I 50 Anni Sono Passati Da Qualche Tempo, Ma Loro Continuano A Festeggiare! Kim Simmonds And Savoy Brown – Still Live After 50 Years Volume 2

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Kim Simmonds And Savoy Brown – Still Live After 50 Years Volume 2 – Panache Records             

Continua ininterrotta la serie di album relativi ai Savoy Brown, sia CD nuovi, come il recente, eccellente City Night, come pure dischi di materiale dal vivo, pubblicati dalla etichetta personale di Kim Simmonds, la Panache Records, che spesso però ripropone i dischi anche più volte, come è il caso di questo Still Live After 50 Years Volume 2, che già aveva circolato nel 2017 e ora esce di nuovo con una diversa distribuzione europea e, come da titolo, è la seconda parte di un concerto tenuto da Simmonds e soci al Paradise Theatre di Syracuse, NY il 12 aprile del 2014. Con la formula del power trio, insieme a Kim ci sono i compagni abituali degli ultimi dieci anni, Garnett Grimm alla batteria e Pat DeSalvo al basso. Repertorio che pesca sia da brani originali come da classici del blues: Nothin’ But The Blues è un pezzo originale di Simmons che era proprio sul disco del 2014 Goin’ To the Delta, la voce diciamo che è diventata “adeguata” negli anni ma nulla più, il leader dei Savoy Brown non è mai stato un grande cantante, ma compensa abbondantemente con la sua abilità riconosciuta alla chitarra, in questo pezzo cadenzato nello stile tipico della band fondatrice del British Blues.

 

Monday Morning Blues è un vecchio brano di Lowell Fulson, estratto da Steel del 2007, buona versione come la precedente, ma nulla di memorabile; Kim poi passa all’acustica per una cover di Shot In The Head, un vecchio brano che era su Lion’s Share del 1972, canzone scritta da Young e Vanda, la coppia alle spalle degli Easybeats e poi a lungo con gli AC/DC, versione noiosetta. Meglio I’m Tired di Chris Youlden, da A Step Further, uno dei loro capolavori, la versione parte con il freno a mano tirato, ma poi Simmonds comincia a lasciarsi andare con una lunga improvvisazione della solista, qualità che viene ribadita in Black Night, una canzone tratta da Shake Down, il loro primo album del 1967, per festeggiare in anticipo i 50 anni di carriera, anche questa versione, con l’acustica, non soddisfa del tutto. Viceversa un altro cavallo di battaglia come Street Corner Talking erutta dalle casse a tutto riff nella propria potenza elettrica non intaccata dal passare degli anni , quasi 10 minuti anche con variazioni jazzy nella parte centrale; Ride On Baby pesca sempre dal vecchio repertorio, Jack The Toad del 1973, con Simmonds che passa alla slide per un’altra gagliarda dimostrazione del loro poderoso blues-rock, compresa una dimostrazione della sua abilità all’armonica, prima di congedare il pubblico con un estratto dal lunghissimo medley Savoy Brown Boogie che occupava una intera facciata di A Step Further, qui c’è solo la parte di Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, presa comunque a tutta velocità con la sezione ritmica che permette a Simmonds di improvvisare da par suo.

In definitiva un buon album complessivamente, anche se ci sono in giro dei dischi dal vivo migliori dei Savoy Brown, ma accontentiamoci.

Bruno Conti

La “Saga” Degli Orphan Brigade Sbarca In Irlanda – To The Edge Of The World

orphan brigade to the edge of the world

Orphan Brigade -. To The Edge Of The World – Appaloosa/Ird

Prosegue il meritevole viaggio musicale dei bravi Orphan Brigade, iniziato con la registrazione in una casa coloniale del Kentucky, e precisamente la Octagon Hall, con l’ottimo Soundtrack To A Ghost Story, proseguita nelle strade di Osimo, tra le caverne e le catacombe della ridente cittadina marchigiana, con Heart Of The Cave https://discoclub.myblog.it/2017/10/12/dal-kentucky-ad-osimo-la-magia-continua-the-orphan-brigade-heart-of-the-cave/ , fino poi ad arrivare, in una ideale trilogia, con questo ultimo lavoro To The Edge Of The World, alle belle coste della verde contea di Antrim. Come nei dischi precedenti gli Orphan Brigade, che sono sempre Ben Glover alla chitarra acustica e voce, Neilson Hubbard alla chitarra, batteria, percussioni, tastiere, voce, nonché produttore dell’album, Joshua Britt al mandolino, chitarra acustica e voce, compongono le canzoni sul posto, avvalendosi poi anche di validi musicisti locali quali Colm McClean alla pedal steel, Conor McCreanor al basso, Barry Keer al flauto e cornamusa, Danny Mitchell al piano, Marla Gassmann al violino, Bestie Whirter all’organo, le brave coriste Lorna, Karen e Joleen McLaughlin, e come ospite John Prine, per un nucleo di brani che non sono altro che 14 brevi racconti tra musica tradizionale e nuove sonorità.

