Dal Canada “Un’Altra Figlioccia” Di Joni Mitchell? Jennifer Castle – Pink City

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Jennifer Castle – Pink City – No Quarter Records

C’è un gran movimento nell’area femminile della canzone d’autore nordamericana, soprattutto nel circuito indipendente, che purtroppo assicura una visibilità minore, in parte bilanciata dalle informazioni che si trovano su Internet, e quindi in questi ultimi anni non è stato infrequente incontrare ed apprezzare nuovi talenti femminili, apparsi quasi improvvisamente alla ribalta musicale. Questo è sicuramente il caso di Jennifer Castle (da non confondere con l’omonima scrittrice), “mitchelliana” fino al midollo, e palese dimostrazione che si può comporre e interpretare buona musica, anche riferendosi a modelli di artisti più importanti https://www.youtube.com/watch?v=Ea9umYpf38E . La signorina è canadese, precisamente di Toronto, nella regione dell’Ontario, e ha già pubblicato due album in passato con il nome Castlemusic Live At The Music Gallery (06) e You Can’t Take Anyone (08), prima di firmare il terzo album con il proprio nome, dal titolo Castlemusic (11), forse in questo ambito con poca fantasia https://www.youtube.com/watch?v=Soa6JDRdTHI . E’ stata anche collaboratrice nei dischi di Doug Paisley, con cui condivide l’etichetta discografica e questa è ulteriore nota di merito.

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Per questo Pink City Jennifer si avvale di un gruppo di veterani musicisti di Toronto (di impronta indie-rock e jazz), tra i quali Ryan Driver pianoforte e flauto, Mike Smith al basso, Paul Mortimer alla chitarra, Jonathan Adjemian alle tastiere, Brodie West al sassofono e come ospite la brava cantautrice Kath Bloom all’armonica, il tutto “miscelato” con gli arrangiamenti di archi di Owen Pallett.

La tracce iniziali, Truth In The Freshest Fruit e Working For The Man, mettono appunto in evidenza gli arrangiamenti d’archi di Pallett (che sono presenti in tutto il disco), mentre la seguente Sparta è cadenzata dal flauto dalle linee melodiche di Ryan Driver, passando ad una ballata pianistica come Nature e per la struggente malinconia di Downriver, a cui contribuisce l’armonica della folk-singer Kath Bloom e l’interpretazione assai “mitchelliana” di Jennifer. Echi della grande Buffy Sainte-Marie si riscontrano nella bellissima Sailing Away (il brano più bello del lavoro), il sussurrato piano e voce di Like A Gun, le note di una chitarra acustica in How Or Why (che sembrano uscire dai solchi dei dischi di Suzanne Vega), le atmosfere anni ’80 (che ricordano la sempreverde Kate Bush) in Broken Vase e per finire in bellezza. le note conclusive della title track Pink City, marchiata e guidata dal sassofono dolente di Brodie West.

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Pink City è una raccolta di riflessioni intime messe in musica dalla Castle, una fusione ben riuscita della prima Joni Mitchell e il modo desolante di interpretare le canzoni (se non la voce) di Paula Frazer dei Tarnation, ma Jennifer ha forse qualcosa in più rispetto alla media, un talento di primo piano (se volete mi gioco la reputazione, tanto non costa niente), per un lavoro di grande fascino con un suono adulto e professionale, che merita molta più attenzione di tante esaltate nuove “stars” (non per nulla anche la rivista inglese Uncut ha parlato molto bene della Castle) https://www.youtube.com/watch?v=Pv0XcFwyVas .

Come da tradizione, in questo “blog” ci piace andare alla ricerca di talenti sinceri e genuini (ce ne sono molti per le “strade” americane e canadesi), ma se per caso la penserete come noi, troverete una nuova amica da gustare musicalmente https://www.youtube.com/watch?v=CjzIKCxcdBg , nel vostro sempre più prezioso tempo libero.

Tino Montanari

Novità Di Aprile, Speciale Pasqua E Dintorni. Ultima Parte. Joni Mitchell, Patti Smith, Tom Petty, Chuck E. Weiss, Marty Stuart, Krista Detor, Jessica Lea Mayfield

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Ultima parte dedicata alle uscite discografiche del mese di Aprile, fino alla seconda decade compresa, le ultime pubblicazioni del mese poi le vediamo a parte. Ovviamente per completare e recuperare il ritardo accumulato per problemi tecnici ampliamo il numero dei CD contenuti nel Post dai sei delle altre Parti (anche perché sia la Pasqua che i dintorni sono passati da tempo) a ben sette, ha, ha! Iniziamo raggruppando un terzetto di quei CD dal vivo relativi a broadcast radiofonici, diciamo semiufficiali, ma molto interessanti comunque.

Joni Mitchell – Live At The Second Fret 1966 – All Access

Si tratta della registrazione di un concerto registrato in un club di Philadelphia quando Joni Mitchell non aveva ancora pubblicato il suo primo omonimo album (conosciuto anche come Songs To A Seagull): Marcie, Michael from Mountains, Song to a Seagull and Night in the City vengono proprio da quel disco, ma ci sono anche I Dont Know Where I Stand e Both Sides Now che sarebbero uscite su Clouds oltre un anno dopo. The Circle Game Morning Morgantown addirittura nel 1970 su Ladies Of The Canyon e Little Green (il brano dedicato alla figlia data in adozione nel 1965 e di cui non si sarebbe saputo il fatto fino al 1993) nel 1971 su Blue. Per non dire di Urge For Going, scritta nel 1966, un grande successo per Tom Rush e pubblicata dalla Mitchell, come lato B del singolo di You Turn Me On I’m A Radio in vinile e su CD nell’antologia Hits solo nel 1996. Da tutto ciò si desume che è un CD da avere anche a livello di documento storico (ovviamente circolava da anni come bootleg)! Questa è un’altra data https://www.youtube.com/watch?v=yX7YbmKL1Q4

Patti Smith – Dreaming Of The Prophet – Smokin’ Records

Anche questo broadcast radiofonico è interessantissimo. Siamo nel dicembre del 1975 al Bottom Line di New York, la Smith ha appena pubblicato Horses, in novembre, e questa data fa parte di una serie di sette concerti utilizzati per rodare il gruppo dal vivo: Ivan Kral e il batterista Jay Dee Daugherty erano appena arrivati ad affiancare Lenny Kaye e Richard Sohl. Naturalmente visto che la discografia era smilza per non dire inesistente, un LP e un singolo, nel repertorio ci sono molte chicche: come nel caso di Joni Mitchell ci sono parecchi brani che sarebbero usciti negli anni a seguire, su Radio Ethiopia e Easter, ma anche cover di We’re Gonna Have A Real Good Time, Pale Blue Eyes, Louie Louie, My Generation degli Who e Time Is On My Side, dal repertorio degli Stones e altre  https://www.youtube.com/watch?v=welUa71V57o.Comunque se volete leggere la scaletta, questo è il retro della copertina.

