Non Un Capolavoro Assoluto Come I Primi Due Album, Ma Come Ristampa La Migliore Delle Tre Uscite Finora. The Band – Stage Fright 50th Anniversary

the band stage fright 50 anniversary 2 cd

The Band – Stage Fright 50th Anniversary – Capitol/Universal 2CD Deluxe – 2CD/BluRay/LP/45rpm Super Deluxe Box Set

Se l’edizione per il cinquantesimo anniversario di Music From Big Pink, mitico esordio discografico di The Band, era stata una mezza truffa, quella del loro secondo disco omonimo (conosciuto anche come The Brown Album) era decisamente più appetibile dal momento che presentava l’intera esibizione del gruppo canadese al leggendario Festival di Woodstock del 1969,  inedita per tutti ma non per il sottoscritto ed altre 1968 persone nel mondo che si erano accaparrate il megabox dedicato all’evento rock più famoso di sempre  https://discoclub.myblog.it/tag/richard-manuel/. Ora è la volta del terzo disco di Robbie Robertson e compagni, ovvero Stage Fright del 1970, e la ristampa (rimandata di qualche mese a causa del Covid) è quella finora che offre più chicche, dal momento che oltre al disco originale e ad un paio di takes alternate offre una session rarissima e molto particolare sul primo CD ed uno splendido concerto inedito sul secondo (come nei primi due casi, il box è praticamente inutile nonché molto costoso, visto che il doppio CD presenta comunque i contenuti musicali al completo).

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Ma andiamo con ordine: si sa che nel mondo del rock non è mai facile dare seguito ad un album che viene unanimemente considerato un capolavoro, figuriamoci quando i capolavori sono due di fila. Questo è quello che successe nel 1970 con la Band, che aveva all’attivo due album che ancora oggi sono guardati come pietre miliari della storia del rock (Music From Big Pink e The Band, appunto), due lavori che si contrapponevano decisamente alla psichedelia ed alle filosofie hippy tanto in voga introducendo un suono completamente nuovo che mescolava rock, blues, country, folk, jazz, errebi, soul e dixieland in un modo totalmente inedito, introducendo in un certo senso quello che oggi viene definito Americana Sound, il tutto con testi che parlavano di semplici storie di tutti i giorni quando non di eventi della Guerra di Secessione, ed i cinque si presentavano con un look da signori di campagna del 1900 molto distante da quello della Summer Of Love. In quel 1970 Robertson, da sempre il principale quando non unico autore del gruppo, era giustamente visto come uno dei massimi songwriters in circolazione al pari di Van Morrison, John Fogerty e Paul Simon (che infatti proprio quell’anno daranno alle stampe i capolavori Moondance, Cosmo’s Factory e Bridge Over Troubled Water) e superiore anche a Bob Dylan e Brian Wilson che in quel momento non stavano vivendo la loro stagione migliore.

Color-Photo-Credit-Norman-Seeff

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Stage Fright però non nacque sotto una buona stella: inizialmente i nostri pensavano infatti di registrarlo dal vivo alla Woodstock Playhouse di fronte ad un pubblico, ma le autorità locali non diedero il permesso in quanto ancora scosse dall’invasione di hippies del ’69, e così Robertson e soci dovettero far buon viso a cattivo gioco riuscendo almeno a strappare il permesso di usare la medesima location per le sessions. L’album fu anche il primo in cui i nostri si autoprodussero (quindi niente John Simon come nei primi due dischi), facendo però mixare le varie canzoni prima ad un giovane Todd Rundgren e poi, forse per insicurezza sul risultato, al già più esperto Glyn Johns: il problema è che non si saprà mai quale mix finirà sul disco, anche se la versione più attendibile parla di un insieme di entrambi! Come se non bastasse, sia Levon Helm che Rick Danko e Richard Manuel (le tre voci soliste del gruppo) in quel periodo avevano cominciato a far uso di droghe pesanti, con il risultato di non essere sempre in palla durante le sessions (spesso si addormentavano, con tanto di materassi e cuscini portati in loco) e di contribuire molto poco in sede di songwriting, con un solo pezzo co-firmato da Helm insieme a Robbie e due da Manuel (che saranno addirittura gli ultimi della carriera del cantante e pianista).

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Toccò quindi a Robertson e Garth Hudson, entrambi refrattari alle droghe, tenere la barra dritta per condurre il disco in porto, ed il risultato fu un altro grande album che aveva il solo difetto di arrivare dopo due vere opere d’arte come i primi lavori del gruppo, con un’altra serie di canzoni splendide che confermavano la vena apparentemente inesauribile di Robbie (e vedremo tra poco che invece si stava esaurendo) ed il fatto che, nonostante le prime crepe, i cinque erano ancora eccellenti musicisti. Il suono di Stage Fright è più orientato al rock dei suoi due predecessori e presenta meno stili diversi, ma è comunque sempre un bel sentire, con almeno tre classici assoluti: la rockeggiante The W.S. Walcott Medicine Show, colorata dai sax tenore e baritono di Hudson e John Simon (nel suo unico intervento in tutto il disco) e con Helm e Danko a duettare https://www.youtube.com/watch?v=NlBzt_vyehQ , la diretta e trascinante The Shape I’m In, con Garth strepitoso all’organo https://www.youtube.com/watch?v=Z9ghyKPtb50 , e la luccicante rock ballad che intitola l’album  https://www.youtube.com/watch?v=f1DI5Ht7K7E. Ma le canzoni splendide non finiscono certo qui, in quanto abbiamo ancora la countreggiante Daniel And The Sacred Harp, fenomenale, la pacata e fluida The Rumor, dalla veste sonora raffinata, lo scoppiettante singolo Time To Kill, che uno come Tom Petty deve aver ascoltato fino alla nausea, la soulful e calda Just Another Whistle Stop, con bell’assolo chitarristico di Robbie, e le toccanti All La Glory (scritta da Robertson per la figlia appena nata) e Sleeping, inframezzate dal rock’n’roll dal sapore di Louisiana Strawberry Wine.

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La versione estesa presenta un nuovo mix di Bob Clearmountain, una nuova copertina e la sequenza delle canzoni cambiata da Robbie secondo l’idea originale; nel primo CD come bonus troviamo due missaggi diversi di Strawberry Wine e Sleeping, dall’impianto più acustico, e soprattutto una rara session sempre del 1970 chiamata The Calgary Hotel Room Recordings, registrata appunto nella camera di un albergo della località canadese durante una tappa del Festival Express  https://www.youtube.com/watch?v=7-XmvrZRKGc (il famoso “treno rock” che attraversò il Canada con concerti decisi all’ultimo momento a seconda delle fermate – una specie di antenato della Rolling Thunder Revue di Bob Dylan – al quale parteciparono oltre alla Band i Grateful Dead, Janis Joplin, Buddy Guy, Delaney & Bonnie ed i Flying Burrito Brothershttps://discoclub.myblog.it/2012/08/30/ieri-e-oggi-festival-express-big-easy-express-41-anni-dopo-t/ , sette improvvisazioni acustiche con la presenza dei soli Robertson, Danko e Manuel (e Robbie partecipa anche come cantante) con una qualità di registrazione più che accettabile vista l’informalità del luogo: i brani suonati sono due versioni di Get Up Jake, uno veloce ed una più lenta, The W.S. Walcott Medicine Show https://www.youtube.com/watch?v=tTKo0TyMnPk , un’improvvisazione intitolata Calgary Blues https://www.youtube.com/watch?v=jTeGFyUfF3s  e le cover di Rockin’ Pneumonia And The Boogie Woogie Flu di Huey “Piano” Smith, Before You Accuse Me di Bo Diddley e Mojo Hannah di Tami Lynn https://www.youtube.com/watch?v=QiPrNM8laOo .

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Ma il vero fiore all’occhiello di questa ristampa è il concerto inedito sul secondo dischetto, registrato alla Royal Albert Hall di Londra nel giugno del 1971, venti canzoni per quasi 80 minuti di musica che rappresentano un tipico show completo dei nostri in quell’epoca (è bizzarro come una volta, quando i musicisti erano più giovani e nel pieno delle loro forze, i concerti durassero molto meno di oggi). Lo spettacolo in questione è considerato dai fans di Robertson e compagni uno dei loro migliori di sempre, e dopo averlo ascoltato non posso che confermare: il quintetto infatti ci regala formidabili esecuzioni del meglio del proprio repertorio, riletto in maniera concisa (non erano un gruppo da jam session) ma con grande forza e feeling, e con le ben note e strepitose armonie vocali in gran spolvero. Stage Fright è rappresentato per metà, con versioni assolutamente coinvolgenti dei pezzi più adatti alla dimensione live: la title track https://www.youtube.com/watch?v=B-O-MLif5oY , The Shape I’m In https://www.youtube.com/watch?v=t8caX3tBkEM , The W.S. Walcott Medicine Show, Time To Kill e Strawberry Wine.

