L’Ottima Side Band Di Page McConnell Dei Phish. Vida Blue – Crossing Lines

vida blue crossing lines

Vida Blue – Crossing Lines – Ato Records

Sono passati 16 anni dal disco precedente dei Vida Blue The Illustrated Band, pubblicato dalla Sanctuary nel 2003. Già, ma molti di voi giustamente si chiederanno, chi diavolo sono questi Vida Blue? In effetti il gruppo, che prende il nome da un famoso giocatore di Baseball degli anni ’70 e ’80, tecnicamente andrebbero definiti una jam band, con spunti jazz, funk, elettronica diciamo “benevola”, e anche una piccola quota rock, se poi diciamo anche che sono la side band di Page MCConnell, il tastierista dei Phish, e aggiungiamo che al basso troviamo l’ex Allman Brothers Oteil Burbridge e alla batteria l’ottimo Russell Battiste Jr. da New Orleans, nonché componente dei  Funky Meters, li inquadriamo ancora meglio. Per questo nuovo album Crossing Lines il trio originale si è ampliato per inglobare il chitarrista Adam Zimmon, che è più bravo di quanto possa far supporre il suo curriculum di collaboratore di Shakira e Ziggy Marley. Diciamo che lo stile della band a tratti si potrebbe avvicinare a quello dei Rock Candy Funk Party (la band jazz-rock di Bonamassa), anche se nei Vida Blue quasi tutte le canzoni sono cantate, e questo non deve stupire visto che l’autore dei suddetti brani Page McConnell è anche uno dei cantanti dei Phish.

E quindi le parti strumentale e il groove della formidabile sezione ritmica sono notevoli, forse meno le parti cantate. L’iniziale Analog Delay, con il sound caratterizzato da un ritmo insistito della batteria e da strati di tastiere elettroniche, potrebbe ricordare quello di Tomorrow Never Knows dei Beatles, ma nella versione degli 801 di Brian Eno e Phil Manzanera, con la melodia che si insinua nelle evoluzioni delle tastiere di McConnell e nel lavoro intricato della solista di Zimmon, mentre Checking Out è decisamente più funky, con Burbridge e Battiste impegnatissimi a creare complessi groove, e synth e chitarra più orientati verso i lavori dei citati Rock Candy Funk Party o del jazz-rock fusion degli Headhunters di Herbie Hancock, anche per l’impiego del basso slappato di Burbridge quasi in modalità solista, lasciando al wah-wah di Zimmon funzioni ritmiche https://www.youtube.com/watch?v=POx0d04kpJE . Where Dit It Go amplia l’uso dell’armamentario di percussioni di Battiste, ma la parte cantata è fin troppo leggerina e ripetitiva, e la parte strumentale col piano elettrico e le tastiere in evidenza non risolleva del tutto l’insieme. Anche Phaidon, una ballata soffusa, non riesce ad avvicinare del tutto l’efficacia di quelle della band del Vermont (leggi Phish), anche se un lirico solo in crescendo della chitarra di Zimmon ci prova; il tutto è comunque sempre suonato in modo impeccabile.

 

Come certifica Weepa, uno strumentale che ricorda le complesse scansioni ritmiche, tra reggae e vibrazioni caraibiche, di Medeski, Martin & Wood, forse fin troppo insistite e ripetute, anche se nel finale il breve intervento dei fiati degli Spam Allstars cerca di dare più brio al brano. Maybe è un’altra ballata, decisamente più riuscita di Phaidon, grazie alla animata ed eccellente parte strumentale, dove il piano elettrico e soprattutto la chitarra sofisticata e pungente di Zimmon, alle prese con un lungo e sinuoso assolo, non fa rimpiangere quella di Anastasio, Real Underground Soul Sound, l’unico brano scritto da Russell Battiste, è uno strumentale che oscilla tra il lavoro squisito dell’organo di McConnell e i ritmi funky di New Orleans, mutuati da quelli dei vecchi (e nuovi) Meters. In conclusione troviamo la lunghissima If I Told You, già presente in Party Time, contenuto nella edizione Deluxe di Joy dei Phish: forse il brano migliore dell’album, una bella melodia che si scatena subito in un ritmo da Mardi Gras, con la sezione fiati e percussioni degli Spam Allstars a dare man forte a dei Vida Blue decisamente più ingrifati, anche grazie ad un ispiratissimo McConnell con il suo armamentario di tastiere in azione.

Bruno Conti

Anche Quest’Anno Ci Siamo: Il Meglio Del 2019 Secondo Disco Club, Parte II

Ecco le scelte di Marco Verdi.

I Migliori Del 2019.

 the highwomen

Disco Dell’Anno:  The Highwomen – The Highwomen

 janiva magness sings john fogerty

Il Resto Del Podio:  Janiva Magness – Change In The Weather

van morrison three chords & the truth                                 

Van Morrison – Three Chords And The Truth

 

Gli Altri 7 Della Top 10: 

tom russell october in the railraod earth

Tom Russell – October In The Railroad Earth

drew holcomb neighbors 

Drew Holcomb & The Neighbors – Dragons

little steven summer of sorcery

Little Steven & The Disciples Of Soul – Summer Of Sorcery

leonard cohen thanks for the dance

Leonard Cohen – Thanks For The Dance

jack ingram ridin' high...again

Jack Ingram – Ridin’ High…Again

jj cale stay around

 J.J. Cale – Stay Around

*NDB Uno di quelli che non abbiamo recensito, andrebbe recuperato (vero Marco?)

black keys let's rock

The Black Keys – Let’s Rock

 

I “Dischi Caldi”: 

long ryders psychedelic country soul

The Long Ryders – Psychedelic Country Soul

marley's ghost travelin' shoes

Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes

over the rhine love and revelation

Over The Rhine – Love & Revelation

steeleye span est'd 1969

Steeleye Span – Est’d 1969

the who - who cd

The Who – Who

hayes carll what it is

Hayes Carll – What It Is

rory gallagher blues

Rory Gallagher – Blues

https://discoclub.myblog.it/2019/08/24/troppo-bello-per-non-parlarne-diffusamente-il-classico-cofanetto-da-5-stellette-rory-gallagher-blues/

allman betts band down to the river

The Allman Betts Band – Down To The River

marc cohn blind boys of alabama work to do

Marc Cohn & The Blind Boys Of Alabama – Work To Do

old crow medicine show live at the ryman

Old Crow Medicine Show – Live At The Grand Ole Opry

bob dylan rolling thunder revue

Bob Dylan/Rolling Thunder Revue – The 1975 Live Recordings

allman brothers band fillmore west '71 box

The Allman Brothers Band – Fillmore West ’71

los lobos llego navidad

Los Lobos – Llegò Navidad

frankie lee stillwater

Frankie Lee – Stillwater

bruce springsteen western stars

Bruce Springsteen – Western Stars

bruce springsteen memorial coliseum 1985

Bruce Springsteen & The E Street Band – Los Angeles 1985

neil young tuscaloosa

Neil Young & Stray Gators – Tuscaloosa

gov't mule bring on the music 2 cd

Gov’t Mule – Bring On The Music

john coltrane blue world

John Coltrane – Blue World

 woodstock back to the garden

La Ristampa:  VV.AA: Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive

 Altre Ristampe: 

van morrison the healing game

Van Morrison – The Healing Game Deluxe

https://discoclub.myblog.it/2019/03/31/era-gia-un-gran-bel-disco-allepoca-nella-nuova-edizione-deluxe-ritardata-uscita-per-il-20-anniversario-e-ancora-meglio-van-morrison-the-healing-game/

beatles abbey road box 50th anniversary

The Beatles – Abbey Road 50th Anniversary

https://discoclub.myblog.it/2019/09/27/accadeva-50-anni-fa-ieri-su-e-giu-per-le-strisce-pedonali-di-abbey-road-con-i-beatles-ecco-il-cofanetto-per-lanniversario/

pink floyd the later years 

Pink Floyd – The Later Years

 Canzone: 

The Highwomen – Crowded Table, Heaven Is A Honky-Tonk

Marc Cohn & The Blind Boys Of Alabama – Work To Do

Van Morrison – Days Gone By

Tom Russell – Isadore Gonzalez

 Cover: 

The Highwomen – Highwomen (adattamento del brano di Jimmy Webb Highway Men)

Bruce Springsteen – Rhinestone Cowboy

Janiva Magness – Wrote A Song For Everyone

Jack Ingram – Desperados Waiting For A Train

mandolin' brothers 6 

Album Italiano:  Mandolin’ Brothers – 6

https://discoclub.myblog.it/2019/12/01/sono-tornati-piu-che-da-6-almeno-da7-e-%c2%bd-o-8-ottimo-anche-il-concerto-di-milano-con-sorpresa-mandolin-brothers-6/

ian noe between the country

 Album D’Esordio:  Ian Noe – Between The Country

echo in the canyon soundtrack

 Album Tributo: 

Jakob Dylan & Friends – Echo In The Canyon

mike zito a tribute to chuck berry

Mike Zito – Rock’n’Roll Music: A Tribute To Chuck Berry

Film Musicale:  Martin Scorsese – Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story

