Il Classico Disco Che Non Ti Aspetti… Ma In Questo Caso Non E’ Del Tutto Un Complimento! Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide To Earth

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Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide To Earth – Atlantic CD

I primi due album di Sturgill Simpson, musicista del Kentucky di grande talento, mi erano piaciuti molto: il suo esordio del 2013, High Top Mountain, era un perfetto album di Outlaw Country moderno, pieno di ritmo, grinta ed ottime canzoni, con uno stile ed una voce che si rifacevano chiaramente a Waylon Jennings (e Simpson ebbe i compimenti anche dal figlio di Waylon, Shooter), e l’anno dopo Metamodern Sounds In Country Music era anche meglio, con il nostro che introduceva nel suono elementi più rock e perfino psichedelici https://www.youtube.com/watch?v=mlYgTU1QAjE&list=PL8c2CQ3JiUNFt4-q3JiMlppKCuUTYeDot . Il produttore di quei due album era l’ormai onnipresente Dave Cobb, che oltre ad aver dato il suono giusto ai brani di Simpson era probabilmente riuscito anche a contenerne la personalità vulcanica, che si intuiva da alcune pieghe del suono, dai testi ma anche dalle copertine dei CD, non proprio tipicamente country. Per questo nuovo A Sailor’s Guide To Earth (dedicato a suo figlio, con titolo e copertina a tema marinaresco, ma più sullo stile di una band rock anni settanta che di uno come Jimmy Buffett) Sturgill decide di prodursi da solo, e la scelta, se dal punto di vista tecnico può risultare anche azzeccata, da quello artistico è discutibile: il nostro infatti decide di cambiare completamente il suo stile, lascia affiorare in molti brani una vena rhythm’n’blues e soul che non pensavamo avesse (ed il fatto che il CD esca per la Atlantic può non essere casuale), ma se si fosse limitato a questo avrei applaudito lo stesso in quanto la bravura nel songwriting è rimasta la stessa di prima.

Il “problema” è che Sturgill ha voluto andare oltre, ha aggiunto anche elementi puramente pop, ma un pop molto romantico e super arrangiato come si usava fare negli anni sessanta, ed inoltre in mezzo ci ha pure ficcato sonorità rock e ancora psichedeliche, dando a mio parere l’impressione di confusione (ed utilizzando un numero di musicisti e di strumenti impressionante, quando la fortuna dei suoi primi due dischi l’avevano fatta anche la compattezza del suono ed il numero limitato di sessionmen). Un disco che non posso definire brutto, le buone canzoni ci sono eccome, ma spesso annacquate in sonorità che a mio giudizio appartengono poco al suo autore: non dico che deve ripetere alla nausea lo stesso tipo di country-rock (anche se Waylon lo faceva e nessuno ci trovava da ridire, dopotutto chiunque ha un suo stile), ma qui ci sono cambiamenti a 360 gradi che non so quanto gli gioveranno. Un esempio calzante può essere il brano iniziale, Welcome To Earth (Pollywog), con un avvio quasi psichedelico, poi arriva un pianoforte malinconico, e la bella voce del nostro che intona una melodia forte, con un arrangiamento quasi cameristico da pop band sixties, un big sound che ad un certo punto cambia di botto, il ritmo aumenta, arrivano i fiati (il gruppo funk-soul Dap-Kings) ed il pezzo si tramuta in un errebi molto energico, sullo stile di Nathaniel Rateliff: un inizio spiazzante, con il nostro che non si capisce dove voglia andare a parare.

