Un Inglese Alle Radici Del Blues, Di Nuovo! Ian Siegal & The Mississippi Mudbloods – Candy Store Kid

ian siegal candy store.jpg

 

 

 

 

 

 

Ian Siegal & The Mississippi Mudbloods – Candy Store Kid – Nugene Records

Ormai Ian Siegal sembra avere preso gusto per queste trasferte americane, alle radici della musica blues, nel Nord Mississippi e dintorni. Quella dello scorso anno, per l’album The Skinny, in compagnia dei Youngest Son, gli ha fruttato la nomination come Miglior Disco di Blues Contemporaneo ai premi annuali della Blues Foundation del 2012, la prima volta di sempre per un musicista inglese. Ma non è la sola “prima” per Siegal, anche il premio assegnatogli dalla rivista Mojo per il disco Broadside come Blues Album Of the Year, accadeva per la prima volta con un artista non americano (anche se per onestà, all’epoca d’oro dei Bluesmen britannici Mojo non esisteva). Visto il successo del disco dello scorso anno, il buon Ian ha deciso di ripetere il “trucco” di registrare l’album sulle colline del Mississippi, e questa volta non si è portato dietro neppure la sua abituale sezione ritmica. Candy Store Kid è stato realizzato con musicisti locali, amici importanti, qualche “figlio di…” come nel disco precedente e alcune new entry.

Quindi troviamo Cody Dickinson, alla batteria, tastiere e chitarra anche, nella traccia iniziale, la poderosa Bayou Country, il fratello Luther, chitarre, sitar, mandocello e basso in parecchi brani. Il basso, in effetti, viene democraticamente affidato a diversi musicisti a seconda dei brani, Garry Burnside e Alvin Youngblood Hart lo suonano in parecchie tracce, anche se, soprattutto il secondo, è alla chitarra in molte canzoni. Lightnin’ Malcom, altro musicista del giro North Mississippi, compone un brano, So Much Trouble, nel quale è pure la seconda voce. E a proposito di voci, purtroppo solo in tre brani, perché sono strepitose, appare un terzetto di voci femminili Stephanie Bolton, Sharisse Norman e Shantelle Norman, che aggiungono una patina soul e R&B che scalderà le vostre fredde serate invernali, oltre a ricreare in parte quel tipo di sound che Luther Dickinson frequenta nel suo “altro” gruppo, i Black Crowes (uno degli altri gruppi, diciamo)!

 Naturalmente per Ian Siegal suonare questa musica e con siffatti musicisti è un po’ come entrare in un “Negozio di canditi”: quelli particolarmente gustosi e succulenti, come nell’iniziale Bayou Country, scritta da un paio di musicisti minori nativi della Lousiana, Bardwell e Veitch, che una quarantina di anni fa lavoravano con Tom Rush. Il brano, oltre al bayou, ha il ritmo e la consistenza delle canzoni di Joe Cocker con i Mad Dogs o dei Delaney & Bonnie con Clapton, nelle linee sinuose della solista, mentre le tre ragazze in sottofondo caricano il brano con la loro esuberanza vocale, per un inizio esaltante. Loose Cannon è un rock-blues sporco e cattivo da juke joint, come quelli frequentati dai babbi di alcuni dei musicisti presenti, con le chitarre e le voci, spesso distorte, che aggiungono intensità ad un brano gagliardo. I Am The Train ha ritmi incalzanti da soul revue sudista, con un slide che si insinua nel groove  del tessuto della canzone e la miriade di altre chitarre che imprimono anche il loro marchio di qualità. So Much Trouble, con il sitar di Luther Dickinson in evidenza, è quella che più ricorda il sound ipnotico e ripetitivo dei vecchi maestri della Fat Possum, ma è impreziosita da piccole (o grandi) coloriture sonore, oltre al sitar, la slide, un organo in sottofondo e, Lightnin’ Malcolm e le tre ragazze che ogni tanto si fanno sentire nel reparto voci.

Kingfish è una collaborazione tra Luther e Ian Siegal, con la voce paludosa e profonda di quest’ultimo che si spinge in territori più chiaramente Blues, fiancheggiata dalla solita miriade di strumenti a corda, sia elettrici che acustici. In The Fear la voce di Siegal va in cantina a raggiungere quelle di Cohen e Waits, anche se il brano è talmente attendista che quando finisce siamo ancora lì ad aspettare che si apra in qualche modo. Earlie Grace Jr. sembra un brano perduto dei Creedence cantato dal fratello minore del Waits giovane e con Harrison alla chitarra. La Green Power l’hanno usata per nutrire un wah-wah tostissimo che propelle una cover super-funky di un brano di Little Richard scritto da tale H.B. Barnum che non penso sia l’inventore del circo ma di sicuro del funky era tra i contribuenti, inutile dire che le tre vocalist di colore sono nel loro “ambiente”. Strong Woman è una breve e poderosa iniezione rock-blues firmata con Burnside che svergogna quasi tutto il repertorio di Lenny Kravitz. The Rodeo è una bella ballata campagnola che evidenzia la “parentela” di intenti con il Tom Waits di Jersey Girl. Hard Pressed (what da Fuzz?) è un altro funkaccio cattivo e il “fuzz” ovviamente è nella chitarra, cattiva quanto basta. Bravo e bello (scusate, guardo la foto): direi bravo e basta!           

Bruno Conti

Dal “Movimento” Rock Creativo Americano I Rusted Root!

rusted root movement.jpg

 

 

 

 

 

 

*NDB. Oggi tripla razione, visto che tutti collaboratori del Blog hanno prodotto, la parola a Tino!

