Il Titolo Dice Tutto, E Il Contenuto Lo Conferma Alla Grande! Eileen Rose – Muscle Shoals

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Eileen Rose – Muscle Shoals Continental Song City/Eileen Rose CD/Download

Quando in una foto di copertina appare una immagine del vecchio edificio al 3614 Jackson Highway, che è l’indirizzo dello studio di registrazione a Sheffield, Alabama, dove si trova(va)no i vecchi Muscle Shoals, ora all’interno di una sorta di museo, ma tuttora funzionanti nel caso qualcuno voglia utilizzarli, ti si scalda subito il cuore, ancor di più se il disco si intitola Muscle Shoals. Se poi a pubblicarlo è una artista come Eileen Rose, non più giovanissima, ma ancora sulla breccia alla grande, il sorriso che ti si stampa sul viso si accentua: ammetto che avevo un po’ perso di vista Eileen Rose Giadone (italo-irlandese di origine, quindi “una dei nostri”), nativa dei sobborghi di Boston, ma da un po’ di anni trasferita a Nashville, Tennesse, dal “lato giusto” della città, quello dove brulica l’alternative country, la roots music, l’Americana, come volete chiamarla, ci siamo intesi. Se non mi sono perso qualcosa l’ultimo album Be Many Gone era uscito ad inizio 2014, ma la Rose aveva continuato a fare musica dal vivo accompagnata dagli Holy Wreck, altri quattro baldi “giovanotti” che la accompagnano pure nel nuovo CD (che esiste, non è solo download): The Legendary Rich Gilbert, così si autodefinisce, a chitarra, pedal steel e tastiere (in pista nella scena alternativa da inizio anni ‘80), Chris MacLachlan al basso e Steve Latanation alla batteria, con l’aiuto di Joshua Hedley al violino e Norma Giadone (parente?), alle armonie vocali.

Eileen ha una lunga storia alle spalle, iniziata quando si trasferì nel lontano 1991 nel Regno Unito a Londra, poi dopo una lunga gavetta, in una band alternative i Fledgling, autori di un solo omonimo album nel 1995, con una delle più brutte copertine mai viste, e poi all’esordio come solista nel 2000 con Shine Like It Does, dove era accompagnata dagli Alabama 3, disco che ebbe ottime critiche, e un altro nel 2002 sempre in UK, poi altri cinque dischi dopo il suo ritorno negli States avvenuto nel 2003, più alcune avventure collaterali. Facciamo un fast forward e arriviamo ai giorni nostri: la Rose decide di fare una puntatina in Alabama, dove negli studios citati prima si respira quella aria magica. Ne risulta un CD diviso in Side A e Side B (ebbene sì, ma non è un doppio) dove attraverso “9 New Songs “ e “8 Old Favorites”, ovvero vecchie canzoni registrate ex novo, delizia i nostri padiglioni auricolari. In possesso ancora oggi di una voce potente, vissuta e grintosa Eileen Rose apre le danze con She’s Gone che profuma, forse solo per questo brano, quasi inevitabilmente, di country got soul, tra Van Morrison e una Lucinda Williams più vivace, con la chitarra e l’organo di Gilbert a regalare pennellate di ottima musica, poi ribadite nelle folate rock di una He’s So Red, con chitarre ruggenti e ritmi mossi.

Atmosfere che poi si quietano nella inconsueta ma affascinante cover di Matte Kudasai, un pezzo dei King Crimson dell’era Adrian Belew (ebbene sì), trasformata in una squisita ballata che viaggia sulle ali di una sognante pedal steel, quasi alla Albatross di Peter Green, mentre la brillante ed euforica Get Up rimanda al Tom Petty più “campagnolo”, con Gilbert che imperversa alla grande con la solista https://www.youtube.com/watch?v=JYeUuwJOp1c , e Am I Really So Bad, tenera ed avvolgente, attinge dalla musica dell’anima tanto praticata in quegli studios. On Shady Hill tra country e rockabilly sprizza voglia di vivere e muovere i piedi, A Little Too Loud rimane sulla stessa collina ma invita i Creedence e i Blasters per un bel party https://www.youtube.com/watch?v=phbXeAPjnwA , Hush Shhh è quasi onomatopeica e in punta di piedi, silenziosa, ma con passione, parla la pedal steel. Il traditional The Auld Triangle, cantata a cappella in totale austerità per ricordare le radici irlandesi di Eileen Rose. La Side B dei vecchi brani rifatti per il ripasso, ma come nuovi, parte con la lunga e bellissima Shining dal primo album del 2000, qui devo dire molto Lucinda Williams, sempre meno “pigra”, ma parimenti chitarristica https://www.youtube.com/watch?v=g9ZgUsv5xdU , ottima anche la rootsy e sudista Walk The Jetty.

