Un “Finto” Sudista (Ma Bravo). Too Slim and Taildraggers – Shiver

too slim shiver.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Too Slim And The Taildraggers – Shivers – Underworld Records

 Anche se l’iconografia delle copertine e la formazione triangolare tanto cara agli ZZTop potrebbero far pensare ad un ennesimo prodotto della scena texana e di Austin in particolare, il buon Timothy Langford (come firma i suoi brani) e i suoi accoliti vengono dalla zona dello stato di Washington, Seattle e dintorni (credo Spokane sia la località). Comunque lo stile è quello, blues/boogie infarcito di rock, americana, soul, gospel e roots music con incursioni anche nel mainstream.

Come nel precedente live Time To Live del 2009 in formazione agisce la bassista (come nei Drive-by Truckers una gentile signora) Polly O’Keary che ancòra il suono del gruppo con grande perizia, ben coadiuvata dal batterista storico della formazione Tommy Cook.

Too Slim si scrive tutte e dodici le canzoni, si produce con l’aiuto dell’ingegnere del suono Conrad Uno negli Egg Studios di Seattle. La moglie Nancy Davis Langford si occupa della grafica e il figlio Austin Elwood Langford (con un nome così, già pronto per il sequel “Blues Brothers – La seconda generazione”) alla solista nel brano Shiver che dà il titolo a questo album. Non è solo un affare di famiglia perché ci sono alcuni ospiti a insaporire il menu di questo sedicesimo album della saga dei Too Slim and The Taildraggers.

Come si diceva all’inizio lo stile è quanto di più eclettico ci si possa aspettare in un ambito blues: Stoned Again parte con il suono particolare della National acoustic di Langford suonata in stile slide poi entra l’elettrica sempre alla Elmore James, la sezione ritmica, voce filtrata e si parte per un tuffo nel blues primordiale “Il diavolo beve il suo whisky e Gesù beve il suo vino” recita il testo e non si fatica a crederlo. Daddies Bone con l’aggiunta dell’organo hammond di Joe Doria e ritmi più rilassati è quasi Claptoniana negli interventi ficcanti della Gibson Es 235 di Langford, white blues rock raffinato anni ’70.

Can’t Dress It Up, con i fiati sincopati dei Texas Horns di Mark “Kaz” Kazanoff ed un testo che prende a mazzolate i reality televisivi si piazza tra l’errebì e il sound della vecchia J Geils Band, rock’n’soul vogliamo chiamarlo! In Your Corner col ritmo accelerato a boogie, fiati sempre presenti e vivi, aggiunge la slide indiavolata del nostro amico e delle voci femminili di supporto a quella di Too Slim, che è un po’ il suo punto debole.

Reparto vocale che riceve una poderosa iniezione con la voce di Curtis Salgado che a colpi di gospel iniziale e poi di grande soul, canta da par suo la Burkiana (nel senso di Solomon) I Heard Voices/Everybody’s Got Something ( due brani al prezzo di uno), l’organo sottolinea alla grande e le coriste capitanate da Margaret Linn “testimoniano” come da copione, Langford suggella il tutto con una bella serie di assoli della sua solista, grande brano. Workin’ è un bel funky-blues ancora con slide e solista in agguato con il nostro amico che ci racconta il suo punto di vista “incazzato” sulla crisi economica. She Sees Ghosts è un altro blues a cavallo con il R&B con fiati e chitarra che si alternano alla guida del brano e un bell’intervento delle percussioni di Cook che lasciano spazio alla solista di Too Slim e il basso della O’Keary che pompa i ritmi. Inside Of me è un mid-tempo atmosferico con organo hammond e chitarra solista in evidenza, piacevole ma non memorabile.

Gagliardo invece lo shuffle texano alla Stevie Ray Vaughan di As The Tears Go By che mette in luce la perizia tecnica della solista di Too Slim che qui giustifica la sua reputazione di grande chitarrista. La già citata Shiver con Duffy Bishop alla seconda voce e il pargolo alla chitarra solista vira pericolosamente verso territori hard-rock. La conclusione è affidata allo strumentale Bucerius, un brano che si riallaccia ai “classici” degli anni ’60, suonata in punta di corde dall’ottimo Langford. La varietà non manca, la qualità c’è, sia pure con un paio di cadute di stile e il “problemino” della voce però l’album si difende alla grande. Promosso!

Bruno Conti  

Sempre Buona Musica, Tra Texas E California. Danny Click – Life Is A Good Place.

danny click.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

Danny Click – Life Is A Good Place – Dogstar Records

Danny Click è un texano d’adozione, vive e prospera in quel di Austin, ma è nativo di una cittadina nei dintorni di Indianapolis, l’ultimo di nove figli, cresciuto a pane e country (Buck Owens, Johnny Cash e Willie Nelson) poi ha subito l’influenza del rock sudista (Stevie Ray Vaughan e il southern rock in generale), ma anche la musica di Tom Petty, Mellencamp e qui arriviamo al disco in questione, il suono della West Coast e in particolare Jackson Browne e il suo fido pard David Lindley.

Questi ultimi elementi erano già presenti in misura minore nei suoi dischi precedenti Night Of The Living Guitars e Elvis The Dog (entrambi pubblicati dalla Appaloosa), il primo un fiero live chitarristico, il secondo più cantautorale (era un po’ che non usavo il termine, vi mancava?) ma sempre con la chitarra che viaggiava spedita e vibrante. Questo nuovo album Life is a Good Place, peraltro molto bello, potrebbe sembrare un disco di Jackson Browne (e di quelli ottimi), quasi al limite del plagio se non fosse chiara la passione e l’unità di intenti di Click con la sua musica, che quella è. Poi, particolare non trascurabile, scorrendo la lista dei musicisti si chiariscono alcuni elementi: basso, Kevin McCormick, wurlitzer e organo Hammond, Mark Goldenberg, ohibò ma dove li ho già sentiti, forse nella band di Jackson Browne?