Breakers Roar è una ballata acustica, sognante ed eterea, ancora con archi a profusione e leggero accompagnamento ritmico, non è male ma sembrano più i Bee Gees dei primi dischi (quelli belli, comunque) che un countryman definito il nuovo Outlaw; Keep It Between The Lines è un funky molto annerito, con i fiati protagonisti ed un marcato sapore New Orleans, un cocktail di suoni e colori accattivante, mentre con Sea Stories Sturgill torna per un momento sui suoi vecchi passi, una solida ballata country-rock elettrica dal sapore sudista, suono diretto e melodia vincente, con ottimi interventi della steel di Dan Dugmore e della slide di Laur Joamets (?): sarò scontato, ma questo e lo Sturgill Simpson che preferisco. In Bloom dei Nirvana è la cover che non ti aspetti, ma chiaramente Simpson non è Kurt Cobain e la canzone assume tonalità pop d’altri tempi, quelle canzoni d’atmosfera avvolgenti tipiche degli anni a cavallo tra i sessanta e settanta ed echi, perché no, di Van Morrison (compreso l’uso dei fiati nella seconda parte, anche se l’irlandese aveva arrangiamenti più sobri); Brace For Impact (Live A Little) è il singolo estratto https://www.youtube.com/watch?v=BlOk5wV0DRo , una rock song elettrica e cadenzata, suonata e cantata con grinta ma poco creativa dal punto di vista dello script, ed inoltre troppo lunga e con soluzioni sonore un po’ discutibili: è ormai chiaro che il Simpson dei primi due dischi qui non c’è, ma abbiamo un artista che vuol dimostrare di saper tenere i piedi in più scarpe, ma secondo me lo fa a discapito dell’unitarietà. All Around You è comunque un ottimo blue-eyed soul, un pezzo altamente godibile e suonato alla grande, che non ha nulla da invidiare al bravissimo Anderson East: certo che se tutto il disco fosse stato su questi livelli avrei comunque applaudito al riuscito cambio stilistico del nostro, che però ha voluto strafare perdendo un po’ il filo conduttore.

Con Oh Sarah torniamo in territori country-pop gradevoli ma un po’ demodé, sembra Waylon, ma quello pre-Outlaw degli anni sessanta; chiude il CD (38 minuti) l’energica Call To Arms, gran ritmo, ancora a metà tra rock, southern e soul e con basso e batteria che sembrano quasi andare fuori giri (ma c’è un breve ma irresistibile assolo di Jefferson Crow al pianoforte).

Non so se A Sailor’s Guide To Earth segni l’inizio di una nuova fase della carriera di Sturgill Simpson, certo è che se voleva spiazzare gli ascoltatori c’è riuscito alla perfezione.

Marco Verdi

Non Sempre I “Seguiti” Vengono Bene: In Questo Caso Sì, Benissimoì! Artisti Vari Southern History – Produce Dave Cobb

southern family

Various Artists – Southern Family – Low Country Sound/Elektra

Se ne parlava da diversi mesi, ma in questi giorni è finalmente uscito Southern Family, un concept album partorito dalla fervida immaginazione del produttore Dave Cobb, il nuovo Re Mida dei produttori country (ma non solo) di Nashville, dove opera dal RCA Studio A della città del Tennessee, in cui ha ha stabilito l’epicentro delle sue operazioni musicali. Cobb, per i più distratti quello che ha prodotto Chris Stapleton, Anderson East, Corb Lund, Christian Lopez Band, Whiskey Myers, recentemente i Lake Street Dive, e molti altri, e si prepara a pubblicare, ne cito un paio, i nuovi lavori di Holly Williams e Mary Chapin Carpenter, da diverso tempo aveva in mente una sorta di seguito per un album che era stato la sua stella polare sia in ambito produttivo, come in quello musicale, una specie di ossessione. 

white mansions white mansions + legends of jesse james

 

