ostacolo e arrivano a questo nuovo album belli freschi e piene di idee.

La prima impressione, al primo ascolto, fatto camminando per strada e sentendolo su un lettore Cd portatile è stata la seguente: “Già finito?”. La seconda pure e via così all’infinito. No, scherzi a parte, i successivi ascolti, più attenti, rivelano ulteriori particolari e dettagli e la bellezza dei brani contenuti, ma la prima impressione, più che positiva è che si tratta di un album che non stanca anzi ne vorresti di più, non ti basta quello che trovi. E cosa trovi nel disco?

Sono undici brani, dicansi undici, senza tracce nascoste, special o Deluxe Editions (un sollievo), solo della sana musica rock, genuina e piena di passione fatta da un manipolo di prodi appassionati che sciorinano le loro influenze vere o presunte con orgoglio e determinazione aiutati da alcuni amici giunti da tutte le contrade del mondo.

Le influenze si diceva: c’è un po’ tutto lo scibile della musica rock che conta (da Brooce a Mike Scott, Dylan, i Green On Red, Steve Wynn per citarne alcuni) e poi come si usa dire loro le “influenze le indossano” anzi di più, le invitano e così abbiamo Chris Cacavas a “rappresentare” i Green On Red e Steve Wynn, Mike Brenner i Marah e i Magnolia Electric Co., Joey Huffman i Soul Asylum, Tim Rogers gli You Am I e Amanda Shires se stessa e Rod Picott. Ovviamente alcuni di questi musicisti non sono delle influenze ma degli amici che condividono le stesse passioni musicali. Poi parlando dei vari brani magari approfondiamo.

Si parte con Gypsy Child che mescola Inghilterra e Stati Uniti con la voce di Edward Abbiati subito protagonista con quel suo timbro sabbioso e ruvido ma capace di grande dolcezza e partecipazione, gli altri si danno un gran daffare, con il violino di Chiara Giacobbe subito protagonista ma anche le chitarre, tante come al solito, acustiche ed elettriche, un pianino insinuante, la batteria che lavora di fino. E poi è un brano che più lo ascolti e più si insinua. Infatti se entrate nel loro sito home.html è lì in agguato che vi attende e a furia di ripetizioni non può non piacervi.

Ma le cose si fanno serie con la successiva Only Rain (il tempo di Pavia?): questo è un brano rock di grande potenza e coinvolgimento, con i fiocchi, i controfiocchi e il pappafico, lungo quei sei minuti che ci vogliono per goderselo appieno, se quello Springsteen evocato prima lo avesse sentito penso che una partecipazione “a gratis” avrebbe potuto pure farla ma anche quell’organo Dylaniano sempre di Huffman dà quel tocco di classe al tutto, poi c’è la chitarra di Roberto Diana che con le sue svisate (si dice così in italiano) ti esalta fino all’assolo liberatorio nel finale. Le continue accelerazioni e il tempo incalzante ti tengono inchiodato alla poltrona ma dal vivo devono essere da pugnetto alzato. Tra l’altro questo brano come il precedente si segnalano per la grande varietà degli arrangiamenti e per il “calore” del sound merito del mixaggio di Cacavas che evidenzia i vari strumenti e la voce di Edward come nei vecchi vinili d’epoca.

In Street Queen torna protagonista il violino di Chiara Giacobbe e la voce di Abbiati si sdoppia tra le tonalità di Mike Scott e quelle di uno Steve Wynn addolcito dalla maturità, solito grande lavoro di Diana alle chitarre e altro brano nettamente sopra la media.

L’aria paesana e folky di Between Shades And Light si divide equamente tra Pogues e Waterboys, con quella fisarmonica avvolgente e il ritmo saltellante della batteria e il violino zingaresco della Giacobbe che aggiunge un tocco mitteleuropeo al brano.

I nomi che generosamente vi elargisco sono solo dei segnali delle sensazioni che i vari brani evocano ma la musica è poi tutta farina del sacco dei Lowlands.

Il piano e l’armonica di Life’s Beautiful Lies ci introducono di nuovo alle grandi pianure del suono americano che vengono poi sorvolate con grande lirismo dalla chitarra di Roberto Diana (grande musicista) e dal violino con un crescendo strumentale che ti lascia quasi senza fiato per la sua bellezza. Veramente grande musica.