Rusted Root – The Movement – Shanachie Records 2012

Ho scoperto i Rusted Root nel lontano ’95, dopo avere ascoltato lo splendido When I Woke, e da allora è stato un amore (musicale) incondizionato, per una delle formazioni più creative ed originali emerse negli anni ’90. Provengono da Pittsburgh e il loro suono è uno strano miscuglio di rock e musica etnica con influenze africane, orientali, latino americane e indiane (nel senso di pellerossa), che si sviluppa in una musica acustica,ma non solo, aggressiva ed avvolgente nello stesso tempo, e da una voce che spesso richiama quella di David Byrne nel modo di cantare (ma anche Dave Matthews), questo in estrema sintesi lo stile dei Rusted Root. La band ha esordito con Cruel Sun (92) un lavoro autoprodotto, il disco ha venduto più di ventimila copie e, come in molti casi simili per i gruppi emergenti, si sono creati un fortissimo seguito di pubblico. La consacrazione arriva con il citato When I Woke (94) che arriva a superare il milione di copie, cui faranno seguire Remember (96), l’omonimo Rusted Root (98), un interlocutorio Welcome To My Party (2002), il notevole Live (2005) e  Stereo Rodeo (2009).

L’attuale “line-up” del gruppo, oltre ai membri storici, è incentrata sulla chitarra e sulla vocalità di Michael Glabicki, sulle scariche percussive e sul controcanto di Liz Berlin e sul basso di Patrick Norman, si avvale anche di Preach Freedom batteria e percussioni, Colter Harper alle chitarre e percussioni e del bravissimo Dirk Miller al banjo, più una schiera di  altri musicisti idonei al progetto.

I primi due brani Monkey Pants e Cover Me Up, sono dei classici dei Rusted Root con il ritmo stabilito dalla batteria di Freedom e dalle percussioni di Harper. The Movement è uno splendido brano dalle sonorità africaneggianti, con le armonie vocali di Lucy Stone e Liz Berlin in particolare evidenza, mentre la seguente In Our Sun è una canzone interessante e sperimentale, che si sviluppa su un ritmo tribale.

Fossil Man, dall’inizio acustico caratterizzato da fraseggi di chitarra, è una ballata piena di atmosfera cantata al meglio da Michael e l’uso delle voci in sottofondo è intrigante, per un brano splendido e solare. Si cambia ancora ritmo con Fortunate Freaks e Sun And Magic un viaggio esaltante nelle percussioni con l’apporto del banjo di Miller, cui segue una Up And All Around giocata sui suoni, con stacchi brevi e percussioni sparse. Si chiude con Something’s On My Mind una ballata commovente, con  una azzeccata scelta di ritmo e melodia, un binomio sicuramente vincente nelle composizioni del “leader” Michael Glabicki.

Con The Movement, i Rusted Root tornano con forza e convinzione a quel suono unico, energico e spettacolare (ancora oggi attuale), vicino e collaterale ma diverso dalle jam band,  che li ha accompagnati con successo attraverso la decade degli anni ’90, un “sound” fluido e creativo, un “collage” di vari stili che mischia ad arte ritmo e melodia, in cui la voce modulata di Michael si trova perfettamente a suo agio. Chi già conosce e ama la musica dei Rusted Root, sa cosa fare, per tutti gli altri, non posso fare altro che consigliarvi di scoprire una delle migliori Band del panorama musicale Americano.

Tino Montanari   

Breve Ma Intenso! Junior Kimbrough – First Recordings

junior kimbrough first recordings.jpg

 

 

 

 

 

 

Junior Kimbrough – First Recordings – Big Legal Mess Records

Quando, all’inizio degli anni ’90, R.L. Burnside e Junior Kimbrough, vennero (ri)scoperti dalla Fat Possum, etichetta fondata da quello che era stato uno degli editori della rivista Living Blues, i due erano degli ultra sessantenni poco conosciuti dal grande pubblico, ma molto stimati dagli altri musicisti e dai critici. Proprio ad uno di loro, Robert Palmer, già critico del New York Times e di Rolling Stone, venne affidata la produzione dei primi dischi di entrambi. Loro facevano già da anni questa musica, che venne definita “North Hill Mississippi Country Blues” (indovinate i nostri amici da dove hanno preso il nome?) o anche “Juke Joint Music”, termine derivato da quei piccoli locali arcaici dove i bluesmen neri si ritrovavano per suonare e che in italiano potremmo definire “baracchini” perché rende bene l’idea. Senza andare a ritroso a fare la storia di questa musica, tra i cui progenitori lo stesso Kimbrough citava Lightnin’ Hopkins e Mississippi Fred McDowell,  non si può fare a meno di pensare anche a John Lee Hooker, di cui un giornalista inglese ha però rivoltato la paternità dicendo che questa musica “rozza e ripetitiva, ipnotica, suggeriva una sorta di arcaico antenato di quella di Hooker”, che secondo chi scrive già faceva la sua musica quando Kimbrough portava ancora i pantaloni corti, ma le opinioni sono sempre rispettabili.

Tra i fans e sostenitori di Kimbrough c’è sempre stato anche Charlie Feathers, più o meno un suo coetaneo, che ha spesso sostenuto che il musicista di Hudson, Mississippi fosse “il principio e la fine di tutta la musica”, come è scritto sulla sua pietra tombale. Al di là di questi attestati di stima, se togliamo quella decade gloriosa in cui i musicisti della Fat Possum venivano riveriti, oltre che dalla stampa specializzata, anche da molti musicisti bianchi, uno per tutti, John Spencer, che ha registrato anche con Burnside, la musica di questi incredibili personaggi rivive periodicamente quando esce qualche ristampa o si trova del materiale inedito, come questo contenuto in First Recordings.