Good Man anche per gli sbuffi iniziali dell’armonica sembra un Neil Young d’annata virato al femminile, con weeping pedal steel, l’altalenante nei ritmi Trying To Lose You ha un che del Dylan anni ‘60 con un assolo ringhioso di Gilbert, la malinconica Stagger Home cantata con voce cavernosa, come se Marianne Faithfull avesse deciso di darsi al country in un pezzo scritto da Maria McKee, la divertente Queen Of The Fake Smile, quasi come dei Traveling Wilburys di nuovo al femminile, Old Time Reckoning, con Joshua Hedley al violino e un gran lavoro di Latanation alla batteria mi ha ricordato ancora la McKee, magari dell’era Lone Justice https://www.youtube.com/watch?v=GPAXDQ921XQ , con cui Eileen Rose condivide un timbro vocale ancora squillante benché maturo, e per concludere il jingle-jangle amaro della splendida Sad Ride Home https://www.youtube.com/watch?v=9tVzgeaCxvM .

Che dire, tutto molto bello, neanche un brano inutile: un nome da (ri)scoprire, esce, a seconda dei paesi, tra il 15 e il 22 maggio.

Bruno Conti

Il Ritorno Di Un’Artista Decisamente Trasformata. Maria McKee – La Vita Nuova

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Maria McKee – La Vita Nuova – Fire Records/Afar CD/Book

Era da diversi anni che non sentivo parlare di Maria McKee, per l’esattezza dal 2007 quando la cantante losangelena aveva dato alle stampe il discreto Late December. Dopo lo scioglimento dei Lone Justice, una delle più fresche e migliori rock’n’roll bands degli anni ottanta, Maria sembrava destinata ad una luminosa carriera solista, impressione confermata dal suo splendido secondo album You Gotta Sin To Get Saved, un’accattivante miscela di rock, pop, Americana ed errebi che fu uno dei dischi più riusciti del 1993 (nonché il suo lavoro più venduto). Life Is Sweet del 2006 non era malaccio, ma negli anni seguenti Maria si era persa un po’, con pochi album pubblicati e nessuno di essi che si elevasse da un grigio anonimato. In questi tredici anni di silenzio di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, e La Vita Nuova (titolo ispirato dall’omonima opera di Dante) ci restituisce una McKee completamente trasformata rispetto a quella che avevamo lasciato nel 2007. In questo tempo Maria si è spostata a Londra, ha letto molto, soprattutto i classici (non solo Dante ma anche poeti anglosassoni come W.B. Yeats e William Blake), ma principalmente è stata la sua vita privata ad essere sconvolta, dato che ha scoperto ben dopo la cinquantina di essere attratta in misura maggiore dalle persone del suo stesso sesso, cosa che le ha fatto cambiare radicalmente il modo di rapportarsi col prossimo e, non ultimo, l’ha portata a separarsi dal marito Jim Akin (ma non artisticamente, dato che l’ex consorte è indicato come produttore del nuovo lavoro).

La Vita Nuova è quindi il lavoro più personale di Maria dal punto di vista dei testi, con canzoni di chiara ispirazione letteraria che trattano dell’amore nelle sue varie sfaccettature, ma è per quanto riguarda la musica che il cambiamento è più radicale: siamo infatti alle prese con un disco di ballate molto discorsive (qualche detrattore potrebbe definirle verbose), canzoni dalla vena intimista e profonda ma con melodie decisamente poco immediate, lontanissime dalle atmosfere dei primi lavori da solista e soprattutto da quelle rock’n’roll del periodo Lone Justice. La McKee è un’artista nuova (ed il titolo del disco è perfettamente in tema), che più che da Tom Petty è influenzata dalle ballate classiche di Joni Mitchell e dalle atmosfere eteree di Kate Bush, ed i brani riflettono questa nuova visione musicale: pochi strumenti (suonati in gran parte da Maria stessa, più Akin al basso e Tom Dunne alla batteria), spesso coadiuvati da un’orchestra di 19 elementi che aggiunge pathos alle composizioni. Un album bello ma non facile, che se approcciato con la dovuta attenzione non mancherà di emozionare l’ascoltatore. L’iniziale Effigy Of Salt è una ballata morbida e molto discorsiva, cantata con voce squillante e con un sottofondo musicale che contrappone una base rock ad interventi orchestrali non invasivi. Page Of Cups si stacca un po’ dal resto del lavoro, in quanto è un folk-rock elettrico con un’aria vagamente sixties, un pezzo chiaramente influenzato dal fratello di Maria, Bryan MacLean, chitarrista, membro fondatore ed anche co-autore dei Love (proprio la leggendaria band guidata da Arthur Lee), scomparso negli anni novanta a soli 52 anni: la melodia è abbastanza complessa e poco memorizzabile, ma rimane comunque scorrevole.