Aggiungere Mario Calire alla batteria (attualmente negli Ozomatli, ma ha suonato per anni nei Wallflowers). Non basta? Alla lap steel e pedal steel c’è Greg Leisz che fate prima a dire con chi non ha suonato, di quelli bravi! Un bel gruppetto di voci femminili alle armonie vocali capitanato da Julieann Banks che appare anche nei dischi precedenti di Banks. Un bel suono professionale da major, anche se l’etichetta è la “sua” Dogstar Records con cui aveva pubblicato il CD d’esordio Forty Miles nel 1998, e, soprattutto, una decina di brani di notevole spessore, uno più bello dell’altro, concepiti nei quasi dieci anni di silenzio discografico.

Il risultato, illuminato dal versatile chitarrismo di Danny Click, soprattutto alla slide dove non ha nulla da invidiare a gente come Lindley e Sonny Landreth e da una voce molto vicina a quella del biondo citato più volte ma arricchita anche da inflessioni country acquisite in anni di frequentazione nella band di Jimmie Dale Gilmore: andatevi a sentire l’uno-due di Grey To Blue, country-roots d’annata con uso di violino e If I was God una meravigliosa ballata malinconica con la slide e la solista di Click e la steel di Leisz che intrecciano le loro sonorità in modo sontuoso, perfetta anche l’esecuzione vocale di Danny che regala emozioni, impreziosite dalle armonie della Banks e dall’organo di Goldenberg, proprio bella musica.

Ma sin dall’iniziale I feel Good Today che ricorda gli Eagles degli esordi o il Jackson Browne più ispirato si capisce che siamo a bordo di una veloce decappottabile per una bella corsa sulle highways americane, che siano quelle già citate ma anche le traiettorie del Petty solista, la slide viaggia, la voce piace, la ritmica incalza e l’ascoltatore gode. Blue Skies, già dal titolo, ricorda certi episodi del canone browniano (se esiste) e della malinconia californiana in genere con la slide che ti taglia in due, magari sarà musica già sentita ma è sempre un piacere ri-sentirla di nuovo e poi ancora quando è di questa qualità. How you feelin’ now dopo un lento intro acustico diventa una ulteriore ballata, lenta e cadenzata e sempre di ottima fattura. La formula viene ribadita nell’eccellente Wait To turn, voce calda e avvolgente, slide tagliente, organo d’ordinanza, ritornello accattivante, la musica può ricordare anche l’Hiatt più spensierato.

Piace anche Ten years, costruita su pochi accordi dell’acustica e sul vibrato della steel di Leisz e dell’elettrica di Click, ancora con una bella voce femminile di supporto. Stark è un brano più soffuso, quasi da folk singer texano, solo voce chitarra e un violino insinuante. Warhorse (dedicata all’amato cane Bernie) è uno di quei brani “sentimentali” che solo un americano può portare a termine con dignità e passione senza cadere nel patetico o peggio nel ridicolo, anzi, quasi ci scappa la lacrimuccia. Ottima anche la lunga title-track Life is A Good Place con una lunga coda strumentale e finale cameristico. You don’t know me è un bel rock-blues chitarristico che si ricollega al sound dei dischi passati e conclude in gloria un album che non ha forse pinnacoli qualitativi ma un solido percorso sonoro che soddisfa appieno, almeno chi vi scrive. La “traccia nascosta” strumentale nulla aggiunge.

Caldamente consigliato!

Bruno Conti

Robert Nesta Marley – 06/02/1945 Nine Mile – 11/05/1981 Miami

bob_marley7.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esattamente 30 anni fa, all’età di 36 anni se andava Robert Nesta Marley. In un Blog che parla di musica mi sembra giusto ricordare questo anniversario (anche se Google festeggia il 117° anniversario della nascita di Martha Graham, boh?!?).

Rest in Peace Bob and Joe!

Bruno Conti

Italiani Per Caso, Californiani Per Elezione! Stefano Frollano – Sense Of You

stefano frollano.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Stefano Frollano – Sense Of You – Terre Sommerse

Come chi legge il sottoscritto abitualmente sa, di solito non tratto (per scelta e per gusti personali) la musica italiana. Ma come si intuisce dal titolo dell’articolo, in questo caso, la musica italiana c’entra molto poco, anzi, quando alcune sere fa ho avuto una breve conversazione telefonica con Stefano Frollano, l’autore del CD (che non conoscevo), ad una obiezione sulla mia scarsa dimestichezza con la musica italiana giustamente mi è stato fatto notare (e anche con una punta di sorpresa) che questo album Sense Of You viene da altri universi sonori. Principalmente dalla West Coast (intesa come genere musicale) e dalla California in particolare, per affinità elettive, amore profondo (e dichiarato nel libretto) per Crosby, Stills and Nash, Neil Young, Joni Mitchell, Jefferson Airplane, Jerry Garcia & Grateful Dead (e moltissimi altri, sottintesi).