Già pubblicate in vinile nel 2009, queste registrazioni risalgono all’inizio della carriera discografica di Junior Kimbrough, quando il musicista, in cerca di un contratto, si recò nel 1966 presso gli studi della Goldwax Records, l’etichetta guidata dal grande Quinton Claunch (scopritore di talenti “sfortunati” come O.W. Wright e James Carr e tutt’ora in pista alla veneranda età di 90 anni). “Sfortunati” a livello discografico ma voci incredibili, comunque anche i migliori qualche volta sbagliano e Claunch decise di non pubblicare le registrazioni dicendo che erano “troppo country”! Risentiti oggi, questi sei brani, di cui uno diviso in due parti, a formare una sorta di EP, con poco meno di quindici minuti di musica, contengono già in nuce tutte le caratteristiche future della musica di Kimbrough: come già ricordato, tempi ipnotici e ripetitivi anche della sezione ritmica, assoli secchi e brevi, con delle derive modali (probabilmente inconsce) simili alla musica orientale o alle future sonorità di gente come Ali Farka Touré e di altro “blues africano”.

Anche se il sound che più viene in mente è proprio quello di John Lee Hooker, con qualche piccola traccia pure di soul, per esempio, in un brano come Meet Me In The City dove la voce di Kimbrough ha il timbro melodico di alcuni cantanti neri dell’epoca. Mentre l’iniziale Lonesome In My Home prende Howlin’ Wolf e lo schiaffa sulle colline del Mississippi insieme al vecchio Hook con il suo stile ripetitivo e reiterato, quasi ieratico, semplice ma molto efficace. Senza gridare al miracolo, era bella musica già allora, la prima parte di Feels So Good, anticipa il sound dei primi Canned Heat, altri seguaci di Hooker che nascevano in quel periodo e la seconda parte ha poche variazioni rispetto alla prima, forse un sound più serrato. Ma le scansioni ritmiche sono più o meno sempre quelle, anche in Feels So Bad, che “si senta bene o male” Kimbrough ha già in mente quella musica che poi perfezionerà una trentina di anni dopo. Citiamo anche Done Got Old, il sesto brano, e li abbiamo ricordati tutti, ma i titoli in fondo hanno poca importanza, sono tutte variazioni sullo stesso tema e in quanto tali tutte interessanti. Breve ma intenso, consigliato ai fans della sua musica ma anche a chi ama il Blues più crudo e sanguigno, naturale e non adulterato.

Bruno Conti 

Un Po’ Di “Piaceri Proibiti”, Ovvero, Hard Rock Post! Aerosmith, Kiss, Motorhead, Meat Loaf, Deep Purple.

numerouno_69.jpg

 

 

 

 

 

 

Un Po’ Di Piaceri Proibiti!

Aerosmith – Music From Another Dimension – Columbia/Sony 2CD+DVD

Kiss – Monster – Simstan/Universal CD

Motorhead – The World Is Ours Vol. 2 – UDR/EMI 2CD+DVD

Meat Loaf – Guilty Pleasure Tour/Live From Sydney – SFM CD+DVD

Deep Purple – Machine Head 40th Anniversary Edition – 4CD+DVD

Prima di cominciare vorrei ringraziare il democratico titolare di questo blog per avermi concesso questa escursione in territori non proprio “tipici”, ed in secondo luogo desidero rispedire al mittente tutti gli sguardi perplessi dei lettori: tutti (e dico tutti) abbiamo dei “piaceri proibiti”, ed il mio è il classico hard rock anni settanta/ottanta, in tutte le sue sfaccettature e deviazioni (beh, quasi tutte), e quindi, con oggi, desidero fare una breve disamina di alcune interessanti cose uscite di recente, sicuro di non essere l’unico ad apprezzare un certo tipo di musica (dopotutto non sto parlando di One Direction o Taylor Swift).

*NDB. Ma In futuro non si può mai dire, dai “piaceri proibiti hard” dove si può arrivare?

aerosmith music from another dimension.jpg

 

 

 

 

 

 

Gli Aerosmith, ovvero la più famosa hard rock band d’America (ma Kiss, Van Halen e Guns’n’Roses potrebbero obiettare), erano dati per morti, artisticamente parlando: troppi i litigi e le incomprensioni recenti tra Steven Tyler e Joe Perry, unite al fatto che erano undici anni che non pubblicavano album con materiale nuovo (l’ottimo Honkin’ On Bobo, il loro ultimo disco di studio, era composto da cover di blues). Ora invece ho tra le mani il nuovo Music From Another Dimension, annunciato da tempo ed anche rimandato una prima volta (cosa che non faceva ben sperare), e devo dire che il quintetto di Boston non ha tradito le attese.

I Toxic Twins sono in gran forma, e nei quindici brani del CD (diciotto nella bellissima confezione deluxe) offrono la consueta dose di rock’n’roll di matrice stonesiana, riffs granitici e gran ritmo, però unite ad una buona qualità di canzoni che rende questo disco migliore delle ultime prove di studio (Nine Lives e Just Push Play), e non mancano anche le classiche ballate che tanta fortuna hanno avuto ed avranno nelle radio. Un bel ritorno, con una menzione speciale per la coinvolgente Oh Yeah, la fluida Tell Me, la tosta Freedom Fighter (con Perry voce solista) ed il duetto sorprendentemente riuscito (avevo paura) con Carrie Underwood, Can’t Stop Loving You, una ballata elettrica e potente. Non tutto è riuscito (l’iniziale Luv XXX e Lover Alot sono due passaggi a vuoto), ma un buon disco di sano hard rock classico, che venderà probabilmente moltissimo ed entusiasmerà i fans.

kiss monster.jpg

 

 





Sonic Boom era stato il disco del ritorno dei riformati Kiss (con Tommy Thayer ed Eric Singer a fianco degli inossidabili Paul Stanley e Gene Simmons), un disco di rock potente che non sempre era servito da canzoni di prima qualità: il nuovo Monster prosegue il discorso, ma migliorandolo.