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Tom Petty – In The Coliseum – Goldfish Records

Notevole anche questo concerto di Tom Petty con gli Heartbreakers dell’epoca: Mike Campbell alla solista, Benmont Tench tastiere, Howie Epstein  basso e mandolino, e Stan Lynch batteria. Siamo al Coliseum di Jacksonville, Florida (la patria anche dei Lynyrd Snynyrd) nell’estate del 1987 nel corso del tour per promuovere Let Me Up I’ve Had Enough, ma come spesso succede nei concerti di Petty la serata diventa un happening e scorrono tutti brani da altri album e cover fantastiche, con l’eccezione dell’unica Runaway Trains https://www.youtube.com/watch?v=-qKDOSHd35I , posta in conclusione del concerto, appena prima di Refugee. Per il resto ci sono Bye Bye Johnny, l’immancabile Breakdown, The Waiting, Don’t Come Around Here No More, Here Comes My Girl, ma anche For What It’s Worth dei Buffalo Springfield, Should I Stay Or Should I Go dei Clash, il blues You Can’t Judge A Book By His Cover e Any Way That You Want It dei Troggs. Dico solo: e vai!

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Chuck E. Weiss – Red Beans And Weiss – Epitaph/Anti

Il nostro amico, oltre ad essere stato il soggetto di una delle più belle canzoni in assoluto di Rickie Lee Jones, Chuck E’s In Love, ed essere stato grande amico della stessa e di Tom Waits, potrebbe anche essere considerato l’epitome dell’artista di culto. 5 album in circa 35 anni di carriera, a partire da The Other Side Of Town del 1981, tutti piuttosto belli e raffinati, quasi “unici”, per arrivare a questo Red Beans And Weiss, che è forse il suo migliore in assoluto, auto prodotto, anche se nel libretto sono riportati come produttori esecutivi Tom Waits e Johnny Depp. Tredici brani, dodici firmati da Weiss e una cover di Exile On Main Street Blues degli Stones (non proprio tra i più famosi di quelli che portano la firma Jagger/Richards, ma in linea con il personaggio) https://www.youtube.com/watch?v=Q3qMAfyGzaE , con i soliti personaggi, più o meno perdenti, che hanno sempre caratterizzato le canzoni di Chuck, in quello stile tra rock, blues, roots, vecchio R&B e strane traiettorie sonore https://www.youtube.com/watch?v=ooM-tn4YizI  che lo accomuna ai suoi amici Tom e Rickie Lee https://www.youtube.com/watch?v=z7k49SflL0U . Ottimi musicisti nel disco, a partire da Tony Gilkyson alla chitarra e Don Heffington alla batteria, di Depp si dice che suoni basso, batteria, chitarra, oltre alle armonie vocali, ma mi permetto di avere dei dubbi (potrei sbagliarmi, in effetti nelle due compilations dedicate alle canzoni dei pirati erano presenti entrambi). Janice Markham al violino e il sax di Jimmy Roberts provvedono a diversificare il suono. A quando il prossimo?

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The Gospel Music Of Marty Stuart & His Fabulous Superlatives – Gaither Music/Universal

Questa è la colonna sonora di un documentario dedicato alla musica country gospel ma in pratica è l’occasione per ascoltare un concerto dal vivo di uno dei più bravi musicisti di country e dintorni del panorama americano come Marty Stuart. Il cantante, chitarrista e band leader, dopo una lunga carriera, tra country, rock e musica d’autore, è tornato ad uno stile country più tradizionale anche se non al puro bluegrass con cui aveva iniziato una quarantina di anni fa con Lester Flatt, ma sia bluegrass il che il gospel hanno sempre fatto parte del suo percorso anche se negli ultimi anni la musica si è fatta più neo-tradizionalista. Il disco è eccellente: la moglie Connie Smith, una delle icone della country music (che ha quasi venti anni più del marito) canta un brano, come Harry Stinson e Apostle Paul Martin. Kenny Vaughn suona la chitarra e completa la formazione. Gran bel disco https://www.youtube.com/watch?v=_JHXGs11Y1s .

krista detor flat eath day jessica lee mayfield make my head

Un paio di voci femminili “minori” ma interessanti. Krista Detor – Flat Earth Diary – Tightrope Diary è arrivata al suo settimo album, risiede a Bloomington, Indiana (siamo dalle parti di John Mellecamp), ha una voce cristallina tipo Judy Collins, o per stare più sul contemporaneo Meg Hutchinson o l’ottima Carrie Newcomer, quindi folk, ma con influenze country, rock, blues, begli arrangiamenti con il piano in bella evidenza (ma anche la chitarra e qui potrebbe ricordare la prima Suzanne Vega, sentire Bridges o qualcosa di Joni Mitchell, vedi Always Somewhere, Marletta e altri). Ospite al basso in un paio di brani il virtuoso Victor Wooten. Insomma una brava https://www.youtube.com/watch?v=RzAoIDOtttQ .