Intanto diciamolo a chiare lettere, fin da subito, il disco (termine che evoca passati gloriosi) mi piace, innanzitutto ha una bel suono, professionale, da prodotto di qualità, con una serie di musicisti (italiani, ma sempre per caso) e un paio di ospiti stranieri, il figlio di David Crosby, James Raymond alle tastiere e, sempre dai CPR, Jeff Pevar alle chitarre soliste e slide. E d’altronde non potevano aspettarci lo zio di Lady Gaga o il cugino di Simon Le Bon. Ma anche gli italiani, soprattutto la sezione ritmica formata dal bassista Marco Vannozzi (che ha suonato nel gruppo di Venditti) e dal batterista Francesco Isola e una nutrita serie di voci femminili (cinque, brave e carine, come si desume dall’ascolto del CD per la prima affermazione e dalle foto contenute nel “lussuoso” libretto o dovrei dire booklet, per la seconda affermazione). Il CD è contenuto in una confezione Tunnel, giuro, si chiama così, vuol dire che il jewel box è infilato in una sovracopertina rigida, tecnicamente si chiama in questo modo! Voi per il momento fidatevi del vostro recensore preferito, poi quando avrete l’occasione di ascoltare e vedere l’album in questione mi darete ragione.

Anche se qui incontriamo il primo ostacolo: il nostro amico Stefano e l’etichetta che produce il CD si trovano entrambi a Roma, chi vi scrive è a Milano e vi assicuro che purtroppo in Italia fare “viaggiare” e trovare i dischi autoprodotti vive soprattutto sulla buona volontà degli appassionati e sul passaparola (anche in questo caso, su “suggerimento” di un amico), in caso contrario è più facile trovare i dischi di importazione dalla Nuova Zelanda o dal Giappone. E non è un fatto solo italiano, se siete negli States e cercate a New York un disco “indipendente” prodotto in California o viceversa, come chi ha provato avrà avuto modo di constatare spesso è più facile cercarlo e trovarlo , paradossalmente, in Italia. Fine della digressione.

Per quella che riguarda il suo CV, come musicista, giornalista e scrittore, senza dilungarmi troppo ve lo potete andare a leggere direttamente sul suo sito (dove per ovviare all’inconveniente appena citato potete anche acquistare il CD) index.html.

A questo punto però vi devo convincere. Vediamo un po’: pensate a tutti quei signori citati prima, shakerateli vivacemente e aggiungete delle abbondanti spruzzate di soft rock, lo so che qui vado sullo specializzato ma se no non sareste in questo Blog, la prima aggiunta che mi viene in mente è quello stile alla Michael Franks, Bill Labounty, certe raffinatezze alla Robben Ford o alla Larry Carlton (ma meno jazzate), ma anche Mark-Almond o il Jon Mark solo più raffinato e soffuso, o nomi che potrebbero non dirvi (ma dicono a me) come Ned Doheny, Terence Boylan, i vari componenti della famiglia Taylor e altri Californiani vari, o quando la slide di Pevar allunga le note certi passaggi alla Lindley o alla Lowell George (e qui mi piace citare un “certo” Tom Jans che ha fatto dei dischi magnifici negli anni ’70 e che pochi conoscono). Ma anche un “fratello perduto” nordista di Frollano e che anni fa raccontavo sul Buscadero, Max Meazza, altro musicista innamorato della musica america e inglese di qualità.

Le armonie vocali femminili rievocano anche l’universo del primo Dan Fogelberg o dell’Eric Andersen di Blue River con la voce aggiunta di Joni Mitchell. Forse sto esagerando leggermente (ma quel giusto che basta per intrigare il potenziale acquirente) ma è per darvi l’idea che qui siamo di fronte a musica che è fatta con passione e grande amore (anche per l’universo femminile citato prima), oltre alla professionalità e alla cura nei dettagli già ricordata e tutto questo traspare anche nei testi (che si ispirano pure alla SF del Philip P. Dick di A Scanner Darkly, citato nel libretto, tutto rigorosamente in inglese).

Avendo parlato di tutto magari due parole sul protagonista sarebbe anche il caso di dirle. La voce di Stefano Frollano, che non sarà, ovviamente, quella di David Crosby è comunque ampiamente adeguata alla bisogna, spesso miscelata con le voci femminili ad armonizzare in puro stile westcoastiano, ha un suo fascino e unito ad una indubbia perizia tecnica alle chitarre sia elettriche (dove la passione per il Neil Young solista più melodico viene spesso a galla) che acustiche garantisce che l’interesse dell’ascoltatore sia sempre vivo.

Introdotto da un breve frammento acustico di Hello! che poi ritorna a fine album in versione completa ancorché sempre acustica con la bella voce di Gabriella Paravati sottolineata dal tappeto misurato e crosbyano delle chitarre di Frollano, il disco si apre con le melodie ariose e tipicamente da highway californiana dell’iniziale (She Won’t) Fly Away con la seconda voce di Daria Venuto e la slide pungente di Jeff Pevar che sottolineano un brano che avrebbe fatto la sua bella figura su Running On Empty. In Believe affascina l’abbrivio chitarristico dello stesso Frollano che si conferma chitarrista misurato e melodico dal tocco leggero con la solista che costruisce ripetuti interventi solistici alla Neil Young sui morbidi intrecci delle voci dello stesso Stefano e della già citata Paravati.

Chagall’s Song, con i ripetuti vocalizzi di Chiara De Nardis che sottolineano il tessuto sonoro del brano, si appoggia sulle tastiere di James Raymond, piano e synth e sulle percussioni di Luca Scorziello che gli donano quell’aria blue-eyed soul vagamente jazzata. The Dance, ancora con le due chitarre di Frollano e Pevar accarezzate con voluttà, mette in evidenza anche il Fender Rhodes di Raymond e la tromba dell’ospite Franco Piana e la bella voce di Paola Casella (ancora una diversa, ma quante ne conosce?), il tutto si dipana con felpata raffinatezza degna del miglior Michael Franks o del Robben Ford meno bluesato con qualche richiamo alla Joni Mitchell più disimpegnata. Bella musica per una piacevole serata in compagnia di amici.