Bella la pianistica Let Me Forget, una rock ballad dal motivo intenso e diretto, una strumentazione fluida ed il solito background a base di archi: un gran bel pezzo. I Should Have Looked Away è costruita esclusivamente intorno al pianoforte ed alla voce avvolgente di Maria, un brano a cui non manca il feeling nonostante la strumentazione ridotta all’osso, mentre Right Down To The Heart Of London inizia con la medesima struttura ma il suono si arricchisce subito con l’arrivo dell’orchestra per quasi sette minuti in crescendo, un pezzo che denota una notevole maturità compositiva. La title track è una ballata full band ancora con un motivo molto articolato, cantata alla grande e con un arrangiamento reso maestoso dagli archi; Little Beast è un intenso bozzetto per voce e piano, ed è seguito dalla lunga (più di sette minuti) Courage, una rock ballad che parte piano (voce, chitarra acustica, pianoforte ed un riff elettrico nelle retrovie) e a poco a poco si arricchisce di suoni ed anche il ritmo si fa cadenzato: indubbiamente uno dei pezzi centrali del CD. Ceann Brò è più sul versante folk che rock, con la linea melodica che ricorda certe cose della Mitchell, The Last Boy e I Never Asked sono ancora pianistiche e profonde (meglio la seconda, con un motivo migliore e meno ripetitivo), l’espressiva Just Want To Know If You’re Alright è invece a metà tra le atmosfere tipiche del disco e l’ispirazione che deriva ancora dal suono dei Love. L’album termina con la struggente Weatherspace, in cui vedo ancora tracce della bionda Joni, e con la lenta ed acustica However Worn, decisamente interiore.

La Vita Nuova è quindi un lavoro di alto spessore artistico, che ci fa scoprire il lato più profondo della personalità di Maria McKee: un disco bello ma non per tutti, e specialmente non per quelli che hanno ancora in testa il periodo Lone Justice e quello appena seguente.

Marco Verdi

Una Delle Migliori Nuove Voci In Circolazione. Sarah Shook & The Disarmers – Years

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Sarah Shook & The Disarmers – Years – Bloodshot/Ird

Ultimamente sembra di assistere ad un florilegio, a una fioritura di voci femminili, legate più o meno tutte a uno stile musicale, definito di volta in volta, per i loro album, roots music, alt-country, cow-punk, Americana, ma in fondo, secondo me, è sempre  il buon vecchio country-rock, che ogni tanto risorge dalle proprie ceneri, o forse non se ne è mai andato. A questa pattuglia di voci femminili, che annovera, tanto per fare qualche nome, ognuno più orientato verso una definizione o l’altra, Margo Price, Nikki Lane https://discoclub.myblog.it/2017/03/15/oltre-ad-aver-grinta-da-vendere-e-pure-brava-nikki-lane-highway-queen/ , Hurray For The Riff Raff, Jaime Wyatt, e alcune compagne di etichetta alla Bloodshot, come Lydia Loveless https://discoclub.myblog.it/2016/08/21/lydia-loveless-real-country-punk-bene/ , i Banditos, forse più virati verso il rock https://discoclub.myblog.it/2015/06/09/facce-raccomandabili-disco-molto-raccomandato-birmingham-alabama-via-nashville-banditos/ , l’australiana “naturalizzata” residente di Nashville Ruby Boots https://discoclub.myblog.it/2018/03/14/una-nuova-country-rocker-di-pregio-dalla-voce-interessante-parliamone-invece-ruby-boots-dont-talk-about-it/ , e, last but not least, perché forse è la migliore, o una delle migliori, Sarah Shook con i suoi Disarmers.

Sicuramente ce ne sono altre che ho dimenticato, ma è confortante che il genere (ma quale?) goda buona salute e sforni nuovi talenti: si diceva che quasi tutte sono legate alla country music, declinata in modo “moderno”, ma neanche più di tanto, perché se dovessi  paragonare Sarah Shook ad un nome del passato, il primo che mi salterebbe alla mente sarebbe quello di Maria McKee con i suoi Lone Justice, almeno quelli degli inizi, più selvaggi e meno inquadrati, e pure l’atteggiamento iconografico della Shook ricorda quello di Maria, volto molto giovane, imbronciato, la chitarra elettrica  imbracciata con piglio incazzoso, e una band dove spiccano due chitarristi di grande sostanza, l’ottimo Eric Peterson alla solista e il virtuoso della pedal steel Phil Sullivan.