Jessica Lea Mayfield – Make My Head Sing – Ato era partita col botto, o meglio, dopo il primo album White Lies pubblicato sotto il nome di Chittlin’ (una sorta di mini che durava meno di mezz’ora) era stata “scoperta” da Dan Auerbach dei Black Keys, che dopo averla impiegata nei loro dischi e concerti, le aveva pubblicato il primo album ufficiale With Blasphemy So Heartfelt  e poi aveva continuato la collaborazione anche nel secondo, Tell Me, pubblicato dalla Nonesuch e nel disco solista di Auerbach. Ma se stranamente i primi dischi erano più da cantautrice tradizionale (tra molte virgolette), questo nuovo, registrato in quel di Nashville, con la produzione del marito e bassista Jesse Newport (ma tra tutti e due, suonano più o meno tutti gli strumenti, batteria esclusa) è più alternative rock https://www.youtube.com/watch?v=0RV1lBgULZk , anche se, a voler essere sinceri, non mi sembra questo capolavoro, anche se gli ho dato solo un ascolto veloce. Se avrò tempo cetrcherò di approfondire (ma quando?):

Anche per oggi è tutto, domani cerchiamo di recuperare altre uscite interessanti di questo scorcio di fine aprile, prima di tuffarci nelle uscite di Maggio che si annunciano assai interessanti (a partire da Natalie Merchant, che torna con un album omonimo di canzoni nuove dopo una “vita”!

Bruno Conti

Tenere E Delicate “Canzoncine”! Dawn Landes – Bluebird

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Dawn Landes – Bluebird – Western Vinyl

Dopo l’EP Mal Habillée, dedicato alle canzoni delle Ye Ye Girls francesi (pare che la nostra amica sia molto popolare in Francia, in effetti il primo disco, dawn’s Music, inizialmente, era uscito solo per quel mercato), che francamente non aveva entusiasmato, torna Dawn Landes, con un nuovo album, Bluebird, il quinto della sua discografia, più due EP, incluso quello citato sopra https://www.youtube.com/watch?v=qL-peHeVum0 . Il disco è co-prodotto da Thomas Bartlett (The National, Sharon Van Etten, Rufus Wainwright, Antony and the Johnsons) e dalla stessa Dawn, che, forse non molti lo sapranno, ha iniziato a muovere i suoi primi passi nel mondo della musica proprio come produttrice ed ingegnere del suono, lavorando con Philip Glass e contribuendo all’apertura dei Saltlands Studios a Brooklyn, di cui credo sia tuttora una socia.

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Se devo esprimere un parere il suo album che preferisco è Fireproof, il CD uscito nel 2008 per la Fargo https://www.youtube.com/watch?v=eR4Ir16IQdQ , ma anche Sweetheart Rodeo (i Byrds non c’entrano nulla) del 2010 non era per niente male https://www.youtube.com/watch?v=NsmdXfaQVHk . Lo stile è principalmente acustico e folkie, una voce morbida, piana, quasi sussurrata, ma “forte” nella sua apparente semplicità, le canzoni sono molto belle e, attenzione, anche se a lei dispiace ammetterlo (ma poi lo dice nelle interviste), questo è il suo “divorce” album https://www.youtube.com/watch?v=Ue5Ct1MmcyY . Se siete curiosi suo marito era Josh Ritter, proprio lui, “quel” Josh Ritter (che ha già raccontato la storia, vista dalla sua parte, in Beast In His Tracks) https://www.youtube.com/watch?v=xH8KG09xYsQ !

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Lo si intuisce chiaramente da quello che è il “centrepiece” (meglio in inglese, rende di più l’idea che centrotavola o trionfo, che ne sono la traduzione italiana, anche se la seconda…) del disco: Cry No More, un brano che suggerisce dal testo che le lacrime sono alle spalle, ma dalla voce non si direbbe, ad aiutarla un’altra signorina che si intende di struggimenti del cuore, Norah Jones, seconda voce e piano, in questo brano (come avrebbe detto Stanlio “Come due piselli in un baccello!”), vagamente country-folk ed assolutamente delizioso, e nell’altrettanto bella Love Song, sempre solo per piano, chitarra acustica, un basso (Tony Scherr o Catherine Popper).

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Peraltro un po’ tutto il disco è molto minimale, quasi scarnificato nei suoni, con il sound che si adegua al mood malinconico della sua autrice: Bluebird, sta tra la Mitchell dei primissimi tempi e l’ultima Laura Marling, contrabbasso, le tastiere di Bartlett, la solita acustica arpeggiata dalla Landes, la doppia voce a rafforzare gli arrangiamenti https://www.youtube.com/watch?v=dChn32CwbpA , e così pure nella successiva Try To Make A Fire https://www.youtube.com/watch?v=Os2q6YyKjiw . L’approccio è proprio quello delle “vecchie” folksingers, niente inutili modernismi, se non servono, forse si giocherà qualche apparizione in spot, serie televisive o colonne sonore, per la mancanza del solito pezzo orecchiabile, ma tant’è. Bloodhound ha un afflato ancora più folk, vicino ai “colleghi” inglesi dell’epoca del primo folk revival, anche se qualcuno ci ha scorto del bluegrass (?).

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Heel Toe introduce l’elettrica di Rob Moose e la batteria di Ray Rizzo, che è anche la seconda voce del brano e suona pure l’armonica, e, anche per il timbro della voce di Dawn Landes, al sottoscritto ha ricordato molto certe cose “spaziali” dei Cowboy Junkies, decisamente bella comunque. Di Cry No More si è già detto, Oh Brother, con due acustiche in fingerpicking, forse anche un violino pizzicato, sempre da Moose, le tastiere sullo sfondo, il solito contrabbasso, aderisce perfettamente all’atmosfera “ombrosa” e malinconica dell’album. Diamond Rivers è una tenue ballata pianistica, molto eterea, quasi una ninna nanna, con violino e viola che insieme alle tastiere danno una improvvisa profondità al suono. A proposito di ninne nanne, anche Lullaby For Tony, fin dal titolo, rientra nella categoria, mentre la conclusiva Home è uno struggente valzer pianistico con Bartlett ad accompagnare dolcemente gli arpeggi dell’acustica della Landes. Se non fossimo alle soglie della primavera, direi un album tipicamente autunnale, almeno nei sentimenti, da “uccellini teneri” o Bluebirds se preferite!