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Non mancano ovviamente i classici immortali dei nostri (The Weight https://www.youtube.com/watch?v=7yilhWNEPeo , Up On Cripple Creek, King Harvest (Has Surely Come), la dylaniana I Shall Be Released – sentite come canta Manuel https://www.youtube.com/watch?v=BbYOjtzTffo  – Across The Great Divide e The Night They Drove Old Dixie Down https://www.youtube.com/watch?v=pO06Ow1kmZU ), ma neppure alcune bellissime “deep cuts” come Rockin’ Chair, Look Out Cleveland, We Can Talk e The Unfaithful Servant https://www.youtube.com/watch?v=XQfESdJZ0iE . Detto di un paio di sanguigne cover tipiche delle loro setlist (Loving You Is Sweeter Than Ever dei Four Tops e Don’t Do It di Marvin Gaye), la serata termina in crescendo con il famoso assolo di tastiere di Hudson intitolato The Genetic Method che confluisce nella potente Chest Fever, e con il gioioso cajun-rock di Rag Mama Rag https://www.youtube.com/watch?v=dC7n_0A_eAE . Da Stage Fright in poi l’ispirazione di Robertson calerà improvvisamente, e dopo il parzialmente deludente Cahoots del 1971 non ci saranno nuove canzoni originali di The Band fino al 1975, quando uscirà il peraltro magnifico Northern Lights-Southern Cross, che è anche il mio preferito dopo i primi due. Ma queste sono altre storie.

Marco Verdi

Una Splendida Celebrazione Di Un Grande Cantautore. Eric Andersen – Woodstock Under The Stars

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Eric Andersen – Woodstock Under The Stars – Y&T 3CD

La storia della letteratura è piena di opere che narrano storie di personaggi il cui obiettivo ultimo è il ritorno a casa, dall’Odissea di Omero al Fu Mattia Pascal di Pirandello; anche un filosofo del calibro di Georg Friedrich von Hardenberg, più conosciuto come Novalis, scrisse una volta che “la filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque”, citando non a caso la parola “nostalgia” che deriva dalle parole greche “nostos”, ritorno a casa, e “algos”, dolore. L’album di cui mi occupo oggi nasce in parte anche da questa nostalgia di casa e dall’obiettivo, più o meno inconscio, del farvi ritorno. Durante la sua lunga carriera iniziata negli anni sessanta Eric Andersen ha girovagato parecchio, arrivando per un certo periodo a vivere anche in Olanda, e solo in tempi recenti è tornato ad abitare a Woodstock, un posto da lui giudicato magico e fonte di continua ispirazione, con un’atmosfera capace di favorire la palingenesi artistica di chiunque, nonostante la scena musicale odierna della cittadina che sorge nello stato di New York non sia ceramente paragonabile a quella della seconda metà dei sixties.

Andersen ha dunque pensato di omaggiare il suo luogo di residenza pubblicando questo splendido triplo CD intitolato Woodstock Under The Stars, contenente una lunga serie di brani registrati perlopiù dal vivo nel periodo dal 2001 al 2011 in vari locali appunto di Woodstock, con l’aggiunta di due tracce risalenti al 1991 che sono anche le uniche che provengono da un’altra location. Un triplo album bellissimo, che oltre ad omaggiare la famosa cittadina del titolo è anche un regalo ai fans del grande cantautore di Pittsburgh (regalo si fa per dire, dato che il costo si aggira sui 40 euro), in quanto il 98% del materiale incluso è assolutamente inedito pur riguardando canzoni già note del songbook di Eric. Se aggiungiamo il fatto che l’incisione è praticamente perfetta, che le performance sono contraddistinte da un feeling molto alto e che tra i musicisti coinvolti abbiamo Garth Hudson e Rick Danko della Band, John Sebastian (ex leader dei Lovin’ Spoonful), i fratelli Happy ed Artie Traum e l’ex Hooters Eric Bazilian (oltre al fatto che le canzoni tendono dal bello allo splendido), l’acquisto di Woodstock Under The Stars è praticamente obbligatorio. Il primo CD comprende brani incisi live tra il 2001, 2003, 2004 e 2006, quindici canzoni tra le quali non mancano classici del grande folksinger (Wind And Sand, Violets Of Dawn, Blue River) uniti a pezzi magari meno noti ma di uguale bellezza, come la strepitosa Rain Falls Down In Amsterdam, la toccante Sudden Love, il puro folk della fulgida Lie With Me, la splendida Belgian Bar e la dylaniana Salt On Your Skin, ballata di notevole intensità. Ma potrei tranquillamente citarle tutte.

Ci sono anche due brani incisi in studio: una raffinata e limpida versione aggiornata di Liza Light The Candle, originariamente del 1975, ed una cover del classico di Fred Neil The Dolphins, uno dei soli tre pezzi già pubblicati ufficialmente essendo uscito nel 2018 all’interno di un album tributo allo stesso Neil; come bonus abbiamo le altre due canzoni già uscite in passato (nell’album One More Shot), e cioè due straordinarie riletture di Blue River e Come Runnin’ Like A Friend con Andersen insieme a Danko e Jonas Fjeld, registrate live in Norvegia nel 1991. Il secondo e terzo dischetto presentano 21 canzoni provenienti da un concerto (ovviamente ancora a Woodstock) del 2011 mandato in webcast, con Eric accompagnato da una band che comprende i già citati Happy Traum (chitarra e banjo) e John Sebastian (armonica), Joe Flood (violino e mandolino) e la moglie Inge Andersen alle armonie vocali. Ci sono tre pezzi in cui non è Eric a cantare, ma rispettivamente Traum (Buckets Of Rain, di Bob Dylan), Flood (Niagara) ed Inge (Betrayal, canzone decisamente bella scritta da lei), il resto è tutta farina del suo sacco: non mancano ovviamente brani che erano presenti anche nel primo CD (ma chiaramente in versione diversa dato che provengono da un altro concerto), specie nel finale, ma molte altre canzoni di grande bellezza come Dance Of Love And Death, Singin’ Man, Mary I’m Comin’ Back Home (uno splendore), Woman She Was Gentle e le trascinanti Before Everything Changed e Close The Door Lightly, per concludere con una struggente rilettura del superclassico Thirsty Boots.

Woodstock Under The Stars è quindi un’opera praticamente irrinunciabile per gli estimatori di Eric Andersen e nondimeno allettante per chiunque abbia a cuore qualunque espressione di songwriting di classe.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 12. Quando Robbie Robertson Scriveva Grandi Canzoni…E Le Faceva Cantare Agli Altri! The Band – The Band 50th Anniversary

The Band The Band 50th anniversary edition

The Band – The Band 50th Anniversary – Capitol/Universal Deluxe 2CD – Super Deluxe 2CD/2LP/BluRay/45rpm Box Set

Il titolo del post odierno è volutamente riferito alla carriera solista di Robbie Robertson ed in particolare al suo recente album Sinematic, nel quale il songwriter canadese ha dimostrato di avere praticamente esaurito la sua vena artistica ed anche la poca voce che aveva https://discoclub.myblog.it/2019/10/01/non-e-un-brutto-disco-ma-nemmeno-bello-robbie-robertson-sinematic/ . Ma c’è stato un tempo, tra il 1968 ed il 1970, in cui Robbie era probabilmente il miglior autore di canzoni al mondo e non aveva bisogno di usare la sua non imperdibile voce per farle ascoltare in quanto era a capo di quel meraviglioso gruppo denominato The Band. Già noti nell’ambiente per aver suonato prima con Ronnie Hawkins e soprattutto con Bob Dylan nel famoso tour del 1966 quando ancora si chiamavano The Hawks, i nostri avevano esordito nel 1968 con il celeberrimo Music From Big Pink, un capolavoro in tutto e per tutto ed uno degli album più influenti negli anni a venire https://discoclub.myblog.it/2018/07/04/grandissimo-disco-ma-questa-edizione-super-deluxe-piu-che-essere-inutile-sfiora-la-truffa-the-band-music-from-big-pink-in-uscita-il-31-agosto/ , capace di colpire a tal punto un giovane Eric Clapton da convincerlo a mettere da parte il tanto amato rock-blues, lasciare i Cream ed iniziare la carriera solista. Dare seguito ad un capolavoro non è mai semplice, ma la Band con l’omonimo The Band del 1969 (detto anche The Brown Album per il colore della copertina) riuscì a fare addirittura meglio, mettendo a punto un lavoro che oggi è giustamente considerato come una pietra miliare del rock mondiale ed uno dei classici dischi da isola deserta.