Parliamo del White Mansions da cui tutto parte, un album concepito nel 1978 da Paul Kennerley, un musicista inglese che aveva deciso di scrivere un disco che era una sorta di racconto epico sugli avvenimenti accaduti tra il 1861 e il 1865, durante la Guerra Civile Americana, quando scrivere di questi avvenimenti in ambito musicale era ancora un fatto raro ed anomalo, soprattutto da parte di un inglese. Ma Kennerley ci era riuscito talmente bene da coinvolgere nel progetto il grande produttore Glyn Johns (a proposito sta per tornare, con il nuovo lavoro di Eric Clapton I Still Do, annunciato per il 20 maggio, si riforma la coppia di Slowhand), che a sua volta aveva chiamato, per interpretare i vari personaggi, Jessi Colter e il marito Waylon Jennings, John Dillon Steve Cash degli Ozark Mountain Daredevils, grandissima band country-rock americana, oltre a musicisti come Eric Clapton, Bernie Leadon, Tim Hinkley, Dave Markee, Henry Spinetti, per un disco che era (ed è, perché si trova ancora) un piccolo gioiello in ambito country-rock. Non contenti Glyn Johns Paul Kennerley avrebbero replicato un paio di anni dopo con The Legend Of Jesse James, altro concept sulla vita del famoso fuorilegge americano, questa volta con l’aiuto di Emmylou Harris (che poi sarebbe stata la moglie di Kennerley dal 1985 al 1993), Johnny Cash, Levon Helm, Rodney Crowell Rosanne Cash, Albert Lee Charlie Daniels, altro cast mica male, per usare un eufemismo. Entrambi gli album si trovano ancora in quel doppio CD che vedete effigiato sopra e che per gli appassionati del genere che ancora non lo hanno è quasi imperdibile.

Tornando ai giorni nostri Dave Cobb non immaginava certo che il suo progetto di dare un seguito a queste due saghe avrebbe trovato delle etichette interessate, ma tramite la propria Low Country Sound e con la distribuzione del colosso Elektra/Warner Southern Family è diventato una realtà. In questo caso Cobb ha chiesto ai vari musicisti e cantanti coinvolti di fornire una serie di canzoni che raccontavano storie ambientate nelle loro famiglie del Sud ( vicende di padri, madri, figli, fratelli, sorelle, nonni), anche slegate fra loro ma il con trait d’union di essere brani che raccontavano vicende che avevano avuto una certa importanza nelle vita degli artisti coinvolti. Che sono in gran parte, passati, presenti e futuri clienti di Cobb, ma anche musicisti con i quali avrebbe voluto lavorare. Suonato veramente bene dal giro di musicisti che gravitano abitualmente intorno a Dave (che suona nel disco basso, chitarre, acustiche ed elettriche, nonché percussioni) l’album mi sembra veramente riuscito, dodici brani anche diversi da loro, a seconda delle personalità di chi è stato coinvolto, come sonorità, ma con una qualità medio-alta nell’insieme https://www.youtube.com/watch?v=LjT5EKskTYY .

E vediamo chi c’è: si parte subito benissimo con John Paul White, l’ex Civil Wars (dopo la divisione dalla socia Joy Williams, il cui album dello scorso anno, Venus, a chi scrive era parso piuttosto bruttino), reduce dalle recenti produzioni con Dylan LeBlanc, Lindi Ortega Donnie Fritts, pare particolarmente ispirato, anche come cantante ed autore, nell’iniziale Simple Song, un brano sotto forma di ballata avvolgente, che unisce la passione di White per country-folk e melodie beatlesiane, in un brano dolcissimo e suadente, caratterizzato anche da un delicato lavoro orchestrale. Ancora più bella è la successiva  God Is A Working Man, canzone scritta dal sempre più bravo Jason Isbell e che qualcuno ha proposto di segnalare ai candidati presidenziali americani come brano per la loro campagna elettorale, con un “lavoratore” così che vota per te si presume sia difficile perdere. Tra florilegi di chitarre acustiche, violini (della consorte Amanda Shires), chitarre elettriche, slide e pedal steel come piovesse, il suono è un perfetto country, di quello che dalla parte giusta di Nashville si riesca ancora a creare con grande naturalezza https://www.youtube.com/watch?v=pxPqiHCY21w . Dave Cobb tiene famiglia, ha anche un bravissimo cugino canterino, nella persona di Brent Cobb, che ci regala una deliziosa Down Home, punteggiata da chitarre grintose e bluesy, pianini insinuanti, seconde voci femminili intriganti ed una bella melodia che in una canzone non guasta mai, e allora se il risultato è questo una “raccomandazione” di famiglia ci sta anche.