Poi anche i riferimenti sono quelli giusti: ricordato che Sarah si scrive tutte le canzoni, nel  disco precedente, e primo della cantante, Sidelong,  c’era un brano intitolato Dwight Yoakam, uno che negli anni ’80 aveva fatto da ponte tra l’atteggiamento cowpunk e il classico sound di Bakersfield e poi dei cosiddetti “neo-tradizionalisti”, che, rivisitato, mi sembra viva in questo Years. Prendiamo il primo brano, la gustosa e deliziosa ballata mid-tempo Good As Gold, un pezzo che racconta le sfortunate vicende amorose dell’autrice, da sempre soggetto delle più belle canzoni country, il tutto con un piglio deciso, un suono solare dove le chitarre di Peterson e la pedal steel di Sullivan disegnano traiettorie sonore pregevoli su cui si muove la voce di Sarah Shook, una delle più belle in circolazione, calda, avvolgente, corposa,  decisa, inconsueta, matura, ben oltre i suoi anni, nettare per i padiglioni auricolari degli ascoltatori. Bellissima anche l’ironica e pimpante New Ways To Fail, giocata su un suono che rievoca i fasti del vecchio outlaw country, rivisto attraverso l’ottica e l’attitudine delle “nuove“ tendenze, moderna ed attuale il giusto, ma con rispetto ed amore per i suoni classici, e la pedal steel va che è una meraviglia, come se New Riders, Poco, Commander Cody, Flying Burrito non se ne fossero mai andati.

Tutti brani che sono al 90% meglio di quello che esce da Nashville oggi, quasi fossero solo lontani parenti del sound “plasticoso” della Music City: Over You è più briosa, con accenti rock e rimanda anche a cantanti come la mai troppo lodata Carlene Carter, voce spiegata e band sempre in grande spolvero, mentre The Bottle Never Lets Me Down è più buia e sinistra, dalle atmosfere sospese e affascinanti, con gli immancabili intrecci delle chitarre. L’incalzante Parting Words è un’altra piccola perla di equilibri sonori, mentre What It Takes ha un suono decisamente più cowpunk, con la voce della Shook che ricorda quella di Dolores O’Riordan. se fosse nata nel North Carolina come Sarah; Lesson mischia anni ’60 e roots-rock con il sound riverberato e grintoso dei “figli del punk”. Damned If I Do, Damned If I Don’t è puro honky-tonk, ma con una freschezza ed una verve invidiabili, ribadita in un’altra ballatona splendida come Heartache In Hell dove Sarah Shook sembra quasi una Lucinda Williams più country e meno dolente, e con la conclusiva Years che conferma tutto quanto di buono detto finora. Il talento c’è, le canzoni pure.

Bruno Conti  

Lydia Loveless – Real. Non Solo Country-Punk, E’ Un Bene?

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Lydia Loveless – Real – Bloodshot/Ird

La giovane cantante dell’Ohio Lydia Loveless (26 anni il 4 settembre) approda al terzo album per la Bloodshot (più un Mini e un disco pubblicato nel 2010, ma registrato anni prima e poi tenuto in sospeso per parecchio tempo) e rispetto al country-punk, all’honky-tonk e all’alternative country dei dischi precedenti, Somewhere Else del 2014 e Indestructible Machine http://discoclub.myblog.it/2011/09/13/giovani-talenti-lydia-loveless-indestructible-machine/, c’è una maggiore svolta verso un pop-rock più morbido, meditato e bene arrangiato, anche se, come dice lei stessa nella presentazione di questo Real, i suoi testi sono sempre “onesti, veri e reali” https://www.youtube.com/watch?v=OuoYv56HVpA (e questa volta dopo Steve Earle Chris Isaak, niente “omaggi” ad altri cantanti).Il produttore è pur sempre lo stesso dei dischi precedenti, il fedele Joe Viers, i musicisti  in gran parte anche, compreso il bassista Ben Lamb, ed essendo il marito si comprende pure. La voce rimane pimpante, calda ed espressiva, uno degli aspetti migliori della sua musica, anche le chitarre sono presenti in modo massiccio, però quasi tutti i musicisti utilizzati nell’album sono accreditati pure con l’uso delle tastiere, al posto del violino e del banjo del passato, creando in parte una impressione più levigata, patinata (il termine inglese slick rende bene l’idea) e anche se il disco ha avuto ottime critiche, fin ad ora una media dell’otto, o se preferite quattro stellette, si ha come l’impressione che questa svolta pop e radiofonica non sia più così aderente ai suoi infuocati e selvaggi concerti https://www.youtube.com/watch?v=0rkd4ou8v8M , dove la Loveless spesso si presenta come una vera forza della natura (a questo proposito esiste un bellissimo recente documentario su di lei, Who Is Lydia Loveless?) https://www.youtube.com/watch?v=D1aIaHL38A8 .