Ai giorni nostri è quasi un’abitudine avere a che fare con album del genere cosiddetto Americana con all’interno brani che mescolano stili diversi, ma dobbiamo pensare che a fine anni sessanta un certo tipo di sonorità in pratica non esisteva, e la Band fu tra le prime e più importanti realtà a fondere con la massima naturalezza rock, country, folk, blues, errebi, soul, ragtime, bluegrass, gospel e chi più ne ha più ne metta, creando un suono “ibrido” che ancora oggi viene citato come ispirazione fondamentale da intere generazioni di musicisti. Anche i testi delle canzoni erano in aperto contrasto con quanto andava di moda allora (non dimentichiamo che eravamo nel pieno della Summer Of Love), trattando di argomenti poco “cool” come storie di frontiera, la guerra di secessione, i grandi luoghi geografici degli Stati Uniti, o anche della vita rurale di tutti i giorni nelle piccole realtà di provincia da parte di comunità con forti valori religiosi: lo stesso look del gruppo ricordava una piccola congrega di Amish dei primi del novecento. E poi ovviamente c’erano i membri del quintetto, tutti quanti musicisti di primissimo piano: Robertson oltre ad un grande autore era (è) anche un chitarrista coi fiocchi, i tre cantanti Levon Helm, Richard Manuel e Rick Danko, oltre ad essere capaci di splendide armonie erano anche validissimi polistrumentisti, mentre Garth Hudson è sempre stato una sorta di direttore musicale e leader silenzioso, abile com’era nel suonare qualsiasi cosa gli passasse davanti.

The Band (registrato a Los Angeles e co-prodotto da John Simon, quasi un sesto membro del gruppo) è quindi un album in cui si sfiora la perfezione come raramente è successo altrove, ed è anche il primo lavoro dei nostri con solo materiale originale: se Music From Big Pink aveva come brano portante un capolavoro come The Weight, qui troviamo altri due classici che non sono certo da meno, ovvero le straordinarie The Night They Drove Old Dixie Down e Up On Cripple Creek (entrambe cantate da Helm), due canzoni che la maggior parte degli artisti non scrive in un’intera carriera. Ma il disco è anche (molto) altro, come la saltellante apertura con il notevole errebi Across The Great Divide, il trascinante cajun-rock Rag Mama Rag, la ballata rurale in odore di ragtime When You Awake, la toccante soul ballad Whispering Pines, caratterizzata dalla voce vellutata di Manuel, il rock’n’roll da festa campestre Jemima Surrender. E ancora la folk song modello Grande Depressione Rockin’ Chair, il boogie alla Professor Longhair Look Out Cleveland, il rock-got-country-got soul Jawbone, la lenta e pianistica The Unfaithful Servant, un piccolo capolavoro di equilibrio tra roots e dixieland, e l’elettrica e funkeggiante King Harvest (Has Surely Come). Per il cinquantesimo anniversario di questo album fondamentale la Capitol lo ha ripubblicato con un nuovo mix di Bob Clearmountain ed il remastering a cura di Bob Ludwig, arricchendo il tutto con diverse bonus tracks interessanti.

Il cofanetto comprende due CD, due LP, un 45 giri con Rag Mama Rag e The Unfaithful Servant, un BluRay audio con le configurazioni in surround 5.1 ed in alta risoluzione del disco originale oltre al solito bel libro con un saggio del noto giornalista rock Anthony DeCurtis (niente parentela con il nostro Totò) e varie foto rare. Un’edizione molto migliore di quella dello scorso anno riferita a Music From Big Pink, che offriva ancora meno a livello di bonus della ristampa del 2000: mi sento però di affermare che è sufficiente la versione in doppio CD, dato che per un costo decisamente inferiore (è anche a prezzo speciale) avete esattamente gli stessi contenuti musicali del box. Nel primo dischetto oltre ovviamente alle dodici canzoni originali abbiamo sei bonus tracks inedite: si inizia con una prima versione di Up On Cripple Creek non molto diversa da quella pubblicata, due takes alternate di Rag Mama Rag, più lenta e countreggiante e col piano grande protagonista, e di The Unfaithful Servant, meno rifinita ma già bellissima. Seguono due interessanti mix strumentali di Look Out Cleveland ed ancora Up On Cripple Creek ed una eccellente Rockin’ Chair acustica con le voci all’unisono. Il secondo CD ripropone le sette tracce aggiunte nell’edizione del 2000, cioè l’ottima rock song Get Up Jake, una outtake che aveva tutti i requisiti per finire sull’album, due mix alternativi di Rag Mama Rag e The Night They Drove Old Dixie Down (il primo dei quali con una traccia vocale diversa), e quattro versioni differenti di Up On Cripple Creek, Whispering Pines, Jemima Surrender (questa anche più coinvolgente di quella pubblicata nel 1969) e King Harvest (Has Surely Come).

Ma la chicca del secondo CD è l’esibizione completa del quintetto durante il terzo giorno del Festival di Woodstock nell’Agosto dello stesso anno, uno show che non presentava alcun riferimento al loro secondo album che sarebbe uscito poco più di un mese dopo. Un vero must, anche perché in tutti questi anni non era mai trapelato nulla di ufficiale da questa performance, a meno che come il sottoscritto non possediate una delle 1969 copie del cofanetto di 38 CD Back To The Garden. A tal proposito, invece di ri-recensire il concerto della Band, ripropongo qui di seguito quanto scritto lo scorso Settembre nel mio post a puntate sul megabox: The Band. A mio parere la chicca assoluta del box, dato che per 50 anni non era mai uscita neppure una canzone dal set del gruppo canadese. Ed il quintetto di Robbie Robertson non delude le aspettative, producendo un concerto in cui fa uscire al meglio il suo tipico sound da rock band pastorale del profondo Sud; solo tre brani originali (l’iniziale Chest Fever, la meno nota We Can Talk ed il capolavoro The Weight), un paio di pezzi di derivazione soul (Don’t Do It e Loving You Is Sweeter Than Ever), altrettanti standard (Long Black Veil e Ain’t No More Cane, entrambe splendide) e ben quattro canzoni di Dylan (Tears Of Rage, emozionante, This Wheel’s On Fire, Don’t Ya Tell Henry e I Shall Be Released, che diventa quindi l’unico brano ripreso nei tre giorni da tre acts diversi). Gran concerto, e d’altronde i nostri, oltre ad essere di casa a Woodstock, erano nel loro miglior periodo di sempre.

Una ristampa quindi imperdibile di un album già leggendario di suo (e, come ho già scritto, potete accontentarvi del doppio CD): se dovessi stilare una Top 10 dei migliori dischi di tutti i tempi, i prescelti per tale classifica potrebbero variare nel tempo a seconda del mio stato d’animo o di altri fattori, ma credo che uno spazio per The Band lo troverei sempre.

Marco Verdi

Sceneggiatore E Autore Per Cinema E TV, Ma Anche Ottimo Musicista. John Fusco And The X-Road Riders

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John Fusco And The X-Road Riders – John Fusco And The X-Road Riders – Checkerboard Lounge Records

Il nome di John Fusco come musicista sicuramente dice poco ai più, ed in effetti questo album con gli X-Road Riders è il suo esordio. Ma se scaviamo più in profondità scopriamo che questo signore è colui che ha scritto il soggetto originale di Crossroads (in Italia Mississippi Adventure), l’ottimo film del 1986 di Walter Hill, che proponeva una versione romanzata del famoso patto siglato al crocevia tra Robert Johnson e il Diavolo, con la colonna sonora di Ry Cooder e Steve Vai nella parte di quel “diavolo” di un chitarrista che duella con Ralph Macchio. Fusco ha comunque scritto anche i soggetti di Young Guns I e iI, Hidalgo, Spirit, l’imminente Highwaymen di Kevin Costner, la serie televisiva Marco Polo per la Netflix, quindi non è il primo pirla che passa per strada, e comunque ha anche questa “passionaccia” per la musica, il blues(rock) nello specifico e per il suo esordio discografico si fa aiutare da Cody Dickinson dei North Mississippi Allstars, che nel CD suona chitarra, dobro, piano, basso e batteria, lasciando le tastiere a Fusco, che si rivela essere anche un notevole cantante, in possesso di una voce profonda, vissuta e risonante, ben sostenuta dalle gagliarde armonie vocali di Risse Norman, una vocalist di colore dal timbro intriso di soul e gospel, come dimostrano tutti insieme nella potente Rolling Thunder che apre l’album e dove la slide tangenziale di Dickinson è protagonista assoluta del sound.

