40 Anni E Non Sentirli. Steeleye Span – Live At A Distance

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Steeleye Span – Live At A Distance – 2 CD + DVD – Park Records

A voler essere proprio pignoli sono 41 e sono gli anni di carriera degli Steeleye Span, festeggiati con la pubblicazione di questo mini cofanetto. Sono in ritardo, lo ammetto, ma ve ne parlo solo oggi in quanto il box è finalmente disponibile con facilità anche per il mercato italiano tramite la distribuzione Ird e comunque stiamo parlando di uno dei gruppi storici della prima onda del folk britannico che in questo periodo sembra godere di una seconda giovinezza.

Gli Steeleye Span sono stati tra i fondatori di quel movimento che fondeva il folk tradizionale dell’area britannica (quindi non solo irlandese o celtico) con un nuovo approccio e una strumentazione spesso anche elettrica: i “soci” fondatori del gruppo furono Ashley Hutchings, appena uscito dall’altro grande gruppo da lui fondato, i Fairport Convention, e due coppie Tim Hart e Maddy Prior e Gay & Terry Woods, quindi con due voci femminili, una formazione inconsueta anche per quei tempi di sperimentazioni. Questa formazione registrò un solo album Hark! The Village Wait, molto bello ma non tra i loro migliori e questa la dice lunga sulla qualità della produzione di quegli anni.

Per non farla troppo lunga (ma se volete me lo dite e ci ritorno in un prossimo Post) nel corso degli anni si sono avvincendati nella formazione, tra gli altri, anche Martin Carthy, Peter Knight, Bob Johnson, Rick Kemp, Nigel Pegrum, Liam Genockey e Ken Nicol con molti dei componenti che sono “andati e venuti” più volte nella formazione.

La formazione classica, quella che ha operato tra il 1971 e il 1975 (il periodo migliore), prima senza e poi anche con batterista in formazione, ha anche avuto un notevole successo commerciale: un singolo tratto da Below The Salt, forse il loro miglior disco, Gaudete ( o Gaudeitei come dicono loro), cantato in latino!, ha raggiunto i top 20 della classifica inglese in quel periodo natalizio. Addirittura All Around My Hat, tratta dall’album dello stesso titolo è arrivata fino al numero 5, il produttore era quel Mike Batt che oggi si occupa della carriera di Katie Melua.

Tra le curiosità, come non ricordare la partecipazione all’ukulele di Peter Sellers (peraltro un virtuoso dello strumento) nel brano New York Girls tratto da Commoners Crown uno dei loro migliori che comprende la lunga, strepitosa ballata Long Lankin.

In ogni caso il gruppo, tra alti e bassi (e lutti, Tim Hart è morto proprio la vigilia di Natale dello scorso anno), ha continuato la proprio carriera, fondando una etichetta, la Park Records, che pubblica sia il loro materiale, quello di altri artisti storici (Jacqui McShee degli amici-rivali Pentangle) e di talenti emergenti, Kirsty McGee, la figlia di Rick Rose Kemp, la grande suonatrice di cornamusa Kathryn Tickell, i Rock, Salt & Nails: l’ultima pubblicazione degli Steeleye Span (ma più o meno in contemporanea ne è uscito anche uno nuovo in studio, Cogs, Wheels And Lovers) è questo triplo dal vivo che raccoglie, nel doppio CD, materiale registrato in vari tour tra il 2002 e il 2008 e nel DVD un concerto del 2006 all’Hove Centre. Il materiale è differente tra i due formati, quindi molto interessante.

La formazione è quella con Prior, Kemp, Knight, Genockey e Ken Nicol (ex Albion Band, in questi gruppi le storie sono intricate e intrecciate tra loro), la più longeva del gruppo e il materiale non sfigura certo con quello di molti gruppi attuali. Anche se gli anni passano per tutti la voce di Maddy Prior rimane una delle più belle di questo panorama musicale e anche gli altri “vecchietti” si fanno rispettare.

Dall’iniziale accapella Who’s The Fool Now alla travolgente Two Magicians (tratta dal classico Now We Are Six), una giga elettrica con un testo che è una sorta di filastrocca ma che è assolutamente irresistibile, provate a farla sentire alla vostra fidanzata, a vostra madre, se avete bimbi piccoli in casa, animali domestici, dopo poche note vi ritroverete tutti a danzare con cani, gatti, bimbi e umani al ritmo di questa canzone che è deliziosa e senza tempo, oggi come 36 anni fa. Tra il repertorio più recente ci sono la suite Ned Ludd, Lord Elgin e Bonny Black Hare tratte dall’ottimo Bloody Men del 2006 (continuano a fare bei dischi, per chi ama il genere ma anche per chi vuole avventurarsi in territori celtici di qualità).

Non mancano classici come il tradizionale The Blacksmith che era nel primo album del 1970 o inediti come lo strumentale The Neck Belly Reel dal ritmo travolgente e con il violino di Peter Knight in evidenza.

Sia il CD che il DVD si concludono con il brano The Song Will Remain che è l’equivalente di Meet On The Ledge il brano simbolo dei Fairport Convention.