Molto bella anche Sweet By And By, il primo brano cantato da una voce femminile, una Miranda Lambert formato Pistol Annies, ispirata dal gran contorno strumentale fornito dalla band di musicisti di Cobb, la bella biondona ci regala una delle sue performance vocali più convincenti di sempre, di nuovo con steel guitars, tastiere e una sezione ritmica pimpante sugli scudi, questo è grande country-rock. Come pure quello regalato da una versione fantastica di You Are My Sunshine, un super classico della canzone americana, qui ripreso dalla coppia Morgane Chris Stapleton, con la prima, che in questo brano è la voce solista, mentre il marito si “limita” ad accompagnare: voce country-gospel della signora Stapleton, una struttura blues e le chitarre che ruggiscono come si deve e a ripetizione, grande tensione sonora e sicuramente uno degli highlights del disco. Ma anche Zac Brown torna ai livelli che gli competono con una Grandma’s Garden, ballata mid-tempo country-folk sopraffina, tra James Taylor ed il miglior country-rock della Nitty Gritty o di Loggins & Messina, ma pure delle più belle canzoni di una certa Zac Brown Band https://www.youtube.com/watch?v=q-QytmOpTZw . E non ci si ferma di sicuro quando entra in scena il vocione di Jamey Johnson alle prese con una Mama’s Table che rievoca le cose migliori di Johnny Cash, Waylon Jennings e degli Outlaws tutti, bellissima pure questa https://www.youtube.com/watch?v=LwuPPHdFWok .

E che dire di Learning di Anderson East? Mamma mia, che bella! Il ventottenne di Athens, Alabama, con, come avrebbe detto Paolo Ruffini a Sofia Loren, quella gran topa della nuova compagna Miranda Lambert come ispirazione e il babbo come “insegnante”, che gli faceva sentire quella soul music che con il trascorrere del tempo è diventata sempre meno country e più country got soul, disco dopo disco, e ancora got soul, e got soul, proseguire ad libitum. Tra fiati, chitarre e organetti impazziti questa è vera “southern music”. E parlando di famiglie io sono convinto che la più brava della famiglia Wiiliams, dopo il capostipite Hank, sia la “nipotina” Holly, che ancora una volta ce lo dimostra con una deliziosa Settle Down che ha il piglio sbarazzino della Janis Joplin country di Pearl, un breve gioiellino https://www.youtube.com/watch?v=vH9ieUuAxkM . Un’altra che canta benissimo, anche se in pochi la conoscono, è la bravissima Brandy Clark, qui alle prese con una emozionante I Cried, dove tra falsetti spericolati, la cantante ci dà una sorta di variante femminile alle splendide storie malinconiche e strappalacrime in cui era maestro Roy Orbison, una vera meraviglia sonora. Credo che il nonno da lassù possa essere veramente contento di questo tributo postumo da parte di sua nipote https://www.youtube.com/watch?v=olu343r5rwI . Anche Shooter Jennings con Can You Come Over si dimostra in gran forma, un brano degno di tanto babbo, tra country, echi dylaniani, derive rock & soul alla Delaney & Bonnie, altra canzone che sembra esplodere dalle casse dei nostri impianti con una grinta ed una freschezza invidiabili https://www.youtube.com/watch?v=U9atbs9-SxQ . E a conclusione del tutto, quello che dovrebbe essere il fratello meno bravo, Rich Robinson, ci regala un’altra piccola perla di musica sudista con The Way Home, la voce forse non sarà al livello di quella di Chris, ma con l’aiuto di un coro gospel, una chitarra elettrica, e qualche battito di mani ci dimostra come fare buona musica.

E in questo Southern Family ce n’è veramente tanta.

Bruno Conti

Per Amanti Di Un Pop Raffinato E Fruibile Al Tempo Stesso! Lake Street Dive – Side Pony