Drink Takes The Man è anche meglio, con l’organo di Fusco e la chitarra di Cody a duettare, mentre John, con l’aiuto sempre della Norman, imbastisce un blues-rock quasi alla Allman Brothers, sapido e gustoso, sempre con le chitarre di Dickinson in grande spolvero. L’album è stato registrato ai Checkerboard Lounge Studios di Southaven, Mississippi, ed esce per l’etichetta dello stesso nome, al solito con reperibilità diciamo difficoltosa, ma vale la pena di sbattersi, perché il disco merita: in Poutine c’è anche una piccola sezione fiati guidata dalla tromba di Joshua Clinger, e il suono si fa più rotondo, con elementi soul sudisti, sempre caratterizzati dalla voce allmaniana di Fusco, dal suo organo scintillante, dalle chitarre di Dickinson e dalla calda vocalità della Risse. Hello Highway, con l’armonica dell’ospite Mark Lavoie in evidenza, più che un brano di Dylan (con cui ha comunque qualche grado di parentela) sembra un brano della Band, quando cantava Rick Danko, con il tocco geniale di un piano elettrico a rendere più intensa la resa sonora di questa bellissima canzone. E non è da meno anche A Stone’s Throw un’altra bella ballata gospel-rock che miscela il sound della Band e quello degli Allman, con la lirica solista di Dickinson a punteggiare splendidamente tutto il brano, mentre Fusco e la Norman si sostengono a vicenda con forza.

Non ci sono brani deboli in questo album, anche I Got Soul, quasi una dichiarazione di intenti, di nuovo con l’armonica di Lavoie e il sax solista di Bradley Jewett, ha ancora questo impeto del miglior blues sudista, con Fusco che rilascia un ottimo assolo di organo, senza dimenticare di lavorare di fino anche al pianoforte. Can’t Have Your Cake, sembra la sorella minore di Midnight Rider di Gregg Allman, un’altra southern ballad di grande fascino, cantata con impeto dal nostro amico, mentre la chitarra è sempre un valore aggiunto anche in questo brano https://www.youtube.com/watch?v=HAOlJvEL_lE ; Boogie On The Bayou, è un altro blues di quelli gagliardi, con piano elettrico, chitarra, ed organo a supportare con trasporto la voce vellutata e vibrante di Fusco. Anche Once I Pay This Truck Off non molla la presa sull’ascoltatore, questa volta sotto la forma di una ballata elettroacustica insinuante, sempre calda ed appassionata, grazie all’immancabile lavoro di grande finezza offerto da Cody Dickinson https://www.youtube.com/watch?v=roz27n9cTlU , che per il brano finale chiama a raccolta anche la solista del fratello Luther per una versione di grande forza emotiva del super classico di Robert Johnson Crossroad Blues, con la band che rocca e rolla di brutto sul famoso riff della versione dei Cream, e la slide che imperversa nel brano, grande anche la Norman, anche se forse avrei evitato il freestyle rap di Al Kapone che comunque non inficia troppo una grande versione https://www.youtube.com/watch?v=RgAWx9IhzU8 , all’interno di un album di notevole spessore complessivo.

Bruno Conti

Uno Sguardo Al Passato Per Il “Bisonte” Parte 1. Neil Young – Official Release Series Discs 5-8

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Neil Young – Original Release Series Discs 5-8 – Reprise/Warner 4CD Box Set

Da anni Neil Young ci ha abituato al suo iperattivismo discografico, che purtroppo però non si riflette anche nella gestione dei suoi archivi (il secondo volume è atteso ormai da anni): tra dischi nuovi, live del passato ed album registrati ma mai pubblicati (tra un paio di settimane uscirà Hitchhiker, disco acustico inciso nel 1976 e finito nel dimenticatoio) il grande cantautore canadese non fa passare anno senza “deliziarci” con almeno una, a volte due, nuove uscite. Ogni tanto però riesce anche a buttare un occhio sulla sua discografia ufficiale: nel 2009 erano uscite le ristampe rimasterizzate dei suoi primi quattro album (unite poi in cofanetto nel 2012), l’ancora irrisolto Neil Young ed i fondamentali Everybody Knows This Is Nowhere, After The Goldrush e Harvest (una delle trilogie più belle della storia del rock), sia singolarmente che riuniti in cofanetto. Ora Neil prosegue nella revisione del suo passato discografico, pubblicando ben due box contemporaneamente (in vinile erano già usciti per il Record Store Day in versione ultra-limitata ed ultra-costosa), esaurendo di fatto gli anni settanta: oggi mi occupo del primo dei due volumi, Official Release Series Discs 5-8, e dedicherò all’altro un post separato. Questo primo cofanetto contiene dunque i quattro album che il nostro pubblicò all’indomani del grande successo di Harvest, quattro dischi problematici e che spiazzarono non poco il pubblico che si aspettava un bis del lavoro del 1972: il box è importante anche perché presenta per la prima volta in assoluto in CD il live del 1973 Time Fades Away, unico album di Young che mancava su supporto digitale, rimandato più volte negli anni dal canadese, che evidentemente non deve amarlo molto (gli altri tre titoli sono On The Beach, 1974, Tonight’s The Night, 1975, e Zuma, sempre 1975).

Time Fades Away è quindi il primo live album di Neil, ma è un live particolare, in quanto contiene otto canzoni all’epoca inedite (e riprese pochissimo anche negli anni a seguire), suonate in varie date americane con gli Stray Gators, la stessa band di Harvest (ma con Johnny Barbata alla batteria al posto di Kenny Buttrey, e ci sono pure David Crosby e Graham Nash ospiti in un paio di pezzi). Il disco all’epoca suscitò sconcerto tra pubblico e critica, in quanto non presentava canzoni adatte ai passaggi radiofonici, era suonato in maniera diretta e talvolta un po’ arruffata, e le canzoni erano molto poco immediate, con testi contraddistinti da un certo pessimismo (insieme ai due seguenti, questo lavoro costituirà la cosiddetta Ditch Trilogy, la “Trilogia della Fossa”, conosciuta anche come ”Trilogia del Dolore”): un album quindi che concede poco al pubblico, ma che a distanza di anni è giusto rivalutare almeno in parte, anche se resta tra i lavori minori di Young, soprattutto se pensiamo che viene subito dopo tre capolavori assoluti. I brani migliori sono la saltellante title track, il pezzo più abbordabile del disco (che infatti venne pubblicato anche come singolo, pur non riscuotendo alcun esito), due struggenti lenti pianistici come Journey Through The Past e la breve Love In Mind, l’elettrica e sinuosa Don’t Be Denied, tipica del nostro, e la fragile The Bridge. Per contro, Yonder Stands The Sinner, L.A. e Last Dance (ottima dal punto di vista chitarristico ma così così da quello dello script) sono canzoni normali, almeno per gli standard di Neil, che abbassano il livello del disco.

Le speranze dei fans di avere un altro Harvest erano dunque riposte in On The Beach, il nuovo album di studio di Young, ma sia i testi che le musiche sono ancora più cupi che in Time Fades Away, ed il suono è ancora diretto ed a tratti spigoloso. Le canzoni sono influenzate dai problemi sentimentali di Neil con la compagna di allora, l’attrice Carrie Snodgrass, e dallo sconforto causato dalle condizioni di salute del loro figlio Zeke, nato con gravi problemi cerebrali. In più, in studio si consumano come il pane le cosiddette honey slides, cioè frittelle a base di marijuana e miele, molto gradite sia da Neil che dai compagni di ventura (la sezione ritmica dei Crazy Horse, Billy Talbot e Ralph Molina, Levon Helm e Rick Danko della Band, i “soliti” Crosby e Nash, oltre all’amico di vecchia data Ben Keith). Un album poco amato all’epoca, ma che il tempo ha rivalutato come una delle perle minori del canadese: disco che si apre tra l’altro in maniera quasi solare con la limpida e distesa Walk On, molto bella, e poi presenta un classico assoluto come la splendida ballata See The Sky About To Rain; poi però l’atmosfera si fa plumbea, ci sono ben tre blues (non un genere abituale per Neil, anche se sono blues un po’ sui generis), come Revolution Blues, Vampire Blues (il più canonico dei tre) e soprattutto la lunga Ambulance Blues, nove minuti di grande intensità, anche se siamo più in territori folk (la parte strumentale è presa da Needle Of Death di Bert Jansch, che Young ammira oltremodo). Completano il disco il folk-blues For The Turnstiles, la malinconica title track e l’amara Motion Pictures, dedicata alla Snodgrass.