Questa è The Three Sisters che trovate sia nel Cd che nel Dvd, tra le migliori.

Bruno Conti

Ruth Gerson 1 – This Can’t Be My Life

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Ruth Gerson – This Can’t Be My Life – Wrong Records (pre-release uscita 20-7)

E’ un po’ di giorni che ci giro intorno, in ballottaggio con Mellencamp (23-8, troppo presto), il nuovo Mark Olson (27 luglio, anche questo prestino), Ronnie Earl (14 agosto, anche qui non ci siamo), pensavo anche al doppio dal vivo degli Steeleye Span (con relativo DVD), quello è uscito da tempo anche se è arrivato nelle nostre lande in questi giorni,perché non il nuovo Cyndi Lauper che fa blues? Poi alla fine ho deciso per questo, gli altri prossimamente.

Questo è uno dei classici dischi che ci sono e non ci sono, nel senso che l’uscita ufficiale è fissata per il 20 luglio, però sul suo sito e ai concerti lo vende già, anzi ce n’è pure un secondo, Deceived, di cover che è anche più bello ma andiamo per ordine cronologico.

Lei è una della cantautrici americane più brave come hanno testimoniato tra gli altri il San Francisco Chronicle e il New York Times, i giornali delle due aree geografiche dove ha vissuto, ma anche il Buscadero l’ha eletta tra le sue beniamine e in Italia ha una sorta di patria di elezione, nel 1997, nel periodo di sua massima popolarità, sempre a livello di “culto”, ha duettato anche con Massimo Bubola nel brano Mio Capitano tratto da Mon Tresor.

Come molti musicisti tra i più bravi per sopravvivere, oltre al canto, deve fare anche altri lavori, nel suo caso insegna, musica part-time nel primo periodo della sua carriera e a tempo pieno nei sei anni che sono intercorsi dall’uscita del precedente album Wake To Echo. Nel frattempo sono successe molte altre cose nella sua vita, un divorzio e il fatto di essere diventata una mamma single hanno influito sul suo stile di vita. Questo ritorno alla musica e ai concerti è coinciso con l’invenzione di tale Singinbell TM un bio-feedback device che aiuta il diaframma nella respirazione durante il canto, non chiedetemi come funziona ma pare che funzioni perchè grazie ai proventi di questo marchingegno ha potuto permettersi di tornare a fare la musicista e supportare economicamente la sua famiglia.

Questo album, This Can’t Be My Life era stato registrato, masterizzato e stampato, in una parola pronto, già nel 2007, poi il diavolo ci ha messo lo zampino ed è stato rinviato. Eccolo qua e le mie perplessità riguardano, in parte, il suono del disco: il produttore dell’album è tale Nic Hard (che ha prodotto The Bravery e Jesse Malin), ma è l’additional recording & mixing di Daniel Wise, collaboratore di Scissor Sisters e Secret Machines che non mi convince del tutto. Il tutto in quel di NYC prima del recente trasferimento nella Bay Area.

Per togliere i dubbi, trattasi comunque di musica che nel suo ambito è meglio del 90% di quello che trovate in giro. Solo che dal rock cantautorale del passato siamo passati a un pop-rock più di maniera, insomma da un incrocio tra Natalie Merchant e Patti Smith con un tocco della giovane Grace Slick come era stata definita siamo passati ad un incrocio tra Fiona Apple, Tori Amos e Sarah McLachlan con una spruzzata di Florence & The Machine. Sempre rispettabile ma non è la stessa cosa.

Comunque, come dicevo, il successivo Deceived ha già sistemato le cose, e questo album contiene in ogni caso dei brani di notevole spessore, è cantato con grande partecipazione, visti gli argomenti autobiografici trattati, e lei ha sempre una gran voce.

Diciamo che la parte iniziale e quella finale sono quelle migliori, in mezzo cala un po’ la qualità: Fresh Air è una bella ballata pianistica che ricorda le cose migliori di Fiona Apple, cantata con voce sicura e autorevole. This Can’t Be My Life, sempre pianistica, è più ritmata, un bell’arrangiamento e belle melodie che valorizzano la sua voce. Bulletproof, pop e orecchiabile non mi entusiasma. Anche Stay With Me con troppe tastiere e batteria elettronica non mi fa impazzire, ma non è dissimile nel suono a cose tipo Florence & The Machine e quindi magari mi sbaglio. Someday Soon veleggia sempre su questa sonorità pseudo-moderne senza infamia e senza lode. Don’t Go (for ‘em) è una ulteriore variazione sul tema (magari la useranno per qualche spot di automobili giapponesi, molto gettonati questo tipo di brani). Does Your Heart Weep è una ballatona con piano e organo, che ti prende al cuore, semplice ma efficace,contrariamente a quanto si possa pensare non è una canzone d’amore ma parla di guerra, in ogni caso molto bella con la voce molto compartecipe e perfetta, da una insegnante di canto, di grande talento, non potresti aspettarti di meno. Hazel non sarebbe male ma ha sempre quell’elettronica leggermente fastidiosa.