I quattro sembrano infatti più convinti, e ci danno dentro di brutto: dodici brani di puro rock’n’roll duro, niente ballate, con ritornelli decisamente accessibili, adatti per essere eseguiti dal vivo per la gioia dei fans (in America certi brani li chiamano crowd pleasers). Anche Simmons, solitamente in secondo piano rispetto a Stanley, è in gran forma e canta parecchio, ed i titoli migliori del lavoro rispondono al nome di Freak, Long Way Down, Outta This World, Take Me Down Below, mentre il singolo Hell Or Hallelujah non è tra le mie preferite (e comunque il brano migliore è cantato da Singer, e cioè All For The Love Of Rock’n’Roll).

Tra gli episodi migliori della loro discografia, insieme a Destroyer, Rock’n’Roll Over e Revenge.

motorhead the world is ours.jpg

 

 

 

 

 

 

Vedo già le bocche storte e le sopracciglia alzate ora che mi accingo a parlare dei Motorhead, ma, se ascoltate con attenzione, il trio capitanato da Lemmy Kilmister non fa musica molto diversa da quella degli ZZ Top (anche con la voce siamo lì), anche se rispetto al trio texano manca totalmente l’elemento blues (hai detto niente, direte voi…).

The World Is Ours, Vol. 2 segue il primo volume a meno di un anno di distanza, per un doppio CD (più DVD) registrato al Wacken Festival 2011, più estratti dal Rock in Rio e Sonisphere sempre dello stesso anno.

Il risultato è a mio parere superiore al volume uno, Lemmy e soci suonano più grintosi e convinti: certo, i loro concerti (e quindi, anche i dischi live) non sono mai molto diversi tra loro, e dunque sarebbe bastato anche un CD singolo. Comunque due ore di pura adrenalina, di riffs sparati a mille e ritmo forsennato, con tutti i classici presenti, da Iron Fist a The Chase Is Better Than The Catch a Bomber alla nota Ace Of Spades, fino alla granitica Overkill.

meat loaf guilty pleasure tour.jpg

 

 

 

 

 

 

Piacere Proibito è anche il titolo dell’ultimo live di Marvin Lee Aday, in arte Meat Loaf, uno che ancora vive di rendita con il suo primo, leggendario disco, cioè Bat Out Of Hell (un po’ quello che Mike Oldfield ha fatto con le sue campane tubolari), un disco epocale, pieno di grandi brani e con grandi musicisti (c’era mezza E Street Band), con l’unico difetto di un suono un po’ tronfio.

Il nostro Polpettone non ha poi più saputo ripetere quel successo, né di pubblico né di critica (anche se il secondo volume aveva qualche buon momento), ma dal vivo ha sempre una gran voce ed è un vero animale da palcoscenico. Chiaramente la parte del leone la fanno i brani di Bat Out Of Hell, con una particolare menzione per la title track e per la splendida You Took The Words, mentre anche la lunga Anything For Love, che nel 1992 apriva il seguito di quell’album epocale, fa la sua bella figura, e tra i brani più recenti non è affatto male Los Angeloser (e, proprio all’inizio del concerto, c’è spazio anche per un accenno del famosissimo tema The Time Warp, tratto dal musical The Rocky Horror Picture Show, al quale Meat prese parte).

deep purple machine head box set.jpg

 

 

 

 

 

 

E per finire, due parole su quello che rischia di vincere per distacco il premio (per dirla alla romana) “sòla 2012”: la versione per il quarantennale del capolavoro dei Deep Purple, Machine Head.

Il disco viene infatti riproposto, con l’aggiunta della b-side When A Blind Man Cries (comunque reperibilissima in altre antologie della band) in ben tre CD più un DVD, in vari remix e remasters, ma pur sempre lo stesso disco ripetuto quattro volte! In aggiunta, sul quarto CD, troviamo In Concert ’72, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di questo box ma che in realtà era già uscito nel 1980 in doppio LP (e poi ristampato in CD): un concerto registrato al Paris Theatre di Londra che ora ci viene propinato, udite udite, con la setlist nel corretto ordine (capirai…).

Un’operazione discografica che si commenta da sola.

Non vi dico buon ascolto perché in molti di voi non condivideranno le mie scelte, ma come diceva il povero Ronnie James Dio…long live rock’n’roll!

Marco Verdi

“Vecchio” Blues Ma… Doug Deming & The Jewel Tones – What’s It Gonna Take

Doug Deming What's It.jpg

 

 

 

 

 

 

Doug Deming & The Jewel Tones feat. Dennis Gruenling – What’s It Gonna Take – Vizztone

Ogni mese escono decine di nuovi dischi, solo nell’ambito Blues, e il vostro fedelissimo recensore cerca di tenere dietro a tutte le uscite, ma non di tutto si riesce a parlare, ascolto anche dischi che per motivi vari non riesco a recensire ma lo meriterebbero, mentre altri passano nel mio lettore e ne escono senza lasciare traccia. Quindi, onestamente, devo ammettere di non avere mai sentito parlare fino ad una decina di giorni or sono di questo Doug Deming, anche se non escludo di avere ascoltato dischi dove il nostro era presente, almeno leggendo la sua biografia e partecipazioni varie: ha suonato con Kim Wilson, Gary Primich, Lazy Lester e molti altri. Però, se devo essere sincero, comunque non mi era rimasto impresso. Nel suo gruppo, i Jewel Tones, hanno suonato spesso delle special guests, soprattutto armonicisti, in questo What’s It Gonna Take in particolare l’ottimo Dennis Gruenling.