Tonight’s The Night, anche se è uscito dopo On The Beach, è stato inciso prima, e se possibile è ancora più cupo del suo predecessore/successore. Ispirato dalla morte di due amici carissimi di Neil, il roadie Bruce Berry e Danny Whitten, chitarrista dei Crazy Horse (entrambi per droga, e Whitten è omaggiato con l’inclusione di una Come On Baby Let’s Go Downtown dal vivo nel 1970 con lui alla voce solista), l’album è tetro e scuro fin dalla copertina, passando poi per i testi e le musiche, un grido di dolore lungo dodici tracce registrato live in studio, con un Neil spesso stonato  (e, nel caso di Mellow My Mind, anche parecchio ubriaco), cosa che rende il disco tra i più sinceri ed affascinanti del nostro (il gruppo che lo accompagna è praticamente il Cavallo Pazzo con Nils Lofgren al posto di Whitten, più Ben Keith). Il brano più famoso è l’incalzante title track, ripresa nel finale in maniera quasi identica, ma sono da segnalare anche il country sbilenco di Roll Another Number, l’elettrica e pressante World On A String, la pianistica e straziante Borrowed Tune, che riprende la melodia di Lady Jane dei Rolling Stones, la tonica Lookout Joe, che è una outtake di Harvest con gli Stray Gators come backing band (ed infatti suona molto più “professionale” del resto del disco), la commovente Tired Eyes. Lo stesso anno Neil riforma i Crazy Horse con Frank Sampedro nuovo chitarrista e pubblica l’ottimo Zuma, uno dei suoi dischi migliori della decade (e più ottimistico dei precedenti), che dimostra ai fans ed ai critici, che cominciavano a perdere fiducia in lui, che è ancora in grado di fare rock ad alto livello (copertina dell’album orribile a parte). Il capolavoro è sicuramente la lunga Cortez The Killer, una delle migliori rock ballads del nostro, con una notevole performance chitarristica (ancora oggi uno dei pezzi più apprezzati dal vivo); molto belle anche la ruspante Don’t Cry No Tears, che apre il disco, il bellissimo country-rock di Lookin’ For A Love, l’epica Danger Bird, la potente Barstool Blues, guitar rock al suo meglio. Con la chicca finale di Through My Sails, delicata ballata acustica con Crosby, Stills & Nash e presa dall’abortito reunion album del 1974, che sarà anche l’ultima canzone del quartetto fino al 1988.

La seconda metà degli anni settanta rimetterà Neil Young sui giusti binari, ma questo lo vedremo esaminando il secondo cofanetto.

Marco Verdi

Vecchi Amici Di Woodstock E Della Band. Professor Louie And The Crowmatix – Crowin’ The Blues

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Professor Louie And The Crowmatix  – Crowin’ The Blues – Woodstock Records          

Professor Louie & The Crowmatix, probabilmente il nome non vi dirà nulla, anche se vantano già dodici album e una lunga ed onorata carriera che li vede calcare i palcoscenici da oltre 15 anni. Se aggiungessi che il vero nome di “Professor Louie” è Aaron Hurvitz potrebbe aiutarvi? Niente eh. E si vi dicessi che in questa guisa, nei quindici anni precedenti, è stato il factotum, pianista e tastierista, vocalist, nonché co-produttore degli album della Band pubblicati negli anni ’90, questo invece mi pare aiuterebbe ad inquadrare il personaggio. Il nomignolo, tra l’altro, glielo ha assegnato proprio Rick Danko, con il quale Hurvitz ha collaborato durante gli anni ’90. Non trascuriamo che i dischi (di non facile reperibilità) del gruppo, vengono pubblicati dalla Woodstock Records, e che i musicisti vengono più o meno tutti da New York e dintorni. Caliamo un altro paio di ulteriori assi: il batterista è Clem Burke (esatto, quello con Dylan nella Rolling Thunder Revue e poi per quindici anni con Joe Jackson) e il chitarrista John Platania (se scorrete le note dei dischi di Van Morrison vi potrebbe capitare di incontrarlo), e, a completare la formazione, l’eccellente bassista Frank Campbell (che ha suonato “solo” con Levon Helm & Rick Danko, poi Steve Forbert e 10 anni con gli Asleep At The Wheel) e “Miss Marie” Spinosa (la trovate nei credits dei dischi della Band, dei Four Men And A Dog, sempre prodotti da Professor Louie), vocalist aggiunta a fianco di Hurvitz e anche pianista.

Comunque se il CV non vi convince del tutto c’è il solito sistema infallibile Guido Angeli, provare per credere: ascoltate questo Crowin’ The Blues e sarete conquistati da questa miscela musicale che, oltre ai nomi citati, rievoca anche le scorribande della Midnight Ramble Band di Levon Helm, ma anche (questo a livello personale) il sound del gruppo di David Bromberg, a cui la voce di Hurvitz mi pare si avvicini: quindi blues, rock, r&b,,un buon uso globale delle voci, visto che oltre a Miss Marie, anche gli altri armonizzano di gusto, e, quello che più conta un’aria di leggero e complice divertissement di fondo nella musica. Music for fun, ma eseguita con classe, semplicità e grande perizia tecnica. Come è immaginabile, vista la notevole sezione ritmica a disposizione, si va molto pure di groove, come esemplifica subito I’m Gonna Play The Honky Tonks, un classico pezzo tra gospel e errebì, dal repertorio di Marie Adams (vecchia cantante nera molto popolare negli anni ’50), comunque la cantava anche Levon Helm: il classico brano che ti aspetti da una band come questa, pianoforte, e la chitarra di Platania, subito sugli scudi, da notare anche un assolo di organo old time che fa molto anni ’60. Prisoner Of Your Sound è uno dei pezzi firmati dalla premiata ditta Hurwitz/Spinosa, un agile R&B misto a Americana Music, con la chitarra slide di Platania che si insinua negli spazi lasciati dal piano del Professor, e un intervento vocale che ricorda molto il miglior Bromberg citato poc’anzi; e anche la loro versione della classica High Heel Sneakers è deliziosa, ci trasporta dalle parti della New Orleans di Dr. John, sempre con un ottimo Platania alla solista e l’immancabile duopolio piano-organo vintage.

Love Is Killing Me, è un altro brano originale della band, cantato all’unisono dal Prof, che poi lascia spazio a Miss Marie, per una ipnotica blues ballad, che si innerva anche per la presenza di ben due chitarristi ospiti, Josh Colow e Michael Falzarano.. Ed estremamente piacevole anche il quasi latineggiante strumentale Blues & Good News, “fischiettato” con grande perizia dalla Spinosa, giuro! Quando le cose si fanno serie la band si rivolge ad un classico di Elmore James come Fine Little Mama per esplorare il blues, Hurvitz va di barrelhouse piano, e canta con intensità, mentre Platania è di nuovo alle prese con il bottleneck, il tutto a tempo di shuffle; I Finally Got You, un successo di Jimmy McCracklin, ci raccontano nelle note che glielo ha insegnato Levon Helm e dalla classe con cui lo eseguono non si fatica a crederlo.

E anche Big Bill Broonzy riceve un trattamento deluxe in Why Did You Do That To Me?, che grazie alla fisarmonica e al piano di Professor Louie ci trasporta quasi d’incanto negli anni ’20 del primo Blues swingante; non poteva mancare un brano di B.B. King con l’eccellente Confessin’ The Blues, cantata da Miss Marie, mentre come al solito il gruppo, e soprattutto Platania e Hurvitz ci danno dentro alla grande. Brights Lights, Bright City sarebbe il classico di Jimmy Reed, ma i Crowmatix la fanno come se fosse On Broadway di George Benson, geniale! That’s Allright di Jimmy Rogers è uno slow blues di quelli duri e puri, cantato con classe da Marie, mentre per il traditional I’m On My Way, con le sue derive gospel e un organo da chiesa, si inventano ritmi di cha cha cha, e cantano alternandosi alla guida. Il finale Blues For Buckwheat è proprio un omaggio a Buckwheat Zydeco, a tutta fisa, divertente ed irriverente come tutto l’album. Sono proprio bravi!

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Forse Il Tour Più Importante Di Sempre, E Per Una Volta A Prezzo Contenuto! Bob Dylan – The Complete 1966 Live Recordings

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Bob Dylan – The Complete 1966 Live Recordings – Sony 36CD Box Set

Direi che c’è abbastanza unanimità sul fatto che la tournée del 1966 di Bob Dylan, durante la quale si concretizzò il passaggio tra il folksinger dei primi anni ed il rocker del resto della carriera, sia stata una delle più importanti di tutti i tempi, se non la più importante. Per celebrare i 50 anni di quella serie di concerti, la Sony ha pubblicato questo sontuoso box di ben 36 CD, con all’interno tutte le registrazioni disponibili da quel tour (con alcune serate incomplete, ed in alcuni casi anche alcune canzoni): l’uscita non fa parte delle Bootleg Series dylaniane, ma resta un episodio a sé stante, con un occhio forse anche alla salvaguardia dei diritti d’autore sulle registrazioni, che scadono appunto dopo 50 anni: questa volta il box è anche offerto ad un prezzo accessibile, intorno ai cento/centoventi euro per 36 dischetti, forse anche per la confezione abbastanza spartana (c’è comunque un bel librettino con note del noto biografo Clinton Heylin – il quale ha appena pubblicato anche un libro a tema proprio su questo tour – ma niente a che vedere con i contenuti della Super Deluxe Edition di The Cutting Edge dello scorso anno, che però costava seicento dollari) o per il fatto che le scalette dei vari concerti sono (quasi) sempre le stesse.