Anche You Lie avrebbe fatto ben altra figura con un arrangiamento rock tipo i vecchi album. Black Water viceversa è ancora una bella ballata pianistica in crescendo di notevole appeal mentre per la conclusiva Take It Slow hanno addirittura scomodato le Heart di Dreamboat Annie, lo spirito è quello, acustico ma con l’anima rock che c’è ma in questo album rimane un po’ nascosta. Disco di transizione ma comunque rispettabile, il sesto della sua discografia, il settimo tra poco, anche su questo Blog.

Per chi non l’avesse mai vista o sentita.

Bruno Conti

Uno Ne Pensa E Cento Ne Fa. Robert Randolph & The Family Band – We Walk This Road

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Robert Randolph & The Family Band – We walk This Road – Warner Bros Records

Nel titolo non mi riferisco ovviamente al povero Robert Randolph ma a T-Bone Burnett, che in questo periodo sta producendo zilioni di dischi (tra i prossimi, annunciati, anche il secondo capitolo Robert Plant/Alison Krauss e la strana coppia Elton John-Leon Russell), e son tutti belli.

Il disco, annunciato da un anno, è uscito oggi, l’ho sentito una volta, poi ci ritorno con calma, comunque molto bello. Una sorta di storia della musica americana dalle origini a John Lennon, Bob Dylan e Prince con la partecipazione di Ben Harper, Jim Keltner e Leon Russell, tra gli altri.

Se vi state chiedendo chi cacchiarola sia questo Robert Randolph è una sorta di Jimi Hendrix della steel guitar. Potreste averlo visto nei DVD della serie Crossroads Guitar Festival di e con Eric Clapton. In caso contrario, controllare please.

Bruno Conti

Grande Voce, Grande Disco! Janiva Magness – The Devil Is An Angel Too

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Janiva Magness – The Devil Is An Angel Too – Alligator Records

Se questa signora non è una donna forte non saprei di chi si possa dirlo! Se la storia della vita di Mary Gauthier, mirabilmente raccontata nell’album The Foundling vi ha sorpreso e commosso, quella di Janiva Magness, per certi versi, è ancora più straordinaria. Nata in una famiglia working-class giusto nei sobborghi di Detroit, ha avuto una infanzia che definire tosta è riduttivo, con entrambi i genitori che erano degli alcolisti, la mamma soffriva anche di depressione e la piccola Janiva a sei anni ha subito anche delle molestie sessuali. Poco dopo il suo tredicesimo compleanno la madre si è suicidata e a qualche mese di distanza la ragazzina è scappata di casa per andare a Berkeley in California dove ha vissuto come una senzatetto e ha sviluppato una dipendenza da droghe. A quattordici anni ha tentato il suicidio un paio di volte, è stata tre volte in un ospedale psichiatrico e in 12 diversi “istituti di recupero” compreso uno per ragazze con problemi mentali. A 16 anni il padre si è, a sua volta, suicidato e lei ha avuto un bambino che ha poi dato in adozione. A 17 anni, a dimostrazione che non tutte queste storie hanno un finale tragico è stata adottata da una madre single di cinque bambini e da lì è nata la sua rinascita.

Ovviamente, come in tutte le storie che si rispettano, la musica ha svolto un ruolo fondamentale nella vita di Janiva Magness, fino a farla diventare una delle più brave e rispettate cantanti blues e soul americane, vincitrice di moltissimi premi e rispettata dalla critica di tutto il mondo. Mi è capitato più volte di recensire positivamente i suoi dischi per il Buscadero ma non quest’ultimo The Devil Is An Angel Too, che è forse il più bello dei nove che ha fatto, quindi due parole le merita. Dimenticavo…per chiudere la storia: dopo sedici anni di separazione la nostra amica ha stretto di nuovo i rapporti con la figlia data in adozione, musicista a sua volta, che l’ha resa nonna.

Ma veniamo a questo disco, il secondo per la gloriosa Alligator: al suo fianco c’è l’immancabile Jeff Turmes, chitarrista, bassista e all’occorrenza sassofonista nonchè marito che cura la parte musicale ma non la produzione del disco in questo caso, non ci sono nomi noti o musicisti di culto ma una serie di ottimi professionisti che contribusicono alla riuscita di questo album e, soprattutto, una serie di ottimi brani scelti o composti per l’occasione, con grande cura.

Si parte con la notevole title-track, The Devil Is An Angel Too, dove una eccellente tessittura chitarristica, con una slide deragliante e la sezione ritmica molto variata regalano un’atmosfera unica e bluesy a questa ottima composizione di Julie Miller.

I’m Gonna Tear Your Playhouse è uno stratosferico brano, un classico della soul music, che molti ricordano nella trascinante versione del grande Graham Parker, in una devastante versione accelerata, ma era anche uno dei cavalli di battaglia della grandissima Ann Peebles, una delle “divine” del soul, ebbene la versione di Janiva Magness non sfigura affatto davanti a simili predecessori, anzi la voce sale verso vette notevoli e le chitarre e i cori emozionano; per completezza ricordo anche una bella versione di Paul Young, ebbene sì! Rimanendo in questo versante soul-blues anche Slipped, Tripped And Fell In Love (sempre dal repertorio della Peebles, ma l’ha scritta George Jackson) fa la sua notevole figura, con Jeff Turmes che si divide tra chitarra e sax baritono con grande versatilità e la Magness che dà libero sfogo alle sue notevoli capacità vocali.