Non ho avuto “frequentazioni” passate con questi musicisti, ma le orecchie per ascoltare, allenate da qualche lustro di lavoro nel campo, ce le ho e quindi mi sbilancio nel dire che questo album non mi ha particolarmente impressionato: se devo scegliere tra i due, direi che la stella del disco è Gruenling, che soffia con gusto, potenza e classe nella sua armonica, risultando una piacevole sorpresa per il sottoscritto. Deming appartiene a quella scuola di Bluesmen, molto legati alla tradizione, Texas swing, sonorità West Coast Blues con retrotoni di R&R, un po’ alla Blasters o alla Fabulous Thunderbirds, ma senza la classe e il tiro dei gruppi citati. La pettinatura con ciuffo è una ulteriore indicazione delle tendenze di stile e musica, come la vecchia Gibson dal suono volutamente retrò. Con questo voglio dire che sono scarsi o che il disco è brutto? Direi di no, sicuramente una nicchia di appassionati per questo tipo di blues c’è, semplicemente gente come Jimmie Vaughan, per fare un nome, lo fa molto meglio. Negli undici brani che compongono questo CD c’è molto materiale firmato dallo stesso Deming, due o tre cover e un brano firmato da Gruenling.

Prendiamo le cover: Poison Ivy, che non è quella scritta da Leiber e Stoller e suonata anche dagli Stones, ma il brano di Mel London,  portato alla fama se non al successo da Willie Mabon, è cantato con deferenza quasi filologica da Deming, che peraltro non ha una voce memorabile,  non decolla verso la stratosfera del Blues, ma si salva per l’ottima performance di Gruenling (che, più o meno in contemporanea, pubblica un disco a nome suo, ancora per la Vizztone, Rockin’ All Day, accompagnato sempre dai Jewel Tones). O I Want You To Be My Baby, una vecchia canzone dal repertorio di Louis Jordan che dovrebbe avere swing e divertimento in pari misura nelle sue corde, ma ha solo il primo, con la chitarra che ricorda vagamente il primissimo Alvin Lee dei Ten Years After quando non aveva ancora deciso di diventare un guitar hero e suonava il repertorio di Woody Herman. Non è tutto così turgido, ci sono momenti di Blues più sentito, come nella grintosa No Big Thrill o nelle atmosfere sospese alla John Lee Hooker della minacciosa An Eye For An Eye ma è sempre Dennis Gruenling che ci regala le migliori sensazioni, come nel frenetico strumentale Bella’s Boogie dove anche Deming è in evidenza con la sua chitarra e tutta le band si lascia andare come probabilmente sono in grado di fare dal vivo. Le dodici battute regnano anche in Think Hard e in Lucky Charm dove il suono è più coinvolgente senza essere memorabile che potrebbe essere il giudizio per tutto il disco. Indicato, se siete completisti e volete ascoltare di tutto un po’, in ambito Blues, non indispensabile ma onesto.

Bruno Conti

La Buona Vecchia Songwriters’ Music – Mike Cross – Crossin’ Carolina

mike cross crossin' carolina.jpg

 

 

 

 

 

 

Mike Cross – Crossin’ Carolina – MiMa-MuBo CD

Mike Cross è in giro da quasi quarant’anni (il suo primo disco, Child Prodigy, è del 1976), periodo nel quale ha inciso una quindicina di album, ma non ha mai conosciuto la benché minima ombra di successo. Per lui infatti, la definizione di cult artist calza a pennello: ottimo cantautore, eccellente chitarrista, con una vena che spazia dal country al blues al folk, si è conquistato una bella reputazione con le sue esibizioni dal vivo, creandosi un seguito di pochi ma fedeli ammiratori. http://www.mikecross.com/

Ha inciso per anni per la Sugar Hill, ma negli ultimi tempi sembrava essere sparito dalla circolazione (almeno discograficamente, dato che non ha mai smesso di esibirsi): Crossin’ Carolina, il suo nuovo album, esce un po’ a sorpresa, a ben tredici anni dalla sua ultima fatica, At Large In The World. Ma Mike non ha perso la sua vena: Crossin’ Carolina è un bel disco, suonato e cantato con estrema finezza, nel quale Cross ci dimostra che non ha perso la voglia di scrivere belle canzoni, né di suonarle con il suo piglio raffinato e gentile. Chitarrista sopraffino, predilige le atmosfere acustiche (anche se non disdegna qua e là qualche bella svisata elettrica), ed i suoi brani, tutti autografi tranne uno (Train 45, un traditional), si lasciano ascoltare con estremo piacere, in quanto fondono in maniera armonica diversi stili (come già detto, folk, country, blues e anche bluegrass, il tutto proposto con estrema classe).

Musica d’altri tempi, non è una sorpresa che non venda molto. L’album si apre benissimo con la title track, un irresistibile rock’n’roll di impronta elettroacustica, con Mike molto bravo alla resonator, gran ritmo e feeling in dosi massicce. In Streamside sono solo in tre (Mike, un bassista ed un batterista), ma il suono riempie la stanza come se fossero in dieci, una ballata acustica e gentile, cantata dal nostro con grande finezza; Hawkeye Sam è una folk song spedita nel ritmo ma suonata esclusivamente con strumenti acustici: Cross canta una melodia molto gradevole, che ha nei cromosomi qualcosa del Paul Simon più classico, quello senza contaminazioni. Planting By Moonlight è una gran bella canzone: sempre di base acustica, ha un motivo di prim’ordine vagamente anni sessanta, che fa emergere le qualità di Mike come songwriter. Black Cat Magic è puro country-blues, tempo veloce (quasi da bluegrass) con Mike, questa volta all’elettrica, che lascia scorrere le dita libere regalandoci momenti di puro piacere; Song For April è invece una classica ballata, molto bella nel suo incedere, che con un paio di strumenti in più ed un tamburo di latta, anche Jimmy Buffett potrebbe fare sua.

