Il “Solito Giovane Vecchio” Bluesman Texano! Larry Lampkin

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Larry Lampkin – The Blues Is Real – Kaint Kwit Records

Mentirei se vi dicessi che Larry Lampkin è sempre stato nel mio cuore di appassionato di Blues (in effetti questo The Blues Is Real è il suo secondo disco, dopo l’esordio When I Get Home, uscito nel 2011), però questo artista nero Texano, di Fort Worth, con la tipica faccia da “giovane vecchio” che hanno molti bluesmen, ha un suo perché. Autore, si scrive tutte le canzoni, chitarrista e cantante di buon spessore, il suo genere spazia tra il classico suono Texas Blues, che è nel suo DNA, ma con la giusta quota di Chicago e Delta sound che non può mancare, innervato anche da innesti di rock, funky e soul https://www.youtube.com/watch?v=rMesOLXBXqI . Quindi quel classico suono elettrico e moderno che non rende pallosa la sua visione della tradizione delle dodici battute: una voce vissuta, una chitarra pungente e il buon apporto di una sezione ritmica efficiente senza essere geniale, con il plus delle tastiere di Rich E Rich (uno scioglingua?), poi ci pensa la chitarra di Lampkin, sempre fluida e diversificata, come dimostra, sin dall’apertura, con la title-track.

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Se vogliamo trovare un difetto, il suono, a livello tecnico, è fin troppo crudo, molto basico, tra “ruspante” e lo-fi, ma la classe c’è, sentire lo slow blues Got To Get Away, con le sue linee chitarristiche semplici ma efficaci https://www.youtube.com/watch?v=j2AzvSZk4us , o le atmosfere sognanti e raffinate di Let Me In, che sta da qualche parte tra Peter Green e Ronnie Earl, ma con un sound più nero, la grinta funky di Maintenance Man, vagamente alla Albert King, anche se la presenza di un produttore sarebbe urgentemente richiesta. World Blues è sempre caratterizzato da questa chitarra cruda e lancinante, ma anche pervasa da una tecnica acquisita in lunghi anni di tour con gente come Buddy Guy, John Mayall e Lucky Peterson. Grinta e passione che fuoriescono anche da Crown Royal, e da un’altra piccola perla come She’s So Good To Me, con le sue atmosfere sognanti e riflessive, ben delineate dalla solista di Lampkin e dal piano dell’ospite Jermaine Marshall. The Way She Makes It introduce quegli elementi soul e errebì ricordati all’inizio, mentre Sad Eyes è quasi una ballata deep soul blues sudista , con una chitarra acustica inserita ad impreziosire il suono, sembra quasi un brano di stampo southern alla Allman Brothers, interessante. Conclude, in puro Chicago Blues Style Working Man, altro limpido esemplare di blues elettrico, come d’altronde The Blues Is Real manifesta fin dal suo titolo. Se vi piacciono Buddy Guy e Gary Clark jr., ma con tracce meno rock, potreste farci un pensierino!

Bruno Conti

Ma Quindi Abbiamo “Inventato” Anche Il Blues? Fabrizio Poggi & Chicken Mambo – Spaghetti Juke Joint

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Fabrizio Poggi & Chicken Mambo – Spaghetti Juke Joint – Appaloosa/IRD

Ormai avevamo dato per superato l’assunto secondo il quale i bianchi non potevano suonare il blues, poi avevamo anche messo da parte i pregiudizi verso i non americani, sdoganando di volta in volta, inglesi, francesi, olandesi, tedeschi, e chi volete voi, poi i musicisti africani, tra i progenitori del genere, persino noi latini abbiamo dato dei sostanziosi contributi alla causa. E ora, nelle colte note di questo Spaghetti Juke Joint, Fabrizio Poggi spariglia tutte queste certezze acquisite, con un breve saggio contenuto nel libretto del CD: una “storia vera” intitolata Gli Italiani che inventarono il Blues! Ma come, io sapevo che eravamo un popolo di Santi, Poeti e Navigatori, al limite cuochi e pizzaioli, ma addirittura Inventori del Blues! Per l’opera lirica, ok, quello è comprovato, ma il Blues non viene dalle piantagioni di cotone del Delta del Mississippi? E secondo voi dove si trovavano, verso la fine del 1800, questi italiani che inventarono il Blues?

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Se volete sapere il seguito, vi comprate il CD, così finite di leggere la storia che ci racconta questo grande musicista, anche divulgatore e autore di libri sull’argomento, nonché musicista verace della bassa Lombardia, in quel di Voghera. Fabrizio Poggi è uno dei più prolifici nel campo, in Italia, questo è il 18° album, il precedente Juba Dance, pubblicato a nome Guy Davis, ma con la fattiva presenza delle armoniche del nostro è stato nominato ai Blues Music Awards del 2014, come miglior disco acustico. Senza stare a raccontarvi tutta la sua storia, che è lunga, comunque  https://www.youtube.com/watch?v=gZiD-VCGgaA , in circa 30 anni, Fabrizio ha registrato anche parecchi dischi negli Stati Uniti, oltre a suonarvi con una certa regolarità, e in conseguenza di ciò ha stretto molte amicizie con musicisti di valore che si muovono intorno a questa area geografica e musicale. Alcuni appaiono pure in questo nuovo disco, che è un album di blues elettrico, con band al seguito, i Chicken Mambo, versione 2014, ovvero Tino Cappelletti al basso, Enrico Polverari alla chitarra e Gino Carravieri alla batteria, oltre allo stesso Fabrizio Poggi, armonica e voce, e al membro onorario, Claudio Noseda, tastiere e fisa.