In I’m Feelin’ Good dall’inizio accapella per sola voce si cimenta addirittura con uno dei classici di Nina Simone, ancora una volta con ottimi risultati, molto bello l’arrangiamento con piano, organo farfisa e una chitarra acustica spagnoleggiante in evidenza. Weeds Like Us è un delta blues atmosferico molto raccolto scritto dal marito Jeff Turmes, mentre Walkin’ In The Sun è una solare (come da titolo) soul ballad resa famosa nei tempi che furono da Percy Sledge, molto ritmata ti stimola il movimento del piedino con il suo walkin’ bass (esatto sempre l’ottimo Turmes che lascia l’incombenza della chitarra all’altrettanto bravo Dave Darling).

Se End Of Our Road vi risveglia ricordi di tematiche Motown non vi sbagliate, l’hanno scritta Strong & Whitfield quelli dei successi dei Temptations e la cantavano Gladys Knight & The Pips, mentre Save Me è una ballatona quasi country scritta da Sherrill & Nicholson quelli che scrivono molti dei brani di Delbert McClinton. I Want To Do Everything For You è un trascinante errebì scritto da Joe Tex con un notevole assolo di chitarra di Jeff Turmes. Your Love Made A U-turn è un altro brano molto ritmato, uscito dalla penna dell’appena citato McClinton, ancora con Turmes sugli scudi, la coppia funziona alla grande. Cosa manca? Homewrecker, scritta da Nick Lowe, uno degli episodi più cupi, dall’arrangiamento quasi gospel che gli regala una intensità incredibile e lo rende tra i migliori di questo album. Per concludere, l’altro brano originale firmato da Turmes, Turn Your Heart In My Direction, una ballata romantica con gli archi, molto bella anche questa e fanno dodici brani ottimi su dodici. Come si usa dire con espressione forse infelice e un po’ prosaica, ma molto efficace, come del maiale non si butta via nulla anche qui non c’è nulla da scartare.

Bruno Conti

Adesso Lo Sapete Parte XII. Strade Blu 2010 Folk E Dintorni

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Questi che vedete effigiati qui sopra, sono Jimmie Vaughan & Tilt-A-Whirl Band con Lou Ann Barton, Dave Alvin & The Guilty Women e i Dirt Music ovvero Chris Eckman, Chris Brokaw e Hugo Race. Casualmente sono i primi tre gruppi che si esibiranno il 15, 16 e 17 luglio nell’ambito di Strade Blu 2010.

Visto che ho fatto trenta faccio trentuno, l’altro giorno nel parlarvi degli Slummers e delle molteplici attività di Antonio Gramentieri mi ero dimenticato di citare che è anche il direttore artistico di Strade Blu una manifestazione che si tiene tutti gli anni in Romagna,

Questo blog, come molti sanno, è tenuto da un milanese ma non ci vedo nulla di male a segnalare anche manifestazioni che si tengono a quei 300 chilometri da Milano. In fondo non ci vuole molto, prendete la macchina o il treno o il vostro mezzo di locomozione preferito e (più o meno in un attimo) siete lì, o magari, peggio ancora, siete già lì in vacanza e non lo sapete!

Nella mia funzione (che assumo nei post Adesso Lo Sapete) di alter ego del Numero Uno, e quindi non più giovanissimo, io non mi sposto moltissimo ma in passato ho dato: ricordo ancora con piacere l’11 aprile 1981, Hallenstadion Zurigo, Bruce Springsteen & The E-Street Band, con uno sparuto manipolo di prodi italiani, posso dire io c’ero, e ho visto quindi lo Springsteen dei tempi d’oro prima della fama interplanetaria, ma questa è un’altra storia per un’altra occasione.

Tornando a Strade Blu un po’ di pubblicità gratuita non fa male a nessuno e quindi, se andate qui http://www.stradeblu.org/ trovate il programma provvisorio dell’edizione 2010. Giusto per ingolosirvi un poco!

Alla prossima.

Bruno Conti

Anche Lui Di Nome Fa Conor. The Villagers – Becoming A Jackal

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The Villagers – Becoming A Jackal – Domino/Self

Mi vedo costretto a ribadire (ma con piacere) un concetto espresso qualche tempo fa: sarà che la case discografiche (major e non) sono talmente disperate da pubblicare qualsiasi cosa gli venga proposta, sarà che l’acqua nei rubinetti è addizionata da qualche sostanza proibita “euforizzante, sta di fatto che ultimamente escono sempre più spesso dischi di spessore e contenuto “inconsueti”, dagli Slummers di ieri, passando per John Grant, da Jesca Hoop a Anais Mitchell, lo stesso CD doppio della Natalie Merchant, Susan Cowsill, Carrie Rodriguez, lo stesso Micah P.Hinson, ma ne sto citando, alla rinfusa,  alcuni di cui vi ho parlato in tempi più o meno recenti, sembrano ritrovare il gusto per la ricerca di sonorità meno artefatte più acustiche, o elettriche, a seconda dei casi, un ritorno a una sorta di neotradizionalismo come ribellione ai cantanti da “talent show” o ai “campionatori” selvaggi che si fanno belli con i (vecchi) successi degli altri.