L’introduzione del disco è una breve Pipes’ suonata dalla cornamusa di Barry Kerr, seguita dalle percussioni al ritmo da Bo Diddley “style” di una grintosa Mad Man’s Window, per poi scoprire gli intriganti e stranianti ululati di una “tribale” Banshee, registrati a mezzanotte nella foresta di Glenarm, fare in seguito un salto nel cimitero della chiesa di St.Patrick per cantare una celtica Under The Chestnut Tree, mentre con la danzante Dance With Me To The Edge Of The World, eseguita sulle scogliere del castello di Kinbane, è proprio impossibile non muovere il “piedino”. Si riparte con le chitarre acustiche di una dolce Children Of Lir, per poi far salire su una barca il grande John Prine, e dirigersi verso la baia di Glenarm, per cantare in duetto con lui una splendida ballata come Captain’s Song (Sorley Boy), scivolare ancora sulle note del mandolino di Joshua Britt, nel tenue valzer Isabella, cambiare totalmente ritmo con il “country celtico” di una song irlandese come St.Patrick On Slemish Mountain, che introduce il secondo breve intermezzo musicale, una Bessie’s Hymn giocata sull’organo della McWhirter.

La parte finale del lavoro ci porta infine sulle spiagge di Cushendun, con la corale e danzante Fair Head’s Daughter, la ripresa di una breve To The Edge The World, cantata con il supporto del Children’s Choir, trasferirsi nel convento di Bonamargy nel Ballycastle per ballare sulle panche una marcia nuovamente “tribale” come Black Nun, e andare a chiudere sulle strade della foresta di Glenarm, accompagnati dalla dolce nenia di un flauto, nella spettrale e catartica Mind The Road, cantata da Ben Glover. Il gruppo americano/irlandese, con questo To The Edge Of The World continua il suo viaggio per il mondo, con un modo attualmente unico di fare musica, una sorta di concept-albums sempre alla ricerca di storie e ispirazioni, con un giusto equilibrio tra arrangiamenti tradizionali e le nuove sonorità, che è il marchio di fabbrica della band. Gli Orphan Brigade non sbagliano un colpo, e come nei lavori precedenti c’è della magia in questo disco, suonato come Dio comanda, con testi intrisi di storia e commozione che ti entrano nell’anima e questo li rende unici e affascinanti. To be continued …

*NDT: Al solito una menzione speciale per la gloriosa etichetta italiana Appaloosa che ha pubblicato il CD, con allegato un libretto arricchito dai testi in inglese e con ottime traduzioni italiane.

Tino Montanari

Cofanetti Autunno-Inverno 12. Quando Robbie Robertson Scriveva Grandi Canzoni…E Le Faceva Cantare Agli Altri! The Band – The Band 50th Anniversary

The Band The Band 50th anniversary edition

The Band – The Band 50th Anniversary – Capitol/Universal Deluxe 2CD – Super Deluxe 2CD/2LP/BluRay/45rpm Box Set

Il titolo del post odierno è volutamente riferito alla carriera solista di Robbie Robertson ed in particolare al suo recente album Sinematic, nel quale il songwriter canadese ha dimostrato di avere praticamente esaurito la sua vena artistica ed anche la poca voce che aveva https://discoclub.myblog.it/2019/10/01/non-e-un-brutto-disco-ma-nemmeno-bello-robbie-robertson-sinematic/ . Ma c’è stato un tempo, tra il 1968 ed il 1970, in cui Robbie era probabilmente il miglior autore di canzoni al mondo e non aveva bisogno di usare la sua non imperdibile voce per farle ascoltare in quanto era a capo di quel meraviglioso gruppo denominato The Band. Già noti nell’ambiente per aver suonato prima con Ronnie Hawkins e soprattutto con Bob Dylan nel famoso tour del 1966 quando ancora si chiamavano The Hawks, i nostri avevano esordito nel 1968 con il celeberrimo Music From Big Pink, un capolavoro in tutto e per tutto ed uno degli album più influenti negli anni a venire https://discoclub.myblog.it/2018/07/04/grandissimo-disco-ma-questa-edizione-super-deluxe-piu-che-essere-inutile-sfiora-la-truffa-the-band-music-from-big-pink-in-uscita-il-31-agosto/ , capace di colpire a tal punto un giovane Eric Clapton da convincerlo a mettere da parte il tanto amato rock-blues, lasciare i Cream ed iniziare la carriera solista. Dare seguito ad un capolavoro non è mai semplice, ma la Band con l’omonimo The Band del 1969 (detto anche The Brown Album per il colore della copertina) riuscì a fare addirittura meglio, mettendo a punto un lavoro che oggi è giustamente considerato come una pietra miliare del rock mondiale ed uno dei classici dischi da isola deserta.

Ai giorni nostri è quasi un’abitudine avere a che fare con album del genere cosiddetto Americana con all’interno brani che mescolano stili diversi, ma dobbiamo pensare che a fine anni sessanta un certo tipo di sonorità in pratica non esisteva, e la Band fu tra le prime e più importanti realtà a fondere con la massima naturalezza rock, country, folk, blues, errebi, soul, ragtime, bluegrass, gospel e chi più ne ha più ne metta, creando un suono “ibrido” che ancora oggi viene citato come ispirazione fondamentale da intere generazioni di musicisti. Anche i testi delle canzoni erano in aperto contrasto con quanto andava di moda allora (non dimentichiamo che eravamo nel pieno della Summer Of Love), trattando di argomenti poco “cool” come storie di frontiera, la guerra di secessione, i grandi luoghi geografici degli Stati Uniti, o anche della vita rurale di tutti i giorni nelle piccole realtà di provincia da parte di comunità con forti valori religiosi: lo stesso look del gruppo ricordava una piccola congrega di Amish dei primi del novecento. E poi ovviamente c’erano i membri del quintetto, tutti quanti musicisti di primissimo piano: Robertson oltre ad un grande autore era (è) anche un chitarrista coi fiocchi, i tre cantanti Levon Helm, Richard Manuel e Rick Danko, oltre ad essere capaci di splendide armonie erano anche validissimi polistrumentisti, mentre Garth Hudson è sempre stato una sorta di direttore musicale e leader silenzioso, abile com’era nel suonare qualsiasi cosa gli passasse davanti.