Northern Lights con un bel arrangiamento che mette in evidenza l’arpa di Giuliana De Donno posata su un tappeto di piccole percussioni introduce l’ennesima voce femminile, Laura Visconti, che duetta languidamente con il nostro amico Frollano in un brano che ricorda i brani del Crosby degli ultimi anni, quello dei CPR, meno ricerca vocale e sonora ma molta serenità. Molto piacevoli anche le trame sonore della lunga e pianistica Your Eyes, ennesimo duetto con Gabriella Paravati che sottolinea con le sue armonie una delle migliori interpretazioni vocali dell’autore che si cimenta con profitto anche all’armonica, tutto sempre molto raffinato e di gran classe.

Fallin’ apart con un bel organo Hammond che accompagna e arricchisce le raffinate evoluzioni della solista aggiungendo un tocco di maggior vigore ad un sound che forse, a tratti, è fin troppo morbido, se vogliamo trovare un difetto al disco. Memory Of Your Love con la chitarra elettrica che centellina delle piccole cascate di note è un’altra bella ballata dall’aria vagamente jazzata e notturna sottolineata anche dal flicorno di Franco Piana che introduce ulteriori strati di raffinatezza al procedere delle operazioni musicali.

Per la title-track Sense of You torna la slide di Jeff Pevar che dona un senso di maggiore grinta e urgenza al brano, con tante chitarre e le tastiere di Raymond che, strato dopo strato, completano la densità del suono mentre nella parte centrale non ci facciamo mancare un ulteriore duetto con Daria Venuto, prima della bella coda strumentale dove gli assoli si susseguono senza soluzione di continuità e poi sfumano lentamente nel silenzio, la vedo bene nelle serate dal vivo.

Di Hello! in versione acustica abbiamo già detto, come bonus c’è anche un Radio Edit, ovvero una versione più breve della lunga The Dance nella speranza che qualche radio, magari Californiana (ma anche italiana) la trasmetta.

Tra l’altro, spesso, Stefano Frollano si esibisce in coppia con Francesco Lucarelli che non da molto ha pubblicato il suo disco di esordio intitolato Find The Light, al quale partecipa anche Graham Nash. Questo per chiudere il cerchio o se preferite, un colpo al cerchio e uno alla botte.

Ovviamente non siamo di fronte ad un capolavoro assoluto che salverà le sorti della industria discografica mondiale ma, per chi ama il genere, un album piacevole e onesto molto migliore di molto pattume che circola in questo momento e per il quale auguro all’autore le migliori fortune.

Bruno Conti

Cosa Riserva Il Futuro (26 Settembre) Al Portafoglio Dei Fans Dei Pink Floyd!

best-of.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se ne parlava da tempo, più o meno in segreto, da oggi è stato ufficializzato. I Pink Floyd hanno siglato un nuovo accordo con la EMI per una campagna di ripubblicazione del loro catalogo arricchito di inediti, rarità e tante altre delizie. L’unica cosa che non rimarrà deliziata, dal 26 settembre quando partirà questa serie di ristampe, sarà il portafoglio dei fans. Qualche piccolo esempio, poi, prossimamente, sarò più preciso.

Quello in apertura di Post è un nuovo Best Of – A Foot In The Door una collezione singola con brani scelti dai Pink Floyd e la grafica, come in passato, a cura di Storm Thorgerson. Nuova rimasterizzazione 2011 curata da James Guthrie, questi i brani:

Hey You
See Emily Play
The Happiest Days Of Our Lives
Another Brick In The Wall pt2
Have A Cigar
Wish You Were Here
Time
The Great Gig In The Sky
Tracklist:

Money
Comfortably Numb
High Hopes
Learning To Fly
The Fletcher Memorial Home
Shine On You Crazy Diamond (edit)
Brain Damage
Eclipse

E questi sono alcuni dei prodotti che usciranno:

discovery-albums.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

discovery-boxset.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

exp-darkside.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

exp-wywh.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

im-darkside.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

im-wywh.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questi sono solo alcuni esempi, tutta l’operazione si chiamerà Why Pink Floyd…? e qui ve la potete leggere in tutta la sua interezza index.php

Sento rumori di mascelle che cadono e portafogli che iniziano a piangere già fin d’ora.

Bruno Conti

Mancano 15 Giorni Al 70° Compleanno Di Bob Dylan. Un Paio Di Curiosità Nell’Attesa.

a nod to bob vol.2.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Mancano un paio di settimane al 24 maggio, giorno del 70° Compleanno “Of His Bobness” Mister Bob Dylan e non è che le celebrazioni stiano prendendo particolarmente piede, o così mi sembra. Poi naturalmente all’ultimo momento, quotidiani, settimanali e televisioni che si occupano raramente di Dylan si getteranno sull’evento con peana al grande bardo.

Il sottoscritto non ha ancora deciso se scrivere un Post specifico dedicato al genetliaco o se continuare con questa serie di curiosità sparse di tanto in tanto. Oltre alla notizia che vi ho postato qualche giorno fa del tour asiatico e la partecipazione decisa all’ultimo momento alla serata dei Grammy 2011 in abbinata con Mumford and Sons e Avett Brothers, in cui purtroppo la voce conferma il suo inarrestabile declino (anche se in alcune serate, magicamente, si riprende) come potete verificare qui sotto nella versione di Maggie’s Farm (meglio che al Live Aid, qui vanno a tempo almeno)…

Questa l’ho trovata curiosando in rete, ne ignoravo l’esistenza (ma sicuramente non i collezionisti, anche se non ci sono inediti)

bob dylan victoria secret exclusive.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Una compilation pubblicata in esclusiva dalla Sony per la catena di intimo, Victoria’s Secret nel 2004. Come direbbe il “mitico” Tonino Di Pietro, “che c’azzecca”?