 Film Non Musicale:  Quentin Tarantino – C’Era Una Volta…A Hollywood

robbie robertson testimony 

Libro Musicale:  Robbie Robertson – Testimony

peter swanson una perfetta bugia

Libro Non Musicale:  Peter Swanson – Una Perfetta Bugia

jeff lynne's elo from out of nowhere

Piacere Proibito:  Jeff Lynne’s ELO – From Out Of Nowhere

 Delusione Dell’Anno: 

robbie robertson sinematic

Robbie Robertson – Sinematic

The Avett Brothers – Closer Than Together

 Neil Young & Crazy Horse – Colorado

rolling stones let it bleed box

“Sòla” Dell’Anno:  The Rolling Stones – Let It Bleed 50th Anniversary Box Set

Rod Stewart With The Royal Philarmonic Orchestra – You’re In My Heart Della serie “veramente falso” con base orchestrale 2019 e parti vocali anni ’70

Dischi Nuovi Che Vorrei Nel 2020:  Bob Dylan – John Fogerty – Bruce Springsteen & The E Street Band

 Ristampe Che Vorrei:  The Beatles – Let It Be 50th Anniversary (session del concerto sul tetto)

Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 16: Sessions 1983-1987 (con la versione “expanded” del VHS Hard To Handle in BluRay)

 CSN&Y – Deja Vu 50th Anniversary (box di 4 o 5 CD con outtakes e brani inediti dal vivo)

 Paul McCartney – London Town & Back To The Egg Super Deluxe

 Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 14. Forse Non E’ Un Album Come “Nessun Altro”, Ma Di Certo Andrebbe Rivalutato! Gene Clark – No Other

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Gene Clark – No Other – 4AD Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD/BluRay/LP/45rpm Box Set

(*NDM: vorrei iniziare con una piccola premessa, e cioè che questa recensione, pur rientrando nella serie dedicata ai cofanetti, è fatta sulla base dell’ascolto del doppio CD, dato che questa volta proprio non me la sono sentita di prendermi il box sborsando circa 160 euro in più per avere un terzo dischetto aggiuntivo il cui contenuto è comunque simile a quello del secondo).

No Other, quarto album solista di Gene Clark dopo l’allontanamento dai Byrds (sesto se includiamo i due lavori con Doug Dillard usciti come Dillard & Clark), è un disco segnato da uno strano destino, in quanto è considerato da alcuni critici come il capolavoro assoluto del musicista originario del Missouri (mentre io personalmente preferisco ancora White Light e Roadrunner) e da altri forse con un po’ di esagerazione come uno dei migliori album mai pubblicati, ma all’epoca della sua uscita (1974) il successo fu praticamente nullo ed il fallimento economico fu notevole. Ciò avvenne principalmente per i costi altissimi del progetto, che vantava la presenza di un gruppo stellare di sessionmen che però vollero giustamente anche farsi pagare, ed in più le continue sovraincisioni e manipolazioni sonore volute da Clark stesso e dal produttore Thomas Jefferson Kaye non contribuirono certo a tenere le spese sotto controllo; inoltre Clark decise di non portare il disco in tournée, e questa fu la goccia che fece traboccare il vaso con la Asylum di David Geffen (l’etichetta che pubblicò l’album all’epoca), che in pratica si rifiutò di promuoverlo e lo mise addirittura fuori catalogo soltanto due anni dopo.

L’insuccesso di No Other fu una botta psicologica non da poco per Clark, che aveva puntato molto su quel disco per rilanciare una carriera fino a quel momento avara di soddisfazioni per quanto riguarda le vendite, nonostante critiche eccellenti: il nostro non si riprese per diverso tempo e cadde ancora di più nel tunnel della droga e dell’alcolismo, e gli abusi che ne deriveranno saranno tra le cause della sua prematura scomparsa avvenuta nel 1991, dopo solo altri due album solisti pubblicati (uno dei quali in duo con Carla Olson), uno inciso ma uscito solo postumo (Firebyrd) e la poco riuscita avventura con i vecchi compagni nel trio McGuinn, Hillman & Clark. No Other ha avuto poca fortuna anche con le successive ristampe in CD, la prima nel 1991 e quella targata Warner del 2003 con alcune bonus tracks, anch’esse sparite presto dalla circolazione. Devo quindi applaudire la 4AD, etichetta indipendente britannica, per aver messo a punto questa sontuosa riedizione dell’album in due configurazioni: un doppio CD in un’elegante confezione dalla copertina dura e ricchissima di testi, foto e dettagli ed il già citato cofanetto con un dischetto aggiunto, la versione dell’album in vinile argentato, un 45 giri, un BluRay con No Other in diverse vesti sonore nella parte audio ed un documentario inedito in quella video più un libro di 80 pagine, il tutto per poco meno di 200 euro.

Il suono è stato completamente remixato e rimasterizzato nientemeno che da Sid Griffin, leader dei Long Ryders e grande fan dei Byrds, e John Wood, leggendario produttore e tecnico del suono di artisti perlopiù britannici come Fairport Convention, John Martyn, Nick Drake, Cat Stevens e Richard Thompson. No Other torna quindi in una veste che ce lo fa apprezzare in tutta la sua bellezza: sì, perché nonostante la brutta copertina e le pose di Gene degne di una star del glam alla David Bowie nelle foto interne, stiamo parlando di un album davvero bello e coinvolgente, con Clark in ottima forma sia come songwriter che come cantante, ed una serie di brani come sempre in bilanciamento tra rock, country e folk (ed un pizzico di psichedelia) che non sono stati per nulla rovinati dalla produzione di Kaye, tendente al ridondante  ma comunque mantenendo i piedi per terra. Come ciliegina, i musicisti coinvolti nelle sessions, una serie impressionante di nomi che fanno tremare i polsi solo a leggerli: Chris Hillman, Timothy B. Schmit, Jesse Ed Davis, Danny Kortchmar, Ben Keith, Leland Sklar, Russ Kunkel, Stephen Bruton, Butch Trucks, Mike Utley, Craig Doerge, Cindy Bullens, Joe Lala e Clydie King. Il primo CD inizia con la splendida Life’s Greatest Fool, una canzone giusto a metà tra country e rock, ritmo cadenzato e melodia deliziosa, un brano che nel suo genere sfiora la perfezione in ogni dettaglio ed è dotata di un ritornello corale vincente. Silver Raven è una ballata distesa e limpida nel tipico stile elegante del suo autore e raffinatissima dal punto di vista strumentale, mentre la title track ha un’introduzione di stampo quasi psichedelico, ed il brano stesso ha più di un aggancio con il sound californiano di fine anni sessanta, compresa la voce trattata con l’eco e l’uso del coro femminile, ed in più c’è una bella performance di Utley al piano elettrico.

Strength Of Strings è introdotta da una slide e da un coro sognante molto CSN, poi il brano si rivela essere una sontuosa rock ballad dal grande pathos ed un accompagnamento solido e forte che si regge sulle splendide doppie tastiere di Utley e Doerge; lo squisito e toccante slow pianistico From A Silver Phial, servito ancora da un motivo di prim’ordine, precede il centerpiece del disco: la lunga Some Misunderstanding, più di otto minuti di grande musica che iniziano con semplici accordi di chitarra acustica, poi entra il resto della band con Gene che intona una melodia intensa e malinconica con la sua voce decisamente espressiva, il tutto in un crescendo sonoro di notevole impatto. Chiudono il primo CD nonché l’album originale la scintillante country song The True One, una delle più belle e dirette, e l’ariosa ballata Lady Of The North, dedicata da Clark all’allora moglie Carlie McCummings. Il secondo dischetto comprende versioni alternate inedite di tutti i pezzi dell’album, meno rifinite e senza parecchi degli overdubs aggiunti in seguito, per una visione da una prospettiva diversa ma indubbiamente interessante.

Alcuni brani sono simili a quelli poi messi sul disco (Lady Of The North, The True One, Strength Of Strings, No Other), altri sono abbastanza differenti, come una From A Silver Phial meno elaborata e forse più riuscita, una Silver Raven più lenta e rockeggiante (oltre che più lunga di due minuti), Life’s Greatest Fool più country e soprattutto Some Misunderstanding, più breve e con un arrangiamento maggiormente acustico, non ancora il “piece de resistance” che sarebbe diventato in seguito. Come bonus abbiamo una bellissima versione di Train Leaves Here This Morning, scritta da Gene con Bernie Leadon e già pubblicata dagli Eagles nel loro album d’esordio del 1972: puro country-rock anni settanta al suo meglio. Il terzo CD riprende gli stessi nove pezzi del secondo in altrettante takes alternate (più le single versions di Life’s Greatest Fool e Silver Raven) ma, come ho già scritto all’inizio, per ascoltarlo dovete accaparrarvi il box spendendo una piccola fortuna.