The Band (registrato a Los Angeles e co-prodotto da John Simon, quasi un sesto membro del gruppo) è quindi un album in cui si sfiora la perfezione come raramente è successo altrove, ed è anche il primo lavoro dei nostri con solo materiale originale: se Music From Big Pink aveva come brano portante un capolavoro come The Weight, qui troviamo altri due classici che non sono certo da meno, ovvero le straordinarie The Night They Drove Old Dixie Down e Up On Cripple Creek (entrambe cantate da Helm), due canzoni che la maggior parte degli artisti non scrive in un’intera carriera. Ma il disco è anche (molto) altro, come la saltellante apertura con il notevole errebi Across The Great Divide, il trascinante cajun-rock Rag Mama Rag, la ballata rurale in odore di ragtime When You Awake, la toccante soul ballad Whispering Pines, caratterizzata dalla voce vellutata di Manuel, il rock’n’roll da festa campestre Jemima Surrender. E ancora la folk song modello Grande Depressione Rockin’ Chair, il boogie alla Professor Longhair Look Out Cleveland, il rock-got-country-got soul Jawbone, la lenta e pianistica The Unfaithful Servant, un piccolo capolavoro di equilibrio tra roots e dixieland, e l’elettrica e funkeggiante King Harvest (Has Surely Come). Per il cinquantesimo anniversario di questo album fondamentale la Capitol lo ha ripubblicato con un nuovo mix di Bob Clearmountain ed il remastering a cura di Bob Ludwig, arricchendo il tutto con diverse bonus tracks interessanti.

Il cofanetto comprende due CD, due LP, un 45 giri con Rag Mama Rag e The Unfaithful Servant, un BluRay audio con le configurazioni in surround 5.1 ed in alta risoluzione del disco originale oltre al solito bel libro con un saggio del noto giornalista rock Anthony DeCurtis (niente parentela con il nostro Totò) e varie foto rare. Un’edizione molto migliore di quella dello scorso anno riferita a Music From Big Pink, che offriva ancora meno a livello di bonus della ristampa del 2000: mi sento però di affermare che è sufficiente la versione in doppio CD, dato che per un costo decisamente inferiore (è anche a prezzo speciale) avete esattamente gli stessi contenuti musicali del box. Nel primo dischetto oltre ovviamente alle dodici canzoni originali abbiamo sei bonus tracks inedite: si inizia con una prima versione di Up On Cripple Creek non molto diversa da quella pubblicata, due takes alternate di Rag Mama Rag, più lenta e countreggiante e col piano grande protagonista, e di The Unfaithful Servant, meno rifinita ma già bellissima. Seguono due interessanti mix strumentali di Look Out Cleveland ed ancora Up On Cripple Creek ed una eccellente Rockin’ Chair acustica con le voci all’unisono. Il secondo CD ripropone le sette tracce aggiunte nell’edizione del 2000, cioè l’ottima rock song Get Up Jake, una outtake che aveva tutti i requisiti per finire sull’album, due mix alternativi di Rag Mama Rag e The Night They Drove Old Dixie Down (il primo dei quali con una traccia vocale diversa), e quattro versioni differenti di Up On Cripple Creek, Whispering Pines, Jemima Surrender (questa anche più coinvolgente di quella pubblicata nel 1969) e King Harvest (Has Surely Come).

Ma la chicca del secondo CD è l’esibizione completa del quintetto durante il terzo giorno del Festival di Woodstock nell’Agosto dello stesso anno, uno show che non presentava alcun riferimento al loro secondo album che sarebbe uscito poco più di un mese dopo. Un vero must, anche perché in tutti questi anni non era mai trapelato nulla di ufficiale da questa performance, a meno che come il sottoscritto non possediate una delle 1969 copie del cofanetto di 38 CD Back To The Garden. A tal proposito, invece di ri-recensire il concerto della Band, ripropongo qui di seguito quanto scritto lo scorso Settembre nel mio post a puntate sul megabox: The Band. A mio parere la chicca assoluta del box, dato che per 50 anni non era mai uscita neppure una canzone dal set del gruppo canadese. Ed il quintetto di Robbie Robertson non delude le aspettative, producendo un concerto in cui fa uscire al meglio il suo tipico sound da rock band pastorale del profondo Sud; solo tre brani originali (l’iniziale Chest Fever, la meno nota We Can Talk ed il capolavoro The Weight), un paio di pezzi di derivazione soul (Don’t Do It e Loving You Is Sweeter Than Ever), altrettanti standard (Long Black Veil e Ain’t No More Cane, entrambe splendide) e ben quattro canzoni di Dylan (Tears Of Rage, emozionante, This Wheel’s On Fire, Don’t Ya Tell Henry e I Shall Be Released, che diventa quindi l’unico brano ripreso nei tre giorni da tre acts diversi). Gran concerto, e d’altronde i nostri, oltre ad essere di casa a Woodstock, erano nel loro miglior periodo di sempre.