Huddie’s 12-String Blues è un godibilissimo blues acustico (dedicato a Leadbelly), con un azzeccato intervento all’elettrica di tale Patrick Cross (parenti?), mentre Runnin’ For The Rest Of My Life è dominata da una slide cooderiana, e la breve ed elettrica Guillotine Blues è, come da titolo, un blues affilato, peccato che duri poco più di due minuti. L’album si chiude con la già citata Train 45, un bluegrass vero e proprio che se non fosse cantato avrei potuto attribuire anche a John Fahey, e, come bonus, con una versione completamente acustica di Huddie’s 12-String Blues. Un gradito ritorno, un disco di gran classe per un musicista poco noto, e che probabilmente stava per essere dimenticato anche dai suoi estimatori.

Marco Verdi

E’ Sempre Un Piacere (Nonostante Le Ripetizioni)! Ian Hunter – From The Knees Of My Heart

ian hunter from the knees.jpg

 

 

 

 

 

 

Ian Hunter – From The Knees Of My Heart – The Chrysalis Years (1979-1981) – Chrysalis 4CD

Come avevo già scritto parlando della sua ultima fatica When I’m President, io sono da sempre un ammiratore di Ian Hunter, che ho sempre considerato una sorta di Bob Dylan più rock’n’roll (e io adoro sia Dylan che il rock’n’roll, quindi…), con l’aggiunta di un gusto melodico sopraffino che lo ha sempre visto eccellere anche nelle ballate.

Nonostante questo, quando ho visto il contenuto di questo boxettino intitolato From The Knees Of My Heart, in un primo momento mi sono girati i maroni: ma come? Dopo soli tre anni dalla sontuosa edizione doppia deluxe di You’re Never Alone With A Schizofrenic, cioè il disco più bello di Hunter insieme ai primi due (ma non sottovaluterei il recente Man Overboard), lo stesso album mi viene ripresentato in un’edizione più “povera” come primo dei quattro CD?

La cosa che mi ha subito calmato è stato il prezzo del box: praticamente come un singolo CD, e visto che il quarto dischetto è (quasi) totalmente inedito, e che ci sono anche alcune sorprese sparse sugli altri CD, ho deciso che questa era una pubblicazione da avere.

Ma andiamo con ordine: From The Knees Of My Heart, come recita il sottotitolo, prende in esame gli album pubblicati da Ian durante il suo breve periodo alla Chrysalis, cioè due dischi in studio ed un live, più un altro concerto all’epoca uscito solo in VHS (e sfido chiunque di voi ad averlo, nel 1981 in Italia c’erano a malapena i videoregistratori).

Se siete seguaci di questo blog, non penso che io debba parlarvi più di tanto di You’re Never Alone With A Schizofrenic: semplicemente è uno dei grandi dischi rock degli anni settanta, con Hunter ispirato come non mai, e con un gruppo di musicisti incredibile (oltre al fido Mick Ronson, c’è dentro il cuore della E Street Band, cioè Bittan, Tallent e Weinberg, oltre a John Cale ed a Eric Bloom, lead vocalist dei Blue Oyster Cult). Un disco imperdibile, con classici assoluti di Ian quali Just Another Night, Cleveland Rocks, Ships, When The Daylight Comes, Standin’ In My Light, anche se forse il mio brano preferito è The Outsider, una ballata stellare, nella quale Hunter raggiunge punte di pura poesia rock, cantata con un pathos formidabile. Il primo CD contiene anche alcune versioni alternative tratte dalla ristampa del 2009, oltre ad un brano disponibile solo in download (una prima versione di Ships) e tre inediti assoluti, tra cui Alibi, un brano mai pubblicato prima da Ian.

Il secondo CD contiene Welcome To The Club, ovvero il miglior live album della carriera di Hunter: registrato al Roxy di Los Angeles, vede Ian ripercorrere il meglio della sua carriera solista e con i Mott The Hoople, con una band tostissima guidata da un Mick Ronson in stato di grazia. Ian stesso è in forma strepitosa, e ci regala quasi un’ora e mezza di rock’n’roll da strapparsi i capelli (Once Bitten, Twice Shy, All The Way From Memphis, The Golden Age Of Rock’n’Roll, la formidabile cover di Laugh At Me di Sonny Bono) e di ballate strepitose (Irene Wilde, la superdylaniana I Wish I Was Your Mother), oltre naturalmente al superclassico All The Young Dudes. Questo secondo CD non contiene bonus, anzi omette i brani registrati in studio per il disco originale (ma li recupererà sul quarto CD), e mancano anche due live tracks presenti invece nella ristampa del 2007 (ma difficile da trovare). E’ comunque sempre una goduria di disco!

Il terzo CD contiene Short Back’n’Sides che è, parola di fan, l’album meno bello di tutta la discografia di Ian: prodotto con Mick Jones dei Clash, ha i suoi punti di forza in due soli brani, cioè Central Park’n’West, infarcita di sintetizzatori ma con un bel tiro rock ed una melodia coinvolgente, e Old Records Never Die, una delle più belle ballate di Hunter, incisa la sera dell’omicidio di John Lennon. Per il resto, una serie di brani irrisolti, non particolarmente ispirati, e con arrangiamenti talvolta discutibili, tra pop, new wave e reggae, si salvano Rain e la buona Keep On Burning: i bonus sono in parte tratti dalla ristampa del 1994 (ormai introvabile), più un paio di inediti assoluti (Detroit e China) che nulla aggiungono al disco.

Il quarto CD, intitolato Ian Hunter Rocks, è come già detto la ristampa di una videocassetta registrata dal vivo nel 1981 a New York, con Hunter come al solito impeccabile on stage: non è Welcome To The Club (non c’è neppure Ronson), ma ha comunque il suo perché. I brani di Short Back’n’Sides guadagnano punti in questa veste (specialmente I Need Your Love, quasi un’altra canzone, in medley addirittura con Honky Tonk Women degli Stones, che il libretto mette erroneamente mixata con All The Way From Memphis), ed in più nel finale c’è un medley spettacolare di una decina di minuti che fonde All The Young Dudes, Ships, Honaloochie Boogie e la fantastica Roll Away The Stone.