Marco Verdi

Anche Quest’Anno Ci Siamo: Il Meglio Del 2019 Secondo Disco Club, Parte I

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Siamo arrivati a quel periodo dell’anno in cui si fanno i bilanci e le scelte sulle cose migliori successe nel 2019 in ambito musicale. Come vedete è stato aggiunto un pensatore al nostro trust di cervelli rispetto agli anni passati, ma visto che sta ancora decidendo, per sveltire le procedure vi propongo cosa hanno scelto i collaboratori del Blog, e partiamo, non in ordine di importanza, ma semplicemente in base a chi ha mandato prima le proprie classifiche. Ovviamente queste liste vogliono essere anche un promemoria per chi magari si è perso qualche disco, cofanetto o ristampa nel corso dell’anno. Partiamo con uno dei due Marchi, Marco Frosi. Non so dirvi se sono in stretto ordine di preferenza oppure alla rinfusa, come di solito faccio io. Comunque buona lettura.

Bruno Conti

Marco Frosi Best Of 2019

shawn mullins soul's core revival

SHAWN MULLINS: Soul’s Core Revival

*NDB Anche se è una doppia ristampa rivisitata di un disco del 1998, ed è pure uscita nel 2018! Ma visto che è bello…

michael mcdermott orphans

MICHAEL MC DERMOTT: Orphans

Di questo non abbiamo parlato nel Blog, andrebbe recuperato.

little steven summer of sorcery

LITTLE STEVEN & THE DISCIPLES OF SOUL: Summer Of Sorcery

https://discoclub.myblog.it/2019/05/10/direi-che-ci-ha-preso-gustoe-noi-con-lui-little-steven-the-disciples-of-soul-summer-of-sorcery/

dervish great irish songbook

DERVISH: The Great Irish Songbook

https://discoclub.myblog.it/2019/04/26/quando-si-hanno-a-disposizione-canzoni-cosi-perche-scriverne-di-nuove-dervish-the-great-irish-songbook/

dream syndicate these times

THE DREAM SYNDICATE: These Times

https://discoclub.myblog.it/2019/04/26/quando-si-hanno-a-disposizione-canzoni-cosi-perche-scriverne-di-nuove-dervish-the-great-irish-songbook/

mavis staples we get by

MAVIS STAPLES: We Get By

https://discoclub.myblog.it/2019/05/25/non-finisce-mai-di-stupire-un-altro-disco-splendido-mavis-staples-we-get-by/

rickie lee jones kicks

RICKIE LEE JONES: Kicks

bruce springsteen western stars songs form the film

BRUCE SPRINGSTEEN: Western Stars – Songs From The Film

https://discoclub.myblog.it/2019/11/10/lo-springsteen-della-domenica-tanto-per-ribadire-la-sua-fiducia-nel-progetto-bruce-springsteen-western-stars-songs-from-the-film/

marc cohn blind boys of alabama work to do

MARC COHN & THE BLIND BOYS OF ALABAMA: Work To Do

https://discoclub.myblog.it/2019/08/28/e-il-lavoro-e-stato-fatto-molto-bene-nonostante-la-strana-ma-riuscitissima-accoppiata-marc-cohn-blind-boys-of-alabama-work-to-do/

chris kinght almost daylight

CHRIS KNIGHT: Almost Daylight

https://discoclub.myblog.it/2019/10/24/dopo-un-lungo-silenzio-e-tornato-ancora-ad-ottimi-livelli-chris-knight-almost-daylight/

drew holcomb neighbors

DREW HOLCOMB & THE NEIGHBORS: Dragons

https://discoclub.myblog.it/2019/09/28/ecco-un-altro-che-migliora-disco-dopo-disco-drew-holcomb-the-neighbors-dragons/

van morrison three chords & the truth

VAN MORRISON: Three Chords And The Truth

https://discoclub.myblog.it/2019/10/28/dopo-una-serie-di-ottimi-album-tra-jazz-e-blues-van-the-man-torna-allamato-celtic-soul-e-colpisce-ancora-van-morrison-three-chords-the-truth/

joe henry the gospel according to water

JOE HENRY: The Gospel According To Water

https://discoclub.myblog.it/2019/11/20/il-suo-lavoro-piu-intimo-e-profondo-joe-henry-the-gospel-according-to-water/

davide van de sfroos quanti nocc

DAVIDE VAN DE SFROOS: Quanti Nocc

nick cave ghosteen

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS: Ghosteen

https://discoclub.myblog.it/2019/11/21/un-disco-che-e-pura-sofferenza-messa-in-musica-nick-cave-the-bad-seeds-ghosteen-un-breve-saluto-a-paul-barrere/

– Ristampa dell’anno:

bob dylan rolling thunder revue

BOB DYLAN & THE ROLLING THUNDER REVUE: The 1975 Live Recordings

– Live Show dell’anno:

LEVI PARHAM/BOB MALONE 16 Marzo 2019 – Teatro Scuole Medie Toscanini – Chiari (BS)

– Film dell’anno:

JOKER di Todd Phillips

– Libro dell’anno:

il pianeta della musica

IL PIANETA DELLA MUSICA di Franco Mussida – Salani Editore

Ventuno, Anzi Ventidue Chitarristi Per Un Disco Fantastico! Mike Zito & Friends – Rock ‘n’ Roll – A Tribute To Chuck Berry

mike zito a tribute to chuck berry

Mike Zito & Friends  – Rock ‘n’ Roll – A Tribute To Chuck Berry – Ruf Records

Per motivi assolutamente ignoti ed incomprensibili, visto che non ricorre nessuna particolare evenienza  o anniversario, a distanza di quindici giorni l’uno dall’altro, sono usciti ben due Tributi a Chuck Berry. Uno, Mad Lad, è l ‘ottimo concerto dal vivo di Ronnie Wood con la sua band i Wild Five e la presenza di Imelda May https://discoclub.myblog.it/2019/12/08/se-elvis-era-il-re-del-rocknroll-chuck-era-il-rocknroll-un-sentito-omaggio-da-uno-stone-in-libera-uscita-ronnie-wood-his-wild-five-mad-lad-a-l/ , l’altro, a mio parere veramente strepitoso, è questo Rock ‘n’ Roll – A Tribute To Chuck Berry, dove il texano adottivo Mike Zito ha radunato una pattuglia veramente cospicua, eterogenea, ma vicina alla perfezione nelle scelte, di 21 chitarristi, per reinterpretare 20 classici del musicista di St. Louis (come Zito peraltro, anche lui nativo come Berry della città del Missouri). I risultati, oltre che godibilissimi, sono decisamente coinvolgenti: aiuta sicuramente che le canzoni su cui lavorare siano tra i capisaldi del R&R e del rock tout court, una lunga serie di capolavori assoluti (forse con l’eccezione dell’ultima canzone e di un’altra non celeberrima), ma la passione, il brio, l’impegno con cui sono stati realizzati ,ne fanno un album speciale.

Registrate le basi ai Marz Studios di proprietà di Zito, situati a Nederland (?!?) la piccola cittadina del Texas dove ora vive Mike, con l’aiuto dell’ingegnere del suono David Farrell, ha poi provveduto ad inoltrarli ai 21 chitarristi (e cantanti), dicasi ventuno, che hanno provveduto ad aggiungere le proprie parti (come si usa quando non ci sono i soldi per trovarsi tutti insieme a registrare nella stessa sala) e rispedirle a Zito, che ha poi proceduto ad assemblarle, con le basi fornite da Terry Dry al basso, Matthew Johnson alla batteria e Lewis Stephens a piano, organo e Wurlitzer (perché non si può prescindere dal contributo che il piano di Johnnie Johnson diede alla riuscita delle canzoni di Chuck), nonché l’uso saltuario dei fiati, ed il risultato finale è quello che ora vi descrivo. E’ quasi inevitabile che ad aprire le danze (è il caso di dirlo) sia il nipote di Berry, Chuck III detto Charlie, che dà una mano anche a livello vocale a Zito (che si disimpegna da par suo in tutto l’album), sembra di ascoltare gli Stones dei primi anni ’70 (ops) in questa pimpante St. Louis Blues, tutta riff ed assoli e ci mancherebbe; in Rock And Roll Music, una delle più divertenti del canone di Chuck, Joanna Connor aggiunge la sua slide, mentre i fiati pompano alla grande, versione caldissima.

E Johnny B. Goode? Una vera bomba, con Walter Trout che abbandona il suo amato blues per darci dentro alla grande in una versione potentissima, con lui e Zito che si scambiano vagonate di colpi di chitarra, e duettano anche a livello vocale, mentre la ritmica picchia come se non ci fosse un futuro e il pianino titilla. Ma Chuck Berry amava anche il blues e la versione dello slow Wee Wee Hours, con Joe Bonamassa ingrifatissimo alla chitarra, con un assolo colossale e ripetuto, è da manuale delle 12 battute. Memphis, con Anders Osborne altra voce solista e impegnato alla slide, è una delle più fedeli all’originale, leggiadra e deliziosa; Ryan Perry non è uno dei più conosciuti tra i presenti e quindi non è un caso che anche il brano scelto, una I Want To Be Your Driver composta a metà anni ’60, sia poco nota, ma la versione che ne viene fuori, grazie anche ad un inconsueto organo, sia a metà tra il garage rock e il Bob Seger più impetuoso, grazie anche alle similitudini tra la due voci, e Perry suona, cazzarola se suona. You Never Can Tell è un brano raffinato e cool di suo (qualcuno ha detto Pulp Fiction?) e quindi ideale per lo stile finissimo di Robben Ford, mentre in Back In the Usa  Eric Gales porta un impeto e un gusto hendrixiano, non dimenticando che Jimi amava la musica del colored di Saint Louis, con i fiati che tornano a farsi sentire.