Cheap Little Paintings mi ha ricordato (vagamente) atmosfere vicine a De André o agli chansonniers francesi con quella sua andatura maestosa sottolineata da piano e armonica e nobilitata da mandolino (o è un bouzouki?) e slide oltre che da un contrabbasso profondo, affascinante e inconsueta, anche se in un’intervista ho letto che Edward Abbiati ha detto di avere imparato inglese e francese prima dell’italiano, quindi potrebbe…

Without A Sigh ci riporta a quelle atmosfere polverose del rock americano più genuino (chissà se anche il passato australiano di Abbiati c’entra qualcosa? Anche lì in fatto di grandi spazi non scherzano!), con il violino, la chitarra e le tastiere a sostenere con vigore la voce evocativa del leader che ci guida attraverso un altro brano di grande spessore sonoro (il solo di chitarra è breve ma ti dà quel giusto brividino lungo la schiena!).

He Left è un breve monologo acustico, solo la voce di Abbiati e una chitarra acustica, per le serate invernali o per i concerti unplugged, per ampliare il repertorio o per un (lontano) futuro da cantautore.

Altro grande brano, There’s A World, Con una lap steel in grande evidenza (o è una pedal steel? strumento giustamente e nuovamente sdoganato, nei dischi recenti di Dylan Leblanc e Caitlin Rose come vi dicevo recentemente ma anche nel nuovo Lloyd Cole come vi riferirò prossimamente, fine della digressione): ma non è solo la chitarra, anche le tastiere di Huffman nuovamente in grande spolvero e la voce appassionata che evidenzia le belle armonie e un ritornello ricorrente, potremmo dire per parafrasare il sound del disco “Arrangiamento ricco mi ci ficco”.

Gotta Be ospita il lavoro di armonica di un altro ospite “fisso” del gruppo, l’ottimo James Hunter, bluesata e tirata, con un minaccioso wah-wah in sottofondo ( o è una slide distorta?) potrebbe essere l’ideale conclusione di un concerto se il disco fosse da vivo visto l’energia che trasmette.

Invece la conclusione è affidata alla dolce e malinconica Blow, Blue Wind Blow una ballata acustica a pastello, con la seconda voce e il Violino (è lei o non è lei?) di Amanda Shires in prestito dal compagno di avventure musicali Rod Picott.

Come vi dicevo peccato finisca così presto (ma dura i suoi bei 42 minuti!), non vi rimane che rischiacciare il tasto play e ripartire per l’avventura. Come ho già detto in relazione all’ultimo Tom Petty (quindi ottima compagnia) con una efficace allocuzione lombarda “Insci Aveghen!) – Averne Così per gli abitanti sotto la linea gotica.

Bruno Conti

Felice Come Una Pasqua! Joe Pug, Elvis Costello & Levon Helm Band

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Visto che ricevo sempre le notizie dalla sua mailing list, in questa pagina trovate un po’ di suoi filmati tra cui questo. Lui è Joe Pug, l’ultimo dei “Nuovi Dylan” e qui si avvicina, per interposta persona, al suo modello.

Per chi non lo conosce il-nuovo-bob-dylan-forse-ci-siamo-joe-pug-messenger1.html.

Questo filmato con una bimba bionda sul palco (si fa per dire!) è stupendo!

Bruno Conti

Provare Per Credere! Eric Clapton – “Clapton”

 

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Eric Clapton – “Clapton” – Reprise/Warner Music 28-09-2010

Detto fatto, eccomi qui, l’ho ascoltato un paio di volte e applicando il metodo San Tommaso dopo averlo provato devo dire che “credo”!

Non è il capolavoro assoluto che si poteva desumere da alcune anticipazioni ma in confronto a Back Home e Reptile non c’è gara. Clapton ha ormai superato quella fase degli anni ’80 in cui per poter rimanere sotto contratto con la Warner (e non rischiare di fare la fine dei colleghi Van Morrison e Joni Mitchell bruscamente messi alla porta) si era adattato allo “stile sonoro” impersonificato dall’amico Phil Collins e realizzando dischi come Behind The Sun e Journeyman si era ritagliato uno spazio nelle classifiche di quegli anni ma non nei cuori dei suoi ammiratori più fedeli.