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Se volete saperlo subito, così mi levo il pensiero, il disco è molto bello, e mi ricorda assai, nel suono e nell’attitudine, alcune delle grandi band bianche che hanno fatto la storia del blues, quelle guidate da un cantante/armonicista: bravi, i Bluesbreakers di Mayall o la Butterfield Blues Band, per citarne un paio delle più “scarse”, proprio quel tipo di suono, classici del blues, e qualche brano originale, suonati con grande passione e vigore, l’armonica ma anche le chitarre molto presenti, con arrangiamenti vivaci e pimpanti che suonano molto meglio di gran parte di quello che viene spacciato per blues oggi,e qui sto già parlando del disco. Prendete l’iniziale Bye Bye Bird di Sonny Boy Williamson (II, mi raccomando), testo minimale, praticamente Bye Bye Bird ripetuto dodici volte e e I’m Gone, tre volte, reiterato ed essenziale come deve essere il blues, ovviamente se Fabrizio soffia nella sua Hohner con vibrante passione (come direbbe Napolitano), la chitarra di Polverari si lancia in vorticosi soli, ben sostenuto dalla ritmica e dall’organo, ben delineati nel suono. E che dire di uno dei maestri riconosciuti della slide moderna come Sonny Landreth, che aggiunge le acrobazie del suo strumento, sfidando il wah-wah di Polverari in una vorticosa King Bee, e pure Ronnie Earl ci mette del suo, con chirurgica precisione, in The Blues Is Alright, uno shuffle dal repertorio di Little Milton, con testo potenziato da Fabrizio Poggi, che poi firma Devil At Tbe Cross Road, dove il “vero” Ronnie Earl mi sembra uno straripante Polverari, solista veramente travolgente in un omaggio al puro Chicago Blues, dove anche l’armonica di Poggi è perfetta.

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Mistery Train, con la sua andatura inconfondibile è un altro classico immancabile, ben sostenuto, come in altri brani,  anche dalla vocalità di Sara Cappelletti (un cognome che mi dice qualcosa). Way Down In The Hole, di un bluesman inconsueto, tale Tom Waits, propone interessanti variazioni al menu, mentre Checkin’ Up On My Baby, anche se è sempre di Williamson, ricorda molto Mastro Muddy e One Kind Favor, altro vecchio blues, aggiornato da Guy Davis, ci permette di gustare sempre con piacere il dualismo chitarra/armonica che domina tutto l’abum; Mojo, variazione di Poggi sul tema classico, ci permette di apprezzare la slide di Bob Margolin, altro virtuoso dell’attrezzo, che poi lascia spazio nuovamente a Polverari e al basso di Cappelletti. La signorina Cappelletti duetta con Fabrizio, che prima si “sfoga” all’armonica in Nobody, che poi sarebbe Nobody’s Fault But Mine, mentre Claudio Bazzari presta la sua slide per una galoppante I Want My Baby, finale con Baby Please Don’t Go, mentre prima non manca anche una gaglarda Rock Me Baby. Ottimo blues “italiano”, come dice il buon Fabrizio, “se non vi piace il blues, avete un buco nell’anima”!

Bruno Conti

Un Filo Meno Bello Del Solito! Jimmy Thackery And The Drivers – Wide Open

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Jimmy Thackery And The Drivers – Wide Open – White River Records

Dopo un lungo filotto di dischi, prima per la Blind Pig, poi per la Telarc, e anche uno dal vivo per la Dixiefrog, pure Jimmy Thackery si è dovuto piegare alle logiche di mercato, quindi etichetta indipendente autogestita, e questo Wide Open è il secondo CD che esce con questo sistema di distribuzione, dopo Feel The Heat del 2011. Forse ricorderete che avevo parlato abbastanza bene di quell’album (e sarebbe difficile il contrario) http://discoclub.myblog.it/2011/06/18/questo-uomo-suona-jimmy-thackery-and-the-drivers-feel-the-he/  ma non benissimo, pur essendo chi scrive convinto che Thackery sia uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione, e non solo in ambito rock-blues. Convinzione maturata in decenni di ascolti, prima con i Nighthawks e poi, da una ventina di anni, con i Drivers, in varie incarnazioni, in mezzo ci sono stati anche gli Assassins, i cui dischi sono di difficile reperibilità. Diciamo che anche lui, come Ronnie Earl o Danny Gatton (che addirittura non cantano), e prima ancora Roy Buchanan non brillavano come vocalisti: Thackery se la cava, ma non è un fulmine di guerra, Robillard, che peraltro non è certo Otis Redding o Sam Cooke, è decisamente meglio.

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Però la qualità come solista è pari ai nomi citati. Anche questo nuovo CD non lo annovererei sicuramente tra i suoi migliori in assoluto, palma che potrebbe spettare, Nighthawks a parte, ai due in coppia con Tab Benoit, a We Got It, dove ripercorreva il repertorio di Eddie Hinton, con l’aiuto dei Cate Brothers, ai vari Live, e ad altri CD dell’epoca Blind Pig e Telarc. Per questo Wide Open Jimmy Thackery si è preso il suo tempo, un paio di anni per concepire i brani e poi per registrarli ad Aprile di quest’anno negli studi di Cadiz, Ohio, con i due pards, Mark Bumgarner al basso e George Sheppard alla batteria https://www.youtube.com/watch?v=rgO3-xcOIbw . Il risultato è un disco più rilassato, a tratti jazzato, a tratti “atmosferico”, non privo delle sue feroci cavalcate chitarristiche rock-blues, ma che si può definire tanto eclettico quanto discontinuo, Wide Open per dirla con il buon Jimmy. Si parte con il jazz-blues swingato di Change Your Tune, con un cantato assai “rilassato” di Thackery, che però alla solista può suonare quello che vuole, con una disinvoltura disarmante. Anche Minor Step ha un taglio jazzistico, uno strumentale che oscilla tra Wes Montgomery, Robben Ford e certe cose di Ronnie Earl, niente male insomma. Coffee And Chicken è il primo vero blues, i Drivers rendono omaggio al loro nome e il nostro comincia ad affilare le stilettate della sua chitarra, anche se la parte cantata è sempre troppo sforzata. King Of Livin’ On My Own vira addirittura verso lidi country, con Thackery impegnato all’acustica in un brano che non è proprio un capolavoro. Hard Luck Man è il Thackery che più ci piace, un blues-rocker ricco di riff, con una grinta alla Nighthawks e la chitarra che “vola” https://www.youtube.com/watch?v=eeS2Bv4xdkY . Shame Shame Shame, il brano più lungo di questa collezione, quasi otto minuti, è uno strano slow blues elettroacustico dove Thackery si cimenta alla slide acustica, ma non resterà negli annali del blues.