Jeremiah Johnson, uno dei protetti di Zito, porta il suo approccio sudista ad una robusta versione di No Particular Place To Go, e in Too Much Monkey Business  Luther Dickinson, uno dei pezzi da 90 di queste sessions, duetta sia alle voce che alle chitarre per una canzone  tra le più vicine allo spirito degli originali di Chuck Berry, grintosa ma rispettosa il giusto. A proposito di impeccabilità e approccio cool un altro che ne ha fatto un’arte è Sonny Landreth, che munito di bottleneck imbastisce una versione impeccabile della sofisticata Havana Moon, e niente male, per usare un eufemismo, una versione “fumante” e a tutto fiati e chitarre di Promised Land, con Tinsley Ellis e Mike che se le “suonano” a colpi di riff, per lasciare poi spazio ad una sorprendente Down Bound Train (ovviamente non quella di Bruce Springsteen) dove Alex Skolnick dei metallari Testament, si reinventa jazzista, ma cita all’inizio del brano anche gli Zeppelin di Dazed And Confused. Sempre a proposito di trucidoni anche Richard Fortus dei nuovi Guns N’ Roses non se la cava affatto male in una pimpante e canonica Maybellene, dimostrando che Berry negli anni ha influenzato quelle decine di migliaia di musicisti, anche quelli “esagerati”; l’altra recente scoperta di Zito, la texana Ally Venable duetta con il suo mentore in una potente School Days, e anche se la voce non è il massimo, la chitarra viaggia alla grande, insieme a Joanna Connor una delle poche signore presenti.

Kirk Fletcher e Josh Smith fanno coppia in una Brown Eyed Handsome Man che sembra provenire da  una qualche perduta sessione dei Rockpile, e a proposito di R&R ad alta gradazione di ottani, un altro che conosce a menadito la materia è Tommy Castro alle prese con una Reelin’ and Rockin dove lui e Zito sembrano due gemelli separati alla nascita. Altro veterano che si trova alla grande in questa materia, direi come un pisello nel suo baccello, è Jimmy Vivino, che si spara giù una versione di Let It Rock da arresto per superati limiti di velocità, con la sezione fiati che imperversa ancora una volta, come pure il piano. Mancano solo Thirty Days con un arrapatissimo Albert Castiglia a cantarcele e suonarcele ancora una volta a tempo di R&R, sparando riff a destra e manca, e per chiudere, una “strana” My Ding A Ling, la famosa eulogia di Berry al suo pisello (non il vegetale di cui sopra), che gli americani chiamano una novelty song, ovvero doppi sensi a iosa, in ogni caso Kid Andersen (e Zito) l’hanno trasformata in una party song con qualche elemento doo-wop, con divertimento assicurato, che era poi la missione, riuscitissima, di questo album, un piccolo, ma neanche troppo, gioiellino. Se amate il R&R e le chitarre, qui c’è molta trippa per gatti, tutta di prima qualità.

Bruno Conti

Steve Miller Band – Tra Blues, Rock E Psichedelia! Parte II

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Seconda parte.

Gli Anni del Grande Successo 1976-1983 (Mercury Years In Europa)

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Fly Like An Eagle – Capitol 1976 ****

Da questo album in avanti I dischi della Steve Miller Band in Europa cominciano ad uscire per la Mercury, mentre in America rimangono su etichetta Capitol. Il successo si fa travolgente, i dischi vendono a vagonate (questo LP 4 milioni di copie) ma la qualità è ottima, come pure le critiche: ormai il nostro amico ha perfezionato quello space-rock-blues (esemplificato dalla Space Intro posta in apertura) che aveva sperimentato per la prima volta su The Joker. Aiutato dal suo “nuovo” trio dove Lonnie Turner è rientrato al basso e Gary Mallaber è il batterista perfetto, Miller è diventato anche un provetto creatore di singoli di successo, con riff immediati e un suono solare ed accattivante, Fly Like An Eagle, Take the Money And Run e Rock’n Me sono tre perfetti esempi di questo rock fruibile, “scivolante” e tipicamente americano, con Steve che oltre a suonare le chitarre si occupa anche delle tastiere, tra cui il famoso synth ARP Odyssey per gli effetti spaziali, e produce pure.

Forse non tutto l’album è indimenticabile come i tre brani principali, ma Wild Mountain Honey, con Miller anche al sitar, è fascinosa e sognante, la cover di Mercury Blues di KC Douglas (di cui ricordo una versione micidiale di David Lindley su El-Rayo X), ancora una volta attinge dal suo grande amore per le 12 battute, Serenade ha lo stesso incipit di All Along The Watchtower, e Dance Dance Dance, con John McFee al dobro, sembra un brano di John Denver o dei Poco, ma di quelli belli, e pure la cover di You Send Me di Sam Cooke non sfigura. Sweet Maree è il blues che non può mancare, con James Cotton all’armonica e anche la dolce The Window posta in conclusione è un buon brano.

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Book Of Dreams – Capitol 1977 ****

Le canzoni di questo album sono state registrate, come detto, nelle stesse sessions del precedente disco, quindi il suono e l’approccio musicale sono gli stessi: Jet Airliner è il mega successo del LP, ma anche gli altri due singoli Swingtown e Jungle Love, scritta con Greg Douglass, che suona la slide nel brano, sono di ottima fattura. Solita intro spaziale in Threshold, seguita dal riff irresistibile di Jet Airliner, poi Winter Time, con l’amico Norton Buffalo all’armonica, delicata ballata elettroacustica di stampo West Coast, la galoppante Swingtown, questa volta con il coretto preso in prestito da The Lion Sleeps Tonight, e un altro tuffo nei sixties “millerizzati” di True Fine Love.

Mentre tra i brani non memorabili il pseudo prog della sintetica Wish Upon A Star e il finto celtic rock di Babes In The Wood.  Decisamente meglio la ricordata Jungle Love, altro riff’n’roll à la Miller, la morbida psichedelia di Sacrifice e My Own Space, The Stake che ricorda (vagamente) Rocky Mountain Way di Joe Walsh. Forse un filo inferiore a Fly Like An Eagle, ma ancora un ottimo album. Nel 1978 esce Greatest Hits 1974-1978****, che vende un “gazilione” di copie (14 milioni per la precisione) e contiene ben sette brani di Book Of Dreams.

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Circle Of Love – Capitol 1981 ***

A questo punto si poneva il problema di un nuovo album, Byron Allred è il nuovo tastierista, ma Miller sembra avere esaurito il meglio del suo repertorio e anche se “Paganini non ripete”, lui lo fa, in peggio, con le canzoni del nuovo album. La lunga Macho City che occupa l’intera seconda facciata del disco è un cosiddetto space blues, che però vira pericolosamente verso il disco-rock e l’approccio parlato che vorrebbe essere simile allo Zappa  più commerciale in effetti è solo noioso e ripetitivo, e si anima solo per brevi tratti. Le quattro canzoni del primo lato forse sarebbero state un discreto mini album: Heart Like A Wheel, tra surf e Buddy Holly, Get On Home, un rockettino leggero leggero, il doo-wop di Baby Wanna Dance e la title track Circle Of Love un pop gradevole alla Beach Boys con belle armonie vocali e un paio di assoli raffinati di Miller, un po’ poco invero, e il disco non vendette neppure molto.

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Abracadabra –Capitol 1982 **1/2

Il disco seguente è forse anche peggio, molta musica pop ma eseguita con un sound pseudo New Wave, infarcito di tastiere, come nell’iniziale Keeps Me Wondering Why, oppure la disco-rock di Abracadabra molto anni ’80, e pure Something Special nonostante la presenza di Greg Douglass o il singolo sixties Give It Up, tra doo-wop e Beach Boys, non brillano molto. Never Say No ricorda il sound di Greg Kihn che l’anno dopo avrà successo con Jeopardy, Things I Told You sembra un brano dei Police meno ispirati e così via fino alla fine del disco, che però va al n°3 delle classifiche e vende un milione di copie.

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Steve Miller Band – Live! – Capitol 1983  ***1/2

Non un disco dal vivo memorabile, ma ci sono tutti i successi, incisi nel tour del 1982: formazione ampliata per aggiungere i due chitarristi extra, già presenti nel disco precedente, John Massaro e Kenny Lee Lewis, oltre a Norton Buffalo all’armonica che cerca di fare del proprio meglio per dare varietà alle versioni, in parte riuscendoci, anche se sono spesso molto simili a quelle dei dischi in studio: però Gangster Of Love, Rock’n Me, una bluesy Living In The Usa, Fly Like An Eagle, Jungle Of Love, The Joker, una pimpante Mercury Blues, con Steve Miller finalmente grintoso alla chitarra, Take The Money And Run, Abracadbra (no questa no), Jet Airliner, tutte in fila, fanno il loro effetto. Peccato che Buffalo’s Serenade un “bluesone” strumentale di quelli duri e puri non fosse presente nel disco originale, ma solo come bonus nella edizione in CD (però nelle edizioni successive non c’è più, neppure nel box di inediti e rarità Welcome To the Vault).