Potrebbe essere, ma non credo, che la sua passione per cantanti come Kesha, Katy Perry e Prince (?!?), dei quali Lydia ha eseguito (ed anche inciso) cover dei loro pezzi, abbia un po’ annacquato la sua grinta o forse per rimanere nell’industria discografica, sia pure quella indipendente rappresentata dalla Bloodshot, si richiede qualche compromesso. Sta di fatto che questo album mi sembra ripercorra, se non nelle voci quantomeno nell’approccio, le strade di Maria McKee, selvaggia e senza compromessi all’inizio, nei primi Lone Justice, o della Chrissie Hynde dei Pretenders, rispetto alle loro versioni successive più “leggere” e pop(olari). Magari è una semplice evoluzione naturale della sua musica, più matura e meno ruspante. Il disco al sottoscritto non dispiace per niente, ma rimpiango ogni tanto quelle belle schitarrate ed esplosioni di energia che caratterizzavano le prove precedenti, magari sarà solo un disco interlocutorio e in ogni caso, nell’ambito pop a cui appartiene, è sicuramente nettamente superiore alla media dei prodotti equivalenti. Canzoni come l’iniziale Same To You, una bella combinazione di chitarre twangy e pedal steel, un ritmo incalzante e la bella voce, sicura e dal timbro ricco e variegato, di una che conosce come trattare la materia rock, costituiscono un buon esempio del nuovo sound più radio-friendly, diverso dal passato ma comunque sempre valido, basta abituarcisi; Longer, con qualche tocco di tastiere in più, ha comunque un bel riff R&R, interessanti intrecci di chitarre cristallini e incantevoli armonie vocali per una incalzante costruzione sonora, in aria di 70’s rock https://www.youtube.com/watch?v=Pr4RZNDIJik . More Than Ever è una delicata mid-tempo ballad,dalla seducente melodia, con il suono delle Rickenbacker ad evocare quello della conterranea Chrissie Hynde, mentre Heaven, scritta con il chitarrista Todd May (che, in riferimento al brano precedente, ha pubblicato un disco che si chiama Rickenbacker Girls) è basata su un “grasso” ed insistente giro funky del basso e potrebbe ricordare la Stevie Nicks meno romantica e più carnale, altro riferimento ricorrente, pure in passato, delle influenze vocali di Lydia Loveless.

Anche Out On Love rimane in questo ambiente sonoro vicino ai Fleetwood Mac, di nuovo una ballata romantica, con la voce in primo piano e raffinati tocchi di chitarra e tastiere, ma niente ritmica, ad avvolgere il cantato https://www.youtube.com/watch?v=r8-Pl7u1wyM . Midwestern Guys è un’altra gagliarda canzone di impianto pop-rock, che quello che parzialmente perde in grinta acquista in un raffinato arrangiamento, dove la voce è comunque sempre la trave portante della costruzione sonora. Bilbao vira verso un alternative-indie-rock piacevole, forse troppo già sentito e manieristico, magari poco incisivo, con Europeans che è probabilmente la canzone che più si avvicina al classico rock’n’country degli album precedenti, con acustiche ed elettriche che si intrecciano piacevolmente sul cantato sempre gradevole ed in questo caso decisamente partecipe della nostra amica. Non manca il momento acustico della dolce Clumps, dove la voce è più vulnerabile e meno assertiva, per quanto sempre affascinante  https://www.youtube.com/watch?v=eraIC6hoYrw. La conclusione è affidata alla bella title-track Real, di nuovo affidata al cristallino e rintoccante suono delle chitarre e della pedal steel di Jay Gasper, altro perfetto esempio di “pure pop for now people” come direbbe Nick Lowe https://www.youtube.com/watch?v=Cmvr4sdoqOA , Vedremo cosa porterà il futuro, il talento c’è, le canzoni richiedono qualche ritocco qui e là, ma più o meno ci siamo.

Bruno Conti 

Recuperi Estivi. Un Gruppetto Di Voci Femminili 3: Se Questo E’ Country, Voglio Solo Dischi Come Questo. Elizabeth Cook – Exodus Of Venus

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Elizabeth Cook – Exodus Of Venus – Agent Love Records/Thirty Tigers

Ci sono dei dischi che al momento dell’uscita, o anche prima, ascolto e poi metto da parte, ripromettendomi di ritornarci sopra, ma poi tralascio per motivi vari, soprattutto di  tempo (tra Blog e Buscadero mi capita spesso di scrivere più di una recensione al giorno ed i dischi, per parlarne con cognizione, bisogna anche sentirli, e bene) oppure perché me ne dimentico e poi vengono superati da altre uscite. Nella parte centrale dei mesi estivi (ma anche a cavallo della fine dell’anno) faccio una serie di “recuperi”, con relative recensioni di dischi che mi erano parsi meritevoli e avevo magari solo segnalato brevemente nella rubrica delle Anticipazionim oppure avevo saltato brutalmente. In qualche caso mi domando anche come ho fatto ad essere così “pirla” da non averne scritto, perché sono veramente belli, questo Exodus Of Venus di Elizabeth Cook è uno di quei dischi. Come dico nel titolo del Post, se questo è un album di country li voglio tutti così: non è vero, è una iperbole, i dischi country, purché belli, continuano a piacermi, come peraltro quelli di qualsiasi altro genere, ma il disco in questione non lo è, anche se proveniente da una artista da sempre etichettata come country, che pur essendo nata a Wildwood in Florida, ha fatto il suo debutto alla Grand Ole Opry di Nashville nel lontano 2000, anno in cui usciva il suo debutto pubblicato a livello indipendente, The Blue Album, e poi sulla scia di quel disco l’album per la Warner Bros Nashville, Hey Y’All con tutta la solita truppa dei musicisti della Music City, alcuni molto bravi e il marito dell’epoca Tim Carroll, alla chitarra elettrica. Salvo venire mollata dalla major in questione in un battibaleno, come usa in quel mondo perfetto e plastificato.