Mi sembra che uno dei punti di svolta (ma era già in corso) sia questo ritorno della musica “Folk” nell’accezione più ampia del termine iniziata da gruppi come i Low Anthem, i Deer Tick, i Mumford and Sons in Inghilterra… Ecco che ci siamo arrivati, l’ho presa un po’ lunga ma ci siamo arrivati – dimenticavo,  anche alcuni “grandi vecchi”, tipo Robert Plant con Alison Krauss o Peter Wolf, stanno sfornando fior di dischi e che dire di John Mellencamp, il nuovo Better Than This è bellissimo, mi prudono i polpastrelli dalla voglia di scriverne (l’ho sentito, l’ho sentito!) ma esce il 24 agosto mi sembra un po’ prestino, va bene l’elasticità dei Blog ma ora che esce se ne sono dimenticati tutti, fine della digressione – dicevo del nuovo movimento folk che conta tantissimi altri nomi che non citeremo. Una volta nell’ambito folk era compresa gente come Dylan, Joni Mitchell, Eric Andersen, Simon & Garfunkel che poi inglobavano altri mille generi nella loro musica: proprio Mumford and Sons, per lo spirito e l’attitudine e Simon And Garfunkel, per la musica sono i due nomi che mi sentirei di accostare a Conor O’Brien, irlandese ventisettenne (ma dalla foto ne dimostra molti meno), factotum di questi Villagers.

Nel senso che fa tutto lui: con pazienza certosina, uno alla volta, ha registrato lui tutti gli strumenti, archi e flicorno esclusi, ottenendo un risultato sorprendente, un disco che profuma di folk, rock da camera, musica tipicamente britannica dell’epoca dorata a cavallo tra Sessanta e Settanta, ma anche brillanti melodie vicine al sound di Paul Simon o Neil Young, e tra i contemporanei il geniale Paddy McAloon dei Prefab Sprout o i Divine Comedy, ma anche i canadesi Arcade Fire o, un altro che di eccessi sonori, se ne intende, Rufus Wainwright. Nei brani più intimisti l’intenso e lennoniano Elliot Smith, ma se ne potrebbero citare altri, tutta gente brava, il risultato finale, per quanto, ovviamente, derivativo, allo stesso tempo è originale e assai intrigante.

Dall’iniziale “sinfonietta” alla Scott Walker di I Saw The Dead, complessa e molto arrangiata, che ci riporta anche ai fasti del Nick Drake o di David Ackles, due che archi e arrangiamenti complessi li maneggiavano con cura e grande arte si passa a Becoming A Jackal, un brano che ricorda il Paul Simon dell’epoca del sodalizio con Garfunkel, armonie vocali, sempre di O’Brien le voci, che si intrecciano con chitarre acustiche, tastiere e una sezione ritmica molto variegata e inventiva, in un suono al contempo deliziosamente pop e raffinato.

Ship Of Promises con la sua andatura mossa mi ha ricordato i crescendi voluttuosi dei Mumford and Sons, con la sua voce che si carica di eco, ora epica ora secca, la batteria galoppante, un organo avvolgente, e mille altri strumenti che strato dopo strato arricchiscono un suono geniale.

The meaning of the ritual, con archi e corno inglese (avevo detto flicorno, correggo) è una folk song cameristica, dolce e malinconica nella migliore tradizione dei folksingers britannici. Home, con il suo leggiadro call and response con un coro di tanti piccoli O’Brien è un altro delizioso esempio della sua classe cristallina, le improvvise aperture strumentali con quei crescendi raffinatissimi sono tocchi di genio. Ma non ne saprei scartare una: That Day con i suoi continui cambi di ritmo, colpi di timpano, acustiche arpeggiate, piano e voci che si sovrappongono continuamente, in quel giusto equilibrio tra pop e canzone d’autore. Non dimenticate che questo disco è andato come un siluro alle vette delle classifiche irlandesi, indie ma anche mainstream e lì continua a rimanere.

The Pact (I’ll Be Your Fever) è un allegro brano pop tra un Simon & Garfunkel d’annata e i Prefab Sprout meno intimisti, i coretti e la voce di O’Brien tra falsetto e vibrato sono una gioia per le nostre orecchie e il ritmo ti fa muovere il piedino inesorabilmente.

Ripeto sono belle tutte: Set The Tigers Free, la malinconica Twenty-Seven Strangers e To be Counted Among Men ma un’ultima citazione la vorrei dedicare a Pieces, un altro brano dal crescendo irresistibile cantato in un falsetto quasi da crooner che lentamente cresce fino a “diventare veramente uno sciacallo”, come recita il titolo dell’album, con un ululato liberatorio e sorprendente che ti diverte e ti intriga per la follia improvvisa che ne scaturisce, fantastico.

Piccoli talenti (nel senso di statura) crescono: da Jools Holland in solitaria e il video di Becoming A Jackal.