C’azzecca, e parecchio, il tributo che gli dedicano gli artisti della Red House (e la cui copertina vedete effigiata ad inizio Post) e che è il secondo della serie, il primo era uscito 10 anni fa per il 60° compleanno. Data di uscita 17 maggio, si intitola A Nod To Bob 2: An Artists Tribute To Bob Dylan On His 70th Birthday e il titolo è già un programma in miniatura. La lista di canzoni e partecipanti mi pare d’obbligo:

TRACKLISTING

1. What Good am I? (The Pines)
2. Just Like a Woman (Gorka, John)
3. Mama, Let Me Lay It on You (Baby, Let me Follow You Down) (Hot Tuna)
4. Every Grain of Sand (Kaplansky, )
5. Lay Down Your Weary Tune (Storyhill)
6. The Days of ‘49 (Koerner, Spider John )
7. Dirt Road Blues (Brown, Pieta )
8. Buckets of Rain (Schmidt, Danny )
9. House of the Rising Sun (Davis, Guy )
10. Jokerman (Gilkyson, Eliza )
11. Just Like Tom Thumb’s Blues (Eberhardt, Cliff )
12. It Takes a lot to Laugh, It Takes a Train to Cry (Bonneville, Ray )
13. Born in Time (Hutchinson, Meg )
14. Not Dark Yet (LaFave, Jimmy )
15. Mozambique (Ostroushko, Peter )
16. Walkin’ Down the Line (Williams, Robin & Linda )

Un onesto gruppo di musicisti che rende omaggio ad uno dei grandi della storia della musica!

La Sony/Columbia non mi sembra che pubblichi nulla per l’occasione, aldilà del CD del concerto Bob Dylan In Concert: Brandeis University 1963, che il 12 aprile è uscito in vendita nei negozi. Peccato che prima te lo regalavano insieme alle Bootleg Series Vol.9, ma come ho detto altre volte si chiama Marketting!

E questo per il momento sembrerebbe tutto per l’occasione, ma tenetevi forte, perché sicuramente all’ultimo momento ci sarà il diluvio (o almeno spero).

Bruno Conti

Bellissima Musica E Anche Una Bella Storia Da Raccontare! Diana Jones – High Atmosphere

diana jones.jpgDIANA JONES_HeartWall_72dpi.jpg

 

 

 

Diana Jones – High Atmosphere – Proper Records

Come promesso eccomi qui a raccontare della musica e della storia di Diana Jones. Spesso dietro alla musica di un bel disco si nasconde o si appalesa anche una “bella storia”. Quella della Jones, almeno nelle premesse, è simile a ciò che Mary Gauthier ha raccontato nel suo bellissimo album The Foundling. Se si dovesse riassumere come il canovaccio per un racconto o una sceneggiatura (e quando scrivo un Post ogni tanto uso questa tecnica per favorire un disco o un musicista rispetto a un altro) si potrebbe dire: bambina abbandonata viene adottata da una famiglia e…segue storia. Quella della trovatella Gauthier la sapete tutti, quella di Diana Jones segue un altro percorso. Quando viene adottata a metà degli anni ’60 da una famiglia il cui capofamglia era un ingegnere chimico che per il suo lavoro si spostava tra Long Island, New Jersey e Rhode Island, la piccola Diana era convinta che i bambini arrivassero con il sistema dell’adozione perché anche il fratello di due anni e mezzo entrò in famiglia attraverso la stessa procedura.

Purtroppo la madre aveva dei seri problemi personali non connessi con i problemi dell’adozione e quando Diana arriva ai 15 anni decide di lasciare la famiglia e diventa quasi una “senza casa” venendo ospitata saltuariamente sui divani delle case di amici. Nel frattempo ha abbandonato la high school, lavora in una fabbrica di goielli del Rhode Island e mentre frequenta part-time un college decide di provare a richiedere una borsa di studio per entrare alla Sarah Lawrence University. Inutile dire che come nelle storie a lieto fine, all’ultimo minuto, quando ormai stava lasciando l’ennesimo appartamento sfigato arriva la lettera che la accoglie in questa istituzione americana situata a Bronxville/Yonkers nello stato di New York. E quindi la possibilità di tre pasti al giorno, una doccia e un intero mondo di studio, biblioteche e musica e arte. La nostra amica si laurea in storia e arte nel 1988 e, trasferitasi a Manhattan, con qualche piccolo risparmio a disposizione e l’aiuto del padre adottivo, decide di provare a rintracciare la sua vera madre.

E qui per effetto di una diversa “sliding door” la storia si diversifica da quella di Mary Gauthier. Diana Jones scopre che la famiglia della sua madre naturale si chiamava Maranville e inizia a chiamare tutti i Maranville della zona di New York, in breve tempo accumulando un enorme debito telefonico e dando fondo a tutte le sue risorse finanziarie. A questo punto la storia si fa romanzata (ma probabilmente vera) e Diana dice di sognare di un ufficio postale dove una donna le dice che sua madre era nativa del Tennessee. Dopo ulteriori ricerche trova dei Maranvilles nel Tennessee, chiama un numero e munita della sua data di nascita racconta la sua storia. A posteriori scopre che la persona che le risponde al telefono è sua nonna che non capisce al volo la situazione e quando racconta la storia al marito (e nonno) si accorgono che la nipote ritrovata non ha lasciato il suo numero di telefono creando disperazione nell’anziano nonno che passa una brutta nottata non sapendo se la giovane avrebbe richiamato il giorno successivo. Cosa che puntualmente accade quando poi scopre che la famiglia, tra nonni, zii e altri parenti, parlavano come lei, avevano sembianze simili, in definitiva erano la sua vera famiglia naturale.