lake street dive side pony

Lake Street Dive – Side Pony – Nonesuch/Warner

Il disco precedente mi era piaciuto parecchio http://discoclub.myblog.it/2014/03/12/raffinato-quartetto-che-voce-la-ragazza-lake-street-dive-bad-self-portraits/ e sottoscrivo tutto quello che avevo detto, anzi se lo non avessi già usato utilizzerei lo stesso titolo. Questo nuovo Side Pony, a grandi linee, replica il sound e i contenuti di Bad Self Portraits: però c’è una nuova etichetta, un nuovo produttore, il Re Mida degli ultimi anni, Dave Cobb, per la prima volta alle prese con uno stile che non affonda le sue radici nel country, nel rock e nel southern, ma che contiene molta musica con derivazioni soul, peraltro decisamente diverse da quelle presenti nel disco di un altro cliente di Cobb, ovvero Anderson East. Dove in quel disco trovavamo una voce profonda e matura, a dispetto dell’età, e con molti richiami al sound Stax e deep soul in generale, in questo album dei Lake Street Dive ne abbiamo una femminile, Rachael Price, dal contralto puro, con toni jazzati, in questo caso sfumati verso un tipo soul più “lavorato” e di epoca tarda, Philly Sound, Motown, le prime propaggini della disco, quando era ancora funky o Blaxploitation, uniti ad una passione sfrenata per il pop raffinato dei Beatles, lato McCartney, le cantautrici primi anni ’70, Nyro, Simon, Carole King e anche le armonie vocali dei Beach Boys o dei Mamas And Papas. Ho letto un paio di recensioni non entusiastiche per Side Pony ( che sarebbe poi la pettinatura a coda di cavallo laterale che sfodera la bassista Bridget Kearney sulla copertina del disco), qualcuno che non ha apprezzato il pop “stiloso” e forse leggerino della band, ma per il resto c’è stata una unanimità di giudizi estremamente positivi a cui mi accodo.

Anche questo tipo di musica ha i suoi aficionados e non è detto che si debbano fare per forza, rock, country, blues, folk, roots music o Americana per essere apprezzati, pure la musica pop, se ben realizzata, non è un’anatema per chi ama il rock inteso nella sua accezione più ampia, lasciando da parte le “musicacce” orribili e ormai standardizzate (i.e. tutte uguali tra loro) che appestano, con qualche eccezione, le classifiche e le radio, chi le ama continui ad ascoltarle, noi (inteso come Blog, e anche la rivista dove scrivo),  cerchiamo di rivolgerci ad un altro tipo di pubblico, più ristretto per ovvi motivi, ma non per questo meno significativo, gli amanti della buona musica, che non sono molto serviti da stampa e mezzi di comunicazione. Ma torniamo al disco: troviamo dodici brani, tutti scritti dai componenti della band fondata a Boston, Massachusets nel 2004, ma provenienti da Minneapolis ed ora residenti a New York. Per completare questo ecumenismo di diverse città, il disco è stato inciso negli studi Sound Emporium di Nashville, dove opera il produttore Dave Cobb, che per l’occasione ha invitato i musicisti ad un approccio diverso dal solito, proponendo ai componenti del gruppo di presentarsi alle sessioni di registrazione solo con brani in embrione, non completi, da sviluppare: idee, spunti, da cui improvvisare ed ottenere delle canzoni finite. Mi sembra che il metodo abbia funzionato e nell’album troviamo molti generi diversi, dove la voce della Price, che è comunque la stella polare del gruppo, è stata inserita, lei consenziente, in un un sound d’assieme variegato e dove tutti i componenti dei Lake Street Dive hanno il giusto spazio.

Così nel CD troviamo il soul-pop incalzante dell’iniziale Godawful Things, scritta dal chitarrista e tastierista Mike “McDuck” Olson, con i complessi intrecci vocali del quartetto subito in evidenza e continui cambi di tempo, mentre in Close To Me, firmata dal batterista Michael Calabrese, ci sono incontri ravvicinati tra un sound di chitarra che rimanda ai Beatles di Abbey Road, unito al classico genere raffinatissimo del gruppo, che per certi versi può rimandare alla musica della migliore Carole King. In Call Off Your Dogs, dalla penna della bassista Bridget Kearney, ci si trova di nuovo immersi in un suono inizio anni ’70 che profuma di Tamla Motown e Philly Sound, divertente, forse “stupidino” ma comunque delizioso. Spectacular Failure è un pop-rock di perfetta fattura, tra chitarre, fiati aggiunti e ritmica serrata, oltre a quelle voci incredibili; con I Don’t Care About che sembra nuovamente un pezzo dei Beatles, ma cantato da Mama Cass dei Mamas And Papas, per l’occasione nelle vesti dell’eccellente Rachael Price e qualche evoluzione vocale alla Beach Boys. So Long viceversa è una bella ballata, soffice e morbida, quasi alla Burt Bacharach.