Dal 1985 a oggi, tra alti (pochi) e bassi.

Italian X-Rays – Capitol 1984  ** Per la serie non c’è fine al peggio Italian X-Rays, come direbbe il La Russa di Fiorello “ è veramente brutto”, un disco elettronico e sintetico dove non si salva nulla, neanche le vendite (forse, a cercare col lanternino Golden Opportunity). Di Living in the 20th CenturyCapitol 1986 – **1/2 salviamo, molto a fatica, la sequenza rock e blues di I Wanna Be Loved, My Babe, Big Boss Man, Caress Me Baby (un bel slow) e Ain’t That Lovin You Baby, anche se il sound è spesso pessimo. Forse la migliore Behind The Barn con doppia armonica, Norton Buffalo/James Cotton. Born To Be Blue – Capitol 1988 – **1/2, il primo disco solo di Steve Miller senza band, sulla carta è interessante, con il ritorno di Ben Sidran alle tastiere, e una selezione di jazz standards, ma il suono, con poche eccezioni, e nonostante la presenza di Milt Jackson e Phil Woods, è spesso turgido, tra smooth jazz e fusion di seconda mano, a meno che amiate il genere.

Wide River – Polydor 1993 *** prova a tornare al rock degli anni ’70, o quantomeno ci prova, diciamo che si lascia ascoltare, ogni tanto c’è anche un po’ di grinta come in Blue Eyes, qualche “riffettino” come in Cry Cry Cry e un accenno di 12 battute in Stranger Blues e nella cover (all’acustica) di All Your Love di Otis Rush, ma l’assolo di sax di Bob Mallach, grazie, ma anche no. Diciamo un 6 politico: dobbiamo poi aspettare 17 anni per avere Bingo! – Roadrunner 2010 ***/12, un più che valido disco di blues elettrico che ci riporta ai temi musicali che tanto lo avevano influenzato nella sua giovinezza.

Il disco vede l’ultima apparizione di Norton Buffalo, scomparso a ottobre del 2009 e comunque nell’insieme fa la sua porca figura, entrando anche nella Top 40 USA: Hey Yeah è un solido pezzo rock-blues scritto da Jimmie Vaughan, con Steve Miller che va anche di Wah-Wah  alla grande, Who’s Been Talkin’ è il classico di Howlin’ Wolf, suonato con forza e impeto, con Norton Buffalo ottimo all’armonica, eccellente All Your Love, con Mike Carabello dei Santana alle percussioni, niente a che vedere con la versione moscia di Wide River, molto buoni anche i due duetti con Joe Satriani, Rock Me Baby di BB King, accelerata e potente, e un brano scritto nel 1994 dalla strana accoppiata Nile Rodgers/ Jimmie Vaughn, la soul ballad Sweet Soul Vibe, per non dire del call and response vocale con Sonny Charles nella cover di Tramp di Lowell Fulson, e anche una fantastica Come On (Let The Good Times Roll) che rende omaggio a Jimi Hendrix (ottime anche le quattro bonus della versione Deluxe). Comunque è tutto l’album che funziona, ci voleva tanto a farlo?

Già che c’era, per riprendere un usanza del passato Steve Miller incide anche insieme Let Your Hair Down – Roadrunner 2011 ***1/2, che viene pubblicato l’anno successivo, stessi musicisti e ancora una ottima selezione di brani rock e blues, di nuovo degni della sua reputazione: Snatch It Back And Hold It di Buddy Guy, con la grinta e la verve della versione originale, I Got Love If You Want It  di Slim Harpo fantastica e hendrixiana, Close Together di Jimmy Reed dai profumi R&R, Pretty Thing con il classico drive alla Bo Diddley, una Can’t Be Satisfied di Muddy Waters che è puro Chicago Blues, Sweet Home Chicago à la Butterfield Blues Band, un altro scatenato R&R come The Walk.

Comunque  tutte le altre canzoni (bonus delle Deluxe incluse) sono eccellenti, con Miller che suona la chitarra veramente alla grande: come nel disco precedente oltre a Miller cantano anche Norton Buffalo, Sonny Charles, Kenny Lee Lewis, il tastierista Joseph Wooten e il bassista Billy Peterson.

Se volete, oltre al Live del 1983, tra i dischi dal vivo si possono segnalare anche The Joker (Live) ***1/2 uscito nel 2014 nel 40° anniversario del disco originale https://discoclub.myblog.it/2015/11/15/40-anniversario-piccolo-classico-del-rock-steve-miller-band-the-joker-live-concert/ , per l’etichetta personale di Miller, la Sailor, distribuita dalla inglese Edsel che è la stessa che ha ripubblicato anche molti dei vecchi album della Steve Miller Band in CD, spesso con l’aggiunta di bonus tracks; dello stesso anno anche Live at the Carousel Ballroom , San Francisco, April 1968 ***1/2 della Keyhole, anche se la qualità sonora non è eccelsa, interessante pure tra i live radiofonici Giants Stadium, East Rutherford N.J. 25-06-78 **** della Echoes, per certi versi superiore al disco dal vivo ufficiale del 1982/83, fin troppo striminzito, molto meglio questo radiofonico https://discoclub.myblog.it/2015/04/11/stadium-rock-depoca-steve-miller-giants-stadium-east-rutherford-n-j-25-06-78/ .

E’ tutto. Senza dimenticare il quadruplo Welcome To The Vault  Capitol 2019****, 3 CD + DVD, di cui avete già letto sul Blog la recensione completa https://discoclub.myblog.it/2019/10/29/cofanetti-autunno-inverno-4-uno-scrigno-di-tesori-finalmente-a-disposizione-di-tutti-steve-miller-band-welcome-to-the-vault/  e che è stato quello che ha scatenato la scintilla per questa retrospettiva dedicata all’artista di Milwaukee.

Bruno Conti

Se Elvis Era Il Re Del Rock’n’Roll, Chuck Era…Il Rock’n’Roll! Un Sentito Omaggio Da Uno Stone In Libera Uscita. Ronnie Wood & His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry

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Ronnie Wood & His Wild Five – Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry – BMG CD

In questo mese di Novembre sono usciti ben due tributi al grande Chuck Berry, uno dei pionieri assoluti del rock’n’roll, nonostante non ricorrano particolari anniversari riguardanti il musicista di St. Louis scomparso nel 2017: dell’ottimo album del bluesman Mike Zito intitolato Rock’n’Roll (con una marea di ospiti) se ne occuperà prossimamente Bruno, mentre io oggi vi parlo di questo Mad Lad: A Live Tribute To Chuck Berry, che documenta appunto un concerto tenutosi circa un anno fa, il 13 Novembre 2018, al Tivoli Theatre di Wimborne (una cittadina nel sud dell’Inghilterra) ad opera di Ronnie Wood e dei suoi Wild Five. Dei membri attuali dei Rolling Stones Wood è sicuramente quello che negli anni è stato più attivo da solista, con più di dieci album tra studio e live (anche se un paio pubblicati prima di prendere il posto di Mick Taylor all’interno della storica band britannica), con una qualità media anche più alta di quella di Mick Jagger, cosa bizzarra se consideriamo che gli Stones molto raramente hanno consentito all’ex Faces di collaborare con loro alla stesura delle canzoni (a memoria credo non si arrivi a cinque brani, con Black Limousine come episodio più famoso).

Per questo album però Ronnie ha voluto fare qualcosa di diverso, omaggiando uno dei suoi eroi musicali di sempre, un lavoro che dovrebbe rappresentare il primo disco di una trilogia di tributi a grandi del passato che hanno avuto per il nostro un’importanza particolare (al momento non è dato sapere chi siano gli altri due artisti interessati, anche perché i relativi concerti si terranno a detta di Wood negli anni a venire: io punterei due euro sul fatto che uno possa essere Bo Diddley). Mad Lad è un album davvero piacevole e riuscito, con il nostro che assume il ruolo di band leader con buona autorevolezza, accompagnato da un gruppo, I Wild Five appunto, formato da elementi validissimi (lo strepitoso pianista Ben Waters, la sezione ritmica di Dion Egtved e Dexter Hercules, i sax di Antti Snellman e Tom Waters, ed i cori femminili di Amy Mayes e Denise Gordon); Ronnie, poi, è un chitarrista eccellente ed un cantante discreto, con una voce tra il dylaniano e lo scartavetrato: non sarà Jagger, ma tecnicamente se la cava meglio del collega Keith Richards. E poi in questo concerto Ronnie non è da solo, in quanto in tre pezzi chiama sul palco la brava Imelda May (gliel’ha presentata Jeff Beck?), che riscalda ulteriormente l’ambiente con la sua ugola scintillante https://discoclub.myblog.it/2010/11/24/musica-tradizionale-dall-irlanda-imelda-may-mayhem/ …anche se io una telefonatina all’amico Rod Stewart l’avrei fatta.