A questo punto e siamo alla fine del 1989, Diana Jones si trasferisce a vivere a Londra per conoscere la nuova famiglia della mamma che nel frattempo era andata a vivere in Inghilterra ed aveva avuto altri due figli. Dopo tre anni di felice convivenza rimane seriamente ferita in un grave incidente d’auto e nella convalescenza rinnova la sua passione per la musica nata nell’infanzia e scopre una affinità per la musica del Tennessee e in particolare del nonno, Robert Lee Maranville, che in gioventù era stato chitarrista e cantante con la band di Chet Atkins. Decide che la musica sarà la sua vita e la sua carriera, diventa una musicista itinerante per l’Europa continentale e poi di nuovo a New York e infine a Austin, che è una città magica per la musica e lì tra il 1997 e il 1998 incide e pubblica i suoi primi album, che pur tra ottime critiche non riescono a uscire dal livello locale. Nel frattempo le frequenti visite al nonno le fruttano un patrimonio di conoscenza del grande serbatoio della canzone popolare americana che le saranno utili nella seconda fase della sua carriera.

Quando il nonno muore nel 2000 la lascia in uno stato di prostrazione e dolore per la perdita ed avendo ormai 34 anni indecisa sulla strada da percorrere. Un nuovo incontro fortunato e la possibilità di entrare in un istituto di musica per artiste femminili che le dà un lavoro ma anche il tempo libero per scrivere nuove canzoni è la molla che la lancia definitivamente nell’ambito della musica di qualità. Nel 2006 esce il primo album della fase 2, My Remembrance of You, undici canzoni di notevole spessore, ispirate dalle tradizioni musicale degli Appalachi e con la partecipazione di Jay Ungar al violino e Duke Levine al mandolino e le armonie vocali della grande Ferron. Il disco, dedicato al nonno, le frutta il premio come Miglior Artista Emergente (a 41 anni) ai Folk Alliance Awards. D’altronde i bluesmen di colore di solito a che età esordiscono? Una adolescente al confronto. Lo stesso anno pubblica un altro disco autoprodotto in coppia con Jonathan Byrd altro songwriter “emergente”, intitolato Radio Soul.

 

L’interesse generato da questi dischi le fa finalmente ottenere un contratto internazionale con l’inglese Proper Records e nel 2009 esce il bellissimo Better Times Will Come che contiene la sua versione di Henry Russell’s Last Words incisa l’anno precedente da Joan Baez in Day after tomorrow, il disco prodotto da Steve Earle che si dice le abbia consigliato il brano della Jones. Anche Gretchen Peters incide una sua versione di If I had a gun. Nel disco appaiono alcuni nuovi amici, ammiratori e ammiratrici tra cui Betty Elders, Nanci Griffith, Mary Gauthier e Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show.

 

Quest’ultimo suona violino, viola e banjo e cura le armonie vocali e la produzione del nuovo High Atmosphere che ufficialmente esce domani sempre per la Proper Records. Ci sono anche David Mansfield e Duke Levine che si occupano delle chitarre in Sister uno dei brani portanti e tra i migliori dell’album. Anche Jim Lauderdale è presente in tre brani tra cui l’intensa Funeral Singer, una canzone dalla genesi travagliata che racconta sotto forma di duetto di questa inconsueta “carriera” di cantante ai funerali degli amici. Diana Jones ci mette, come al solito, molto di suo, a partire dalla voce, uno strumento particolare con un timbro riconoscibile che la inserisce nel filone delle “voci uniche”, in compagnia di gente come Gillian Welch, Iris Dement e Alison Krauss a cui spesso viene accostata. Vogliamo chiamarlo country-folk?

 

Oltre a tutto il disco prende il nome da una vecchia compilation della Rounder pubblicata nel 1975 che nel suo sottotitolo recitava “Ballads and banjo tunes from Virginia and North Carolina” e mi sembra perfetto come presentazione. Ovviamente sapete cosa aspettarvi, però vista questa rinascita della musica acustica in America, oltre ai nomi citati vengono in mente gli Avett Brothers, Darrell Scott, la Del McCoury Band e, cito a caso, personaggi come Jim Rooney, la Nitty Gritty Dirt Band e in tempi recenti i Trampled by Turtles, Carolina Chocolate Drops, Abigail Washburn, Crooked Still e tutto questo filone che ripropone old mountain music, bluegrass, country tradizionale e musica delle “radici” in generale”. La stessa Diana Jones ci consiglia Ginny Hawker, investigherò!

 

Tornando al disco, dodici brani, poco meno di 40 minuti, secondo alcuni la durata perfetta, si alterna tra le eteree “atmosfere” appalachiane della title-track, la stupenda ballata molto evocativa I Don’t Know dove il leggero vibrato della voce vissuta della Jones dona un fascino unico al brano, il folk minimale di I Told the man. Ma anche Little lamb ancora una dolcissima ballata cantata con grande trasporto e impreziosita dal violino di Ketch Secor. Non manca l’old time music d’ordinanza di Poverty ancora con banjo e violino in grande spolvero. Ma in definitiva è bello tutto il disco che sarebbe potuto uscire negli anni ’50 o ’60 ma anche oggi mantiene intatto quel fascino particolare e atemporale della bella musica. Sapete cosa aspettarvi, quindi amanti della dance, del metal e del pop astenersi prego.

Se digitando in rete il suo nome vi appaiono le imprese del famoso archeologo non fateci caso e andate al suo sito http://www.dianajonesmusic.com/ Come al solito sono andato “un po’ lungo”, ma se siete arrivati alla fine della lettura ne valeva la pena!