Come cilegina, nel booklet interno ci sono le disamine brano per brano (tra il serio e il faceto, anzi quasi sempre faceto) di Ian stesso, che danno così un sigillo di garanzia all’operazione.

Dio benedica Ian Hunter.

Marco Verdi

Servizio Concerti: Mandolin Brothers, Breve Tour

Mandolin_10112011_184521.1.jpg

 

 

 

 

 

 

 

E’ sempre un piacere fare un po’ di promozione quando non si risolve in una sorta di marchetting. Quindi quando ho ricevuto una mail di Jimmy Regazzon che mi annunciava un breve tour dei Mandolin Brothers, è stato quasi naturale, e spontaneo, condividerlo sul Blog, per gli amanti della buona musica. Come sapete il gruppo fa parte di quel prode manipolo (forse pattuglia, perché in effetti sono di più di quello che si pensa) di musicisti che mi piace definire “Italiani per caso”, visto che la musica che fanno ha sicuramente un piglio internazionale e non ha nulla da invidiare ai colleghi di oltre oceano.

Ma bando alle ciance, nelle parole di Jimmy, queste sono le date:

Un’occasione da non perdere: roots rock live con i Mandolin’ Brothers al completo!

Si comincia venerdì 9 novembre al Cowboy’s Guest Ranch di Voghera, nel buon vecchio Oltrepo’ Pavese! Sweet home!
Sabato 10 saremo all’Una e trentacinque circa di Cantù, nella nuova ed ampliata location, sempre a Cantù ma in via Papa Giovanni XXIII, 7. Per riabbracciare Carlo e amici!
Sabato 24 novembre una serata speciale a Spaziomusica, con la partecipazione di Edward Abbiati dei Lowlands.
Inoltre ci sarà a breve una capatina del quartetto acustico in quel gioiellino che è il Banco di Zoagli, sabato 1 dicembre.
See you on the road!

http://www.mandolinbrothersband.com/

Le prime due date sono stasera e domani, quindi affrettarsi.

Bruno Conti

“Troppo” Potrebbe Non Essere Abbastanza! Omar And The Howlers – Too Much Is Not Enough

omar too much.jpg

 

 

 

 

 

 

Omar And The Howlers featuring Gary Primich – Too Much Is Not Enough – Big Guitar Music

Prima che lo diciate voi, e avendolo detto probabilmente tutto l’universo dei recensori blues dell’umano creato, e anche lo stesso Omar Dykes nelle note di questo CD, ebbene sì, aveva già pubblicato un tributo a Jimmy Reed, in coppia con l’amico Jimmie Vaughan, On The Jimmy Reed Highway, nel 2007: ma come dice il titolo di questa “nuova” fatica Too Much Is Not Enough. E poi, sempre come ci ricorda lo stesso Omar Kent Dykes, questo era stato registrato in precedenza e poi accantonato. Ma ora, anche come tributo al recentemente scomparso Gary Primich, che appare all’armonica in dieci dei dodici brani del disco, è stato deciso di pubblicare questo ennesimo omaggio all’arte del grande bluesman Jimmy Reed, questa volta sotto la sigla Omar And The Howlers. E fanno tre dischi a nome del gruppo in questo 2012, nulla per nove anni (escluso un live) e poi il nuovo I’m Gone (un-bluesman-texano-del-mississippi-omar-and-the-howlers-i-m.html ), una Essential Collection e ora questo album. Peraltro, nelle note del dischetto, Omar ci “minaccia” benevolmente – Se pensate che sia andato oltre le righe con Jimmy Reed, aspettate quando pubblicherò il mio materiale su Bo Diddley e Howlin’ Wolf –.

Intanto che aspettiamo,  proprio il vecchio lupo mi sembra il punto vocale di riferimento di questo Too Much…, i brani saranno anche tratti dal repertorio di Jimmy Reed, ma Omar li interpreta come se si fosse reincarnato nello spirito di Howlin’ Wolf, con molte inflessioni che ricordano anche il Captain Beefheart più bluesato. Nel disco sono presenti, oltre alla sezione ritmica, meno selvaggia che nei dischi più rock-blues del gruppo, Jay Moeller, fratello di Johnny, e batterista dei Fabulous Thunderbirds, l’allora giovanissimo chitarrista nero texano Gary Clark Jr., che ha di recente pubblicato l’eccellente Blak and Blu per la Warner, oltre al citato Primich e a Derek O’Brien che completa la pattuglia dei chitarristi. Ma, stranamente, non siamo di fronte ad un disco di chitarra blues, ma semplicemente di Blues: ovvio che la chitarra fa parte delle procedure, ma è usata in un modo molto discreto, alla Jimmy Reed direi, niente svolazzi e assoli selvaggi (che vengono riservati ad altre occasioni, soprattutto dal vivo, perché sono comunque nel DNA del buon Omar), ma un suono classico e tradizionale, con moltissimo spazio lasciato all’armonica, che spesso è la protagonista. Omar Kent Dykes tra l’altro si ostina a voler festeggiare i suoi 50 anni di carriera, con tanto di bollino nel libretto del CD, facendo decorrere l’inizio della sua carriera dal 1962, quando aveva 12 anni e suonava nel suo primo gruppo. Ma dove, mi domando io?

Gary Clark ci delizia con la sua tecnica alla slide in un paio di brani, I Gotta Let You Go e la “Elmoriana” (nel senso di Elmore James), You Don’t Have To Go, tutti i musicisti si divertono nella latineggiante Roll In Rhumba. In Ain’t Got You, Omar torna a quel tempo di boogie del suo materiale classico, dove sembra veramente Howlin’ Wolf o Captain Beefheart alla guida degli ZZ Top con formazione ampliata da un ottimo armonicista come Primich. Mentre nel super classico Shame, shame, shame sembra di ascoltare il Duke Robillard più pimpante. Ma tutto il disco è molto piacevole, fuori dal tempo, con un suono volutamente “antico”, fuori dal tempo. non dissimile da quello che utilizza spesso il suo amico Jimmie Vaughan, per amanti del Blues più tradizionale ma non per questo non apprezzabile da chi ama il rock.