Prima di partire con la disamina del contenuto di questo album vorrei evidenziare l’unica magagna: il CD contiene 11 canzoni per circa 40 minuti di musica mentre nel concerto intero sono stati suonati 21 brani, comprendendo però anche cover di altri autori, ma almeno si potevano inserire tutti i pezzi di Berry, dato che di spazio sul dischetto ce n’era ancora (in particolare mancano Around And Around, No Particular Place To Go, Run Rudolph Run e Bye Bye Johnny, oltre a Roll Over Beethoven e Nadine che erano state suonate all’inizio dalla band senza il leader per riscaldare l’ambiente). L’album comincia con l’unico brano scritto da Wood per l’occasione, cioè Tribute To Chuck Berry, in realtà un pretesto per introdurre la serata citando ripetutamente il celebre riff chitarristico con il quale il rocker di colore apriva molte sue canzoni. I pezzi di Chuck iniziano con Talking About You, un rock’n’roll suonato con classe e rispetto, Ronnie sicuro e la band che lo segue spedita (e Waters che fa correre da subito le dita sulla tastiera a modo suo): il brano non è tra i più noti di Berry, ma l’alternanza tra classici e canzoni meno famose sarà il tema della serata.

Ronnie passa alla slide per la gustosa Mad Lad, uno strumentale suonato in maniera formidabile, con il nostro che fa i numeri e ci porta per qualche minuto nel più profondo Mississippi; arriva la May e si prende il microfono per una sontuosa Wee Wee Hours, un raffinatissimo blues lento, suonato dai Wild Five con una maestria degna di una band dei peggiori bar di Chicago, Waters strepitoso ed Imelda che ci mette una grinta notevole. La cantante irlandese resta sul palco per unirsi alle altre due coriste in una saltellante Almost Grown, in cui Wood si diverte un mondo nel botta e risposta vocale con le tre donzelle, cantando in maniera distesa e suonando la chitarra da vero rock’n’roller, mentre Waters continua con la sua eccezionale performance personale. Back In The USA è puro rock’n’roll, spigliato, trascinante e suonato come Dio comanda (e mi immagino Ronnie ad imitare il passo dell’oca di Berry), Blue Feeling è un altro strumentale di livello eccelso, puro blues con la premiata ditta Wood & Waters che è una delizia per il palato, mentre Worried Life Blues non è scritta da Chuck bensì da Maceo Merriweather (ma Berry l’aveva incisa per il lato B del singolo Bye Bye Johnny): altro blues eseguito con classe, eleganza ed uno stile misuratissimo da parte del leader.

Finale splendido a tutto rock’n’roll con un trittico da urlo formato da Little Queenie, Rock’n’Roll Music (questa ancora con la May alla voce solista) e Johnny B Goode, chiusura travolgente per un CD divertentissimo che omaggia con gusto e classe uno di quelli che il rock’n’roll lo ha letteralmente inventato.

Marco Verdi

Steve Miller Band – Tra Blues, Rock E Psichedelia! Parte I

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Le origini

La “ storia” di Steven Haworth (detto Steve) Miller merita di essere ricordata a grandi linee. Figlio di una coppia benestante di Milwaukee negli anni di metà secolo scorso, nato nel 1943 durante la Seconda Guerra Mondiale, con la mamma  Bertha, appassionata di canto jazz, e il padre George, che alla sua professione di medico patologo univa una passione sfrenata per la musica, oltre ad essere anche un eccellente ingegnere del suono dilettante, il giovane Steve sin dall’infanzia era abituato ad avere la casa visitata regolarmente da musicisti, in special modo la coppia formata da Les Paul (suo padrino) e Mary Ford, dei quali i genitori furono testimoni di nozze. Poi, dopo il trasferimento a Dallas in Texas, altri musicisti iniziarono a frequentare casa Miller,  gente come Charles Mingus, Tal Farlow, T-Bone Walker, con quest’ultimo che insegnò al piccolo Steve trucchetti come suonare la chitarra dietro la schiena e con i denti (ricorda un certo Jimi), oltre alla passione per il blues:quando a metà anni ’50 arriva alle scuole medie a Dallas, forma la sua prima band, i Marksmen (dal nome della scuola) , insieme al fratello Buddy al basso, e all’amico Boz Scaggs, a cui a sua volta insegna i primi rudimenti della chitarra. A questo punto la strada è tracciata, alla fine delle scuole superiori Miller torna nel Wisconsin per frequentare l’Università e nel 1962 forma gli Ardells, ancora con Boz Scaggs e un altro musicista importante per i futuri sviluppi, ovvero Ben Sidran, alle tastiere.

Dopo un semestre di studi in Danimarca e a poche ore dalla laurea in letteratura abbandona la scuola, con l’appoggio della mamma e le perplessità del babbo, e si trasferisce ancora una volta, in quel di Chicago, la culla del nascente blues  bianco elettrico americano, e dell’affermata scuola nera capitanata da Muddy Waters e dagli altri artisti della Chess,. Incoraggiato dai nuovi amici, tra cui Paul Butterfield, col quale lavora brevemente, forma insieme al tastierista Barry Goldberg, la Goldberg-Miller Blues Band che pubblicherà solo un singolo nel 1965. Poi torna in Texas per un ultimo tentativo di completare gli studi universitari, ma deluso dall’ambiente rinuncia di nuovo e con un pullmino Volkswagen parte alla volta di San Francisco, la nuova mecca della musica rock. Vede la Butterfield Blues Band e i Jefferson Airplane al Fillmore e decide di restare e provarci anche lui.

Steve Miller Band Psychedelic Years 1968-1970

All’inizio, nel 1966, la band si fa chiamare Steve Miller Blues Band, ma già l’anno successivo Blues sparisce dal moniker e accompagnano Chuck Berry nell’ottimo Live At Fillmore Auditorium (***1/2 Mercury 1967): insieme a Steve Miller, chitarra e armonica, ci sono JIm Peterman alle tastiere, Lonnie Turner al basso e Tim Davis alla batteria, lo stesso anno partecipa al Festival di Monterey. Agli inizi del 1968 rientra in formazione anche Boz Scaggs, seconda voce e chitarra, e tutti si recano a Londra insieme per registrare il primo album con il grande produttore Glyn Johns (si farebbe prima a dire con chi non ha lavorato, ma diciamo che è passato con tutti i grandi, Beatles, Stones, Led Zeppelin e Who può bastare?).

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Children Of The Future – Capitol 1968  ****

Un grandissimo album , spesso  sottovalutato, ma risentito in questi giorni per la stesura di questo articolo, ancora una volta mi ha sorpreso. Ci sono delle analogie con Sgt. Pepper dei Beatles, in quanto le canzoni fluiscono una nell’altra senza soluzione di continuità, e anche alcune sonorità profumano di quella psichedelia gentile tipicamente britannica dell’epoca. Glyn Johns opta per un suono caldo e da avvolgente: i primi 3 brani, Children Of The Future e altri due brevi frammenti già indicano il sound d’assieme, In My First Mind non ha nulla invidiare ai Pink Floyd bucolici degli inizi, con il piano e l’organo di Peterman in grande spolvero, anche con rimandi a Moody Blues e al nascente Canterbury Sound per gli eccellenti intrecci vocali, con The Beauty of Time Is That It’s Snowing (Psychedelic B.B.) che nel sottotitolo cita esplicitamente la psichedelia e nel sound ci sono anche elementi blues e del futuro suono rock della Sreve Miller Band anni ’70.

I primi due brani del lato B sono scritti e cantati da Boz Scagss: Baby’s Calling Me Home, un sognante baroque folk, Steppin’ Stone un vibrante blues elettrico che anticipa il disco omonimo del 1969 dove Scaggs collaborerà con Duane Allman, soprattutto nella fantastica Loan Me A Dime, un blues lento tra i più belli della storia, sentire il lavoro di Allman per credere https://www.youtube.com/watch?v=oTFvAvsHC_Y , e comunque anche Steve Miller è molto efficace, con le successive Roll With It e Junior Saw It Happen che sono puro acid rock westcoastiano del 1968, prima di lasciare spazio di nuovo al blues in Fanny Mae, con Miller anche all’armonica ed ad una cover di Key To The Highway che è classico electric blues.

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Sailor – Capitol 1968 ***1/2

La stessa formazione, sempre con Johns alla console, si trasferisce in giugno a Los Angeles per registrare il secondo album Sailor, che verrà pubblicato ad ottobre. Ancora con questa eccellente commistione di  blues psichedelico: Song For Our Ancestors non ha nulla da invidiare al suono acido e ricercato della West Coast, sempre però anche con elementi britannici, mentre Dear Mary sembra quasi una outtake dei Beatles del White Album, sognante ed intima, con Scaggs che contribuisce all’album con tre brani, il blues-rock di My Song che ricorda il sound brillante dei Moby Grape, Overdrive uno strano blues quasi dylaniano con uso di slide e Dime-A Dance Romance, un altro pezzo rock in stile californiano, tra Spirit e Jefferson.