Però la critica aveva apprezzato i suoi album, i colleghi pure, e nel disco del 2007, Balls, prodotto da Rodney Crowell,  e con una bella cover di Sunday Morning dei Velvet Underground (della serie non solo country, già allora), apparivano Nanci Griffith Bobby Bare Jr, e nel successivo Welder del 2010, prodotto da Don Was, oltre a Crowell di nuovo, c’erano anche Dwight Yoakam Buddy Miller. In seguito le cose hanno iniziato ad andare storte, è morto il padre (e poi anche la madre), ha divorziato dal marito, sono morti altri parenti, qualcuno del suo giro ha avuto problemi di dipendenza, si è incendiata la casa dei suoi genitori: una serie di fatti non ideali per continuare in serenità una carriera che pareva brillante. Eppure in questo periodo, anche senza dischi nuovi, David Letterman, un fan dichiarato, l’ha voluta tre volte nella sua trasmissione, la prima volta con Jason isbell a cantare brani di Townes Van Zandt, la seconda alle prese con un brano di Blind Willie Johnson dal suo Ep Gospel https://www.youtube.com/watch?v=D5NrGOpV5cA e la terza con una cover di Pale Blue Eyes, di nuovo dei VelvetIn mezzo alle sue vicissitudini ha pubblicato nel 2012 un mini album Gospel Plow, ha partecipato al disco dei Great American Taxi, al disco tributo a Jerry Jeff Walker di Todd Snider (che firma con lei uno dei brani del nuovo album), ha cantato con gli Hard Working Americans, con Seasick Steve Carlene Carter, oltre ad apparire nel tributo a Bob Wills con gli Asleep At Wheel e al disco Cayamo Sessions At Sea di Buddy Miller.

elizabeth cook exodus 1

Nel frattempo ha sistemato i suoi affari personali e familiari ed ha iniziato a registrare questo nuovo album, prima autofinanziato, e poi per la stampa e la distribuzione, con l’aiuto delle piattaforme di crowdfunding. Ed il disco che ne è uscito è splendido: con Matt Chamberlain alla batteria, Willie Weeks al basso, Ralph Lofton alle tastiere e soprattutto i due chitarristi, Dexter Green, che è anche il produttore e Jesse Aycock (degli Hard Working Americans) alle prese con lap steel e pedal steel che fa il Greg Leisz della situazione. Tra gli ospiti Kevn Kinney, Buddy Miller alla Mando Guitar e Patty Loveless, alla seconda voce, nel pezzo più country del disco, una Straightjacket Lover che parte lenta e poi diventa immediatamente una sorta di turbinante bluegrass-rock elettrico e vibrante degno delle migliori cose dei Lone Justice. Proprio al sound della prima Maria McKee, o di Lucinda Williams, però con un’altra voce, forse più gentile e impostata, ma pur sempre ricca di grinta, mi viene in mente si rifaccia questo Exodus Of Venus, con brani che hanno titoli come Dyin’ , Slow Pain, Broke Down In London on The M25 Methadone Blues, e influenze varie tra blues, swamp, rock, Americana, ma anche R&B, oullaw country, persino leggera psichedelia e garage, per un album che ha un suono tirato ed elettrico, veramente bello e corposo e una serie di canzoni di grande spessore, decisamente un CD tra i più belli usciti nel 2016 nel genere (se riuscissi a decidere che genere è, quindi diciamo in generale nell’ambito voci femminili)! 

Anche se la Cook è stata inserita in quel ennesimo filone del country e della roots music che è stato definito “Ameripolitan” (siccome non ce n’erano già abbastanza) in questo Exodus Of Venus direi che fa soprattutto rock. Dal primo riff di chitarra di Dexter Green nell’iniziale title-track East Of Venus si capisce dove andremo a parare, un brano bluesy, con tastiere e la lap steel minacciosa di Aycock, ben coadiuvate da quella stellare sezione ritmica, a creare un sound dalle atmosfere swampy, variegate; i testi dei brani, come ricordato poco sopra, sono amari e rancorosi, e anche la musica ha questo substrato sofferente, dove le sferzate elettriche del gruppo sono piccole vendette per Elizabeth; prendiamo la successiva Dyin, con un lavoro chitarristico di nuovo eccellente, e improvvise aperture di organo, mentre la nostra amica vocalmente ricorda quella Maria McKee citata in precedenza, i cui Lone Justice proponevano un country-punk con punte garage-psych qui replicate da una angolatura più meditativa, per restare in tempi più recenti, vicine alle atmosfere di Lucinda Willams. Ancora eccellente il groove rock di Evacuation, con le chitarre di Green e Aycock veramente assatanate nei loro interventi solisti, mentre l’Hammond B3 di Lofton lavora di fino sullo sfondo, e le armonie vocali di Laura Mayo aggiungono ulteriore profondità. Ci sono anche brani più riflessivi come Dharma Gate, ballata sognante e dall’arrangiamento avvolgente https://www.youtube.com/watch?v=5PSnDWMMMAU , o Slow Brain, canzone di impianto quasi psichedelico, graziata anche da un paio di assoli taglienti e cattivi della lap di Aycock e della solista dell’ottimo Green, che firma anche la quasi totalità dei brani con la Cook https://www.youtube.com/watch?v=VmJzfPGdWzI .