Bruno Conti

Novità Di Maggio Parte II. Hugh Laurie, Okkervil River, Booker T. Jones, Randy Newman, Felice Brothers, Greg Brown Eccetera

okkervil river.jpghugh laurie.jpgrandy newman.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Continuiamo le nostre poderose liste di uscite del mese di maggio (settimana per settimana) che si conferma denso di appuntamenti discografici di valore. Oltre a confermarvi l’uscita per la prossima settimana di Blind Boys Of Alabama, Warren Haynes (già “anticipato” a marzo), Diana Jones, il cofanetto sestuplo degli Hollies, il nuovo “stupendo” Cars Move Like This (di cui la rivista Rolling Stone ha detto “è come se non avessero mai smesso”, ma l’avevano fatto, perché ripensarci, aggiungo io), tutte cose che trovate in Post precedenti. Questa settimana, tutti in uscita il 10 maggio, aggiungiamo:

Hugh Laurie, di questo disco si parlava da quasi un anno e qualche accenno mi sembrava di averlo già fatto. L’album si chiama Let Them Talk esce per la Warner Bros e non fatevi ingannare da quella faccia da Dr.House, lui è proprio bravo, sia come musicista (piano e chitarra) che come cantante. Se poi si fa produrre da Joe Henry e per registrare questo tributo alla musica di New Orleans (da parte di un inglese) e ai suoi interpreti ha chiamato musicisti come Dr.John, Irma Thomas, Tom Jones, Allen Toussaint e tutti i musicisti che suonano abitualmente con Joe Henry (Bellerose, Leisz, Piltch, Warren e Breit, alcuni presenti nellultimo Lamontagne per intenderci). Risultato finale eccellente, questa volta è proprio il caso di dire “provare per credere”.

Tornano anche gli Okkervil River dopo l’ottima collaborazione con Roky Erickson. La band di Will Shelf allarga ulteriormente il proprio spettro sonico e questo I Am Very Far che esce come di consueto per la JagJaguwar dovrebbe essere il sesto album, collaborazioni, Ep e raccolte di rarità escluse ( disponibile anche in versione da nababbi, cofanetto di legno tipo confezione bottiglie di vino di lusso, CD, Vinile, libretto con i testi, 7 pollici con 2 brani esclusivi, memorabilia vari, a quella centata di euri, cosa sarà mai!).

Secondo capitolo del Randy Newman Songbook. A otto anni dal precedente l’occhialuto Randy Newman torna con un nuovo disco solo voce e piano dove rivisita 16 brani del suo sublime catalogo. Etichetta Nonesuch, lo aiutano nella produzione Mitchell Froom e Lenny Waronker.

felice brothers.jpggreg brown freak flag.jpgbooker t jones.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Il fratello Simone ha fondato The Duke and The King, autori di uno dei dischi più belli del 2010, gli altri due Felice Brothers pubblicano ora questo Celebration Florida per la Fat Possum. La concorrenza familiare stimola a dare il meglio, chi gode è l’ascoltatore. In questo caso (per gli uni e per gli altri) verrebbe da dire come se la Band non se ne fosse mai andata (o vivesse ai giorni nostri), e il sottoscritto aggiunge, per fortuna.

Greg Brown è il 61enne babbo di Pieta e marito di Iris Dement, nonché fondatore della Red House Records (e uno dei miei preferiti in assoluto, anni fa gli avevo dedicato un bel articolo retrospettivo sul Buscadero, ma parecchi anni fa!). Con l’inseparabile Bo Ramsey pubblica l’ennesimo capitolo della sua saga iniziata nel 1980 (ne avrà fatti almeno una trentina di dischi, alcuni bellissimi). Si chiama Freak Flag è il primo che esce per la Yep Rock e anche il primo dove utilizza ProTools e altre moderne diavolerie. Il risultato sembra non risentirne e il suo vocione ci delizia con una ulteriore serie di canzoni sempre originali e profonde, tra folk, country e canzone d’autore. Un grande!

Anche Booker T. Jones è stato un grande, anzi un grandissimo, uno dei pilastri fondanti della Stax e uno dei più grandi organisti nella storia della musica soul. Nel precedente Potato Hole, sempre per la Anti Records era accompagnato dai Drive-by Tuckers e da Neil Young. In questo nuovo The Road From Memphis c’è il “rivale”, chitarrista dei Funk Brothers e della Motown, Dennis Coffey, ma anche alcuni cantanti “nuovi e vecchi”: Lou Reed, Sharon Jones, Matt Berninger dei National e Yim Yames dei My Morning Jacket (a proposito il loro disco nuovo esce a giugno, da quello che ho sentito “MMMHHH”)!

miles kane.jpgeliza carthy neptune.jpgjimmie dal gilmore heirloom music.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Miles Kane è l’ex leader del gruppo inglese dei Rascals (da non confondere con quelli americani degli anni ’60, anche se…) nonché collaboratore dell’Artctic Monkeys Alex Turner nei Last Shadow Puppets che facevano del british pop ispirato da Bacharach. Per questo suo esordio da solista Colour Of The Trap che esce per la Columbia Kane si è spinto ancora più indietro negli anni ’60, nell’era di Joe Meek e degli albori del beat britannico sempre mescolato con il repertorio indie-alternative ma il più retrò possibile.

Eliza Carthy con la mamma Norma Waterson nel 2010 aveva fatto The Gift, decisamente il disco folk più bello dell’anno. Questo Neptune che esce per la Hem Hem Records (ma se le inventano di notte queste etichette, per rendere la vita difficile agli acquirenti di CD) ha alcuni dei difetti dei suoi dischi da solista, nel senso che è dispersivo, tra flamenco, tango, calypso, brani alla Julie London e l’immancabile folk. Questo a un primo affrettato ascolto (come al solito). Poi magari, sentito meglio, è bellissimo.