Una ristampa quindi imperdibile di un album già leggendario di suo (e, come ho già scritto, potete accontentarvi del doppio CD): se dovessi stilare una Top 10 dei migliori dischi di tutti i tempi, i prescelti per tale classifica potrebbero variare nel tempo a seconda del mio stato d’animo o di altri fattori, ma credo che uno spazio per The Band lo troverei sempre.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 11. Dopo Quasi 50 Anni Le Due Strepitose Serate Della “Banda Degli Zingari” Al Completo. Jimi Hendrix – Songs For Groovy Children The Fillmore East Concerts

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Jimi Hendrix – Songs For Groovy Children The Fillmore East Concerts – 5 CD Sony Legacy Boxset

La storia di questi quattro concerti è una delle più travagliate del percorso musicale di Jimi Hendrix. I Band Of Gypsys sono in un certo senso la prosecuzione dei Gypsy Sun and Rainbows, la band che Jimi aveva assemblato per partecipare al Festival di Woodstock, dopo lo scioglimento degli Experience, reso effettivo nei primi mesi del 1969. Nel gruppo che suonò a Woodstock c’era il vecchio amico Billy Cox al basso: una amicizia nata durante il servizio militare e poi coltivata anche con saltuarie collaborazioni musicali, che approdano, dopo Woodstock, nell’idea di formare un nuovo ensemble, i Band Of Gypsys, che avrebbe permesso a Hendrix di coltivare anche la sua passione per la musica “nera” senza abbandonare l’idea di sperimentare, sempre presente nella sua visione della musica, e quindi viene approcciato Buddy Miles, già batterista degli Electric Flag e leader di un proprio gruppo Buddy Miles Express, che nel 1968 aveva pubblicato un disco Expressway To Your Skull, che nelle note di copertina riportava un breve poema di Jimi, che poi produsse il disco successivo Electric Church, in entrambi gli album Miles era anche il cantante.

Quindi sia affinità elettive, tutti e tre erano neri, che musicali, l’amore per  il soul, il funky, ma anche il rock, come anche di amicizia: un altro fattore importante nella nascita di questa nuova formazione era anche il fatto che Jimi Hendrix doveva un disco alla Capitol per quel contratto incautamente firmato ad inizio carriera, e quindi decise di organizzare una serie di concerti al Fillmore East di New York, registrarli e poi estrarre dai risultati un disco dal vivo da presentare alla Capitol per soddisfare le clausole del contratto. Cosa che venne fatta, ma essendo Hendrix un grande perfezionista, il tutto venne organizzato in pompa magna, anche per presentare una serie di nuove canzoni che stava creando in quel periodo, oltre a tre canzoni previste per Buddy, e alcune cover e vecchi cavalli di battaglia rivisti nella nuova ottica black della formazione, il tutto venne forgiato in una lunga serie di prove che durarono dalle 12 alle 18 ore ogni giorno nella settimana che precedette i concerti.

jimi hendrix songs for groovy children box

Quindi il 31 dicembre 1969 e il 1° gennaio del 1970 si tennero quattro concerti al Fillmore East di New York, da cui venne estrapolato un LP singolo con 6 canzoni, pubblicato il 25 marzo del 1970, quando la band si era peraltro già sciolta, anche a seguito del concerto del 28 gennaio al Madison Square Garden, quando Hendrix litigò con una donna nel pubblico e il gruppo dopo due sole canzoni lasciò il palco. Comunque di  questi concerti nel corso degli anni sono uscite varie edizioni: il primo Band Of Gypsys aveva 6 canzoni (9 nella edizione in CD), Band Of Gypsys 2 altre sei, Live At the Fillmore East il doppio CD pubblicato nel 1999, un totale di 16 brani, e infine Machine Gun The Fillmore East First Show, uscito nel 2016, ne riportava 11. Questo nuovo cofanetto Songs For Groovy Children contiene un totale di 43 pezzi, nella sequenza originale dei 4 concerti, con 26 tracce “inedite”; alcune apparse nella versione video, altre eliminate da precedenti versioni, e rimixate per la nuova edizione da Eddie Kramer, l’ingegnere del suono del disco originale, altre ancora da cui erano state tolte nell’editing le presentazioni oppure versioni più lunghe e ancora altre già apparse in box e ristampe varie più recenti, e infine 7 brani mai pubblicati prima in nessun formato. Forse è la ristampa migliore delle tantissime uscite nel corso degli anni a cura della Famiglia Hendrix, e comunque la testimonianza di un artista ancora al culmine del suo periodo più ispirato, colto in uno degli aspetti che preferiva, quello dei concerti dal vivo. Vediamo il contenuto, ricordando che nella recensione del CD di Machine Gun del 2016 così scrivevo: “Però quel First Show nel titolo fa presupporre che nel tempo ci saranno sicuramente dei seguiti, prima che fra qualche anno esca un cofanetto The Complete Fillmore Shows che conterrà l’integrale delle due serate, garantito!” Meglio di Nostradamus o facile profeta?

Il primo CD riporta esattamente le 11 canzoni appunto del primo concerto del 31 dicembre: all’epoca  tutte mai pubblicate prima in nessuno disco di Jimi Hendrix: Power Of Soul è subito una esplosione di funky-rock-soul spaziale con Jimi impegnato ad estrarre dal  wah-wah le sue solite sonorità impossibili, mentre le parti vocali sono affidate alla accoppiata Hendrix e Buddy Miles, che ha anche un gran daffare alla batteria, mentre Cox con il suo stile impeccabile al basso tiene ancorato il ritmo, ottima anche la guizzante Lover Man, ancora con wah-wah a manetta, poi le cose si fanno serie con una lunga e potentissima Hear My Train A Comin’, ovvero il blues secondo Hendrix, inarrivabile ed inarrestabile con la sua chitarra sempre impegnata in traiettorie quasi impossibili per gli altri axemen dell’epoca: l’assolo, manco a dirlo è formidabile. Changes il primo brano di Buddy Miles, è la futura Them Changes (celebre anche nella versione dal vivo con Santana del 1972), introduce il funky-rock più carnale ed immediato del batterista vicino alla soul music, ma ovviamente con Hendrix in formazione che imperversa con la sua Fender tra un verso e l’altro e poi parte per la tangente, comunque mai scontato.