Bruno Conti

Una Pioggia Di “Covers D’Autore” – Barb Jungr – Hard Rain

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Barb Jungr – Hard Rain – The Songs Of Bob Dylan & Leonard Cohen – Kristalyn Records

Di questa signora aveva già parlato (come sempre puntualmente) il titolare di questo blog, in occasione dei festeggiamenti del 70° compleanno di Bob Dylan http://discoclub.myblog.it/2011/05/27/bob-dylan-at-70-piccole-aggiunte/ . Barb Jungr nativa di Rochdale in Inghilterra, figlia di genitori immigrati (padre ceco e madre tedesca), ha lavorato con molti dei migliori musicisti e compositori inglesi, ha girato il mondo in svariati tour, raccogliendo sempre il tutto esaurito, e a New York, da diverse stagioni, si esibisce regolarmente nei locali più importanti e prestigiosi (al Metropolitan Hall e al Cafè Carlyle)https://www.youtube.com/watch?v=GHjMZHuKtcY Nella sua sterminata discografia (oltre 20 album e varie  collaborazioni), questo è il terzo progetto dedicato alle canzoni di Dylan, dopo Every Grain Of Sand: Barb Jungr Sings Bob Dylan (02) https://www.youtube.com/watch?v=pabKsJf1raE  e Man In The Long Black Coat: Barb Jungr Sings Bob Dylan (11), e il primo inerente alle canzoni di Cohen; prodotto dal pianista Simon Wallace, con l’apporto di musicisti di valore come Neville Malcolm e Steve Watts al basso, Gary Hammond e Richard Olatude Baker alle percussioni, Clive Bell al flauto giapponese, e soprattutto con la magica voce di Barb Jungr https://www.youtube.com/watch?v=Tssuy8Y5YrE . Data la bellezza del lavoro, almeno per il vostro fedele recensore, mi sembra giusto sviluppare i brani “track by track”:

Blowin’ In The WindSi inizia con l’inno “pacifista” per eccellenza, con un flauto e un ritmo da bossanova ad accompagnare lo sviluppo della canzone, cantata da Barb in modo solenne.

Everybody Knows Questo è il primo brano dell’accoppiata Cohen/Robinson (il più famoso) che nel trattamento Jungr viene rivisitato in forma swing-jazz, con pianoforte e leggere percussioni.

Who By Fire – Altro brano “immortale”, ballata tranquilla per pianoforte e voce che prende il cuore e fa scendere qualche lacrimuccia, con un’interpretazione da brividi https://www.youtube.com/watch?v=8o4-PzHds7g .

Hard Rain – L’unica versione dell’album (stranamente) molto simile all’originale, cantata in modo impetuoso, su un tessuto di percussioni tambureggianti.

First We Take Manhattan – Un’altra ballata soffusa per pianoforte e voce, molto teatrale, una jazz-song che mi ricorda lo stile di Joni Mitchell nel suo periodo jazz. Splendida.

Masters Of War – Altro inno contro la guerra, che si apre con il Shakahachi (flauto giapponese), e  un  pianoforte minimale, declamato dalla Jungr nella sua lunga durata (oltre sette minuti).

It’s Alright Ma – Il brano più upbeat della raccolta, arrangiato con organo, percussioni e pianoforte, con una interpretazione gioiosa e divertente di Barb.

1000 Kisses Deep – Splendido brano (tratto da Ten New Songs), firmato da Cohen sempre con la brava Sharon Robinson e rifatto sempre per pianoforte e voce, perfetto da ascoltare in un fumoso piano-bar di Casablanca. Emozionante.

Gotta Serve Somebody – Probabilmente è la canzone dell’album più lontana dall’originale, quasi irriconoscibile per chi non ha dimestichezza con le sfumature jazz, ma che mette in evidenza la bravura vocale della Jungr. Rivoltata come un calzino!

Land Of Plenty –  Altro saccheggio da Ten New Songs, che inizia ancora con il “famoso” flauto, poi entrano in modo discreto piano e percussioni, per una ballata dallo stile solenne.

Chimes Of Freedom –  Chiude un disco meraviglioso il brano più lungo della raccolta (oltre nove minuti), un altro inno “politico”, con una solida interpretazione da canzone “classica”.

E’ sempre un progetto coraggioso fare album di cover (di qualsiasi genere), e questa signora dopo aver omaggiato, nel corso degli anni, Jacques Brel, Nina Simone, Dylan più volte, pure Springsteen (sentire prego https://www.youtube.com/watch?v=jIFW5aMYgm0) e ora anche il grande Cohen, devo dire che, ancora una volta, la sfida è stata vinta. Avviso ai naviganti, questo Hard Rain non è un disco per deboli di cuore, in quanto ascoltando queste “cover d’autore”, l’emozione che trasmette la voce di questa splendida cantante inglese è dirompente, sicuramente una delle artiste più importanti nel mondo delle interpreti di canzoni altrui.

Tino Montanari

Una Voce Magica Per Cuori Sensibili! Sarah Gillespie – Glory Days

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Sarah Gillespie – Glory Days – Pastiche Records

Stalking Juliet (09), l’esordio di Sarah Gillespie, è stato uno dei tanti miei innamoramenti musicali, bissato poi dal seguente In The Current Climate (11) e da un’introvabile EP The War On Trevor  (12). Per quelli che (purtroppo) non la conoscono, dovete sapere che Sarah è nata a Londra da madre americana e padre inglese, e sballottata tra Inghilterra e Stati Uniti, qui si è trasferita al compimento dei diciotto anni, viaggiando molto e assimilando le influenze musicali di grandi nomi come Bessie Smith, Bob Dylan, Cole Porter e molti altri bluesmen e jazzisti. Tornata a Londra la Gillespie (in occasione di un suo concerto al famoso Ronnie Scott’s), incontra il sassofonista Gilad Atzmon (che poi diventerà suo produttore), che la porta a suonare in tutti i locali, jazz club e pub dell’Inghilterra, con la critica che finalmente si accorge di questo talento, che nella sua musica mischia jazz, folk ed elementi mediorientali in un mix di poesia, con testi intensi ed immediati.