Torna dopo il capitolo Flatlanders, Jimmie Dale Gilmore e visto che la musica acustica, l’old time music e il folk dei tempi che furono è tornato in auge, come aveva fatto Loudon Wainwright III con il disco dedicato a Charlie Poole anche lui riscopre il repertorio a cavallo delle due guerre con questo Heirloom Music registrato con i Wronglers su etichetta Redeye label.

zombies breathe.jpgwebb sisters.jpgacdc.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Secondo disco degli Zombies originali con Rod Argent e Colin Blunstone dopo la prima reunion del 2004 e una massiccia serie di ristampe in questi ultimi anni che ne hanno ristabilito lo status come uno dei più raffinati gruppi della British invasion di fine anni ’60. Si chiama Breathe Out, Breathe In ed esce per la Red House Records che non credo sia la stessa di Greg Brown (ma non sono sicuro).

“The Magnificent” Webb Sisters come le chiamava cavallerescamente Leonard Cohen sono le due sorelle inglesi che hanno allietato con le loro armonie vocali gli ultimi tour del nostro amico canadese. Questo Savages è il loro terzo disco, probabilmente il migliore, prodotto dal veterano Peter Asher (esatto, quello dei Beatles, James Taylor, Linda Ronstadt), esce martedì 10 maggio per la Proper Records.

Last but not least, questo DVD (ma c’è anche il BluRay) è la documentazione del concerto che gli AC/DC hanno tenuto lo scorso anno (per la verità dicembre 2009) di fronte a 200.000 scatenati argentini. Si chiama Live At River Plate, e come vedete è vietato ai minori di 12 anni ( o ai maggiori?). Esce per la Sony/BMG, dura 110 minuti ed è stato girato con 32 camere ad alta definizione nello stadio argentino.

Alla prossima (anche oggi volevo dedicare il post al disco di Diana Jones, perché ha una bella storia oltre a buona musica, poi mi sono detto, dedichiamoci alle nuove uscite che faccio prima e infatti…domani giuro, forse).

Bruno Conti

Tornano I Cars E Gli Anni ’80 Con “Move Like This!”

cars move like this.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Cars – Move Like This – Hear Music 10-05-2011 / Decca Universal ITA/EU 17-05-2011

Ne avremmo fatto anche a meno senza problemi (sembra Ghostbusters)! Mah! Il resto non mi sembra meglio.

Bruno Conti

Ancora Lui! Un Bel Tributo A Neil Young In DVD Ci Mancava. Musicares Tribute To Neil Young E Un “Ricordo” Di Calvin Russell

musicares tribute.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Musicares Tribute To Neil Young – DVD – BluRay – Shout Factory 31-05-2011

Esce a fine mese per la Shout Factory, NTSC Zona 1, in DVD (e BluRay, salvo rischio squalifica da parte del Bisonte). Mi sembra un concertino niente male: Los Angeles 29-01-2010, il buon vecchio Neil viene premiato come MusiCares Person of The Year (e nessuno più di lui per il suo concerto annuale del Bridge School Benefit lo merita) e un gruppetto di colleghi gli rende omaggio con le sue canzoni. Ora speriamo che qualche benemerita casa discografica lo pubblichi anche in Europa, dura solo 70 minuti (come vedete dai 2 video riassuntivi della serata qualcuno manca) però dalla lista mi sembra ci sia comunque da godere (ma Josh Groban cosa c’entra? Forse perché è stato al Bridge School Benefit ed ha duettato con Neil Young? Allora perché non Bocelli? Mah!):

1. Rockin In The Free World Keith Urban/John Fogerty/Booker T. Jones
2. Only Love Can Break Your Heart Lady Antebellum
3. The Needle & The Damage Done Dave Matthews
4. Tell Me Why Norah Jones
5. Cinnamon Girl Dierks Bentley/Booker T. Jones
6. Harvest Moon Josh Groban
7. Ohio Ben Harper
8. Don t Let It Bring You Down Jackson Browne
9. Broken Arrow Wilco
10. Lotta Love Jason Mraz/Shawn Colvin
11. (When You re On) The Losing End Elvis Costello (solo Costello poteva andare a scovare una “oscurita” da Everybody Knows This Is Nowhere)
12. Heart Of Gold James Taylor
13. Down By The River John Mellencamp/T Bone Burnett
14. Human Highway Crosby, Stills & Nash
15. Helpless Elton John/Leon Russell/Neko Case/Sheryl Crow

Bonus Performances:
16. Mr. Soul Ozomatli
17. Revolution Blues Everest

calvin-russell-jpg.jpg

 

 

 

 

 

 

 

Come vedete nei commenti a fianco, il collega Buscaderiano Marco Verdi mi rammenta la scomparsa di Calvin Russell un grande cantautore texano che aveva eletto la Francia come sua seconda patria ma era molto popolare anche nelle nostre lande (“molto popolare” è ovviamente un eufemismo). Una faccia vissuta che dimostrava 100 anni o giù di lì ma ne aveva 62. E’ morto il 3 aprile scorso a Garfield in Texas per un cancro. Era uno di quei “beautiful losers” che popolano le strade del rock e nei prossimi giorni mi riprometto di dedicargli un piccolo “ricordo”più corposo. Nel frattempo…

Il vantaggio di un Blog e di internet è l’immediatezza, quindi perché non usarla? Forse è il tempo che manca!

Rest in Peace!

Bruno Conti