Izabella è uno dei brani di Hendrix contro la guerra, futuro singolo per la Reprise nell’aprile 1970, classico brano rock del canone hendrixiano, mentre Machine Gun, canzone che nasce come appendice delle improvvisazioni sullo Star Spangled Banner a Woodstock, diventa uno dei classici assoluti di Jimi, con la chitarra in modalità wah-wah che parte subito per l’iperspazio sostenuta dalle scariche ferine della batteria di Buddy Miles, anche questa con un testo di protesta contro la guerra del Vietnam, brano che veniva già eseguito dall’estate 1969, per la prima volta a Berkeley, presente in tutti i quattro set delle due giornate, con la canzone che si dipana in un crescendo inarrestabile, quasi lavico, della magica solista del mancino di Seattle.

Stop, scritta da Ragovoy e Shuman, era apparsa per la prima volta in un disco di Howard Tate (uno dei grandi “incompresi” della soul music) in un disco del 1967, veicolo ideale per l’accoppiata Buddy Miles e uno stranamente infervorato Hendrix che in un call and response vigoroso  la prendono di petto con una veemenza che l’originale di Tate non aveva, mentre Parliament/Funkadelic,Eddie Hazel, Isley Brothers futuri e molti altri prendono nota. Ezy Rider uscirà solo l’anno dopo nel postumo The Cry of Love, un altro brano dall’andatura vorticosa, con un eccellente lavoro anche di Miles alla batteria e la furiosa scarica di chitarra di un ispiratissimo Jimi, alla faccia di alcune critiche dell’epoca che non parlarono particolarmente bene del LP (uscito però solo con sei brani), anche se poi nel corso degli anni è stato giustamente considerato uno dei migliori concerti live all-time. Come ribadisce il primo slow blues della serata, una sinuosa e raffinatissima cover del brano di Elmore James Bleeding Heart, che Hendrix aveva già inciso nell’era pre-Experience con Curtis Knight, e poi eseguita nel concerto alla Royal Albert del febbraio 1969, e registrata in alcune versioni di studio pubblicate in diversi CD postumi; anche Earth Blues rimarrà inedita per moltissimi anni, prima di venire pubblicata negli anni 2000, un gagliardo brano tra R&B e rock psichedelico nella migliore tradizione delle canzoni di Hendrix, che chiude il primo set con Burning Desire, altro brano inedito che avrebbe dovuto forse apparire nel disco di studio mai completato dei Band Of Gypsys, Jimi saluta, ringrazia e augura Buon Anno al pubblico presente con questa ulteriore perla del suo songbook, quasi 10 minuti di un brano che ricorda molto il suono degli Experience dei primi due dischi, vibrante e sempre pronto a trasformarsi in jam furiose e ricche di continui cambi di tempo ed improvvisazioni  da lasciare senza fiato.

Per il secondo set, quello destinato a portarli nel nuovo anno, ci sono molte aggiunte al menu della serata: si parte con il conto alla rovescia del pubblico, e poi con una versione di Auld Lang Syne, il celebre brano che si eseguiva nelle festività, fatto ovviamente alla Jimi Hendrix, poi arriva subito Who Knows, un altro dei brani nuovi, forse il più tipizzante di quella fusione tra soul e rock, destinato ad aprire la prima facciata del vinile del 1970, con il tipico interscambio vocale tra i due e un ritmo scandito che lo rende quasi irresistibile nel suo dipanarsi, grazie al lavoro eccellente del basso di Cox che alza la quota funky alle stelle, mentre Hendrix maltratta la sua Telecaster come solo lui sapeva fare in un flusso solista di grande intensità, poi ribadito in una tiratissima Fire, uno dei riff più devastanti della storia del rock, e grande empatia tra Miles, Cox e Hendrix che timbra un altro assolo di quelli da sballo, segue Ezy Rider e poi una versione eccelsa di Machine Gun, se non sbaglio l’unico brano, insieme a Changes, presente in tutti i quattro set delle due serate, quasi 14 minuti devastanti che rendono ancora più acido e sperimentale il pezzo,  e che precede una versione colossale e pantagruelica di Stone Free, riconosciuta dal pubblico alla prima nota, parte forte subito e poi accelera in maniera quasi parossistica, prima di entrare nei regni della pura improvvisazione con una lunghissima sezione strumentale che prevede anche assoli di basso e batteria, forse appena prolissa a tratti, ma è sempre un bel sentire. Poi arriva una nuova versione di Them Changes, come la presenta Jimi, più lunga e con gli elementi soul più evidenti, anche se Hendrix si prende i giusti spazi da par suo; Message To Love è un altro dei brani nuovi che andrà sull’album in uscita a marzo, altro brano dal riff circolare molto marcato, non particolarmente memorabile, decisamente migliore la seconda versione di Stop, ancora più grintosa di quella del primo set e a chiudere la nottata una veemente ed impetuosa Foxey Lady, sempre uno dei brani più amati ed eseguiti dal mancino.