In quel tour, Dylan usava presentarsi da solo con chitarra acustica ed armonica per la prima parte (sette canzoni), per poi essere raggiunto nella seconda metà (altri otto brani) da una band elettrica, che poi altri non erano che The Hawks, cioè la futura Band senza però Levon Helm (sostituito da Mickey Jones), quindi Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson. Ed il tour è passato alla storia anche per le contestazioni che Dylan era costretto a subire spesso quando passava al set elettrico, da parte di un manipolo di fans che non gli perdonavano la transizione da artista folk a rockstar, accusandolo in poche parole di essersi venduto (contestazioni che seguivano di un anno quella ormai leggendaria avvenuta al Festival di Newport, quando Bob salì sul palco con membri della Paul Butterfield Blues Band, tra cui Mike Bloomfiled, ed Al Kooper, scandalizzando i puristi): il culmine della protesta si ebbe nella famosa serata alla Free Trade Hall di Manchester (già pubblicata a parte come Bootleg Series Vol. 4, e presente comunque in questo box, con però come bonus una Just Like Tom Thumb’s Blues eseguita nel soundcheck), con il battibecco tra Dylan e tale Keith Butler, che gli urlò “Giuda!”, e Bob in risposta gli diede del bugiardo per poi ordinare alla band di suonare Like A Rolling Stone “fottutamente forte”. Tra l’altro, Bob aveva già all’attivo due dischi elettrici (la prima facciata di Bringing It All Back Home e tutto Highway 61 Revisited), e si era già esibito con una band in alcuni concerti americani dell’anno prima, quindi non si capisce del tutto l’astio di una parte del pubblico verso questo tipo di cambiamento.

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I dischi presenti nel box hanno tre diverse fonti di registrazione: la maggior parte proviene direttamente dal soundboard (cioè il mixer), ed è ottima anche se in mono, poi ci sono i concerti registrati dalla CBS in maniera professionale, in stereo (quello già citato di Manchester, i due di Londra alla Royal Albert Hall, e quello di Sheffield, ma di quest’ultimo stranamente solo la parte acustica, quella elettrica è soundboard), ed infine cinque CD di audience tapes, cioè registrati dal pubblico, messi alla fine del cofanetto e con una qualità da bootleg, presenti più che altro per il loro valore storico.

(NDM: per chi non vuole comunque sobbarcarsi la spesa dell’intero cofanetto, il 2 Dicembre uscirà in doppio CD – o doppio LP – The Real Royal Albert Hall Concert, che documenta la prima delle due serate a Londra, quella del 26 Maggio).

Dicevamo delle contestazioni, ma ascoltando attentamente il box si nota come Dylan non fosse criticato ovunque, ma soltanto in alcune date britanniche (anche se va detto che i concerti nel Regno Unito sono la grande maggioranza): i primi quattro CD, registrati a Sydney, Melbourne e Copenhagen, vedono infatti un Dylan accolto ottimamente dal pubblico (a parte un piccolo gruppetto, probabilmente organizzato, che a Sydney continua a chiedere  Hard Rain), e la performance di conseguenza ne esce più rilassata, con anche momenti ironici come l’introduzione parlata a Just Like Tom Thumb’s Blues (tra l’altro a Sydney troviamo una chicca assoluta, una rara versione dal vivo, nella parte elettrica, della splendida Positively 4th Street, un brano che non verrà più ripreso fino al tour con Tom Petty del 1986). Anche nei primi concerti in UK e Irlanda  la gente non è per nulla ostile, anzi applaude convinta anche la parte elettrica, come nel caso di Dublino, che comunque presenta uno dei migliori segmenti acustici di tutto il tour, con una Visions Of Johanna da antologia (suonata in anteprima come tutte le canzoni tratte da Blonde On Blonde, che uscirà nel pieno della tournée, il 16 Maggio, giorno dello show di Sheffield). Ad ogni modo Dylan mantiene sempre due atteggiamenti diversi a seconda del momento all’interno del concerto: rilassato, fluido e rigoroso nel canto durante la metà acustica, maggiormente teso e nervoso durante la parte rock, con le performance quasi sempre urlate nel microfono, e con una tensione crescente a seconda della risposta del pubblico, come se le contestazioni lo spingessero ad osare ancora di più (e sicuramente era così).

Riguardo alla scaletta, la parte acustica offre highlights assoluti come la già citata Visions Of Johanna e la lunga Desolation Row, ma anche una splendida It’s All Over Now, Baby Blue, oltre a pezzi “minori” ma impeccabili come She Belongs To Me e, in anteprima da Blonde Of Blonde (almeno fino a metà Maggio), la fluida 4th Time Around ed il futuro classico Just Like A Woman (forse l’unica che soffre leggermente l’assenza della band), per terminare con la sempre applauditissima Mr. Tambourine Man. La seconda parte, quella elettrica, rompe il ghiaccio con la roccata Tell Me, Momma, un brano inedito suonato solo in questo tour (non esiste neppure una versione di studio), una vera scossa per chi è abituato ad ascoltare il Dylan-menestrello, seguita da due arrangiamenti completamente stravolti delle originariamente acustiche I Don’t Believe You e Baby, Let Me Follow You Down, quest’ultima in una veste quasi rock’n’roll che suona fresca ancora oggi; dopo una solitamente rilassata Just Like Tom Thumb’s Blues, abbiamo il rock-blues chitarristico e trascinante di Leopard-Skin Pill-Box Hat e, dal periodo folk, la splendida One Too Many Mornings, bellissima anche in questa veste elettrica, con Danko alla seconda voce nel ritornello. Il finale è, in tutti i concerti del box, la parte saliente, con una grandissima Ballad Of A Thin Man, drammatica, intensa, pianistica, con Dylan che canta con grande forza, e la conclusiva Like A Rolling Stone, un pezzo che non ha bisogno di presentazioni, suonato sempre in maniera potente, con il muro del suono degli Hawks capace ogni volta di zittire anche i fischi.

La qualità delle performance è varia, ma non scende mai sotto il livello di guardia, al massimo ci sono serate in cui Bob sembra annoiato, quasi assonnato, anche se solo nella parte acustica (per esempio nei concerti di Belfast e Parigi, unica data nell’Europa “latina”, tra l’altro il giorno del suo 25° compleanno, il 24 Maggio), mentre ogni volta che attacca la spina sembra trasfigurarsi, forse spronato anche dalla presenza della band. Nelle serate di piena forma, invece, il concerto è un godimento dalla prima all’ultima canzone, cosa che già avevamo intuito nel 1998 con il live di Manchester (che rimane comunque uno dei migliori del tour), e giustifica in pieno la scelta di chi vuole accaparrarsi il cofanetto completo: Bob è infatti famoso da sempre per non suonare mai un brano due volte nello stesso modo, ed anche in questa tournée è bello notare le diverse sfumature nelle varie serate, e, ripeto, l’aumentare dell’intensità a seconda della forza della contestazione. Ma quindi, a parte Manchester, quali sono i concerti migliori? Sicuramente i due di Londra, con il secondo non di certo inferiore a quello pubblicato a parte (e dove la tensione tra Dylan ed il pubblico raggiunge livelli altissimi), ma anche Newcastle e Sheffield (che forse presenta la migliore parte acustica in assoluto del tour, eseguita con una precisione millimetrica): performance incendiarie, quasi feroci, con Dylan che riversa sul pubblico tutta la rabbia che ha in corpo e la band si dimostra già quel grande gruppo che da lì a due anni si farà conoscere con Music From Big Pink, con Robertson in particolare stato di grazia.

Ottima anche la serata di Cardiff, di cui è presente solo la parte elettrica, il primo concerto britannico con qualche contestazione, anche se tiepida (solo la sera prima, a Bristol, era filato tutto liscio, con la gente ben disposta e che rideva anche di gusto alle battute di Dylan, e tra l’altro in questo concerto c’è una Ballad Of A Thin Man da urlo); Glasgow è invece il punto più alto per quanto riguarda le proteste dei fans, subito seguita in questo da Liverpool (entrambi i concerti sono su un solo CD ciascuno, mancando tutti e due dei primi tre brani acustici), ma anche in questi due casi Dylan risponde con una prova splendida, di grande intensità emotiva. E poi c’è Parigi, all’Olympia, un concerto a lungo mitizzato, con Bob che ha grossi problemi nella prima parte ad accordare la chitarra (cosa che lo infastidisce parecchio), ma è assolutamente inarrivabile nella seconda, con il pubblico francese che, forse un po’ a sorpresa, applaude convinto dalla prima all’ultima canzone senza tracce di protesta. Infine abbiamo gli ultimi cinque CD, quelli con gli audience recordings, che si riferiscono a tre concerti americani di warm-up tenutisi a Febbraio (White Plains, Pittsburgh e Hampstead), più frammenti della prima serata a Melbourne e di quella a Stoccolma: la qualità è, per usare un eufemismo, non eccelsa, ed è un peccato perché le performance sono di buon livello, e nella parte acustica delle serate americane troviamo due splendide canzoni come Love Minus Zero/No Limit e To Ramona, in seguito eliminate dalla setlist.