How Good It Feels è un pezzo tra blues e soul, ancora una volta cantato veramente bene dalla Price, con la sua voce duttile in grado di districarsi in tutti i diversi stili che compongono la tavolozza di colori del gruppo, in questo caso con organo e chitarra in primo piano, in Side Pony, la title-track, un jazzy pop-soul sempre in punta di ugola, per poi lanciarsi in Hell Yeah, che suona come avrebbero potuto fare i B-52’s se avessero avuto una cantante brava come Rachael, anche con vaghi retrogusti psych-soul-garage. Rachael Price che firma un unico brano nel CD, Mistakes, quello con i tratti sonori più jazzati, quasi da light crooner, con il suo contralto delizioso che veleggia sul tappeto sonoro della canzone, dove una “sontuosa” tromba suonata da Olson, aggiunge un tocco di gran classe, sempre con armonie vocali cesellate tra jazzy pop e soul. Non manca neppure il blaxploitation sound di una Can’t Stop che sembra uscire da una vecchia pellicola anni ’70 con Pam Grier o da qualche remake di Quentino Tarantino. Si finisce con il quinto e ultimo contributo compositivo di Bridget Kearney, la più prolifica della band, una Saving All My Sinning, ennesimo brano pop-rock dove la voce della Price assume tonalità non dissimili da quelle da Tony Childs (l’avevo detto per il disco precedente e anche in questo caso mi ripeto)), per quello che è comunque globalmente uno sforzo di gruppo di tutta la band, ma si regge soprattutto sulla vocalità della suddetta Rachael.

Bruno Conti 

Recuperi Di Inizio Anno 3: Un Meraviglioso Disco Di Soul Bianco! Anderson East – Delilah

anderson east delilah

*NDB Ovviamente il titolo della rubrica con l’avvento del nuovo anno cambia, ma il compito di recuperare dischi “interessanti” non recensiti lo scorso anno rimane, la parola a Marco.

Anderson East – Delilah – Elektra/Warner CD

Il 2015 è stato a mio parere l’anno della riscossa del cosiddetto blue-eyed soul, dato che due dei miei dischi preferiti tra quelli usciti sono quello omonimo di Nathaniel Rateliff & The Night Sweats e questo Delilah ad opera del giovane Anderson East di Athens, Alabama (ed aggiungerei il ritorno di Darlene Love, che non è molto blue-eyed ma soul sì, e tanto). Vi dirò di più: se Warren Haynes non avesse tirato fuori quel mezzo capolavoro di Americana che risponde al titolo di Ashes & Dust e Tom Russell non mi avesse entusiasmato con l’epopea western di The Rose Of Roscrae, i due album di East e Rateliff avrebbero probabilmente occupato le prime due posizioni della mia classifica (ma attenzione anche a Richard Thompson ed al suo Still). I due dischi in questione hanno in comune solo il genere, oltre che la bellezza, in quanto Rateliff è autore di un soul molto più diretto e strettamente imparentato con il rock (avete presente i Box Tops di Alex Chilton?), e fornisce delle interpretazioni molto più “muscolari”, mentre East (vero nome Michael Anderson) si ispira direttamente al suono degli Studios della Fame e della Stax, oltre a monumenti quali Otis Redding, Sam Cooke e Wilson Pickett, complice anche la sua voce negroide, impressionante se rapportata al suo aspetto fisico di bravo ragazzo della porta accanto.