Nel terzo set, datato 1° gennaio 1970, dopo la presentazione dei protagonisti, si riparte con una eccellente Who Knows sempre scandita dal favoloso groove del basso di Billy Cox e poi lasciata all’estro di Jimi, sempre inesauribile nelle sue continue improvvisazioni alla chitarra, con wah-wah in grande spolvero e la band saldamente legata, come conferma un’altra versione formidabile di Machine Gun, che è un poco la Voodoo Chile della serata con la sua atmosfera tesa e quasi inquietante. Changes e Power Of Soul precedono Stepping Stone, un altro brano presentato per la prima volta nel corso del concerto e poi uscito come singolo ad aprile, un’altra delle tipiche canzoni ascendenti del canone hendrixiano, veloce e frenetica, benché non tra le sue migliori. Tornano anche Foxey Lady più psichedelica che mai, Stop, Earth Blues e Burning Desire, che chiude il terzo set. Per nel quarto e ultimo set, il più lungo con i suoi 13 brani, Jimi Hendrix regala al pubblico presente molti dei suoi cavalli di battaglia: si parte con Stone Free, più breve ma decisamente più fremente di quella del giorno prima, poi quasi tutte le canzoni vengono presentate in versioni più lunghe ed improvvisate, da una solidissima Power Of Soul a Changes che si allunga ad ogni nuova apparizione nei concerti, una Message To Love più convinta, stranamente la sola Machine Gun appare in una versione più breve, “appena” 11 minuti e 52 secondi, comunque sempre viscerali e quasi disperati nella loro efficacia. Anche Lover Man, dedicata al pubblico femminile presente, fa il suo debutto, altro brano breve e compatto, che precede Steal Away, altra canzone “inedita” del soulman Jimmy Hughes, affidata alla voce di Buddy Miles, si trasforma in un blues lento ed appassionato che precede Earth Blues, altra canzone molto eseguita nei quattro concerti:

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Poi partono i bis e qui iniziano i fuochi di artificio (ma nel corso dei concerti Jimi aveva anche inserito brevi citazioni di Third Stone From the Sun e The Wind Cries Mary, a voi scoprirle): in sequenza appaiono Voodoo Child (Slight Return) quella vera, presentata come il loro inno nazionale, una orgia di wah-wah impazziti, magnifica come al solito, We Gotta Live Together, è l’ultimo brano inedito affidato alla voce di Buddy Miles, che ne è anche l’autore e cerca il singalong del pubblico presente, in questo ulteriore esempio del psychedelic soul  che avrebbe dovuto essere la cifra stilistica della band, se avesse proseguito nella propria avventura. Altro riff memorabile, che ci riporta ai fasti dell’inizio di carriera di Hendrix a Monterey, è una poderosa Wild Thing, come non potevano neppure mancare il primo singolo Hey Joe, altra canzone epocale e per finire in gloria, una impetuosa Purple Haze, con il suo verso che illustra in poche parole una intera carriera “Excuse me while I kiss the sky”.

Cofanetto magnifico, una delle più belle ristampe in un anno ricco di uscite importanti.

Bruno Conti

Una Doppia Razione Di Country-Rock Come Si Deve: Parte Seconda. Cody Jinks – The Wanting

cody jinks the wanting

Cody Jinks – The Wanting – Late August CD

Dopo essermi occupato di After The Fire, eccomi di nuovo a parlare del texano Cody Jinks, dal momento che, ad appena sette giorni di distanza dal disco appena citato, il nostro ne ha pubblicato un altro intitolandolo The Wanting. I due lavori sono stati incisi nelle medesime sessions e con gli stessi musicisti, ed in un certo senso sono due facce della stessa medaglia: se After The Fire era più incentrato sulle ballate, The Wanting è più rock, più elettrico, anche se non mancano i momenti più intimi. Anche la durata è diversa, dato che l’album di cui mi accingo a scrivere dura 44 minuti contro i 32 dell’altro, e ad un primo ascolto mi sembra anche più riuscito. Intendiamoci, sono entrambi bei dischi, ma io Jinks lo preferisco quando fa il texano duro e puro arrotando le chitarre ed alzando il ritmo, ed in The Wanting di momenti così ce ne sono a piene mani.

Proprio la title track apre l’album in maniera strepitosa, con un country-rock terso e limpido (scritto e cantato con Tennessee Jet, non Jed) dallo splendido ritornello che ha anche un tono epico, il tutto sostenuto da un ottimo riff di violino e da una bella steel sullo sfondo. Same Kind Of Crazy As Me è una western ballad elettrica e cadenzata dal notevole pathos, una strumentazione quasi da film ed un altro bellissimo refrain, Never Alone Always Lonely è invece una vibrante slow song dal suono sempre elettrico, con un bell’assolo chitarristico ed un’atmosfera che ricorda spazi aperti al tramonto, ed è seguita da Whiskey, country ballad solida e maschia, con le chitarre ancora in evidenza. Un ritmo pulsante e coinvolgente introduce Where Even Angels Fear To Fly, poi entrano violino e voce ed il brano si rivela essere un country-rock immediato e texano al 100%, tra i più riusciti del CD; Which One I Feed è un pezzo rock dal passo lento, ma intenso e sempre decisamente elettrico, con elementi quasi sudisti.

A Bite Of Something Sweet è viceversa puro country, con la steel che ricama da par suo dietro il vocione del nostro. The Plea è un’altra traccia che ha il sapore southern rock, complice anche una slide insinuante che percorre tutta la canzone, a differenza di It Don’t Rain In California (provate ad andare a San Francisco ad Agosto e poi mi dite se non piove), un lento dalla melodia toccante ed accompagnamento discreto in cui spiccano ancora steel e violino, brano che contrasta con la vigorosa Wounded Mind, rockin’ country che mantiene un mood da ballata ma è contraddistinto da improvvise sventagliate chitarristiche. Il disco si chiude con Ramble, pianistica e crepuscolare, e con la pimpante The Raven And The Dove, limpido e corale pezzo country & western come solo in Texas sanno fare, che reca tracce di Jerry Jeff Walker nell’orecchiabile ritornello.