Forse il box completo è un po’ troppo per il “non dylaniano”, ma c’è da tener presente che, come già successo un anno fa con The Cutting Edge, siamo catapultati nel bel mezzo della storia della musica contemporanea in una sorta di Ritorno Al Futuro rock: se il box dello scorso anno lo avevo paragonato a Leonardo Da Vinci che dipingeva la Gioconda, qui è come assistere ad una rappresentazione teatrale di William Shakespeare con i suoi Chamberlain’s Men.

Marco Verdi

L’Ultimo Dei Vecchi Country Rockers? Greg Harris – Long Lonesome Feelin

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Greg Harris – Long Lonesome Feelin – MRM Records/Appaloosa/IRD

Dopo qualche anno di silenzio ritorna in campo il songwriter di San Diego Greg Harris che, come chitarrista e cantante, ha militato per periodi brevi e alterni (tra il ’79-’81 e ’86-’97) nella mitica formazione californiana dei Flying Burrito Brothers, contribuendo, con il proprio talento di polistrumentista e la propria voce, a dare una marcia in più alla storica band ormai orfana di quasi tutti i componenti originali.

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L’esordio da solista del “nostro” arriva con Acoustic (79), uno splendido album dal suono bluegrass, con una strepitosa versione di Norvegian Wood dei Beatles da lasciare senza parole, https://www.youtube.com/watch?v=HVBSalieaRU  bissato dal successivo Electric (82) https://www.youtube.com/watch?v=mIgSj2Pb4yk&list=PL_M4oF2DOqUYlqbJ4zJivrg5DkPH0a8mz  , Acoustic II (90) https://www.youtube.com/watch?v=OIhjgLxHrE8 , Things Change (96) un’ottima (ri)produzione del primo country-rock americano, con ospiti importanti come Garth Hudson della Band, Al Perkins, e la presenza di due cover di spessore, Blue Eyes di Gram Parsons, e My Back Pages di Bob Dylan ( che fu anche un vecchio hit dei Byrds di Roger McGuinn), e infine il successivo Electro-Acoustics (97), a parte l’esordio tutti distribuiti dalla benemerita Appaloosa Records, una etichetta che per merito del compianto Franco Ratti, non aveva mai smesso di credere nel suo talento. Dopo moltissimi anni di silenzio, la voce e la musica di Harris tornano con un disco autoprodotto, The Record (08), un ottimo album di country-rock elettrico e acustico allo stesso tempo, che merita di essere ascoltato e possibilmente recuperato, cosa che avviene parzialmente nell’ultimo CD, all’interno del quale vengono inseriti alcuni brani di quel disco, diversamente destinato all’oblio (il resto viene dal successivo The Last Of The Great Old Country Rockers, uscito addirittura solo per il download nel 2012).

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Questo nuovo lavoro Long Lonesome Feelin prodotto dal suo vecchio “pard” David Vaught, vede Greg accompagnato dal figlio Jesse Jay Harris (componente del gruppo Rancho Deluxe) alla chitarra, dal batterista Don Heffington in un brano e dal tastierista Skip Edwards, anche alla steel, oltre allo stesso Vaught, per una manciata di nuove composizioni di ottima qualità, recuperando, come già detto e vista la difficile reperibilità, cinque brani dal precedente lavoro in studio: Long Lonesome Feelin, Wills Point, Dales Tune, Long Road To Nowhere e Mexico.

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Il brano d’apertura Long Lonesome Feelin è una bella “road-song” con ripetuti soli di chitarra elettrica, seguita dal country lento di The Last Of The Great Old Country Rockers con il banjo a dettare il ritmo, il delicato “western-swing” di Wills Point, mentre The Guilded Palace Of Sin ( dedicata al primo grande album dei Flying Burrito Brothers di Chris Hillman e Gram Parsons, che però si chiamava The Gilded Palce Of Sin: domanda delle cento pistole, forse un refuso, visto che su The Record il titolo era giusto?) è una solare ballata west-coast dal profumo di frontiera, che ricorda quei tempi andati, per poi tornare al classico honky-tonky di Where’s Your Cowboy Hat e la cover acustica di un brano di Michael Smotherman Can You Fool. Si riparte con il “lungo viaggio dei ricordi” con una splendida ballata dall’influenza ispanica come Brother Lee Love, ben ritmata nell’arrangiamento e arricchita dal suono del banjo, un intermezzo strumentale con Dales Tune, un veloce bluegrass con chitarra, mandolino e banjo che a turno sostengono il ritmo, un’altra ballatona da cantare sotto le stelle come I Couldn’t Stand The Heartache, una intrigante Long Road To Nowhere, dall’andatura sostenuta e guidata da una bella slide guitar suonata dal figlio Jesse Jay, mentre Do Right Woman è una sofferta cover di un celebre brano di Dan Penn, andando a chiudere con il country gioioso di una divertente My Record On The Pig, e un dolce e romantico brano scritto con il grande Rick Danko della Band, Mexico, che scorre soave e lento, con un bel ritornello e invitanti note di mandolino.

Long Lonesome Feeling è una raccolta di ottime canzoni che confermano, se ne fosse bisogno, il talento di Greg Harris (non solo in qualità di strumentista), con un sound che alterna chitarre elettriche e acustiche, banjo e mandolino, e si inserisce a metà strada tra il country-rock dei tempi d’oro e quello che qualcuno definisce oggi “americana”, per un disco rassicurante, da ascoltare in momenti di relax. Bentornato!

Tino Montanari

Sempre Gli Stessi. Più Belli, Completi (E Costosi), Ma Sempre Quelli Sono! Rock Of Ages Della Band Diventa Live At The Academy Of Music 1971.

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The Band – Live At The Academy Of Music 1971 – 4 CD+1DVDA – 2 CD Deluxe – Capitol/Universal 17-09-2013 USA – 30-09-2013 UK – 01-10-2013 Europe (Italia inclusa)

Al momento in cui scrivo le date di uscita sono queste e i prezzi, per la versione quintupla, oscillano intorno ai 100 euro e più. Forse troppo per un CD, che come Rock Of Ages ho già comprato due volte, l’ultima volta nel 2001 la versione doppia rimasterizzata a 24 bit e potenziata che vedete qui sopra. Si tratta di uno dei più bei concerti della storia del rock, registrato sempre nel “mitico” 1971, sia pure gli ultimi 4 giorni dell’anno, compreso il concerto di Capodanno che uscirà, da solo, anche in una “nuova” versione 2 CD. Alcuni brani erano apparsi nel cofanetto A Musical History ma qui si è esagerato, si dovrebbe trattare di tutti i brani eseguiti nelle quattro serate meno un paio di brani i cui nastri si erano danneggiati nel corso degli anni (e non so se sono riusciti a restaurarli).

I concerti erano strutturati con una prima parte solo con i cinque membri della Band sul palco e la seconda con una sezione fiati aggiunta, arrangiata e diretta da Allen Toussaint. I quattro brani con Bob Dylan, che appare non annunciato vengono dalla serata che ci porta dal 31 dicembre 1971 al 1° Gennaio 1972. Dylan, tra il 1966 e il 1974 aveva suonato dal vivo solo altre 4 volte: al Tributo a Woody Guthrie del 1968, in uno dei primi concerti in cui Robbie Robertson, Levon Helm, Richard Manuel, Rick Danko & Garth Hudson erano apparsi come The Band, a Edwardsville, Illinois nel luglio del 1969, come Elmer Johnson. Al Festival della Isola di Wight, diciamo l’unica occasione ufficiale, 31 agosto 1969, di prossima uscita nelle Bootleg Series Vol. 10 e al Concerto per il Bangla Desh, 1 agosto 1971, l’unica occasione senza la Band. Ma queste sono altre storie. Il cofanetto avrà il seguente contenuto:

Disc: 1
1. The W.S. Walcott Medicine Show (Friday, December 31)
2. The Shape I’m In (Friday, December 31)
3. Caledonia Mission (Thursday, December 30)
4. Don’t Do It (Wednesday, December 29)
5. Stage Fright (Friday, December 31)
6. I Shall Be Released (Thursday, December 30)
7. Up On Cripple Creek (Thursday, December 30)
8. This Wheel’s On Fire (Wednesday, December 29)
9. Strawberry Wine (Tuesday, December 28) (Previously Unissued Performance)
10. King Harvest (Has Surely Come) (Friday, December 31)
11. Time To Kill (Tuesday, December 28)
12. The Night They Drove Old Dixie Down (Wednesday, December 29)
13. Across The Great Divide (Thursday, December 30)