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Questo nuovo lavoro Glory Days http://www.youtube.com/watch?v=DueiVNLx7T4 , prodotto dal polistrumentista di origine israeliana Gilad Atzmon al sassofono, fisarmonica, clarinetto e chitarre elettriche, oltre a Sarah chitarra e voce, si avvale di musicisti di grande valore  come Enzo Zirilli (che risiede e lavora stabilmente a Londra da anni) alla batteria e percussioni, il fido Ben Bastin al contrabbasso, Kit Downes al pianoforte e Marcus Bates al corno francese, alle prese con una serie di canzoni tutte scritte dalla penna di Sarah Gillespie (eccetto il famoso conclusivo traditional St.James Infirmary).

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Una chitarra acustica introduce Postcards To Outer Space, il brano di apertura dell’album, una performance per voce e chitarra, di impronta “mitchelliana” http://www.youtube.com/watch?v=u0XiTjLEmYo ,seguita dalla title track Glory Days (nessuna relazione con il brano di Springsteen), dedicata alla defunta madre Susan Ann Broyden, una perfetta folk-song, con fisarmonica e corno francese a dettare il ritmo, mentre Sugar Sugar è un altro esempio di melodia folk jazz, che valorizza le capacità della band http://www.youtube.com/watch?v=1icYP1xs5ng .Oh Mary è il secondo brano per chitarra e voce, dove si dimostra la bravura di strumentista di Sarah http://www.youtube.com/watch?v=8AAc4Yl2px4 , mentre il valzer Signal Failure viene ripescato dall’EP The War On Trevor http://www.youtube.com/watch?v=CFWRPrBsR-g , per poi passare all’arrangiamento esotico e sensuale di The Bees And The  Seas, con la fisa di Atzmon e gli strumenti di Bastin e Zirilli sugli scudi. Si riparte con una canzone politica The Soldier Song (storia di un disoccupato, che si arruola nell’esercito per avere una retribuzione), cui fanno seguito le atmosfere “jazzate” di Babies And All That Shit, per  poi chiudere con St.James Infirmary, rifatta in una chiave New Orleans, dove il clarinetto di Gilad e la voce languida di Sarah, valorizzano un brano immortale.

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Sono sempre più convinto che per trovare dei talenti come Sarah Gillespie bisogna rivolgersi nei circuiti indipendenti (e non nei contesti televisivi di successo sopravvalutati come X Factor), e la dimostrazione è questo Glory Days, dove la Gillespie confeziona piacevoli e raffinate ballate acustiche, accompagnate dalla chitarra, mischiando blues e jazz, gypsy swing e una spruzzata di “vaudeville”, con qualità che l’assimilano a quella nobile tradizione di cantautrici storiche, per volare alto, come Judee Sill, Karen Dalton e la già menzionata Joni Mitchell. Per chi scrive, un talento da tenere d’occhio (quindi non solo Laura Marling)!

Tino Montanari  

*NDB Anche questo album è uscito a giugno dello scorso anno e fa parte dei “recuperi” del Blog di dischi interessanti di cui non si era parlato per vari motivi. Come ha detto qualcuno, la buona musica non ha una data di scadenza, come il latte e lo yogurt, quindi buon ascolto, se vorrete e la ricerca prosegue!

“Sparisce” La Paura E Riappaiono le Disappear Fear, con Broken Film!

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Disappear Fear – Broken Film – Disappear Records

Bisogna risalire a 25 anni fa, quando le “sorelle di sangue” Sonia Rutstein e Cindy Frank, native di Baltimora (attiviste del movimento femminista e non solo) formano il gruppo Disappear Fear, con brani che rimandano ad artisti del calibro di Joni Mitchell, Bob Dylan, con armonie vocali che ricordano le Indigo Girls. I primi tre album, Echo My Call (88), Deep Soul Diver (90) e l’omonimo Disappear Fear (94) hanno ottenuto una certa risonanza negli anni del rinnovamento del folk femminile http://www.youtube.com/watch?v=Q3kum-SUZCs . Dopo un album dal vivo Live At The Bottom Live (94) e un altro lavoro in studio Seed In The Sahara (96), Sonia, lesbica dichiarata, ha intrapreso una discreta carriera solista composta da quattro dischi (di cui segnalo Almost Chocolate (98), per poi scomparire per quasi un decennio e riformare il gruppo nel 2005 a nome Sonia & Disappear Fear, rilasciando alcuni album fra cui Tango (07) e Splash (09).

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Oggi riappare con la ragione sociale originale, Disappear Fear e con questo Broken Film,il 17° disco della sua carriera, registrato in quel di Nashville con l’ingegnere del suono Mike Poole, con una nuova line-up composta dal fidato chitarrista Don Conoscenti, il bravo batterista di Emmylou Harris, Brian Owings, la percussionista Katie Marie e Laran Snyder alle armonie vocali, per undici canzoni intimiste dal taglio folk-pop. Rimanendo fedele all’immagine del passato, il film parte con le delicata melodia di Start e il roots-folk di American Artist (con l’armonica in evidenza), la ballata intimista Farmland And The Sky,  il pop di Love Out Loud  http://www.youtube.com/watch?v=xGbhsTQKVN0 e della title track Broken Film. Dopo il consueto intervallo il secondo tempo si apre con una ritmata L Kol L Vavcha, l’innocua pop song Be Like You, l’intrigante incedere di The Banker http://www.youtube.com/watch?v=XtB2tnsuMnA , i delicati arpeggi di chitarra nella dolce Princess And The Honey Bee http://www.youtube.com/watch?v=f1oYdiyDn2g , l’arrangiamento stile swing di Perfect Shade (Blue), per poi chiudere con i titoli di coda del film, con le ritmiche reggae di Ari Ari.

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Con questo Broken Film (CD non facile da reperire, già uscito da alcuni mesi) Sonia Rutstein, festeggia degnamente venticinque anni di carriera, che la portano a riavvolgere il film della sua vita (rigorosamente coerente nelle scelte), una tipa che riesce sempre a far convivere personale e sociale, testi che parlano dei soldati in Afghanistan e della crisi bancaria, con canzoni folk e pop, mantenendo sempre in primo piano l’impegno civile.