Bruno Conti

Non Malvagio, Anche Se L’Originale E’ Meglio! Denny Freeman – Diggin’ On Dylan

denny freeman.jpg

 

 

 

 

 

 

Denny Freeman –  Diggin’ On Dylan – V8 Records

Ancorché nativo di Orlando, Florida Denny Freeman è, a tutti gli effetti, uno della miriade di chitarristi texani che calcano le scene americane da più tempo, grazie alla sua adolescenza trascorsa a Dallas e poi ad una lunga militanza nella scena blues locale. Addirittura la sua carriera inizia nel 1970 come chitarra solista nei Cobras, il primissimo gruppo in cui militava un giovanissimo Stevie Ray Vaughan, più giovane di lui di dieci anni. Nel corso degli anni ‘70 ha suonato con W.C. Clark, Angela Strehli e poi, più tardi, anche con Lou Ann Burton e nuovamente con i due fratelli Vaughan, facendo anche il pianista e il session man in generale con grandi bluesman come Otis Rush, Albert Collins, Buddy Guy & Junior Wells, una lunga gavetta che gli ha permesso di guadagnarsi la reputazione di uno dei migliori stilisti della chitarra elettrica blues tra i bianchi texani e non solo. La sua carriera solista non è cospicua, tra una partecipazione e l’altra, ha inciso 5 album solisti, il primo, Out Of The Blue, nel 1987, gli ultimi due Twang Bang e A Tone For My Sins; in mezzo è uscito anche un disco dal vivo con i Cobras, pubblicato dalla tedesca Crosscut nel 2000, ma registrato nel 1981, a questo punto aggiungiamo anche il disco omonimo del 1991 e otteniamo la discografia completa.

Mi sembra di essermi già occupato di lui sul Busca (anche se non avendo tenuto un archivio delle vecchie recensioni non ricordo per quale album, mi pare, proprio il live). Fondamentalmente Freeman suona Blues, ma dal 2005 al 2009 è stato uno dei chitarristi della touring band di Bob Dylan, apparendo anche nel disco di studio del 2006, Modern Times. Gruppo per il quale lo stesso Dylan aveva espresso approvazione in alcune interviste, dichiarando che quella formazione era la migliore con cui avesse mai suonato. Siccome sappiamo che non sempre il vecchio Bob è attendibile e coerente in quello che dichiara, il tutto è da prendere con le pinze, ma Denny Freeman è sicuramente un ottimo chitarrista, forse più come gregario che non come solista, in quanto non essendo cantante, i suoi dischi sono strumentali.

Anche questo Diggin’ On Dylan è un album di musica strumentale, sottotitolo Denny Freeman Plays Songs Of Bob Dylan. E devo dire che le suona bene, alternando la sua perizia alla chitarra (che rimane lo strumento principe), con tastiere, soprattutto organo, e armonica e avvalendosi anche dell’uso di violino e fiati in alcuni brani, il risultato finale è più che dignitoso. Non sempre le versioni sono memorabili, ma lo stesso Dylan ogni tanto le maltratta dal vivo, qui più che altro, di tanto in tanto, ci si affida al mestiere e gli arrangiamenti sono un po’ scontati. Ma ad esempio l’idea di suonare Masters Of War come fosse una novella Voodoo Chile, con profusione di wah-wah a piè sospinto o il valzerone con uso di violino romantico e fiati, come nella elegiaca My Back Pages, non sono idee peregrine. The Times They Are-A Changin’ anche nella versione strumentale con chitarra e violino sugli scudi rimane un inno inossidabile al passare del tempo mentre Tangled Up In Blue acquista una atmosfera funky-jazz-soul alla Booker T o Smith/Montgomery. Don’t Think Twice Is Alright, per l’uso anche dell’armonica, potrebbe ricordare certe rivisitazioni del canone dylaniano del giovane Stevie Wonder. Gotta Serve Somebody, inevitabilmente, mantiene la sua scansione gospel mentre Knockin’ On Heaven’s Door ha sempre avuto una forte componente chitarristica, qui forse, stranamente, un po’ troppo annacquata, per un brano che ha il suo punto di forza anche nell’assolo di chitarra delle varie versioni live che si sono succedute negli anni. Spirit On the Water, jazzata e demodé, era uno dei brani di Modern Times, dove Danny Freeman suonava all’origine, ma al di là dell’indubbia perizia stilistica non è particolarmente originale e anche un poco soporifera, per essere un brano di Dylan!

Ballad Of A Thin Man è una delle più fedeli alla versione originale e l’assolo del chitarrista texano è più convinto e ricercato. I’ll Be Your Baby Tonight, in versione western swing con violino aggiunto, non convince più di tanto e anche una morbida It Ain’t Me Baby non è che incanti molto. Blowin’ In The Wind, ancora con armonica in evidenza, ha una piacevole aria “campagnola” (country, per gli amici di madrelingua americana) e anche Queen Jane Approximately si difende bene. Senor (Tales Of Yankee Power) è una delle versioni più intense, quasi cooderiana e anche Dignity, dai tempi mossi e vivaci non è male. It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry, l’ultima della serie, l’avevano già fatta, meglio, ai tempi nella gloriosa Super Session di Al Kooper e soci. Luci e ombre, un disco piacevole, per completisti dylaniani e per amanti dei dischi strumentali, forse sedici brani e settantadue minuti sono troppi, ma l’idea non era male.

Bruno Conti