P.s L’altro Conor era Oberst, quello dei Bright Eyes, altro grande “nuovo” talento.

Bruno Conti

Peccato Non Parlarne!The Slummers – Love Of The Amateur

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The Slummers – Love Of The Amateur – Blue Rose Records

Sono stato alla finestra un po’ di giorni: mi sono detto, ne parlerà qualcuno, è troppo bello per tacerne, e invece, passa un giorno, passa l’altro e non succede nulla, quindi è d’uopo parlarne e in termini più che favorevoli.

Di cosa si tratta innanzittutto?

E’ il nuovo gruppo di Dan Stuart, l’ex leader dei Green on Red, ma dire così è riduttivo, in effetti si tratta di una joint venture italo-americana con Stuart che viene affiancato dal produttore e musicista JD Foster, qui in veste di musicista e cantante (sorprendente), i due compongono musica e parole, suonano le chitarre e si fanno accompagnare dal batterista e percussionista Diego Sapignoli e dal polistrumentista e produttore di questo disco Antonio Gramentieri, che rappresentano il lato italiano di questa formazione.

A parte Stuart che tutti conoscono oltre che per i Green On Red per il progetto Danny And Dusty, gli altri, due parole le meritano: JD Foster in Italia è conosciuto soprattutto per avere prodotto Da Solo di Vinicio Capossela, ma ha collaborato anche con Calexico, Richmond Fontaine, Richard Buckner, Giant Sand, Green On Red, gli italiani Second Grace di cui ha prodotto il secondo album in uscita a dicembre e tanti altri musicisti di qualità. Diego Sapignoli suona in molti dei progetti di Antonio Gramentieri, Slummers inclusi, mentre quest’ultimo ha suonato la chitarra (e altro) con una miriade di musicisti, Howe Gelb, Steve Wynn, Chris Cacavas, Hugo Race, Kellie Rucker oltre a gran parte di quelli citati per Foster. Inoltre ha prodotto questo Love Of The Amateur.

Il sound è quanto di più eclettico ci si possa aspettare: partendo da un fondo di roots e Americana, si toccano un po’ tutti i generi dello scibile rock.

Dal rock chitarristico e dissonante dell’iniziale Rift valley evolutionary blues dove Dan Stuart estrae dall’ugola una tonalità veramente “nasty” quasi alla Beefheart, le chitarre ululano e i ritmi sono feroci, nel battito di un ciglio si passa alla melodica Lost One Out dove i Beatles psichedelici ma a guida Harrison incontrano la musica pop in uno strano connubio futuribile ma rivolto ai suoni del passato, non si è capito? Una bella canzone pop molto melodica ma anche raffinata, va bene così?

East Broadway è una bella ballata malinconica, molto coinvolgente, U2 anni ’80, One Tree Hill ma con Neil Young alla voce, evocativa e di grande qualità. In questi brani, come nella successiva All About You, canta anche Jd Foster, ma dove l’avevano tenuto nascosto tutti questi anni, bravissimo! Tra l’altro All About You è un’altra ballata alt-country di una bellezza stravolgente.

Bowery Boy con un riff alla Keith Richards era Exile ci riporta al Dan Stuart più ribaldo dell’era Green on Red, con un vibrafono per sovrappiù ma le chitarre dominano sgraziate e distorte come rock comanda. Tell Me I’m Crazy è il più bel pezzo psichedelico che Tom Petty non abbia mai scritto, armonie vocali celestiali, morbidezze pop deliziose, chitarre in excelsis, una piccola goduria sonora.

Ironbound, acustica e pastorale sempre con la bella voce di Foster in evidenza è un ottimo esempio del folk desertico frequentato anche da Calexico e Giant Sand, molto raffinata e delicata. Who knows fa rivivere il vecchio suono Paisley Underground a sua volta figlio della psichedelia californiana dei Quicksilver, pane per i denti di un Dan Stuart di nuovo ispirato e che nella gagliarda Bread And Water addirittura riesuma il migliore spirito sonoro dei gloriosi Green On Red, al top della loro forma. In mezzo, Jd Foster ci regala un’altra perla di psichedelia pop sognante con l’ottima Finally… dagli arrangiamenti raffinatissimi.

Another Manhattan è una ballata notturna vagamente jazzata non particolarmente memorabile mentre la conclusiva Waiting For You mi pare il brano migliore di un album già di notevole consistenza, un gran finale con un brano ancora una volta dalle melodie avvolgenti e memorabili.

Una bella sorpresa, un peccato non comprarlo.

Bruno Conti

Leggere Sempre Bene Le Note. Grace Potter And The Nocturnals

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Grace Potter And The Nocturnals – Grace Potter And The Nocturnals

Non così bello come l’avevo descritto, rimane tutto vero quello che ho detto di lei, ma l’altra Grace non avrebbe mai scelto come produttore Mark Batson: come direbbe Tonino Di Pietro che c’azzeccano con lei Dr.Dre, 50 Cent, Eminem, Snoop Dogg, Nas e i Maroon 5 che sono stati i precedenti clienti di detto Mr. Batson? Mah.