La ricerca continua…

Tino Montanari

Attrici Che Cantano, Uhm…E Invece E’ Brava! Katey Sagal – Covered

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 Katey Sagal – Covered – Entertainment One

Un bel giorno, tra il lusco e il brusco, mi trovo tra le mani questo CD, Covered, molto bello, ma il nome della cantante, Katey Sagal, mi dice poco o nulla, anche se, come avrebbe detto Totò, quella faccia non mi è nuova (solo la faccia, nella battuta di Totò si alludeva ad altro)! Ai nostri tempi è diventato facile, digiti il nome su Google (o Yahoo o quello che preferite) e ti si apre un mondo: alla faccia si affianca una persona. Attrice, doppiatrice cantante, aveva fatto già due dischi, Well nel 1994 e Room nel 2004, quindi secondo la regola, più o meno, dei dieci anni, era tempo di farne uno nuovo. Ma torniamo, per un attimo, all’attrice: soprattutto serie televisive, una decina di stagioni di Sposata…con figli, anche di più, dal 1999, come una delle voci originali della serie a cartoni animati Futurama,e poi 8 Semplici Regole, The Shield, Lost, Boston Legal, dal 2008 Sons Of Anarchy, oltre a molte partecipazioni a film e telefilm.

Negli anni ’70 e ‘80, e questo ci interessa di più, ha fatto la corista, tra gli altri, per Bob Dylan e Bette Midler e di conseguenza deve avere stretto dei rapporti con il mondo della musica americana che si rivelano fondamentali per questo album. Intanto liberiamoci dai pregiudizi sugli attori che non sanno cantare, ce ne sono molti bravi, l’ultima che mi viene in mente è Minnie Driver, andando a ritroso, Billy Bob Thornton, Bruce Willis, eccetera, eccetera. Ma Katey Segal canta veramente bene, un bel contralto, una voce calda ed espressiva, per certi versi, appena un filo inferiore, mi ha ricordato la giovane Rumer, che tanto mi aveva impressionato negli ultimi anni, anche con il disco delle cover, Boys Don’t Cry, dello scorso anno. Come dice il titolo di questo album, Covered, siamo su quei territori, 9 canzoni, note, anzi notissime e un originale firmato da Bob Thiele Jr, che è anche produttore del disco e polistrumentista, e da Tonio K, vedo delle manine che si alzano, bravi, ricordate? Ma a differenza di altri casi, dove per perversi motivi, vengono scelte canzoni perlopiù oscure dai repertori degli artisti da interpretare, questa volta la Siegal, ha scelto tra il meglio che c’era in circolazione.

Free Fallin, di Thomas Earl Petty e Jeff Lynne (anche questo vezzo di scrivere i nomi completi degli autori è segno di rispetto), For A Dancer di Jackson Browne, Follow The Driver è l’unico brano originale, Goodbye di Stephen F. Earle, I Love You But I Don’t Know What To Say di Ryan Adams, Gonna Take A Miracle di Randazzo,Weinstock, Stallman, ma resa immortale da Laura Nyro, Orphan Girl di Gillian Welch, For Free di Joni Mitchell, Secret Heart di Ron Sexsmith, Roses And Cigarettes di Ray LaMontagne! Ma neanche nelle mix tapes dei vostri sogni c’è un repertorio così. E le fa un gran bene: con l’aiuto di gente come Matt Chamberlain alla batteria, Greg Leisz alle chitarre, Davey Faragher al basso, Freddy Koella al violino, Bobby Mintzer al clarinetto, Lyle Workman alla chitarra, tanto per citare alcuni dei musicisti impiegati nell’album. Ah, un certo Jackson Browne, come seconda voce, in una sontuosa versione di Goodbye di Steve Earle, con un’aria tipicamente messicana provvista dal laud e dalla banduria di Javier Mas e dal violino di Alkexandru Bublitchi (ha un qualcosa di Romance in Durango di Dylan).

Ma lei canta con voce vellutata tutti i brani, forse quello leggermente meno riuscito è l’iniziale Free Fallin’ troppo legato allo stile inconfondibile di Tom Petty, ma non è comunque una brutta versione. Bellissima Gonna Take A Miracle, soul raffinatissimo, soffusa For A Dancer, solo chitarra, pedal steel e organo, deliziosa la versione di Secret Heart di Ron Sexsmith, che ricordo in una interpretazione fantastica dell’autore in una puntata della trasmissione Spectacle di Costello. E poi il brano nuovo scritto appositamente per l’album che è una sorta di soul ballad alla People get ready, rivisata in chiave rock orchestrale. E il valzerone country rock del brano di Ryan Adams, con la pedal steel insinuante di Leisz, è poco bello? Anche il country-folk paesano del brano di Gillian Welch e la ripresa del capolavoro di Joni Mitchell, con lo splendido clarinetto di Mintzer in evidenza, confermano una sintonia completa con il lavoro di queste grandissime cantautrici. Roses And Cigarettes di Ray LaMontagne sancisce definitivamente che là fuori ci sono tante bellissime canzoni, basta saperle cercare, e cantare! Veramente una bella sorpresa, brava!

Bruno Conti

Due “Fanciulle” Che Meritano Attenzione! Basia Bulat E Star Anna

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Basia Bulat – Tall Tall Shadow – Secret City Records 2013

Star Anna – Go To Hell – Spark & Shine Records – 2013

Nativa di Etobicoke, Ontario, nell’area metropolitana di Toronto, Basia Bulat è arrivata al terzo album, dopo l’esordio con Oh, My Darling (2007) e Heart Of My Own (2010), con ampi e meritati riconoscimenti critici (anche su questo Blog piccoli-talenti-crescono-basia-bulat-heart-of-my-own.html), merito senz’altro di una voce e una visione artistica di primaria qualità. Ad aiutarla in questo lavoro Tall Tall Shadow, Tim Kinsbury e Mark Lawson (rispettivamente bassista e ingegnere del suono dei connazionali Arcade Fire), per dieci brani che rapiscono per il loro ritmo fluido e orchestrale.