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Molto meglio parlando di blues lenti una You Brush Me Off dove Jimmy se la batte con il miglior Ronnie Earl, uno di quei classici brani in crescendo che si gustano tutti d’un fiato https://www.youtube.com/watch?v=WHwKuLLngo8 , mentre Someone Who’s Crying Tonight, nonostante la presenza di Reese Wynans all’organo Hammond, fatica a decollare, un altro lento più parlato che cantato, ancora vicino ad atmosfere vagamente outlaw country-rock, sempre in attesa di un assolo che non arriva mai. Keep My Heart From Breakin’ torna al rock-blues più sanguigno, quello che di solito impazza nei suoi dischi, ma Swingin’ Breeze è un brano più adatto ai dischi jazz di Robillard o di un Herb Ellis, uno strumentale suonato benissimo ma non è il genere chi mi aspetto da Thackery e Run Like The Wind, un blues acustico, solo voce e chitarra, non è che metta il fuoco alle chiappe dell’ascoltatore. Rimane la conclusiva Pondok, un interessante brano strumentale che rende omaggio all’arte dei citati Buchanan e Gatton, un esercizio di grande perizia tecnica che però non solleva completamente le sorti dell’album. Ovviamente parere personale, magari non condivisibile, ma sapete che amo essere sincero. Gli anni passano e Thackery è un distinto signore di 61 anni, ma mi aspettavo di più, la classe c’è, ma solo a tratti.

Bruno Conti

Il “Ritorno” Di Little Mike And The Tornadoes – All The Right Moves

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Little Mike And The Tornadoes – All The Right Moves – Elrob Records

I vecchi dischi di Little Mike And The Tornadoes me li ricordo (forse ne ho recensito anche qualcuno ai tempi, tra tante recensioni ogni tanto la memoria mi difetta, ma parliamo di più di 20 anni fa). Come per altri gruppi, i primi sono quasi sempre i migliori: il primo in particolare, Heart Attack, uscito nel 1990 per la Blind Pig, era un solido disco di Chicago Blues https://www.youtube.com/watch?v=tc8k9dwAyr8 (anche se il nostro amico è originario di New York e ora vive in Florida), con alcuni ospiti di pregio, Pinetop Perkins e Hubert Sumlin, due maestri del genere a cui Mike Markowitz (che sarebbe Little Mike all’anagrafe) aveva prodotto un disco per ciascuno sul finire degli anni ’80, e tra i bianchi, Paul Butterfield, uno degli “ispiratori” di Little Mike, in quella che potrebbe essere stata una delle ultime registrazioni, presente in quattro brani e Ronnie Earl, già allora grande stilista della chitarra, più un altro nero di Chicago come Big Daddy Kinsey. La formazione era quella originale, con l’ottimo Tony O. Melio alla solista, Brad Vickers al basso e Rob Piazza (con la B) alla batteria. Per questo nuovo album Little Mike ha richiamato i vecchi amici per una nuova avventura, anticipata da un album, Forgive Me, sempre pubblicato dalla propria etichetta, che però conteneva vecchie registrazioni inedite di una decade fa. Diciamo che dopo la fine degli anni ’90 Markowitz aveva abbandonato la musica e si era trasferito in Florida con la famiglia, ma si sa che alle vecchie passioni non si comanda e quindi eccolo di nuovo in pista con i suoi Tornadoes. Per mettere subito in chiaro le cose, diciamo che questa reunion non era proprio imprescindibile, il gruppo è buono, ma come ce ne sono in giro a decine, per usare un paragone calcistico, potremmo definirli una squadra da centro classifica, il loro momento d’oro lo hanno avuto con il disco citato prima e con il secondo, sempre su Blind Pig, Payday, con altra formazione e Warren Haynes tra gli ospiti https://www.youtube.com/watch?v=9c-Ha7uh3ww .

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Non per questo il disco è disprezzabile, tutt’altro, si tratta di gagliardo blues elettrico sempre fortemente ispirato dal suono delle band che operavano a Chicago tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, Little Mike è un notevole armonicista, Hohner, come ci ricorda la foto di copertina, ma è Tony O., quando gli viene lasciata la briglia sciolta, il purosangue del gruppo, con soli ficcanti e ricchi di feeling, un bel lavoro di raccordo con la ritmica e con il pianista ospite, un altro veterano di nome Jim McKaba https://www.youtube.com/watch?v=mLIa693SIPs . Che sia l’inconfondibile scansione ritmica della super classica Hard Hard Way, con Tony O. e Little Mike a scambiarsi assolo ai rispettivi strumenti, o i ritmi più funky di una vivace So Many Problems, Markowitz si presenta anche come ottimo cantante e Melio strapazza di gusto la sua chitarra, con Little Mike che quando serve si cimenta anche all’organo. Quando poi il gruppo si lancia in un lungo slow blues come Since My Mother Been Ill, con McKaba inappuntabile al piano e la canzone che “soffre” il giusto, come vuole il miglior Blues https://www.youtube.com/watch?v=JBlAURRj7xk , sembra quasi di ascoltare i vecchi Fleetwood Mac di Peter Green in trasferta a Chicago e in session con Otis Spann o Pinetop Perkins.

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(I Got) Drunk Last Night è un altro classico blues che racconta di whiskey e donne, immancabili argomenti in questa musica e a tempo di uno shuffle ciondolante la band si diverte. Sam’s Stomp è un breve esercizio strumentale dell’arte di Markowitz al suo strumento, il cosidetto sax del Mississippi, Little On the Side si lancia su ritmi latini ma è un po’ manieristica, poderoso viceversa l’interscambio chitarra/armonica nella title track che ricorda certo British Blues scintillante https://www.youtube.com/watch?v=qLcmCbFcMWE . Eccellente anche The Blues Is Killing Me con la pungente chitarra di Tony O. sempre in bella evidenza.e You Wonder Why, pure questa in territori cari al vecchio Muddy. All The Time vira di nuovo verso un funky-blues sempre “vecchia scuola” comunque, I Won’t Be Your Fool tra swing e boogie ci permette di gustare ancora l’armonica di Little Mike. Stuck Out On This Highway è un altro di quei “lentoni” ricchi di atmosfera che scaldano il cuore degli appassionati di Blues e anche Close To My Baby si sarebbe potuta ascoltare nei club di Chicago negli anni d’oro del blues urbano https://www.youtube.com/watch?v=jRoB3_9QHsE . Niente di nuovo quindi, però tutto sommato suonato e cantato con grande passione e grinta, per appassionati delle 12 battute!