Di Straighjacket Love si è detto, il brano che mantiene i legami con il passato country di Elizabeth anche grazie alla chitarra twangy di Green e alla pedal steel di Aycock, mentre Broke Down On The London M25 è di nuovo un bel pezzo rock dal riff aggressivo, con un lavoro eccellente dell’organo e delle chitarre, con Methadone Blues, gemella ideale di una Heroin Addict Sister che appariva su Welder (devono essere le influenze di Lou Reed che emergono), un funky rock con l’eccellente lavoro del Fender Rhodes e dell’organo di Lofton che gli conferiscono sonorità sudiste e swampy, fino all’ingresso delle chitarre sempre protagoniste di interventi notevoli. Cutting Diamonds è il brano scritto con Todd Snider, un altra blues ballad “spaziale” e leggermente psych, degna dei migliori episodi dell’ultima Lucinda Williams (e per la gioia di chi non ne ama la voce, con una cantante dall’impostazione vocale più tradizionale), molto bella la parte centrale strumentale. Orange Blossom Trail, fin dal titolo, è uno dei rari episodi dove lo spirito outlaw country meglio si sposa con le attitudini più rock dell’album, esemplificate dai “soliti” splendidi interventi dei due chitarristi e delle tastiere. Per concludere in gloria il tutto rimane Tabitha Tuder’s Mama, altra bellissima ballata, dove sembra di ascoltare la Emmylou Harris di Wrecking Ball prodotta da Daniel Lanois, fragile e vulnerabile ma dallo spirito indomabile.

Bruno Conti

Nuovo Anno, Nuove Uscite! Il Ritorno Dei Lone Justice? Magari! This Is Lone Justice The Vaught Tapes

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Proseguiamo con alcune future uscite del 2014 (in attesa di parlare dei nuovi Mary Chapin Carpenter e Rosanne Cash, due delle mie preferite in assoluto, che ci delizieranno con i loro album il 14 gennaio). Partiamo oggi proprio da questo This Is, ovvero un dischetto inedito dei Lone Justice di Maria McKee (con Marvin Etzioni, Don Heffington e Ryan Hedgecock) http://www.youtube.com/watch?v=v9vTuth7xCc : nome completo, This Is Lone Justice: The Vaught Tapes, 1983, verrà pubblicato dalla Omnivore Recordings il 14 gennaio del nuovo anno. Si tratta di un demo, registrato in presa diretta ai Suite 16 Studios (bel nome!) di Los Angeles, nel dicembre del 1983, quindi due anni prima della pubblicazione del loro album omonimo di debutto, con l’ingegnere del suono David Vaught alla consolle, e che replicava, in gran parte, quella che era la loro set list dal vivo dell’epoca http://www.youtube.com/watch?v=h1SEsctQ0ag

Un misto di materiale originale e covers, tra cui, il classico di Johnny Cash and June Carter Jackson e Nothing Can Stop My Loving You scritta da George Jones and Roger Miller. 12 brani in tutto, di cui 9 mai pubblicati prima e qualcosa uscito su singolo all’epoca e in qualche riedizione e compilation successiva:

1. Nothing Can Stop My Loving You

2. Jackson

3. Soap, Soup And Salvation

4. The Grapes Of Wrath

5. Dustbowl Depression Time

6. Rattlesnake Mama

7. Vigilante

8. Working Man’s Blues

9. Cactus Rose

10. When Love Comes Home To Stay

11. Cottonbelt

12. This World Is Not My Home

All tracks previously unissued, except 6, 8 & 12.

after the triumph

Speriamo serva da stimolo perchè la McKee pubblichi qualcosa di nuovo, magari a nome suo, visto che l’ultimo album in studio da solista, Peddlin’ Dreams, risale al 2006. Per completezza, nel 2012, insieme al marito Jim Akin, ha partecipato, sia come attrice che come autrice delle musiche, ad un film After The Triumph Of Your Birth, che non deve essere stato un grande successo, anche se esiste sia per il download che per la vendita e a giudicare dal trailer mi sembra una mezza palla http://www.youtube.com/watch?v=GGjrW1S4NK0  (anche se è difficile capire da poco più di tre minuti), la musica, in grandissima parte lo è. Con la mia solita signorilità vorrei ricordare a Maria che  il tempo scorre e l’anno prossimo anche lei compie 50 anni, torna ti preghiamo!