L’iniziale ballata folk Tall Tall Shadow, dialoga così con il pop di Five, Four e Promise Not To Think About Love, seguita dalla splendida (solo voce e autoharp) It Can’t Be You, la scanzonata Wires, le dolci armonie di The City With No Rivers, la moderna tecnologia pop di Someone, per poi passare alla filastrocca folk di Paris Or Amsterdam, la quasi recitativa e tambureggiante Never Let Me Go, e chiudere con la pianistica From Now On (con echi della grande Joni Mitchell). Il folk dei dischi precedenti, in Tall Tall Shadow è inserito in un contesto più robusto, con canzoni in bilico tra le ultime opere di Feist e Laura Marling (spero che il Bruno me lo consenta), forse il primo passo per la Bulat di intraprendere una nuova direzione. Dolcissimo disco per le prossime cupe giornate invernali.

Di Star Anna, mi ero già occupato circa due anni fa recensendo il suo terzo lavoro Alone in This Together (star+anna+and+the+laughing+dogs) e a differenza della Bulat stenta a decollare, continua a rimanere quella che si dice in questi casi “una bella promessa”, causa forse di una distribuzione difficoltosa dei suoi dischi e una notorietà circoscritta nei “punk-rock” e “coffee houses”, della scena West Coast.

Go To Hell (prodotto con il polistrumentista Ty Bailie) è in tal senso il proseguimento del percorso dei lavori precedenti, contrassegnato dalle interpretazioni vocali di Star Anna e da una qualità sonora “dura e sporca” (senza i fedeli Laughing Dogs), ma con veterani sessionmen, a partire oltre che da Ty Bailie, da Jeff Fielder alle chitarre, Julian MacDonough alla batteria, Will Moore al basso e altri bravi musicisti “di area”.

La partenza è affidata alla “rokkeggiante” For Anyone, seguita dalla title track Go To Hell (un brano dal repertorio di Nina Simone), la rootsy Electric Lights e da un altro brano rock Let Me Be, cantato con voce potente. Si riparte con gli arpeggi “roots” di Mean Kind Of Love, la batteria sincopata di Younger Then e il blues rurale di Power Of My Love. La chiusura è affidata splendidamente alla ballata pianistica Everything You Know (con un crescendo imperioso) e ad una cover d’autore, Come On Up To The House di Tom Waits (brano conclusivo di Mule Variations), che sembra eseguita dai bassifondi di una metro.

Il viaggio di Star Anna continua, una tipa che ha imparato la lezione da artisti della grandezza di Lucinda Williams o di Brandi Carlile e Grace Potter (la mia preferita con Dana Fuchs), pronta al grande salto, più di altre blasonate colleghe.

Tino Montanari

A Prescindere Dal Genere, Gran Disco! Over The Rhine – Meet Me At The Edge Of The World

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Over The Rhine – Meet Me At The End Of The World – 2 CD – Great Speckled Bird 03/09/2013

Gli Over The Rhine sono uno dei miei gruppi preferiti delle ultime due decadi e non hanno mai sbagliato un disco dai loro esordi, avvenuti ad inizio anni ’90. Ogni album è un piccolo capolavoro della band dell’Ohio (dovrei dire duo, visto che ormai sono rimasti solo Linford Detweiler e Karin Bergquist, coppia nella musica e nella vita), forse il migliore in assoluto è Ohio del 2003 ma al sottoscritto era piacuto parecchio anche The Long Surrender del 2011 nuove-tecniche-di-sopravvivenza-over-the-rhine-the-long-surr.html, il primo disco che segnalava il nuovo corso di album autofinanziati con l’aiuto di fans e simpatizzanti, tramite le cosiddette Kickstarter Campaign. Con questo sistema il gruppo si è potuto permettere l’utilizzo di un produttore come Joe Henry (e relativi musicisti al seguito) e in due sessions avvenute tra fine marzo e i primi di aprile agli studi Garfield House di South Pasadena ha registrato questo piccolo doppio gioiello che si divide in due parti appunto: Sacred Ground nel primo CD e Blue Jean Sky nel secondo CD. Per onestà devo dire che il tutto supera di poco i 60 minuti e quindi ci sarebbe stato su un unico compact, ma al di là della non facile reperibilità, per essere prosaici, non lo fanno pagare neanche troppo. E il lato artistico compensa abbondantemente quello finanziario.

I dettagli sulla loro carriera li trovate al link sopra e anche un tentativo di definire il loro genere musicale è sempre un’impresa, direi che si parte dal folk come base, ma poi si aggiungono mille sfumature, anche in questo caso nel precedente Post ci provo. I musicisti utilizzati da Joe Henry sono all’incirca quelli del disco precedente, con Eric Heywood che sostituisce Greg Leisz alle chitarre, soprattutto pedal steel, ma anche slide ed elettrica e il grande Van Dyke Parks al posto di Keefus Cianca alla fisarmonica, Bellerose, Piltch (o la Condos, al basso) e Patrick Warren (tastiere) rimangono al loro posto. Sembrano particolari trascurabili ma i musicisti che suonano in un disco sono importanti. Se hai delle canzoni all’altezza della situazione, ovviamente. E anche questa volta gli Over The Rhine non smentiscono la loro fama di autori di piccole grande canzoni. Ne cito due per iniziare: Don’t Let The Bastards Get You Down, una ballata agrodolce e atmosferica, quasi mitchelliana, con la presenza dell’unica “ospite”  del CD, in questo caso è Aimee Mann, nel precedente, in Undamned era Lucinda Williams. L’altra è It Makes No Difference, l’unica cover del CD, una splendida rilettura del capolavoro di Robbie Robertson e della Band, con l’organo di Warren e il mandolino di Heywood (o è Mark Goldenberg? anche lui impegnato alle chitarre nel disco) a sostituire Garth Hudson e Levon Helm, il sound è molto, come potrei dire, “canadese”, con ancora la grande Joni Mitchell, o così mi pare, come punto di riferimento.