Bruno Conti

Ottimo Ed Abbondante! Ronnie Earl And The Broadcasters – Good News

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Ronnie Earl And The Broadcasters – Good News – Stony Plain

Titolo del disco e copertina direbbero già tutto ma ci dobbiamo fermare qui? Certo che no! Ormai sono diventato una sorta di biografo ufficiale di Ronnie Earl, quarto album recensito negli ultimi cinque anni, praticamente tutti quelli usciti nell’ultimo lustro. Il precedente, uscito lo scorso anno, Just For Today, era un eccellente disco dal vivo http://discoclub.myblog.it/2013/04/06/vecchio-ma-sempre-nuovo-ronnie-earl-the-broadcasters-just-f/ , questo nuovo non si discosta molto dalla formula, peraltro vincente, dei suoi dischi con i Broadcasters. Come dicevo recentemente per Dave Specter, un suo omologo e “concorrente” nel mondo dei chitarristi blues(rock) http://discoclub.myblog.it/2014/07/07/messaggio-pervenuto-forte-chiaro-dave-specter-message-blue/  Earl non canta, quindi abitualmente i suoi dischi sono strumentali, basati soprattutto sull’interplay tra la solista di Earl e l’organo e il piano dell’ottimo Dave Limina, suo fedele pard di lunga data. Anche Good News viaggia su queste coordinate https://www.youtube.com/watch?v=wCYg1mOHu-o , ma come per quello di Specter (dove appare come vocalist Otis Clay), si guadagna mezza stelletta in più per la presenza di alcuni brani cantati dalla bravissima Diane Blue (qui sotto vedete il suo unico album del 2006, di difficile reperibilità) che già appariva nel disco registrato in concerto, con una fantastica versione di I’d Rather Go Blind.

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La qualità dei dischi di Earl è in ogni caso sempre elevata, il nostro amico è uno dei massimi virtuosi della chitarra elettrica degli ultimi anni, degno erede di Roy Buchanan, Danny Gatton ed altri grandi solisti che hanno graziato la faccia di questo pianeta, come dimostrano le sue progressioni chitarristiche, che inglobano sempre alla tecnica anche un gusto per la melodia (mutuato dal Santana più “melodico” o da Peter Green) e quei blues lenti e lancinanti, dove la chitarra è una estensione naturale dei sentimenti musicali di questo personaggio. Il disco si apre con una vivace I Met Her On That Train, una improvvisazione per chitarra e organo, che ondeggia tra il jazz alla Montgomery/Smith e qualche reminiscenza country&western che gioca con le assonanze a Mystery Train e  potrebbe ricordare Gatton, ma poi si entra subito nella stratosfera del blues e del soul con una “siderale” versione di A Change Is Gonna Come, una delle più belle canzoni di tutti i tempi, scritta da Sam Cooke e qui resa alla grande dalla passionale interpretazione dell’appena citata Diane Blue, quel “I Was Born By The River” che fa da incipit al brano è uno dei versi più belli della musica degli ultimi cinquant’anni e la versione che appare in questo Good News è veramente da brividi https://www.youtube.com/watch?v=wCYg1mOHu-o .

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Neal Creque, l’autore di Time To Remember era un jazzista poco conosciuto, un pianista, scomparso una quindicina di anni orsono, e il brano è l’occasione per ascoltare una di quelle progressioni strumentali, latineggianti, che periodicamente ricorrono nella musica di Ronnie, con l’interscambio tra organo e chitarra, sempre uguale ma sempre diverso. Il pièce de resistance del disco è una versione incredibile di In The Wee Hours, uno slow blues scritto da Buddy Guy, dove la voce della Blue si insinua negli spazi lasciati dalle magistrali improvvisazioni delle chitarre di Earl e dell’ospite Zach Zunis e dal piano di Limina, per creare undici minuti di pura magia Blues, anche questa bellissima versione, difficile fare meglio https://www.youtube.com/watch?v=7LASVWQ6RR4 . La title-track Good News ti concede tre divertenti minuti di respiro prima di rituffarti in Six String Blessing, un altro lento che è un assalto alle coronarie per gli amanti della chitarra, firmata dallo stesso Earl, con l’aiuto di Diane Blue, che la canta con passione https://www.youtube.com/watch?v=iq6zWTztzLM e di Deborah Blanchard, è un ulteriore dimostrazione del perché Ronnie Earl sia considerato uno dei maggiori bluesman contemporanei, con un controllo magnifico del suo strumento. Marje’s Melody è un’altra interessante costruzione sonora, di tipo più melodico, che consente a Earl di duettare con l’altro chitarrista ospite in questo disco, il bravo Nicholas Tabarias https://www.youtube.com/watch?v=UveyVq4tqhk .

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Blues For Henry, scritta con Hubert Sumlin, è un ulteriore tuffo nel blues, questa volta classico Chicago style, sempre grande controllo e tecnica ma anche molto feeling, con l’organo e la chitarra che si “sfidano” e alla fine vince l’ascoltatore. Il “trucchetto” è ribadito, a tempo di shuffle, nell’ottima Puddin’ Pie e giunge alla naturale conclusione, con una forte componente gospel, nell’ancora una volta eccellente interpretazione di Diane Blue legata ad una Runnin’ In Peace, intensa e ricca di spessore. Ancora una volta, se ce n’era bisogno, la conferma di uno dei massimi virtuosi del blues contemporaneo. L’ho già detto? Lo ripeto. E la signora è assolutamente da confermare.

Bruno Conti

Messaggio Pervenuto, Forte E Chiaro! Dave Specter – Message In Blue

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Dave Specter – Message In Blue – Delmark/IRD

All’incirca quattro anni fa (diciamo tre e mezzo( ci eravamo lasciati con l’ultimo album (allora il nono) di Dave Specter, un disco completamente strumentale intitolato Spectified, che veniva pubblicato dalla piccola etichetta Fret 12 Records http://discoclub.myblog.it/2011/02/19/blues-senza-parole-dave-specter-spectified/ . Nel 2014 Specter ritorna alla sua casa discografica storica, la Delmark, con la quale era uscita la quasi totalità della sua opera. E lo fa alla grande, con uno dei dischi migliori, se non il migliore, della sua discografia. Come molti sapranno Specter non canta, si “limita” a suonare la sua chitarra. Alternandosi tra Gibson e Fender, Dave è diventato nel corso degli ultimi venticinque anni uno dei migliori interpreti del blues di Chicago, città da cui provengono sia lui che la sua etichetta. Ma questa volta ha voluto fare le cose in grande; tredici brani, di cui sette strumentali e sei cantati, tre dal grandissimo Otis Clay, al suo esordio su Delmark, un “negrone” (nel senso più affettuoso e meno razzista possibile) ancora in possesso di una delle voci più belle del soul e del blues attuale, da sette anni inattivo a livello discografico e sia lode a Specter per averlo voluto in questo Message In Blue. Gli altri tre brani li canta Brother John Kattke, il tastierista della band, in possesso di una voce più che rispettabile.