Bruno Conti

Giovani Talenti. Lydia Loveless – Indestructible Machine

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Lydia Loveless – Indestructible Machine – Bloodshot/Ird

Quando mi hanno dato il “promo” di questo CD da ascoltare la prima cosa che mi aveva incuriosito era sapere se fosse parente o meno della più famosa Patty. Appurato che Lydia Loveless, nativa di Coshocton, una piccola località vicino a Columbus, Ohio, non ha nessun legame di parentela con la citata Patty, mi sono detto già che ci sono diamogli una ascoltata. E questo Indestructible Machine si è rivelato una gradevole sorpresa. La nostra amica, come si vede dalla foto, è giovanissima, 21 anni compiuti da poco, ma ha già la grinta e la classe di una veterana. Dotata di una pimpante e squillante voce e di un repertorio che come per molti colleghi alla Bloodshot mischia country e punk, “roots” e tradizione a sonorità rock, la giovane Loveless è stata definita da molti giornali e riviste (americani, qui ancora non pervenuta) come un incrocio tra Neko Case ed Exene Cervenka, una novella Shane MacGowan al femminile, con abbondanti spruzzate di Loretta Lynn e Jeannie C. Riley. Lei cita tra le sue influenze giovanili (cioè di ieri) Charles Bukowksi, Richard Hell e Hank Williams III (ma anche il nonno fa capolino tra le pieghe).

Confermo tutto ma, se devo essere sincero, il primo nome che ho pensato mentre ascoltavo il brano di apertura Bad Way To Go è stato quello di Maria Mckee e dei suoi Lone Justice ad inizio carriera (che fine ha fatto? E’ un po’ che tace). Con i dovuti aggiustamenti da allora ad oggi, ma la grinta nella voce, l’abilità, condivisa con i suoi musicisti, nel miscelare un banjo tipicamente country a velocita supersonica a delle chitarre elettriche sferraglianti come nemmeno Jason and Scorchers ai tempi d’oro, fanno del brano iniziale un viatico per un viaggio divertente tra le pieghe di un country-punk-rock di grande impatto.

Can’t Change Me con il suo riff alla London Calling e la voce sicura e matura di una cantante di grande appeal è persino meglio e le chitarre elettriche ruggiscono con il giusto abbandono del rock di qualità. More Like Them è power pop rock and roll irresistibile con le chitarre, elettriche e pedal steel, ancora sugli scudi e quella voce fantastica a narrare la solita storia dell’outsider come neppure Willie Nile avrebbe saputo fare in modo migliore.

Dopo un inizio così scoppiettante Lydia Loveless lascia spazio anche alla sua anima più country e How Many Women è una stupenda ballata con una seconda voce maschile e un violino insinuante nel corpo della canzone con un contrabbasso che si insinua tra le pieghe del ritmo, e la voce sempre magnetica. Il suo sestetto con Todd May alla chitarra solista, il banjo di Rob Woodruff, la pedal steel di Barry Hensley, il violino di Adrian Jusdanis, il basso slappato di Ben Lamb, e papà Parker Chandler alla batteria ha una perfetta conoscenza della materia e un brano come Jesus Was A Wino avrebbe fatto felice la giovane Emmylou Harris. Poi racconta anche storie divertenti come Steve Earle, titolo della canzone, giuro! Le avventure del “damerino” del paese a tempo di honky tonk, quello che insidia le ragazze, autonominatosi “lo Steve Earle di Columbus”. E anche magnifiche canzoni cantate a piena voce come Learn to say no con un ritornello che ti si insinua nel cervello e non se ne vuole andare, marchio della buona qualità.

I brani sono “solo” nove e quindi ci avviamo alla conclusione ma non prima di avere ascoltato Do Right un’altra scatenata sarabanda country-punk a velocità supersonica, pensate ai Pogues se avessero vissuto in America. Conclude Crazy, un’altra bellissima canzone che sembra incredibile provenga da una ragazza di soli 21 anni, se nella sua prossima carriera vorrà dedicarsi alla musica folk, questo brano accompagnato solo da chitarra acustica e violino è un punto di partenza magnifico. Ma attenzione, questa ragazza, a 19 anni, aveva già pubblicato un album (non so quanto reperibile), The Only Man per la Peloton Records da cui è tratta questa Back On the Bottle che ascoltate qui sotto.

Lydia Loveless, appuntatevi questo nome perché se ne parlerà nei prossimi mesi. Il mensile inglese Uncut (non ho ancora letto il nuovo numero) le ha dato quattro meritatissime stellette. Approvo!

Bruno Conti