Il resto del disco non è da meno. Joe Henry, spesso e volentieri, utilizza la tecnica del double-tracking per raddoppiare la bellissima voce della Bergquist, magia nela quake erano maestri George Martin e i Beatles, non gente qualsiasi. A partire dalla struggente title-track che ricorda, a chi scrive, anche certe cose della bravissima Rosanne Cash, o il rock narcotico dei migliori Cowboy Junkies, tra steel, slide e tastiere maestose si dipana una canzone lenta ma inesorabile nella sua bellezza. Il piano e l’organo di Called Home ricordano di nuove le sonorità dei grandi canadesi (anche un pizzico del Neil Young più bucolico), sempre con la doppia voce di Karin a librarsi sul tutto, mentre una steel si fa largo con autorità. Sacred ground, con la fisarmonica di Van Dyke Parks sullo sfondo(e che si ascolta anche in molti altri brani) potrebbe riportarci alle atmosfere dolenti di una Lucinda Williams o anche di Mary Gauthier, altro spirito affine, sia per tipologia vocale che per le tematiche toccate. E pure I’d Want You ha questo spirito sognante e drammatico che potrebbe ricordare, se non per il tipo di voce, agli antipodi, almeno nel tessuto sonoro, l’incedere di certe canzoni del grande Leonard Cohen, per quell’aria malinconica ma mai doma, tipica del canadese, le tastiere, la fisa e le chitarre come al solito ricamano alla grande. Gonna let my soul catch my body è un gospel-rock mosso con una chitarra “cattiva” che cerca di farsi largo tra le pieghe del brano. All Of It Was Music potrebbe essere una sorta di manifesto del loro modus operandi, drammatico e sospeso, ricorda ancora la Gauthier ma anche le “chansons” franco-irlandesi-mitteleuropee di una Mary Coughlan (è ovvio che queste sono solo suggestioni del vostro fedele recensore) filtrate attraverso la penna della coppia dell’Ohio, fanno capolino anche un vibrafono e la solita steel malandrina. Highland Country è un’altra ballata sontuosa dallo spirito country, con il pianino di Detweiler e la sua voce di supporto al cantato suggestivo di Karen Bergquist, sottolineata dalle evoluzioni di una pedal steel magica, per cantare i panorami del loro amato Ohio. Anche Wait, come la precedente, non può non ricordare le canzoni più belle della Joni Mitchell della maturità, solenni e composite nel loro incedere. E siamo solo alla fine del primo CD.

Il secondo si apre con la lunga All Over Ohio, altro inno alla loro terra natia, Linford Detweiler per la prima volta sale al proscenio per duettare con la moglie Karin, la sua voce è piana e gentile, ma ben si accoppia con quella dolcissima della consorte, il brano cresce in modo lento e oscillante, con il consueto profluvio di chitarre e tastiere accarezzate con rispetto dai musicisti che poi lasciano il proscenio alla “doppia” Bergquist nella parte finale della canzone. A proposito di coppie, Earthbound Love Song è un sentito omaggio ad una delle grandi coppie della musica, Johnny Cash & June Carter, deliziosa e delicata come poche. Against The Grain è un’altra piccola meraviglia country-folk che scivola sulle corde di una chitarra acustica e sulla steel di Heywood. Della cover della Band abbiamo detto, Blue Jean Sky è un altro inno alla bellezza della musica e della vita, cantata con passione dalla coppia, mentre Cuyahoga è un’intramuscolo strumentale di poco più di un minuto, che meritava di essere sviluppata nei suoi tratti acidi à la Cowboy Junkies. Baby If This Is Nowhere si avventura con classe in territori Blues e Wildflower Bouquet potrebbe uscire da Ladies Of the canyon o Blue, quando i cantautori erano grandi, ed occasionalmente possono esserlo ancora (anche la giovane Laura Marling, si abbevera a questa fonte). Altro breve bozzetto, questa volta pianistico, Birds of nowhere e ci avviamo alla conclusione con Favorite Time Of Light, altra piccola meraviglia sonora con la fisarmonica di Van Dyke Parks e il mandolino di Goldenberg a guidare le danze, a conferma di tutte le delizie che si dipanano su questo Meet Me At The Edge Of The World, diciannove ottime canzoni (OK, 17 e due brevi strumentali) disco da quattro stellette che si candida fin d’ora tra i migliori dischi dell’anno 2013!

Bruno Conti

Forse Ce La Fanno! Crosby, Stills, Nash & Young – Live 1974

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A dire il vero il titolo non sarà questo (quel vecchio burlone di David Crosby vorrebbe intitolarlo What Could Possibly Go Wrong?), ma pare che il 27 Agosto (sì, di quest’anno!) uscirà in tutto il mondo, a parte le solite differenze di date tra America ed Europa, uno dei Santi Graal più attesi dai fan della musica: un live album che documenta la tournée del 1974 del supergruppo per antonomasia, cioè Crosby, Stills, Nash & Young, in un periodo nel quale i rapporti personali tra i quattro erano ai minimi storici, un tour intrapreso senza aver materiale nuovo da proporre (insolito per l’epoca) e, a detta di Stills, esclusivamente per i soldi.

Chiaramente, dato che non è stato deciso neppure il titolo, figuriamoci se si conoscono i formati (CD? Doppio CD? Sono previste deluxe edition?): è però quasi sicuro che non ci saranno DVD acclusi, pur esistendo del materiale video, in quanto Neil Young si sarebbe opposto (che strano!).

I brani sono stati scelti da Nash in accordo con gli altri, prendendo il meglio da otto/nove shows, con qualche “ritocchino” qua e là (Nash le chiama “accordature”) e verranno pubblicati pare con la migliore fedeltà audio possibile (e qui vedo ancora lo zampino di Young, sempre molto sensibile alle ultime tecnologie).

Al momento non si parla di tour promozionale: Nash e Crosby sarebbero d’accordo a fare qualche data, non proprio un vero tour, il parere di Stills non si conosce, mentre quello di Young…posso immaginarlo!

Comunque, a parte ogni facezia, questo live dovrebbe essere uno degli eventi musicali del 2013, in quanto pare che i quattro, quando erano in serata (e cioè quando limitavano l’uso delle droghe), suonassero ancora meglio che nei concerti che poi finirono sul mitico Four Way Street.

Staremo a vedere.

Marco Verdi