Poi, negli anni 2000, libero dalle ansie da classifica ha deciso di dedicarsi a un recupero del suo passato: prima la reunion dei Cream, poi il tributo a Robert Johnson, i dischi di duetti con B.B.King e JJ Cale, prima la tournée e poi il disco e il Dvd con l’amico Stevie Winwood ritrovato in uno di quei Crossroads Festival dove ogni tre anni può indulgere in virtuosismi chitarristici con uno stuolo di amici suoi e dello strumento per antonomasia del blues, del rock e di qualsiasi altro genere vi venga mente,

Placati i suoi e nostri desideri di sentirlo suonare come Dio comanda, gli mancava un bel disco di quelli che si è soliti definire roots (ma le sue radici), tipo gli ultimi di Robert Plant per intenderci (anche se più roots di un disco di brani di Robert Johnson è dura). Allora non essendo T-Bone Burnett disponibile (scherzo, non so se l’abbia contattatto, non credo perchè ormai sta diventando come il prezzemolo, è ovunque, con ottimi risultati per l’amor di Dio, e comunque non credo che avesse il tempo materiale per farlo) ha deciso di fare in proprio.

Presentato come il primo disco che contiene materiale originale dai tempi di Back Home in effetti ha solo un brano nuovo firmato da Eric Clapton, Run back to Tour Side, curiosamente quello dove la chitarra viaggia di più, il più blues-rock del disco, quello che ricorda di più lo Slowhand degli anni ’70 con Doyle Bramhall che lo spalleggia alla seconda solista slide e il suo gruppo, con gli ottimi Jim Keltner alla batteria, Willie Weeks al basso e Walt Richmond alle tastiere gira a pieno regime con risultati eccellenti, non male anche i classici coretti di voci femminili.

Per il resto sono tutte cover con l’eccezione del brano firmato da Doyle Bramahll con Justin Stanley e la moglie Nikka Costa, Diamonds Made From The Rain, una bella ballata cantata in coppia con la sua ex Sheryl Crow il potenziale singolo, un brano lento nello stile tipico di Clapton che ci delizia anche con un paio di gustosi assoli (il suo marchio di fabbrica) mentre l’organo e una sezione di archi lo rendono molto raffinato, comunque una bella canzone che sfugge certe caramellosità del passato e il sound tamarro di alcuni dischi.

Dunque le cover: qui si spazia attraverso tutto lo scibile umano e anche oltre. Si va dallo shuffle dell’iniziale Travelin’ Alone dove Keltner si inventa uno strano ritmo strascicato e il buon Enrico trattiene la sua chitarra entro i limiti di un blues molto canonico senza concessioni al rock, watch?v=lODvwaqxiV4,  si passa poi a Rocking chair un classico firmato da Hoagy Carmichael molto jazzy dove si fa aiutare, in punta di plettro, da Derek Trucks e JJ Cale, e proprio di quest’ultimo ricorda lo stile pigro e indolente.

JJ Cale che è anche l’autore di Rivers Run Deep e che è inconfondibilmente sua, ma Clapton come sempre quando interpreta Cale ci aggiunge una maggiore energia e degli elementi di coloritura, in questo caso una sezione di archi della London Session Orchestra, un organo insinuante suonato da Richmond e la batteria più grintosa, oltre al suo timbro chitarristico più “grasso”. Arrangiamento delizioso. Judgement day non è quella di Robert Johnson, si tratta di un brano scritto da Snooky Pryor, un blues molto “classico” con il collega Kim Wilson all’armonica che aggiunge una patina di vissuto molto autentica confermata dall’arrangiamento doo-wop delle armonie vocali, un tocco di classe.

How Deep Is The Ocean è un altro brano che fa risalire la sua origine agli anni ’30 (Clapton aveva detto in alcune interviste che in questo disco voleva inserire tutti i suoi amori musicali giovanili, quindi oltre al blues la grande musica americana, non era un amante del pop nella sua gioventù londinese): il brano firmato da Irving Berlin, cantato con voce melliflua da Clapton si avvale di un altro arrangiamento raffinatissimo, ancora gli archi, il piano di Richmond e un assolo di chitarra elettrica che allora non veniva ancora usata, nel finale Wynton Marsalis aggiunge un assolo di tromba cristallino in puro stile Armstrong, la batteria spazzolata e il contrabbasso aggiungono autenticità al suono. Chi li avrebbe mai detto? Ma il buon Enrico l’aveva detto varie volte e nell’unplugged c’erano dei segnali in tal senso.