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Ma andiamo con ordine. Il disco si apre con lo shuffle mid-tempo di una New West Side Stroll dove Specter comincia a scaldare la sua solista dallo stile pulito e brillante, che tra gli attuali chitarristi si può paragonare, forse, a quello di Ronnie Earl, altro grande stilista, e tra i grandi bianchi del passato a Mike Bloomfield, ai tempi della Butterfield Blues Band o, vista la presenza dell’organo dell’ottimo Kattke, al sound della celebre Super Session https://www.youtube.com/watch?v=vS7B4FCs5Lw . Poi si comincia a godere come ricci con il primo tuffo nella grande Soul music, quella con la S maiuscola, Otis Clay, supportato da una sezione fiati di quattro elementi, più un paio di voci femminili di supporto, inizia a scaldare l’atmosfera con Got To Find A Way e Dave Specter cesella un assolo che non ha nulla di invidiare a ciò che eravamo abituati ad ascoltare nelle grandi tracce targate Atlantic o Stax https://www.youtube.com/watch?v=BureqD843Y4 . This Time I’m Gone For Good è anche meglio, uno slow blues dal repertorio di Bobby Blue Bland, cantato da Clay con una intensità incredibile e con il nostro Dave che pennella una serie di interventi con la  solista da lasciarti senza fiato per la precisione assoluta, quasi chirurgica della sua chitarra, chiamata a misurarsi con uno dei cantanti migliori ancora in circolazione nella musica nera https://www.youtube.com/watch?v=1dO9UX8j8Is . Dopo un inizio così scoppiettante uno potrebbe aspettarsi un calo di tensione, invece la band, e Specter, ci regalano uno strumentale fantastico come la title-track Message In Blue, un chiaro esempio anche delle capacità compositive del titolare dell’album, melodia e tecnica a braccetto per una ballata blues godibilissima, ragazzi se suona!

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Chicago Style, come il titolo esemplifica, è un brano originale firmato da Specter, che permette a Brother John Kattke, ancora accompagnato da una scintillante sezione fiati, di “omaggiare”, citandoli per nome e cognome, molti di coloro che hanno fatto grande la storia musicale della Windy City, e gli assoli di chitarra e piano non sono messi lì a caso. A questo punto arriva un altro piccolo capolavoro, una rilettura fantastica del super classico di Wilson Pickett, I Found A Love, con eccellenti armonie vocali a quattro parti e un ingrifato Otis Clay che “urla” il suo soul come solo i grandi sanno fare, eccellente anche il lavoro della chitarra che punteggia tutto il brano con un continuo lavoro, solista e ritmico, di cucitura del tessuto del brano. A questo punto potremmo andare tutti a casa, il disco è da aversi anche solo per questi brani, ma Funkified Outa Space, che si ispira al funky New Orleans Style dei Meters, Same Old Blues, il secondo brano più famoso scritto da Don Nix dopo Going Down, reso in una versione appassionata e quasi claptoniana da Specter e Kattke, che la canta alla grande, sono episodi non trascurabili. Come pure The Stinger un altro strumentale, screziato da ritmi santaneggianti, con un fantastico e ricco di varietà lavoro della solista, che ricorda anche qualche “tonalità” alla Peter Green https://www.youtube.com/watch?v=3qumAaXOjvA .

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Jefferson Stomp ci introduce ancora una volta ai talenti di Bob Corritore, musicista che preferisco in questo ruolo di sparring partner di grandi chitarristi, e nel caso specifico a fronteggiare con la sua armonica la slide dirompente di uno spumeggiante Dave Specter https://www.youtube.com/watch?v=9f7hHB3Fwwo . Watchdog è l’ultimo brano cantato da Brother John Kattke, puro Chicago Blues eseguito con la giusta cattiveria dalla solista che taglia a fettine il brano, mentre The Spectifyin’ Samba, con il sax tenore di John “Boom” Brumbach in bella evidenza, potrebbe ricordare le classiche tracce del King Curtis dei tempi che furono. Conclude, ancora con la presenza di Corritore, una Opus De Swamp che nelle note viene paragonata a certe sonorità “vibrate” del vecchio Pop Staples, e non si può che convenirne. Questo sì che è (Rhythm&) Blues, e pure soul, in due parole, molto bello!

Bruno Conti

*NDB Come vedete oggi doppia razione. A fianco, nei commenti, impazzano le polemiche per il, si fa per dire, “non concerto” degli Eagles a Lucca. Non mi intrometto e non modero, lascio libero chiunque di esprimere il suo parere, finché si rimane nei limiti della buona educazione, e mi pare ci siamo. Non ci sono censure preventive in generale, se ogni tanto vedete dei commenti in inglese, e ne arrivano tanti, che poi scompaiono a breve, è perché si tratta di gente che vuole fare pubblicità al proprio sito e blog, ma commenta su vecchi Post presi a casaccio, tra le migliaia usciti negli scorsi anni. Un’ultima avvertenza già che ci sono: siccome mi è capitato che qualcuno si sia lamentato del fatto di doversi iscrivere per entrare nel Blog, forse non uso all’utilizzo degli stessi, volevo ricordarvi che una volta che siete entrati in Disco Club non occorre fare login o altre strane manovre, se nella prima riga vedete una serie di scritte con vari comandi, lasciate perdere, sono riservati all’amministratore del Blog, cioè il sottoscritto, per inserire nuovi Post ed aggiornamenti, al resto si può accedere dagli Archivi, dagli articoli recenti o passati, o nei commenti e comunque dall’ultima colonna a destra. Grazie e buona lettura.

Bruno

Anche Il Blues Svedese Mancava All’Appello! T-Bear And The Dukes – Ice Machine

t-bear and the dukes ice machine

T-Bear And The Dukes – Ice Machine – Self Released

Devo dire che in tanti anni di milizia recensoria mi mancava il disco del gruppo blues svedese (anzi Svezia ai confini con la Norvegia), formazioni progressive, psych, rock classico, cantautori e cantautrici, da Bo Hansson in giù, non mi erano nuovi, ma i fautori delle 12 battute non c’erano nell’album delle figurine (o almeno non ricordo, in decine di migliaia di ascolti nel corso degli anni): americani, inglesi (con irlandesi al seguito), australiani. olandesi, francesi, tedeschi, italiani, brasiliani, africani, danesi e tantissime altre nazionalità di bluesmen, ma gli svedesi no. Eppure mi sono fatto un giro in rete e ho visto che alla voce “swedish blues bands” se ne trovano parecchie, ma tutte mai sentite, almeno per il sottoscritto.