Disc: 2
1. Life Is A Carnival (Thursday, December 30)
2. Get Up Jake (Thursday, December 30)
3. Rag Mama Rag (Friday, December 31)
4. Unfaithful Servant (Friday, December 31)
5. The Weight (Thursday, December 30)
6. Rockin’ Chair (Wednesday, December 29)
7. Smoke Signal (Tuesday, December 28)
8. The Rumor (Thursday, December 30)
9. The Genetic Method (Friday, December 31)
10. Chest Fever (Tuesday, December 28)
11. (I Don’t Want To) Hang Up My Rock And Roll Shoes (Wednesday, December 29)
12. Loving You Is Sweeter Than Ever (Wednesday, December 29)
13. Down In The Flood (The Band with Bob Dylan) (Friday, December 31)
14. When I Paint My Masterpiece (The Band with Bob Dylan) (Friday, December 31)
15. Don’t Ya Tell Henry (The Band with Bob Dylan) (Friday, December 31)
16. Like A Rolling Stone (The Band with Bob Dylan) (Friday, December 31)

Disc: 3
1. Up On Cripple Creek (Previously Unissued Performance)
2. The Shape I’m In
3. The Rumor (Previously Unissued Performance)
4. Time To Kill (Previously Unissued Performance)
5. Rockin’ Chair (Previously Unissued Performance)
6. This Wheel’s On Fire (Previously Unissued Performance)
7. Get Up Jake (Previously Unissued Performance)
8. Smoke Signal (Previously Unissued Performance)
9. I Shall Be Released (Previously Unissued Performance)
10. The Weight (Previously Unissued Performance)
11. Stage Fright

Disc: 4
1. Life Is A Carnival (Previously Unissued Performance)
2. King Harvest (Has Surely Come)
3. Caledonia Mission (Previously Unissued Performance)
4. The W.S. Walcott Medicine Show
5. The Night They Drove Old Dixie Down (Previously Unissued Performance)
6. Across The Great Divide (Previously Unissued Performance)
7. Unfaithful Servant
8. Don’t Do It (Previously Unissued Performance)
9. The Genetic Method
10. Chest Fever (Previously Unissued Performance)
11. Rag Mama Rag
12. (I Don’t Want To) Hang Up My Rock And Roll Shoes (Previously Unissued Performance)
13. Down In The Flood (with Bob Dylan)
14. When I Paint My Masterpiece (with Bob Dylan)
15. Don’t Ya Tell Henry (with Bob Dylan)
16. Like A Rolling Stone (with Bob Dylan)

Disc: 5
1. The W.S. Walcott Medicine Show (DVD)
2. The Shape I’m In (DVD)
3. Caledonia Mission (DVD)
4. Don’t Do It (DVD)
5. Stage Fright (DVD)
6. I Shall Be Released (DVD)
7. Up On Cripple Creek (DVD)
8. The Wheel’s On Fire (DVD)
9. Strawberry Wine (Previously Unissued Performance)(DVD)
10. King Harvest (Has Surely Come)(DVD)
11. Time To Kill (DVD)
12. The Night They Drove Old Dixie Down (DVD)
13. Across The Great Divide (DVD)
14. Life Is A Carnival (DVD)
15. Get Up Jake (DVD)
16. Rag Mama Rag (DVD)
17. Unfaithful Servant (DVD)
18. The Weight (DVD)
19. Rockin’ Chair (DVD)
20. Smoke Signal (DVD)
21. The Rumor (DVD)
22. The Genetic Method (DVD)
23. Chest Fever (DVD)
24. (I Don’t Want To) Hang Up My Rock And Roll Shoes (DVD)
25. Loving You Is Sweeter Than Ever (DVD)
26. King Harvest (Has Surely Come) (Previously Unissued Performance) (Archival Film Clips-December 30, 1971)(DVD)
27. The W.S. Walcott Medicine Show (Previously Unissued Performance) (Archival Film Clips-December 30, 1971)(DVD)

Quindi non concerto per concerto, ma a casaccio e, come vedete, purtroppo, il quinto dischetto è un DVD Audio non Video, con le versioni 5.1 Dolby Surround di 25 brani tratti dai primi due CD del cofanetto e “ben 2 filmati” della serata. Scusate l’ironia amara, ma evidentemente non esiste altro in versione filmata di quelle serate. O forse sì (almeno a giudicare da questo filmato di YouTube, sempre tratto da quel A Musical History citato prima)?

Visto che si comincia a vociferare che il concerto dell’Isola di Wight, che è il principale motivo di interesse della versione Super Deluxe di Another Sell Portrait di Bob Dylan, al di là dei primi due dischetti di inediti, disponibili anche a parte, potrebbe essere pubblicato anche in versione video in un non lontano futuro. E questo della Band? Mai Dire Mai. Per il momento godiamoci (forse) questo cofanetto eccezionale!

Forse ho dimenticato di dire che il tutto si svolge in quel di New York City.

Bruno Conti

Un Tributo Di Gran Classe! Shannon McNally – Small Town Talk

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Shannon McNally – Small Town Talk (Songs Of Bobby Charles) –Sacred Sumac 2013

La signora (per chi scrive) è una delle più intriganti “rockers in gonnella” in circolazione, da dieci anni a questa parte. Lei si chiama Shannon McNally ed è ormai una realtà del cantautorato femminile americano: gli incidenti di percorso non sono certo mancati, ed è per questo che il talento della McNally sembrava destinato a perdersi nel sottofondo musicale a stelle e strisce. Questa ancora giovane songwriter originaria di Long Island, ma da tempo accasatasi tra le paludi della Lousiana (New Orleans), da autentica musicista di strada aveva colto l’occasione giusta entrando in contatto con l’entourage della Capitol, per la pubblicazione dell’esordio Jukebox Sparrows (2002), il più convincente Geronimo (2005), qualche EP sparso (compreso uno con Neal Casal Ran On Pure Lightnin‘), per poi approdare al primo live della carriera North American Ghost Music (2006) un disco aspro e chitarristico, con brani lunghi (tra i cinque e sei minuti). In seguito senza uno straccio di contratto (ricorrendo al finanziamento dei fans), incide due buoni lavori come Coldwater (2009) e Western Ballad (2011) e un altro disco dal vivo Live At Jazz Fest 2011 di difficile reperibilità (sono quelli registrati a New Orleans e distribuiti in loco). shannon-mcnally-coldwater.html

In questo Small Town Talk, Shannon rilegge a modo suo le canzoni di Bobby Charles (una cover di una dolcissima Tennessee Blues era in Geronimo), un grande autore di New Orleans scomparso nel 2010 (i suoi brani sono stati portati al successo da artisti del calibro di Fats Domino e Bill Haley)  e nel 2007 entrato a far parte della Music Hall of Fame, per il contributo dato alla musica  della Louisiana. Il disco prodotto dalla stessa McNally e Mac Rebennack e con l’aiuto del grande Dr. John (che sempre Mac Rebennack è), si avvale di ottimi musicisti di “area” quali lo stesso Rebennack alle tastiere, Herman Hernest alla batteria, David Barare al basso, John Fohl alle chitarre, oltre alla presenza di ospiti di certificato spessore che rispondono al nome di Vince Gill, Derek Trucks, Luther Dickinson e Will Sexton (fratello del più noto Charlie), gli arrangiamenti di archi e fiati sono di Wardell Quezerque, il “Beethoven Creolo”. Buona parte di queste canzoni, Shannon le ha pescate dall’album omonimo Bobby Charles (ristampato in edizione deluxe dalla Rhino Hamdade (2011), partendo dal funky iniziale di  Street People, dalla chitarra di Luther Dickinson in Can’t Pin A Color, dal duetto dolcissimo con Vince Gill in String Of Hearts, ai riff di chitarra di Derek Trucks nel soul-blues di Cowboys and Indians, proseguendo con la ballata pianistica Homemade Songs con l’apporto alla chitarra di Will Sexton, l’inconfondibile voce del “dottore” nella ritmata Long Face, passando per la splendida tittle track Small Town Talk (co-autore Rick Danko della Band), con l’armonica di Alonso Bowens in primo piano, nella travolgente interpretazione di Love In The Worst Degree, per chiudere alla grande con la canzone forse più bella di Bobby Charles, I Must Be In A Good Place Now, una ballata soul, dove la voce della McNally  si insinua alla perfezione in un brano che trasmette pace e tenerezza.

C’e qualcosa nella voce di Shannon che ti cattura e ti seduce, e questa ancora giovane ragazza di New York ormai ne ha fatta di strada e pare lontanissima dai miraggi pop-rock di inizio carriera, si è trasferita armi e bagagli a New Orleans, ha vissuto il dramma dell’uragano Katrina, si è immersa in questi suoni, inventandosi interprete di grande sex-appeal e ricca di sfumature soul. Small Town Talk è un doveroso tributo ad un autore magnifico e poco conosciuto, fatto con cuore e sentimento da Shannon McNally, un’artista che non ha nulla da invidiare a personaggi come Mary Gauthier, Kathleen Edwards e Shelby Lynne. Consigliatissimo!

Tino Montanari