Con questi due album pubblicati praticamente insieme per un po’ dovremmo essere a posto con Cody Jinks, anche se, vista la qualità, non mi dispiacerebbe ne uscisse un altro tra qualche mese.

Marco Verdi

Sono Tornati: Più Che Da 6 Almeno Da7 e ½ o 8 , Ottimo Anche Il Concerto Di Milano Con “Sorpresa”! Mandolin Brothers – 6

mandolin' brothers 6

Mandolin Brothers – 6 – Martinè Records/Ird

Diciamo che 6 dischi in 40 anni (quelli di carriera che festeggiano quest’anno) non sono proprio una media da record, considerando che uno è anche un EP con allegato un DVD, ma se consideriamo che fino al 2000, anno in cui esce il primo CD For Real, avevano pubblicato solo una cassetta autoprodotta (che non mi pare di avere mai sentito) ecco che la frequenza delle uscite si fa più ragionevole, considerando anche l’album solista di Jimmy Ragazzon del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/12/01/come-i-suoi-amati-bluesmen-un-pavese-americano-finalmente-esordisce-con-una-valigetta-piena-di-belle-canzoni-jimmy-ragazzon-songbag/ , e poi, per essere onesti, gli unici che festeggiamo veramente 40 anni di carriera sono Jimmy e il chitarrista Paolo Canevari, gli altri alla data di fondazione del gruppo probabilmente non erano ancora nati (confermato!) o andavano all’asilo o alle elementari. Comunque, come si è soliti dire, quella che conta è la qualità, e nei loro dischi non è mai mancata, come testimonia anche questo nuovo “6”: 11 brani in tutto, di cui uno scritto da Jono Manson, che è anche il produttore, confermato dopo il precedente Far Out  , e una cover di The Other Kind di Steve Earle, sorta di inno generazionale come dice Jimmy, magari meno conosciuto di altre canzoni del cantautore texano, ma amato da tutti i componenti della band.

Nelle altre 9 canzoni Ragazzon appare come autore e co-autore in sei, con anche Riccardo Maccabruni e Marco Rovino che contribuiscono in modo consistente, e pure Canevari è co-autore di due brani, tra cui la celebrativa e suggestiva 40 Long Years, brano in cui appare il vecchio mandolinista (e chitarrista) del gruppo Bruno De Faveri. Tra gli ospiti, ai cori in It’s Time, il cantautore alessandrino Dado Bargioni, e alla chitarra, nella potente Bad Nights, il genovese, ma piemontese acquisito, Paolo Bonfanti. Il disco mi sembra un filo più rock del precedente, ma forse è solo una impressione, diciamo più elettrico, c’è un po’ meno blues, ma ci sono i soliti punti di riferimento della buona musica americana, Dylan, Springsteen, gli Stones (ops, diciamo del periodo americano),Allman Brothers, ovviamente Earle, la West Coast, i Little Feat, e potremmo andare avanti per anni. Purtroppo anche in questa nuova prova, a differenza di altri, magari anche bravi, che di recente sono usciti di melone, niente trap, indie, electro,  o qualche bel duetto hip-hop, anzi si dice featuring, si chiama ironia prima che qualcuno fraintenda. Tornando ai Little Feat, quando è partito il primo brano del CD, My Girl In Blue, mi sono chiesto se non mi avessero fatto uno scherzetto sostituendo il disco con uno della band di Lowell George, ma poi la voce era diversa, quella di Ragazzon, più matura e ben definita, grazie anche all’ottimo lavoro di produzione di Manson sembra addirittura migliorata, altri 40 anni e canterà meglio di Mick Jagger o Van Morrison: ma il tiro della slide, Rovino per l’occasione, e il groove, sono quelli, con la ritmica di Joe Barreca e Daniele Negro sul pezzo, l’organo di Maccabruni insinuante a spalleggiare la slide in gran spolvero e anche belle armonie vocali, ottima partenza.

C’è voluto tempo per completare questo nuovo disco, ma valeva la pena di aspettare, tutto è stato fatto con molta cura per i particolari, e le canzoni si ascoltano con grande piacere, come conferma l’incalzante Down Here, un solare ed avvolgente brano country-rock, o preferite Americana che fa più figo? Con un testo  ricco di speranze e resilienza, anche se non privo di note pessimiste, ma la musica vibra vigorosa, tra acustiche, elettriche tintinnanti e il pianoforte, quasi come i Byrds quando cantavano Dylan, con Roy Bittan al piano. It’s Time, con una melodia circolare, è più lenta e riflessiva, un mid-tempo, sempre con un bel suono delle pungenti chitarre elettriche, ottimo il piano e le armonie vocali più complesse, grazie alla presenza di Bargioni, melodie che profumano di West Coast; Face The Music, il pezzo scritto da Jono Manson è un R&R di quelli gagliardi, riff quasi stonesiano, ritmi  accelerati e chitarre sempre vibranti, fino a un cambio di tempo nella parte centrale che ci fa tuffare dalle parti di New Orleans, con slide e solista che tagliano l’aria, quasi come se i Little Feat ci fossero ancora (RIP Paul Barrere).  A Sip Of Life è una sorta di ondeggiante valzerone rock, cantato a due voci  dagli autori Maccabruni e Rovino, con un “piccolo” aiuto di Jimmy, anche all’armonica, mentre Lazy Days dell’accoppiata Manson/Ragazzon è più riflessiva ed intima, dolce e malinconica, elettroacustica, raffinata e con echi californiani, o visto l’autore, anche New Mexico. Lost Love è uno due brani firmato dalla vecchia guardia, con Canevari che si concede qualche soprassalto southern, tra chitarre “riffatissime”, organo d’ordinanza e sezione ritmica decisamente energica, fino alla coda chitarristica che dal vivo farà un figurone in concerto.