Delilah è il suo esordio su major (ma i primi due album sono autodistribuiti ed introvabili, pare che neppure lui ne abbia una copia) e, anche se dura solo 32 minuti, è un grandissimo album di soul bianco come si usava fare a cavallo tra gli anni sessanta ed i settanta, un disco che al primo ascolto mi ha lasciato letteralmente di stucco. Buona parte del merito va senz’altro al produttore del 2015, cioè Mr. Dave Cobb, uno che pare infallibile (gli ultimi lavori di Chris Stapleton, Christian Lopez Band, Jason Isbell, Sturgill Simpson, A Thousand Horses,  Shooter Jennings e Corb Lund hanno lui in consolle), e che ha costruito attorno alla voce di Anderson un suono vintage che pare preso pari pari da un disco dell’epoca d’oro della nostra musica: il resto lo fanno però le canzoni, nove su dieci scritte da East stesso (in collaborazione con altri), una più bella dell’altra, che ad ogni ascolto rivelano sempre qualche sfumatura nuova, con fiati, organo, cori femminili ad impreziosire il tutto e melodie che nulla hanno da invidiare ai classici del genere.

Only You ci fa entrare già con le prime note nell’atmosfera del disco: uno squisito pop-soul guidato dalla voce “nera” di Anderson, pieno di sonorità classiche ed un motivo orecchiabilissimo, al quale i fiati ed i controcanti di Kirsten Rogers danno ulteriore colore. Satisfy Me è forse ancora meglio: ritmata, calda, avvolgente, con un suono che viene direttamente dai sixties, come se fosse una outtake di qualche oscuro soul man del periodo; Find ‘Em, Fool ‘Em And Forget ‘Em è l’unica cover del CD (un brano non molto conosciuto di George Jackson, un  grande artista nero della Fame), introdotta dal piano e da un lick di chitarra che fanno molto blaxploitation, un errebi di gran classe, suonato e cantato in maniera sopraffina.

Devil In Me è più lenta, ma il suono è sempre caldo, Anderson canta alla grande ed il feeling assume dimensioni quasi imbarazzanti (ed il ritornello è uno dei più belli del disco); la romantica All I’ll Ever Need è un delizioso country-got-soul (chi ha detto Jim Ford ed Eddie Hinton?), mentre con Quit You (scritta insieme a Chris Stapleton) è come se Sam Cooke fosse ancora tra noi (o forse è il tipo di canzone che Rod Stewart vorrebbe tornare a fare, ma proprio non ci riesce). L’intensa What A Woman Wants To Hear, guidata dalla chitarra acustica, è più sul versante cantautorale che su quello soul, ma l’esito è comunque eccellente, mentre con Lonely torniamo dalle parti di Otis, con una ballata di notevole impatto emotivo ed un ottimo tappeto sonoro di fiati ed organo. L’album si chiude con Keep The Fire Burining, rhythm’n’blues in puro stile Stax, e con la splendida Lying In Her Arms, un altro slow da pelle d’oca, cantato divinamente e con un arrangiamento geniale.

Un album per me semplicemente imperdibile: è uscito da pochi mesi e già non vedo l’ora di ascoltare il seguito.

Marco Verdi

Dal Canada A Nashville, Produce Dave Cobb! Corb Lund – Things Can’t Be Undone

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Corb Lund – Things That Can’t Be Undone – New West 

Ennesima produzione per Dave Cobb, nuovo “Re Mida” della scena musicale di Nashville, ma siamo dal lato buono della città e tutto quello che tocca Cobb diventa oro a livello qualitativo, se non da quello commerciale. Nessuno può negare che i suoi siano prodotti country, ma nell’accezione migliore del termine, genere musicale che si può applicare anche a Corb Lund, musicista canadese trapiantato nel Tennessee da parecchi anni, con alcuni album negli anni ’00 sotto l’egida di Harry Stinson, altro personaggio caro a chi ama l’alternative country, i New Traditionalists o come diavolo volete chiamarli, insomma quei musicisti che fanno vecchia musica, di quella buona però, rivestita di una leggera patina di modernità, rispettosa pure della tradizione meno bieca del country classico. Anche Lund ha fatto tutta la trafila, partenza ad inizio anni ’90 in Canada con una band punk-rock di Edmonton, gli Smalls, poco dopo nasce la Corb Lund Band che con il passare degli anni diventa gli Hurtin’ Albertans, dal nome del suo stato di origine, gruppo che è ancora oggi con lui e con cui continua a girare sia il suo paese di origine come gli States, dove è diventato un rispettato artista di culto, soprattutto grazie agli ultimi ottimi tre album pubblicati per la New West.