 

Ora colmo questa lacuna con i T-Bear And The Dukes, formazione che è già al terzo album, il primo con la nuova formazione senza i fiati, il classico trio con tastierista aggiunto, quindi un quartetto secondo logica : il leader è tale Torbjorn “T-Bear” Solberg, voce, chitarra solista e piano, nonché autore dei brani, gli altri non li citiamo, perché, a parte le loro mamme, non so a chi possa interessare. Il cognome mi dice qualcosa, nel senso che James Solberg, forse un lontano discendente degli avi svedesi che portano lo stesso cognome, il blues, con Luther Allison e da solista, l’ha frequentato con profitto per molti anni, ma sto divagando come al solito (non sembra, ma me ne rendo conto, potrebbe anche essere voluto, pensa te!). Si tratta di un disco formidabile, questo Ice Machine, uno di cui non si può fare assolutamente a meno? Direi di no.

Però è un disco solido e onesto (si dice così!), lui ha un bel “tocco” di chitarra, una bella voce, il gruppo se la sbriga con efficienza nei vari stili del blues: alla rinfusa, blues tirati come la cover di Let Me Love You, dove la voce, che ha qualche grado di parentela con quella di Chris Farlowe, brilla, e la chitarra pure, sarà perché il brano porta la firma di Willie Dixon ? O il sound tra Santana e Ronnie Earl della brillante Things Ain’t Like They Seem. Sempre a proposito di Earl, il breve strumentale posto in apertura, Intro:To be continued è su quella lunghezza d’onda, mentre Why Don’t You Stop ha qualche aggancio sonoro con il rock californiano dei primi Doobie Brothers, Same Old Tricks è il classico electric blues Chicago Style, con una bella chitarra pungente e la voce grintosa del leader, Ain’t Gone ‘n Give Up On Love, è l’immancabile slow blues, un omaggio a Stevie Ray Vaughan che l’ha scritto, anche se il texano aveva ben altra consistenza, Solberg se la cava più che bene https://www.youtube.com/watch?v=7q_Nk8ayhAU . La title-track è il classico strumentale after-hours jazzato, chitarra-organo, in cui Ronnie Earl appunto è maestro negli ultimi anni. Come è pure strumentale la ritmata Choke Dog ancora con l’ottimo interplay solista-organo, niente da strapparsi le vesti, ma estremamente piacevole, molto da piccoli club dove fare le ore piccole con qualche drink, ma non entrerà nella storia del blues (neppure con la b minuscola, anche se è ben suonato)! Che altro? Una Hard To Believe che anche per la voce di Solberg può ricordare certe cose dei Colosseum e del british blues in generale, una Come Back Baby piacevole anche se abbastanza scolastica e Church Blues un altro lento strumentale, con il solito interplay chitarra-organo, un po’ alla camomilla forse.

Bruno Conti

Un “Nuovo” Disco di Big Walter Horton, E Che Disco! Live At The Knickerbocker

big walter horton live knickerbocker

Big Walter Horton – Live At The Knickerbocker – JSP Records

Un nuovo album di Big Walter Horton, uno dei più grandi armonicisti del Blues, a circa 33 anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel dicembre del 1981? Quasi. Riprovo: una nuova versione in CD di un disco dal vivo che ha vissuto diverse incarnazioni nel corso degli anni? Già meglio. In effetti questo Live At The Knickerbocker è uscito varie volte nel corso degli anni: una prima volta, in vinile, nel 1980 (mi sa che ce lo avevo ai tempi, la copertina mi ricorda qualcosa), a nome Walter Horton e con il titolo di Little Boy Blue, sette brani e diversa sequenza degli stessi, con una traccia attribuita a Left Hand Frank.

big walter horton little boy blue

Stessa copertina e titolo, per una prima edizione in CD, sempre per la JSP, uscita nel 1989, i brani diventano nove, la sequenza è quella esatta ed i primi tre sono giustamente attribuiti a Sugar Ray & The Bluetones, che poi diventano la band di supporto del grande musicista di Horn Lake, Ms, per i restanti sei. Nel 2001 (qui vado un po’ a memoria, mi sembra), esce nuovamente, questa volta come Walter Horton Live At The Knickerbocker. E siamo al 2014, questa versione appare con il nome di Big Walter Horton Featuring Ronnie Earl-Sugar Ray, nuova copertina, nuove foto, con le vecchie liner notes dell’edizione 1998 (ebbene sì, ne era uscita una versione anche quell’anno), quello che non cambia è lo straordinario contenuto di questo concerto, forse l’ultimo registrato da Horton, nel 1980, un anno prima della sua morte, ma quando era ancora in grandissima forma.

big walter horton live knickerbocker old

Ed i comprimari non sono da meno: tutti giovani e molto tempo prima di essere riconosciuti tra i grandi del blues bianco degli ultimi 30 anni. Sugar Ray Norcia, alla voce e all’armonica è già un grande talento e ancor di più, alla chitarra c’è un tale Ronnie Horvath, prima di acquisire il suo titolo nobiliare di Earl del blues. Gli altri tre accompagnatori sono “Little Anthony Geraci”, ottimo pianista, il bassista Michael “Mudcat” Ward e l’unica nera del gruppo (a parte Big Walter, ovviamete), la flemmatica e misteriosa batterista Ola Mae Dixon. Nella sua lunga carriera, Big Walter Horton, definito da Willie Dixon il più grande armonicista che abbia mai ascoltato, non è quasi mai stato un prim’attore, la sua discografia è abbastanza scarna, a differenza di quella di gente come Little Walter o Sonny Boy Williamson, però ha partecipato a molte delle registrazioni cruciali della storia del blues di Chicago, come spalla di lusso.

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In questa veste forse qualcuno se lo ricorda nel film Blues Brothers, dove era l’armonicista nel gruppo di John Lee Hooker. Ma dal vivo era una forza della natura, acustico od elettrico, a detta di tutti gli appassionati di blues e di armonica in particolare, quello in possesso di una tecnica unica e di una forza nel soffio che hanno influenzato intere generazioni di strumentisti negli anni a venire https://www.youtube.com/watch?v=FghNW94YUaM . Sentite proprio uno dei suoi discepoli, Sugar Ray, come si faceva semplicemente chiamare agli esordi, nella tripletta di brani che aprono questo concerto: una Cry For You dal repertorio di Billy Boy Arnold, con il gruppo che ricorda moltissimo i Bluesbreakers dei primi anni, seguita da uno slow eccellente come Lord Knows I Tried, dove Ronnie Earl dimostra già di essere quel chitarrista formidabile che abbiamo apprezzato nel corso degli anni, al sottoscritto sembra di ascoltare un giovane Michael Bloomfield, fantastico e Sugar Ray Norcia mi ricorda alla voce il giovane Peter Green. Country Girl era uno dei cavalli di battaglia della coppia Buddy Guy/Junior Wells e i “giovani” Norcia e Horvath fanno di tutto per non farli rimpiangere https://www.youtube.com/watch?v=N-6CqQz3ilI .