If You Don’t Stop di Maccabruni, tra mandolino e fisarmonica, ha un’aria più campestre e pastorale, grazie anche ad un bel intervento di una national steel nella parte centrale. Bad Nights è uno di quei brani elettrici tipici di quando la band inizia a tirare di brutto, tra folate di rock, come dicono gli americani che se intendono “firing on all cylinders”, avete presenti quei pezzi  sudisti degli Outlaws, quando le chitarre, anche Bonfanti che si aggiunge al festino, si sfidano a viso aperto, nel disco si interrompe all’improvviso, ma dal vivo prevedo sfracelli e comunque l’ascoltatore gode come un riccio. Il brano successivo, introdotto da un mandolino, sembra quasi una canzone di Steve Earle, e in effetti lo è, un sentito omaggio a Mr. Earle, una splendida versione di The Other Kind, uno di quei pezzi dove i Mandolin’ Brothers sono maestri nel convogliare le atmosfere quasi epiche di certe composizioni  di Steve, una meraviglia, tra mandolini, fisarmoniche e le citazioni del mito americano nel testo. A chiudere arriva 40 Long Years https://www.youtube.com/watch?v=pWec4JhLhqo , una sorta di autocelebrazione, con De Faveri della partita, ancora mandolino, fisa, chitarre acustiche in evidenza, e Jimmy che nel testo butta lì piccole citazioni, uno “Still Got Dreams” qui, un “Willin’” là, uno “Sleepless nights” sopra, sarà voluto? Glielo chiederò (NDB Ha confermato!): il risultato comunque è da veri Mandolin’ Brothers, quelli di un tempo ma anche quelli di oggi. Direi che più che 6 gli darei un bel 7 e ½ o 8!

Bruno Conti

mandoban

P:S. Spazio Teatro 89 Milano – 30 Novembre 1989

Ieri sera c’è stato anche il concerto di presentazione a Milano: di fronte ad un teatro quasi esaurito la band ha sciorinato l’album integralmente, più o meno anche seguendo l’esatta sequenza dei brani del disco. Jimmy aveva un principio di bronchite con raucedine, ma con la sua elegante camicia laotiana (così mi è stato detto) ha applicato la solita formula dello “show must go on” e se l’è cavata più che egregiamente. Come è noto i Mandolin’ Brothers dal vivo, come direbbe Abatantuono, sono “una putenza” e anche ieri sera non si sono smentiti: partenza a tutta slide con una gagliarda My Girl In Blue, e da lì in avanti non ce n’è stata per nessuno, Dado Bargioni è salito sul palco per It’s Time, Face The Music il brano di Jono Manson spostato più avanti nella scaletta, ma a questo punto accade l’imponderabile: un bel blackout improvviso e tutti al buio senza corrente. Dopo un attimo di sconcerto vengono serrate la fila e si procede in versione unplugged (ma senza microfoni), Bruno De Faveri sale sul palco in anticipo e viene improvvisata all’impronta una 40 Long Years acustica. Il pubblico approva e allora vai con Willin’ dei Little Feat Sweet Virginia degli Stones. Poi quando torna la corrente si provvede a completare a tutto R&R una sapida Face The Music, seguita da If You Dont Stop di Maccabruni. A questo punto sale sul palco anche Paolo Bonfanti (di cui è uscito di recente, insieme a Martino Coppo, un bellissimo Pracina Stomp, prodotto dal grande Larry Campbell, prossimamente sul Blog), e Jimmy giustamente dice “se ce l’abbiamo perché usarlo per un solo brano?”, e allora vai con la dylaniana Scarlet da Still Got Dreams e poi una poderosa Talk To Your Daughter di JB Lenoir (l’unico blues puro della serata), con trazione a tripla chitarra + armonica e fisa, con Canevari e soprattutto Bonfanti e Rovino, di fianco sul palco, che “se le suonano” di brutto, prima di ribadire, ovviamente con Canevari, in Bad Nights, con una vorticosa cavalcata chitarristica a tre, in pieno trip southern, che quando vogliono non ce n’è per nessuno. The Other Kind di Steve Earle è un tripudio di mandolini e fisarmoniche. Bombay Skyline è l’occasione per (ri)portare sul palco De Faveri e di fare un omaggio al “Fat man In the Bathtub” ovvero Lowell George, con un ritmo, ca va sans dire”, ondeggiante, alla Little Feat (italiani). 40 Long Years ci riporta a un suono più rootsy per il finale (del disco e del concerto), ma tornano, con Bargioni che canta una strofa, per l’omaggio a Dylan di Went To See The Poet, sempre da Still Got  Dreams,  che viene poi suonata, alla Born To Run di Springsteen.

Infine tutti e nove i musicisti insieme appassionatamente sul palco per un tributo al R&R ad alta densità di ottani dei Blasters, con una deragliante So Long Baby Goodbye. A questo punto, come Yanez, visto l’abbigliamento, Jimmy ci saluta e va a fumarsi l’ennesima sigarettina..