Proprio l’ultimo, Counterfeit Blues, era una sorta di rivisitazione del suo catalogo precedente, rivisto in una ottica honky tonk e rockabilly, con il tocco di classe di essere stato registrato ai gloriosi Sun Studios di Memphis. Con Cobb ci si sposta di nuovo a Nashville, ai Low Country Sound Studios, e il produttore, utilizzando la band di Corb Lund, realizza un album gustoso che ha gli ingredienti della migliore country music, senza troppi difetti, anzi nessuno: c’è honky tonk, country-rock, outlaw music, ballate da singer songwriter, qualche concessione al miglior pop d’autore (due o tre brani profumano persino di riff beatlesiani, Beatles che a loro volta avevano pescato a piene mani dalla grande tradizione sonora americana), con risultati piacevoli che, senza stravolgere la storia della musica, si ascoltano con estremo piacere. Dieci brani dal menu sonoro vario, ma sempre legati al country nelle sue diverse sfumature: Weight Of The Gun, ha un suono più leggero e pop, forse non consono alle atmosfere più buie del testo, ma quel leggero tocco country got soul della chitarra riverberata è cionondimeno assai piacevole, e qui si sente la mano di Dave Cobb. Run This Town, con il suono di chitarre acustiche ed elettriche, pedal steel e la batteria accarezzata con le spazzole è più classicamente country-rock anche grazie alle armonie vocali delicate di Kristen Rogers https://www.youtube.com/watch?v=M0d8gw1U9hE .

Alt Berliner Blues, sta tra i primi Beatles e Dylan, o se preferite Beatles plays Dylan, chitarre elettriche ben delineate e ricorrenti, un ritmo alla Tombstone Blues e un testo che tratta degli effetti della Guerra Fredda sull’economia americana, quindi perfetta aderenza tra testo e musica “Americana” https://www.youtube.com/watch?v=MNpAr9AN8pU . Alice Eyes è la classica canzone d’amore, scritta con il “collega”  texano Jason Eady, con la pedal steel di Grant Siemens che si prende ancora i suoi spazi e contribuisce al tono melanconico e delicato del brano, mentre Sadr City ha di nuovo quel giro di accordi vagamente beatlesiano che la rende più vicina a territori pop. Washed Up Rock Star Factory Blues è la risposta canadese al classic honky tonk country di Take This Job And Shove It, ossia Johnny Paycheck via David Allan Coe, godibilissimo anche grazie alla produzione di Cobb che evidenzia il suono dei singoli strumenti, una chitarra acustica qui, il basso che pompa là, una elettrica che oscilla tra “twang” e “chicken’ pickin” alla James Burton, la batteria incalzante e la voce “raddoppiata” di Lund https://www.youtube.com/watch?v=8sd7B10f1X8 . S Lazy H è la tipica folk song, solo voce e chitarra acustica, che racconta la sfortunata storia del ranch del titolo e del suo ultimo proprietario; Goodbye Colorado è una via di mezzo tra country-rock e outlaw music primi anni ’70, tra Lee Clayton e Michael Martin Murphy se volete, con la grintosa Talk Too Much che fonde ancora alla perfezione blues e british invasion, ancora Beatles ma anche Yardbirds per l’acidità delle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=7N3qHOKaW7g . In chiusura una sorta di talking country folk-rock che racconta senza troppi sentimentalismi, ma con il giusto pathos, la scomparsa della nipote di Lund, un Sunbeam, “raggio di sole” che non brilla più ma non viene dimenticato. Quindi diciamo non un capolavoro assoluto ed indispensabile, ma Corb Lund è uno di quelli bravi e questo Things That Can’t Be Undone si lascia apprezzare.

Bruno Conti

P.s. Ne esiste anche una versione Deluxe con DVD aggiunto: per una volta un dischetto ricco di sostanza, intervista di oltre 20 minuti, e una Acoustic Session con sei pezzi e altri venti minuti circa di musica.