Living In The Usa un incalzante rock con elementi blues e R&B è il primo singolo ad entrare nelle classifiche Usa, mentre Quicksilver Girl è una deliziosa ballata psych con elementi pop quasi alla Beach Boys, è verrà ripescata anche per la colonna sonora del “Grande Freddo” nel 1984. Lucky Man è il piacevole contributo del tastierista Peterman che la canta, mentre l’organo imperversa, Gangster Of Love è una brevissima cover del brano di Johnny “Guitar” Watson,  in pratica solo il riff del brano, per introdurre uno degli pseudonimi usati da Steve Miller, che poi torna all’amato blues per una cover di You’re So Fine di Jimmy Reed. Ancora un buon disco, anche se leggermente inferiore all’esordio.

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Brave New World – Capitol 1969 ***1/2

Si tratta del primo album senza Scaggs e Peterman che se ne erano andati alla fine del 1968, il secondo sostituito alle tastiere dall’ottimo Ben Sidran (e in un brano, la liquida ballata Kow Kow al piano c’è Nicky Hopkins). Nel disco, registrato sempre in California, spicca però una canzone registrata agli Olympic Studios di Londra, dove appare Paul McCartney con lo pseudonimo di Paul Ramon (da cui presero ispirazione a loro volta i Ramones, per il nome della band): il brano My Dark Hour, un potente rock chitarristico, è una improvvisazione tra Paul e Steve Miller e proprio il riff di chitarra verrà poi usato nel 1976 per Fly Like An Eagle (della serie non si butta mai via nulla).

Invece in Space Cowboy, un altro dei nomignoli di Miller, che la scrive insieme a Sidran, se il riff  vi ricorda qualcosa, “l’ispirazione” arriva da Lady Madonna. Sempre prodotto da Johns nel disco non mancano comunque i consueti elementi psichedelici come nella estatica title-track o nella vibrante e solare Celebration Song, scritta sempre con Sidran e con le armonie vocali di McCartney; il bassista Tim Davis scrive e canta nella potente scarica rock di Can’t You Hear Your Daddy’s Heartbeat, ed è la voce solista anche nel delizioso folk-blues LT’s Midnight Train, firmata dal batterista  Lonnie Turner. Ci sono altri tre brani firmati dalla coppia Miller/Sidran, lo strano psych blues con armonica di Got Love ‘Cause You Need It, la morbida e westcostiana ballata Seasons e la ricordata Space Cowboy.

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Your Saving Grace – Capitol 1969 ***

Sempre nel 1969, a novembre, per mantenere la media dei due dischi all’anno, esce Your Saving Grace, lo stile è simile a quello del disco precedente, ma nell’insieme meno soddisfacente: solita equa e democratica divisione dei brani, uno a testa per Davis e Turner, uno della coppia Miller/Sidran, una cover di Motherless Childern che però fatica a decollare, forse il brano più interessante è la lunga Baby’s House scritta in coppia con Nicky Hopkins, che peraltro non è memorabile, anche se il tastierista inglese ci mette del suo. Ultimo disco a essere prodotto da Glyn Johns.

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Number 5 – Capitol 1970 ***

Il disco è prodotto dallo stesso Miller, e ci sono vari raddoppi di funzioni: un altro bassista Bobby Winkelman, nella tirata e dagli echi Beatlesiani, Good Morning, due tastieristi, con Hopkins che affianca Sidran, con Lee Michaels che si aggiunge all’organo per Going To Mexico, un  solido pezzo rock-blues  tipico di Miller, scritto con Boz Scaggs; non male ma non entusiasmante la bucolica I Love You, addirittura un tuffo “Campagnolo” nella comunque vibrante Going To The Country con grande finale chitarristico di  Miller, dove appaiono Charlie McCoy all’armonica e il violinista Buddy Spicher, mentre nel country-rock di Tokin’s del batterista Tim Davis (che l’anno dopo se ne andrà) ci sono anche Wayne Moss alla chitarra e Bobby Thompson al banjo. Hot Chili, come da titolo, aggiunge divertenti atmosfere Tex-Mex con tanto di trombe mariachi e anche una Steve Miller’s Midnight Tango, scritta da Sidran, diciamo non indimenticabile, come pure Industrial Military Complex Hex, che però in nuce ha il sound futuro della SMB anni ’70. Miller va anche di wah-wah nella lunga Jackson-Kent Blues, un gagliardo pezzo rock, forse il brano migliore del disco.

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Rock Love – Capitol 1971 **1/2

Le critiche per questo album (dove non è presente nessuno dei musicisti dell’album precedente) non furono particolarmente tenere: registrato metà dal vivo, i tre brani della facciata A, dove Miller è accompagnato dai  Frumious Bandersnatch, la band di Winkelman, dove militava anche Ross Valory, il futuro bassista dei Journey, e tre pezzi  in studio. A me a tratti non dispiace, i primi due brani sono registrati a Hollywood, ma in Florida, una piacevole The Gangster Is Back e lo slow Blues Without Blame, mentre la lunghissima Love Shock arriva da Pasadena, un rock-blues quasi hendrixiano con esteso uso del wah-wah da parte di Steve, anche se i lunghi assoli di batteria e basso nel finale non aiutano.

Dei pezzi in studio Rock Love, classico brano alla Miller, non è male, ma la morbida Harbor Lights e la lunga e strumentale Deliverance, anche con intermezzo scat di Steve, sono piuttosto prolisse. Il LP fu pubblicato dalla Capitol senza il consenso di Miller, mentre il musicista si stava riprendendo da un incidente con la motocicletta.

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Recall the Beginning…A Journey from Eden – Capitol 1972 – ***

Per questo album ritorna Ben Sidran, che è anche il produttore del disco, ma come il precedente si rivelerà un flop commerciale, benché il LP non sia poi brutto, con Jim Keltner, Jack King e Roger Allan Clark, che si alternano alla batteria con Gary Mallaber (che poi sarà con la SMB negli anni d’oro dal 1976 al 1987), Gerald Johnson al basso e Jesse Ed Davis, seconda chitarra in Heal Your Heart, e con Miller che introduce il suo terzo alter ego in Enter Maurice. Proprio questo brano inizia ad inserire in modo embrionale quelle scansioni ritmiche che da lì a poco faranno la fortuna della band, anche se i coretti…insomma. E anche l’uso saltuario di archi e fiati forse è un po’ ridondante: in High Your Mama il nostro va di falsetto, mentre il pezzo con Jesse Ed Davis è un buon blues-rock vagamente alla Little Feat, Somebody Somewhere Help Me, con fiati, sembra quasi una canzone dei Doobie Brothers o dello Stills più scanzonato, Love’s Riddle una ballata sognante alla Crosby. Insomma il nostro deve ancora decidere bene cosa fare, anche se in Fandango e in Journey From Eden si intravede qualcosa del futuro sound.

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The Joker – Capitol 1973 ***1/2

Poi di colpo, sulle ali di un brano fortunato, arriva il successo clamoroso: album al n°2 nelle classifiche Usa, un milione di copie vendute, il singolo al primo posto. La formula classica del rock americano di Steve Miller deve ancora essere messa bene a punto. Però il riff e il ritornello di The Joker sono veramente irresistibili, uno dei brani dove rock e pop si incontrano in modo perfetto. Ottime anche l’iniziale Sugar Babe, una brillante rock song a tutto riff, Mary Lou con divertenti echi sixties, lo scioglilingua della ritmatissima Shu Ba Da Du Ma Ma Ma Ma, guidata dal basso super funky di Johnson, futuro cavallo di battaglia live, Your Cash Ain’t Nothin’ but Trash che è il seguito di Space Cowboy e The Gangster Of Love.

Nella seconda parte non mancano alcune tracce blues come The Lovin’ Cup, Come On in My Kitchen di Robert Johnson, dal vivo a Philadelphia, come la successiva Evil. Conclude il disco Something to Believe In, una ballatona country con Sneaky Pete Kleinow alla pedal steel.  Dal disco verranno tratti in tutto quattro singoli usciti tra il 1973 e il 1975. Prima del ritorno nel 1976 con il nuovo album, che viene già registrato però tra il 1975 e il 1976.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Se Per Sbaglio Lo Chiamate Chris Non Si Offende Di Certo! Ned LeDoux – Next In Line

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Ned LeDoux – Next In Line – Powder River/Thirty Tigers CD

Quando due anni fa ho ascoltato il disco d’esordio di Ned LeDoux, Sagebrush, dopo qualche remora iniziale ne sono stato conquistato completamente https://discoclub.myblog.it/2018/01/13/e-proprio-il-caso-di-dire-tale-padre-tale-figlio-ned-ledoux-sagebrush/ . Figlio del compianto Chris LeDoux (per chi scrive uno dei migliori countrymen in circolazione quando era in vita), Ned ha avuto la consapevolezza di essere pienamente adeguato a portare avanti l’eredità musicale del padre e, complice un buonissimo talento compositivo ed una voce che somiglia in maniera impressionante a quella del genitore, ha intelligentemente iniziato la sua carriera nel segno della continuità con lo stile di Chris, il tutto con la massima naturalezza: in poche parole, si è fatto accettare senza problemi dai fans del padre quando molti avrebbero potuto accusarlo di essere derivativo.