Il singolo Tiny Light, rimane il brano migliore, rivolgetevi con fiducia ai tre album precedenti o andate a vederla dal vivo.

Non è nemmeno così disastroso come ve l’ho dipinto, ma sono rimasto deluso, mi aspettavo di più! Andrà meglio la prossima volta e, mai fidarsi, leggere sempre bene le note!

Comunque, visto il sacrificio, speriamo entri in classifica,

Bruno Conti

A Volte Ritornano. Di Nuovo. Jimmie Vaughan Plays, Blues, Ballads & Favorites

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Terza e ultima anteprima Buscadero. Da domani torniamo ai post normali.

JIMMIE VAUGHAN

Plays Blues, Ballads & Favorites

Proper/Ird

Come molti sanno Jimmie Vaughan è, era, il fratello maggiore di Stevie Ray Vaughan. La loro carriera è corsa parallela per molti anni, raramente incrociandosi, proprio nel 1990 avevano inciso un disco insieme Family Style, che, purtroppo, sarebbe uscito postumo dopo la morte di Stevie Ray in un incidente con l’elicottero il 27 agosto (quindi quest’anno sono già venti anni). Per onestà bisogna dire che quel disco non era un capolavoro, non era la somma della due parti ma un compromesso tra lo stile “unico” di Stevie Ray Vaughan e quello più misurato del fratello Jimmie.

Per trovare il meglio della produzione di Jimmie Vaughan direi che bisogna risalire ai primi quattro album dei Fabulous Thunderbirds, quelli usciti per la mitica Takoma con distribuzione Chrysalis e dove la doppia leadership di Vaughan e Kim Wilson regalava mirabilie di Texas Blues misto allo swamp blues derivato da Slim Harpo e Lazy Lester da cui il gruppo attingeva; il successo non è mai arrivato e dopo altri tre dischi per la Epic nella seconda metà degli anni ’80 Jimmie ha abbandonato il gruppo, che con varie vicissitudini e cambi d’organico sopravvive a tutt’oggi.

La sua carriera solista non è stata molto prolifica, detto del disco con Stevie Ray, nel 1994 è uscito Strange Pleasures che probabilmente rimane il suo disco migliore, quello con i brani più memorabili tra cui l’eccellente Six Strings Down dedicato al fratello scomparso, perché quando vuole anche Jimmie Vaughan è un ottimo solista in grado di cavare dalla sua chitarra assoli pungenti ma raffinati, lontani dallo stile torrenziale di Stevie Ray che rimane l’unico che ha saputo avvicinare l’arte suprema di Jimi Hendrix, ma comunque efficaci. Out There del 1998 e Do You get The Blues del 2001 completano la striminzita discografia, quindi fanno nove anni senza dischi: no, per la verità, dimenticavo, nel 2007 è uscito un CD in collaborazione con Omar Kent Dykes On The Jimmy Reed Highway dedicato al grande Bluesman.

Questo nuovo Plays, Blues, Ballads & Favorites, come da titolo, ci riporta ai generi musicali preferiti dal nostro amico: quello stile ibrido legato alle origini del Rock and Roll, al primo Blues elettrico, alle ballate errebì tipiche di quegli anni, quando la musica da ballo, il pop, ma quello più raffinato erano lontani dagli “eccessi” del rock, quando l’assolo di chitarra si chiamava “break”, pausa, quindi tre o quattro accordi e poi si rientra nei ranghi dell’orchestra. pIl repertorio del disco è quasi tutto costituito da brani di quel periodo con poche eccezioni. C’è uno strumentale scintillante, Comin’ & Goin’ composto da Jimmie Vaughan, un boogie a velocità supersonica con le dita che corrono veloci sul manico della chitarra, una versione deliziosa di Funny How Time Slips Away dove la voce vissuta del veterano Bill Willis, organista e mentore di Vaughan, regala emozioni, una sentita versione di Why, Why, Why di Doug Sahm una delle personalità essenziali della musica texana, il resto viene dall’era pre-Beatles.

Sono con lui, oltre ai fidi pards George Rains e Ronnie James a batteria e basso, nonché il chitarrista ritmico Billy Pittman, una piccola sezione fiati che ricorre in molti brani e soprattutto la sua “vecchia amica” Lou Ann Barton, compagna, con Angela Strehli dei primi anni della carriera dei fratelli Vaughan.

I due cantano in duetto quattro brani, la divertente Come Love di Jimmy Reed, dove Jimmie sfodera anche un’inconsueta performance all’armonica, il blues quasi valzerato di I’m Leaving Up To You, la ritmata e trascinante I Miss You So, musica da ballo per i tempi andati e un’ottima cover del grande successo di Charlie Rich, Lonely Weekends, quasi alla Ray Charles. Lou Ann Barton, che è una delle voci più belle del genere, canta anche altri due brani, il blues lento e tirato Wheel Of Fortune, dove Vaughan strapazza un po’ la sua chitarra e una versione inconsueta di Send Me Some Lovin’ di Richard Pennyman in arte Little Richard.

Il resto è affidato alla voce di Jimmie Vaughan, piacevole ed adeguata alla bisogna anche se non sarà mai un grande cantante, e alla sua chitarra, come già detto misurata e quasi centellinata.