Big Walter Horton 2

E Big Walter non è ancora arrivato, quando sale sul palco stende subito tutti con una poderosa Walter’s Shuffle, con la band che attacca un groove micidiale ed il pubblico del piccolo Knickerboxer (un caffè nel mezzo del nulla a Westerly, Rhode Island, un posto che ancora esiste, il locale ovviamente) dimostra di apprezzare https://www.youtube.com/watch?v=ZHxo3APxurI . Little Boy Blue, che dava il titolo al disco originale, è un brano di Robert Lockwood Jr., Horton non ha una gran voce, ma tonnellate di feeling e quando inizia a soffiare nell’armonica è un grande trascinatore (fisicamente non era messo molto bene, come si vede dalla foto, ma la grinta non manca). It’s Not Easy è un altro dei pezzi da novanta del suo repertorio, in origine si chiamava Easy ed era una canzone di tale Jimmy Deberry, poi qualcuno gli ha fatto notare che il brano non era poi così “easy” nel suo intricato lavoro di armonica ed il nuovo nome è rimasto, sentire per credere. Two Old Maids viaggia ad una velocità molto più sostenuta dell’originale 78 giri pubblicato da Horton per la Sun nel 1953 e dimostra che il nostro amico era ancora in forma strepitosa, circa un anno prima della sua scomparsa. Altro slow blues ed altra occasione per mostrare la sua classe per un Ronnie Earl in grande spolvero, questa volta alla slide in una grandissima What’s On Your Worried Mind? dove l’interscambio con l’armonica è continuo. La conclusione è affidata ad un altro shuffle come Walter’s Swing in cui l’armonica viaggia ancora alla grande, caspita se viaggia.

magic sam live

Questo CD, se amate il Blues, va preso e messo lì nella vostra discoteca accanto al recente Magic Sam, Live At The Avant Garde, dischi così non se ne fanno quasi più!

Bruno Conti

La “Stanza” E’ Sempre Piena! Roomful Of Blues – 45 Live!

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Roomful Of Blues – 45 Live – Alligator Records/IRD

La stanza è sempre piena di Blues e anche per questa occasione gli “inquilini” si sono riuniti per festeggiare i 45 anni di attività della band in una piccola sala da concerto, detto anche club, The Ocean Mist a Matunuck, Rhode Island, nel marzo del 2013. Quasi tutte facce nuove, della formazione originale è rimasto solo il sassofonista Rich Lataille (nel gruppo dal 1970), il nuovo leader della formazione è il chitarrista Chris Vachon e il nuovo cantante si chiama Phil Pemberton. Vachon è stato il produttore degli ultimi 6 album della band e già negli anni ’90 si era assunto l’ingrato compito di sostituire due grandi predecessori come Duke Robillard, il fondatore della band nel 1967 con il pianista Al Copley, e Ronnie Earl. Chi vi scrive preferisce essere sempre sincero e devo dire che gente come Lou Ann Barton, Curtis Salgado, Sugar Ray Norcia, Fran Christina, Preston Hubbard, Greg Piccolo e molti altri che si sono succeduti negli anni, non è facile da sostituire e quindi gli album, secondo me, non hanno più il vigore e la qualità di un tempo, anche se le ultime prove con la Alligator sono sempre state oneste e gagliarde e il Live At Wolf Trap pubblicato nel 2002, quasi poteva rivaleggiare con il super classico Live At Lupo’s Heartbreak pubblicato dalla Varrick nel lontano 1987, quando per l’occasione erano presenti anche Ronnie Earl, Steve Berlin, Curtis Salgado, Ron Levy e tra gli ospiti Cesar Rosas dei Los Lobos.

Se riuscite a trovarlo varrebbe la pena di metterci le mani sopra, ma in caso contrario potreste “accontentarvi” anche di questo 45 Live che sprizza comunque, come di consueto, jump blues, swing, R&R e R&B, da tutti i bytes del CD. Il divertimento è assicurato, vengono rivisitati classici della band e del Blues in un vorticoso intrecciarsi di fiati, chitarre e tastiere assolutamente vintage, sudore, dedizione e gran classe sono le formule applicate con successo.

Just Keep On Rockin’ era su Standing Room del 2005 ed è il modo ideale per iniziare questo giro di danze con i fiati subito in evidenza e la voce classica di Pemberton che cerca di non fare rimpiangere i suoi predecessori. It All Went Down The Drain io la ricordo nella versione di Boz Scaggs ed è un bel bluesazzo tosto e ritmato con chitarra e organo che cercano di prendere il soppravvento sulla sezioni fiati mente Pemberton media con successo tra le due fazioni. Di Jambalaya ce n’è una sola ed anche a tempo di swing blues è sempre un piacere ascoltarla, addirittura in questa guisa ha un che di New Orleans nelle sue corde. Easy Blues è il classico lungo e tirato slow blues (scritto da Magic Sam) che non può mancare nel repertorio di una band come i Roomful of Blues e che permette di apprezzare le qualità solistiche dell’ottimo Vachon che non sarà Robillard o Earl ma ci mette del suo, mentre Pemberton strapazza le sue tonsille con buoni risultati, a dimostrazione che anche con tutti i cambi e a dispetto delle mie parziali perplessità questa è ancora una signora band!