Ed ora Ned ci riprova a distanza di due anni con Next In Line, che al primo ascolto si rivela anche meglio del già ottimo debutto: alla produzione c’è ancora l’amico Mac McAnally (noto cantautore in proprio e da anni collaboratore di Jimmy Buffett) e, anche se non conosco i nomi di chi suona nel disco in quanto ho tra le mani un advance CD, posso affermare che ci troviamo di fronte ad un riuscitissimo album di puro rockin’ country elettrico, con ballate di stampo western sferzate dal vento e brani caratterizzati da ritmo, feeling e chitarre. La voce profonda e le canzoni di Ned fanno il resto, facendo di Next In Line un album perfetto per l’ascolto in macchina o anche in casa con una bella birra ghiacciata in mano. Basta sentire l’iniziale Old Fashioned e si è già in pieno cowboy mood: infatti il brano è un country’n’roll chitarristico e coinvolgente, dal gran ritmo e con un refrain immediato. E poi la voce, sembra di sentire Chris redivivo. Worth It è una western song elettrica e cadenzata, niente violini e steel ma solo chitarre al vento, mentre un fiddle spunta nella saltellante Dance With You Spurs On, che infatti è molto più country anche se l’approccio è sempre vigoroso, ed in più c’è la presenza di Corb Lund in duetto (e come co-autore del pezzo).

Molto bella la title track, una ballata languida ma sempre dal tempo mosso, caratterizzata da una melodia eccellente e ricca di pathos; la deliziosa A Cowboy Is All è puro country, irresistibile sia nel ritmo che nel motivo, e sembra ancora una outtake di un vecchio album di papà Chris. Where You Belong è il primo singolo, ed è un rockin’ country potente, trascinante e tutto da godere, così come Travel Alone, dal ritmo galoppante e che fa pensare a lunghe cavalcate nelle praterie del Wyoming. Path Of Broken Dreams è una salutare oasi acustica, ma il disco riprende subito a rockeggiare con Just A Little Bit Better, nella quale il nostro duetta proprio con McAnally (e Chris Stapleton partecipa alla scrittura), e con una sanguigna e travolgente cover del classico di John Fogerty Almost Saturday Night. La limpida western ballad Great Plains precede l’omaggio finale di Ned al padre, la cui voce profonda introduce (per mezzo di una registrazione inedita) la sua Homegrown Western Saturday Night, eseguita dal figlio con attitudine da vero rock’n’roll cowboy: uno dei pezzi più avvincenti del CD.

Altro ottimo lavoro per Ned LeDoux: sul vostro scaffale mettetelo pure a fianco dei dischi di Chris.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 13. L’Album Che Chiudeva (Bene) La Loro Decade Più Importante. Jethro Tull – Stormwatch 40th Anniversary

jethro tull stormwatch box 6

Jethro Tull – Stormwatch 40th Anniversary – Parlophone/Warner 4CD/2DVD Box Set

Consueto appuntamento annuale con le ristampe celebrative degli album dei Jethro Tull a cura di Steven Wilson e con la fattiva collaborazione di Ian Anderson, una delle migliori serie in circolazione in termini di rapporto qualità/prezzo, con box sempre esaurienti e completi sia dal punto di vista musicale che a livello di informazioni scritte. Quest’anno è la volta di Stormwatch, disco del 1979 della band britannica ed ultimo di una ideale trilogia folk-rock iniziata nel 1977 con Songs From The Wood e proseguita nel 1978 con Heavy Horses. Stormwatch era un altro album ispirato e di ottimo livello da parte del gruppo di Blackpool, con tematiche che sarebbero attuali ancora oggi come l’inquinamento e la salvaguardia dell’ambiente, mentre musicalmente le canzoni erano quasi tutte di qualità superiore, in giusto equilibrio tra atmosfere folk e momenti più rockeggianti, ma sempre con melodie dirette e fruibili.

Il disco, oltre a chiudere più che degnamente la decade più importante della carriera dei Tull, era anche l’ultimo a presentare la line-up “classica” del gruppo in quanto, a parte Anderson e l’inseparabile chitarrista Martin Barre, sia i tastieristi David Palmer e John Evan che il batterista Barriemore Barlow lasceranno la band dopo il tour successivo alla pubblicazione dell’album, mentre il bassista John Glascock dovrà abbandonare le sessions (con Anderson stesso che si occuperà di suonare le parti di basso restanti) per un problema di insufficienza cardiaca che gli sarà purtroppo fatale nel Novembre dello stesso anno. Questa nuova ristampa, sotto intitolata Force 10 Edition, è una delle più ricche della serie, con ben quattro CD ed due DVD audio (che però ripetono gran parte del materiale incluso nei CD in differenti configurazioni sonore), con una buona quantità di brani inediti ed anche diverse rarità: ma vediamo i contenuti nel dettaglio.

CD1. L’album originale remixato da Wilson, che inizia con North Sea Oil, uno dei pezzi più immediati nonché primo singolo estratto, un folk-rock ritmato e vibrante tipico dei nostri, con i consueti ficcanti interventi di flauto ed un bell’intreccio tra chitarra acustica ed elettrica. Orion è una bellissima canzone che alterna parti mosse e rockeggianti a splendidi intermezzi acustici, con evidenti rimandi al capolavoro Aqualung, ed anche Home fa vedere che Anderson era in una fase ispirata, in quanto stiamo parlando di una toccante rock ballad con un apprezzabile e non invasivo arrangiamento orchestrale. Dark Ages è un altro notevole pezzo che alterna momenti bucolici a taglienti svisate chitarristiche per nove minuti decisamente creativi, nei quali Barre svolge un ruolo di primo piano; Warm Sporran è uno strumentale funkeggiante che ricorda più il Mike Oldfield di quel periodo che i Tull stessi, Something’s On The Move è puro rock, trascinante e con elementi quasi hard, mentre Old Ghosts è ancora folk-rock nel tipico stile della band, orecchiabile ma ricco di idee non banali. La breve e folkie Dun Ringill precede la lunga (quasi otto minuti) Flying Dutchman, che inizia come una ballata pianistica per tramutarsi prima in una deliziosa folk song e poi in un pezzo rock chitarristico e coinvolgente; chiude Elegy, bellissimo brano strumentale scritto da Palmer, puro folk pastorale orchestrato nuovamente con molto gusto.

CD2. Un dischetto di outtakes provenienti dalle stesse sessions, quindici brani di cui sette inediti assoluti ed altre rarità assortite (alcune delle quali pubblicate in antologie del passato come 20 Years Of Jethro Tull e la collezione di inediti Nightcap), come l’accattivante brano uscito solo su singolo A Stitch In Time ed il suo lato B, una potente versione dal vivo di Sweet Dream (un brano del 1969), o l’intrigante strumentale tra rock e musica medievale King Henry’s Madrigal, all’epoca uscito solo su un EP. Le outtakes dei Tull spesso non erano inferiori ai brani poi pubblicati ufficialmente, e tra gli episodi salienti segnalerei senz’altro una strepitosa prima versione di Dark Ages di dodici minuti, la take completa di Orion, altri nove minuti, l’ottima rock song Crossword che poteva benissimo finire su Stormwatch, la saltellante Kelpie, una sorta di giga rock molto piacevole, qualche strumentale di ottimo livello (A Single Man, Sweet Dream Fanfare e l’eccellente  The Lyricon Blues) e l’evocativa e folkie Broadford Bazaar.

CD 3-4. Un concerto intero, ovviamente inedito, registrato a Den Haag in Olanda il 16 Marzo 1980, con l’ex Fairport Convention (che all’epoca si erano sciolti) Dave Pegg come nuovo bassista. Uno show molto potente ed inciso benissimo, con Anderson e compagni in grande forma: si inizia con ben sette brani di Stormwatch suonati uno di fila all’altro (ma manca stranamente North Sea Oil), con ottime rese di Dark Ages, Orion e Home. Una splendida Aqualung di dieci minuti introduce la parte della serata in cui i nostri pescano dal repertorio precedente al 1979, e non mancano canzoni prese dagli altri due dischi della “trilogia folk”, cioè Jack-In-The-Green, Heavy Horses, una bellissima Hunting Girl e Songs From The Wood. Finale strepitoso con una raffica di classici sparati uno dopo l’altro: Thick As A Brick, Too Old To Rock’n’Roll, Too Young To Die, Cross-Eyed Mary, Minstrel In The Gallery e la consueta chiusura con la trascinante Locomotive Breath. Gli anni ottanta saranno problematici per i Jethro Tull così come per tanti altri gruppi e solisti della prima (o seconda) ora, a partire dal travagliato A del 1980, ma per ora godiamoci questa riedizione di Stormwatch, che come ho scritto prima è una delle più interessanti della serie.

Marco Verdi