Un piacevole disco di “archeologia e restauro” musicale, soprattutto per amanti del genere ma consigliato per la sua piacevole leggerezza anche ai non iniziati.

Bruno Conti

Lard Rock. Guarda che personcina, Però Suona Alla Grande. Lance Lopez

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Come promesso un’altra anteprima sulle recensioni del Buscadero.

LANCE LOPEZ

Salvation From Sundown

Mig Music

***1/2

Nativo della Louisiana, ma da anni residente in Texas, Lance Lopez è uno dei più interessanti chitarristi delle ultime generazioni, uno di quelli che hanno vissuto a pane e Jimi Hendrix, ma che ad inizio carriera ha suonato anche con musicisti di diverse estrazioni, dal soul man raffinato Johnnie Taylor, passando per Bobby Blue Bland, Johnny Guitar Watson, Little Milton e altri, quindi una gavetta di lusso. Poi ha suonato per alcuni anni nel gruppo di Lucky Peterson, prima di approdare ai Buddy Miles Express.

Il primo disco pubblicato a livello indipendente è del 1998, First Things First. L’anno successivo vince a New Orleans una competizione indetta dalla Hendrix Experience, Jimi Hendrix Electric Guitar Competition, un nome un programma. Nel 2000 arriva per la prima volta in Europa, dove apre per Steve Vai e Jeff Beck. Nel 2001 vince il premio come miglior Blues Band Texana a Dallas.

Per farla breve ha pubblicato altri tre album di studio di cui uno co-prodotto dall’altro Hendrixiano doc Eric Gales e un live strepitoso nel 2007 solo per il mercato europeo dove le cover di Hendrix si sprecano ma c’è anche un blues lento terrificante Everytime I Turn Around di oltre ventitre minuti dove gli assoli si susseguono in una sequenza micidiale.

Quindi chi già conosce sa cosa aspettarsi, per gli altri siamo sulle lunghezze d’onda di Popa Chubby (quello migliore), Frank Marino dei tempi d’oro, ma anche classico rock-blues texano, ZZTop, Stevie Ray Vaughan naturalmente, il Bonamassa più caciarone, visto che anche il nostro amico è un po’ sopra le righe, per usare un eufemismo, però suona, eccome se suona, dalla sua Fender Stratocaster molto vissuta è in grado di estrarre un sound violentissimo, molto riffato, ma anche sonorità ricercate e raffinate frutto di una notevole tecnica maturata in anni di gavetta.

Questo disco che esce con allegato un DVD dal vivo registrato al Rockpalast dello scorso anno unisce il meglio dei due mondi: c’è il rocker tamarro e intemerato che si presenta sul palco con un completino nero alla Zorro, con tanto di cappello, ma su un corpaccione che ricorda il Sergente Garcia, fautore di quello che definirei Lard Rock (l’altro giorno camminando ho visto un tipo, non proprio smilzo, con una maglietta che da lontano sembrava dell’Hard Rock Café, ma da vicino recitava Lard Rock e vedendo un sudatissimo Lance Lopez con il suo completino sul palco del Rockpalast mi è tornata in mente quella T-shirt, anche perché il concerto si è tenuto il 25 luglio, unica concessione, occhialoni scuri al posto della mascherina di Zorro)-

Scherzi a parte il nostro amico suona alla grande, soprattutto nella parte dal vivo, ma anche il disco in studio (che ha molti brani in comune con la versione live, ma sono proprio due cose diverse), registrato in quel di Dallas e agli Ardent Studios di Memphis per la produzione di Jim Gaines, non è niente male. La formula è quella conosciuta e sperimentata del power rock-blues trio, con una giusta miscela di brani originali (otto) e cover (quattro) nel disco in studio, mentre nel DVD dal vivo il rapporto è di sei a sei.

Lance Lopez si alterna tra la Fender già citata e una Flying V, ormai tornata in grande auge tra i chitarristi migliori delle ultime generazioni, Bonamassa docet, visto che fa molto scena. Anche Lopez va a sfrucugliare nel repertorio degli ZZtop per una versione micidiale del super classico La Grange, ma c’è spazio anche per una “doverosa” Heart Fixin’ Business di Mastro Albert King (che da lassù controlla con Jimi e Stevie Ray al fianco), sia in studio che dal vivo ma anche per una sorprendente Friend Of Mine di R.L. Burnside nella parte Live e una altrettanto sorprendente It Shoulda Been Me di Ray Charles nel disco in studio. Naturalmente tutti i brani ricevono il trattamento Lopez, quindi assoli prolungati r vigorosi, riff rocciosi e accattivanti e tutto l’armamentario degli Axemen Doc. Ma c’è anche spazio per il raffinato fraseggio di Neverlove una quasi ballata di grande misura e per il sound da deserto texano dell’ottima El Paso Sugar.

Alla fine, come si usa dire, Lance Lopez non prende prigionieri ma è anche il bello di questi dischi, sai già cosa aspettarti, ma se ti piace il tuo rock-blues hard e chitarristico godi come un riccio.

Guarda il completino, ma suona come Dio comanda.

Bruno Conti