That’s Right, swinga, zompa e rolla di gusto, non a caso fu nominata per un Grammy nel 2003. Crawdad Hole era un brano del grande Big Joe Turner, un signore che conosceva l’argomento jump blues come le sue capaci tasche e anche i Roomful l’hanno approfondito con profitto nel corso degli anni. Ottima versione anche per You Dont Know uno standard di B.B. King adattissimo all’approccio fiatistico da big band dei ROF. Dress Up To Get Messed Up, un titolo, un programma, è un altro dei loro cavalli da battaglia ed era il titolo del loro quarto album del 1984, uno dei migliori in assoluto. Lo strumentale Straight Jacquet illustra il lato swing jazz del gruppo e soddisferà i puristi e anche I left my baby di Count Basie e Jimmy Rushing viene da quella parrocchia più riflessiva ancorché sempre swingante nei fiati. Blue Blue World è un blues scritto da Vachon nel 1998 e ci permette di gustare le evoluzioni dell’ottimo organista Rusty Scott che duetta con lo stesso Vachon. Somebody’s Got To Go è un vecchio brano di Eddie “Cleanhead” Vinson con la vocalità di Phil Pemberton ben evidenziata e tutto il gruppo in spolvero. Turn It On, Turn It Up sono i Roomful con tutti i cilindri della macchina ben oliati e in azione, prima della conclusione con la sincopata e divertente Flip Flap Jack che richiama tutti sulla pista da ballo. Uno dei rari casi in cui una band che si rinnova negli anni mantiene (quasi) inalterato il suo appeal. Molto piacevole e consigliato!

Bruno Conti     

“Vecchio” Ma Sempre Nuovo. Ronnie Earl & The Broadcasters – Just For Today

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Ronnie Earl and The Broadcasters – Just For Today – Stony Plain/CRS/Ird

Mi è capitato molte volte, nel corso degli anni, di recensire dischi di Ronnie Earl per il Busca (e per il Blog temp-7c86eb47861bfd87e08cf80efc4797bd.html), e, come dicevo nella recensione del penultimo, Spread The Love e ribadisco per questo Just For Today, se vi dovessi dire qual è il mio album preferito nella sua copiosa discografia, sarei in seria difficoltà e quindi ogni volta, non sbagliando mai, mi limito a citare il più recente. Questo non vuol dire che sono tutti uguali fra loro (beh, un po’ sì, per essere onesti, anche se il livello è sempre medio-alto): d’altronde Earl (un quasi omonimo, tradotto in inglese, di chi scrive) è un virtuoso chitarrista, uno dei migliori, fa del Blues, perlopiù strumentale, è su piazza da oltre un trentennio, prima nei Roomful Of Blues, poi come leader di varie edizioni dei Broadcasters, periodicamente piazza un nuovo CD sul mercato che, immancabilmente, soddisfa la piccola schiera di appassionati del personaggio e del genere, ma non turba i sonni di coloro che non si muovono entro queste ristrette coordinate.

E’ questo è un peccato, perché il musicista merita, escludendo i fans, che una volta appurato che il nostro non abbia fatto un disco di dubstep o tarantelle delle Transilvania (se esistono!) e quindi acquistano in ogni caso i suoi dischi, anche l’appassionato di buona musica un paio di dischi del buon vecchio Ronnie (60 anni quest’anno) li dovrebbe avere nella propria discoteca. Perchè non proprio Just For Love, che tra l’altro è uno dei rari dischi dal vivo registrati nel corso della sua carriera? Gli elementi migliori ci sono sempre, come al solito: tecnica strumentale all’attrezzo (di solito una Fender Telecaster) mostruosa, in bilico tra le folate texane chitarristiche à la Stevie Ray Vaughan di una iniziale tiratissima The Big Train, dove ben sostenuto dall’organo B3 di Dave Limina che gli tira la volata, mostra tutte le sue virtù di solista, ma anche (come direbbe un “nostro amico” politico”, ma è ancora in giro? Quasi quasi gli faccio scrivere la prefazione al Blog, è uno specialista del genere) gli slow blues in crescendo, con finali lancinanti che ti sommergono sotto un diluvio di note e che sono il suo marchio di fabbrica e che molto, secondo me, devono a Roy Buchanan, un altro che come Earl raramente cantava e quando lo faceva era meglio non lo avesse fatto, Blues For Celie è il primo della serie, e si becca la giusta ovazione del pubblico a fine esibizione, pur segnalandovi che il disco è registrato in modo perfetto, non sembra neppure un live, lo capisci solo da applausi e presentazioni a fine brano.

D’altronde Ronnie Earl, per problemi di salute, raramente suona dal vivo, e quando lo fa rimane comunque nei paraggi di casa, nel Massachusetts, Boston e dintorni (ma quest’anno è in tour negli States), oppure invita il pubblico in studio, come per il precedente live del 2007, Hope Radio (anche in DVD). Miracle è un altro di quei brani torrenziali, dove lo spirito del miglior Santana o di Buchanan via Jeff Beck si impadronisce delle mani di questo uomo che è una vera forza della natura con una chitarra in mano. Se ami il genere, ripeto, uno così non ti stanchi mai di ascoltarlo, peraltro lui non è instancabile come Bonamassa che fa quattro o cinque dischi all’anno, quindi è sostenibile anche a livello finanziario, il precedente CD era del 2010. Heart Of Glass( ma anche la finale Pastorale) è un altro di quei brani, lenti e sereni, ricchi di spiritualità, dove Earl esplora il manico della sua chitarra alla ricerca di soluzioni di tecnica e di feeling che ti lasciano sempre basito per l’intensità dei risultati. Rush Hour è uno dei rari shuffle, dedicato al grande Otis Rush, dove Ronnie viene raggiunto sul palco dal secondo chitarrista Nicholas Tabarias per fare pulsare alla grande il suo Blues. Ampio spazio per Dave Limina, questa volta soprattutto al piano, nel travolgente Vernice’s Boogie ma poi è nuovamente tempo di tributi con Blues For Hubert Sumlin, un altro dei grandi, affettuosamente ringraziato anche nelle note del libretto, uno slow di quelli torridi come il nostro sa fare come pochi.

Per la cover di Equinox di John Coltrane oltre allo stile di Carlos Santana i Broadcasters si affidano anche ad un groove latineggiante che fa tanto Santana Band e la solista, ben coadiuvata dall’organo di Limina, cesella note, timbri e volumi con una precisione e una varietà incredibili che sfociano anche in territori tra jazz e blues, come ama fare pure un altro virtuoso della chitarra come Robben Ford. Ain’t Nobody’s Business, un’altra delle cover presenti, faceva parte del repertorio di Billie Holiday e sotto la guida del piano di Limina la band si lancia anche in territori ragtime e poi di nuovo, in tuffo, nel blues. Un altro omaggio Robert Nighthawk Stomp, quasi a tempo di R&R e sono di nuovo le 12 battute di Jukein’ a introdurre l’unico brano cantato dell’album, una fantastica e vibrante I’d Rather Go Blind affidata alla ottima voce di Diane Blue. Forse niente di nuovo, ma non suona mai “vecchio”!  

Esce il 9 Aprile.

Bruno Conti