My Very Good Friend The Milkman è ancora più autentica, puro New Orleans style, ma quello delle origini, è stato un successo di Fats Waller e quindi doppia razione di pianisti, con Clapton deliziato che introduce da smaliziato crooner prima Walt Richmond e poi Allen Toussaint, con la sezione di ottoni formata da Wynton Marsalis e Trombone Shorty che si dividono amabilmente i compiti, direi perfetta.

Torna Kim Wilson per un altro omaggio ad uno dei grandi dell’armonica, Little Walter, Can’t Hold Out Much Longer è blues Claptoniano di quello quintessenziale che parte dagli Yardbirds e Mayall per arrivare ai giorni nostri passando per Muddy Waters ed il blues tutto.

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Clapton e Cale duettano ancora in un’altra piccola perla chiamata That’s No Way To Get Along scritta da un altro bluesman oscuro (per i non appassionati) Robert Wilkins: se agli altri viceversa risulta familiare, fans degli Stones in particolare, è perché sotto il nome di Prodigal Son faceva la sua bella figura su Beggars banquet, Doyle Bramhall II sale al proscenio con una bella serie di assoli alla slide mentre Clapton e Cale si “limitano” ad accompagnare. Nel finale scappano anche dei fiati in libertà.

Everything Will Be Alright segna la quarta ed ultima apparizione di JJ Cale, l’arrangiamento con una sezione di archi e fiati è molto corposo e vivacizza il solito stile laidback dell’autore, all’organo c’è Paul Carrack. Di Diamonds Made From Rain che è il singolo tratto dall’album abbiamo detto, comunque confermo, molto bella!

Visto che il primo è venuto bene Clapton ci propone un altro brano del 1935 di Fats Waller, When Somebody Thinks You’re Wonderful, qui l’effetto New Orleans è ancora più marcato, con Marsalis, Richmond e Toussaint che danno il meglio di sé in un brano swingante e delizioso.

Per Hard Times Blues un blues scritto da quell’oscuro bluesman di nome Lane Hardin di cui non esistono foto note, Clapton sfodera addirittura il mandolino che affianca alla sua chitarra e alla slide di Bramhall per un sentito omaggio al Blues dei tempi della Grande Depressione. Se la parola Blues ricorre più volte in questo paragrafo è del tutto voluto!

Di Run back to your side abbiamo detto: aggiungo che secondo alcuni in questo brano c’è anche Derek Trucks che nella lista di musicisti fornita dalla casa discografica non appare, ma potrebbe essere visto che sicuramente in tre brani non c’è Jim Keltner sostituito alla batteria da Abe Laboriel Jr (quello del gruppo di Paul McCartney, la personcina per intenderci) in due brani e da Herman Labeaux nel New Orleans style di When somebody…Secondo altri ci sarebbe pure Stevie Winwood ma non credo, con tutti i tastieristi presenti.

Conclude le operazioni Autumn Leaves che sarebbe l’adattamento americano fatto da Johnny Mercer di Les Feuilles Mortes. Certo che non avrei mai creduto di sentire Eric Clapton cantare, e pure bene, Le Foglie Morte. Strano ma vero e da sentire i due assoli, prima alla acustica e poi all’elettrica, raffinattissimi, d’altronde la classe non è acqua! Il brano è stato scritto l’anno in cui Clapton nasceva, coincidenza?

Contrariamente a quanto annunciato esiste una versione Deluxe con CD oro 24 carati, libretto di 16 pagine, litografia, foto, acquistabile solo sul sito di Clapton alla modica cifra di 40 dollari più spese di spedizione. Non manca la classica bonus track You Better Watch Yourself. Ma non è tutto chi acquista il CD per il download su iTunes trova un’altra bonus track, diversa, I Was Fooled, Che palle, aggiungo io!

Nonostante tutto ciò l’allievo Clapton è promosso (a parte la pettinatura), un bel 7,5!

Bruno Conti