Un Filo Meno Bello Del Solito! Jimmy Thackery And The Drivers – Wide Open

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Jimmy Thackery And The Drivers – Wide Open – White River Records

Dopo un lungo filotto di dischi, prima per la Blind Pig, poi per la Telarc, e anche uno dal vivo per la Dixiefrog, pure Jimmy Thackery si è dovuto piegare alle logiche di mercato, quindi etichetta indipendente autogestita, e questo Wide Open è il secondo CD che esce con questo sistema di distribuzione, dopo Feel The Heat del 2011. Forse ricorderete che avevo parlato abbastanza bene di quell’album (e sarebbe difficile il contrario) http://discoclub.myblog.it/2011/06/18/questo-uomo-suona-jimmy-thackery-and-the-drivers-feel-the-he/  ma non benissimo, pur essendo chi scrive convinto che Thackery sia uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione, e non solo in ambito rock-blues. Convinzione maturata in decenni di ascolti, prima con i Nighthawks e poi, da una ventina di anni, con i Drivers, in varie incarnazioni, in mezzo ci sono stati anche gli Assassins, i cui dischi sono di difficile reperibilità. Diciamo che anche lui, come Ronnie Earl o Danny Gatton (che addirittura non cantano), e prima ancora Roy Buchanan non brillavano come vocalisti: Thackery se la cava, ma non è un fulmine di guerra, Robillard, che peraltro non è certo Otis Redding o Sam Cooke, è decisamente meglio.

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Però la qualità come solista è pari ai nomi citati. Anche questo nuovo CD non lo annovererei sicuramente tra i suoi migliori in assoluto, palma che potrebbe spettare, Nighthawks a parte, ai due in coppia con Tab Benoit, a We Got It, dove ripercorreva il repertorio di Eddie Hinton, con l’aiuto dei Cate Brothers, ai vari Live, e ad altri CD dell’epoca Blind Pig e Telarc. Per questo Wide Open Jimmy Thackery si è preso il suo tempo, un paio di anni per concepire i brani e poi per registrarli ad Aprile di quest’anno negli studi di Cadiz, Ohio, con i due pards, Mark Bumgarner al basso e George Sheppard alla batteria https://www.youtube.com/watch?v=rgO3-xcOIbw . Il risultato è un disco più rilassato, a tratti jazzato, a tratti “atmosferico”, non privo delle sue feroci cavalcate chitarristiche rock-blues, ma che si può definire tanto eclettico quanto discontinuo, Wide Open per dirla con il buon Jimmy. Si parte con il jazz-blues swingato di Change Your Tune, con un cantato assai “rilassato” di Thackery, che però alla solista può suonare quello che vuole, con una disinvoltura disarmante. Anche Minor Step ha un taglio jazzistico, uno strumentale che oscilla tra Wes Montgomery, Robben Ford e certe cose di Ronnie Earl, niente male insomma. Coffee And Chicken è il primo vero blues, i Drivers rendono omaggio al loro nome e il nostro comincia ad affilare le stilettate della sua chitarra, anche se la parte cantata è sempre troppo sforzata. King Of Livin’ On My Own vira addirittura verso lidi country, con Thackery impegnato all’acustica in un brano che non è proprio un capolavoro. Hard Luck Man è il Thackery che più ci piace, un blues-rocker ricco di riff, con una grinta alla Nighthawks e la chitarra che “vola” https://www.youtube.com/watch?v=eeS2Bv4xdkY . Shame Shame Shame, il brano più lungo di questa collezione, quasi otto minuti, è uno strano slow blues elettroacustico dove Thackery si cimenta alla slide acustica, ma non resterà negli annali del blues.

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Molto meglio parlando di blues lenti una You Brush Me Off dove Jimmy se la batte con il miglior Ronnie Earl, uno di quei classici brani in crescendo che si gustano tutti d’un fiato https://www.youtube.com/watch?v=WHwKuLLngo8 , mentre Someone Who’s Crying Tonight, nonostante la presenza di Reese Wynans all’organo Hammond, fatica a decollare, un altro lento più parlato che cantato, ancora vicino ad atmosfere vagamente outlaw country-rock, sempre in attesa di un assolo che non arriva mai. Keep My Heart From Breakin’ torna al rock-blues più sanguigno, quello che di solito impazza nei suoi dischi, ma Swingin’ Breeze è un brano più adatto ai dischi jazz di Robillard o di un Herb Ellis, uno strumentale suonato benissimo ma non è il genere chi mi aspetto da Thackery e Run Like The Wind, un blues acustico, solo voce e chitarra, non è che metta il fuoco alle chiappe dell’ascoltatore. Rimane la conclusiva Pondok, un interessante brano strumentale che rende omaggio all’arte dei citati Buchanan e Gatton, un esercizio di grande perizia tecnica che però non solleva completamente le sorti dell’album. Ovviamente parere personale, magari non condivisibile, ma sapete che amo essere sincero. Gli anni passano e Thackery è un distinto signore di 61 anni, ma mi aspettavo di più, la classe c’è, ma solo a tratti.

Bruno Conti

Ebbene Sì, Eccolo Di Nuovo! Anteprima Joe Bonamassa – Different Shades Of Blue

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Joe Bonamassa – Different Shades Of Blue – Mascot/Provogue 23-09-2014

Un altro!?! Già immagino che questa sarà stata la prima reazione a caldo di molti di voi all’annuncio di questo nuovo, ennesimo, disco di Joe Bonamassa. E’ stata anche la mia. Poi ragionandoci sopra a mente fredda, uno fa due calcoli: in effetti l’ultimo album di studio, Driving Towards The Daylight, è uscito nel maggio del 2012. Oddio, è vero che nel frattempo sono usciti due album in collaborazione con Beth Hart, uno in studio e uno doppio dal vivo http://discoclub.myblog.it/2014/04/11/potrebbe-il-miglior-live-del-2014-beth-hart-joe-bonamassa-live-amsterdam/ , il Beacon Theatre – Live From New York https://www.youtube.com/watch?v=duBkUREYP-o , il terzo e ultimo capitolo con i Black Country Communion, Afterglow, considerato cosa vecchia, ma uscito “solo” nell’ottobre, sempre del 2012. Le due collaborazioni con i Rock Candy Funk Party, compreso l’eccellente Live At Iridium http://discoclub.myblog.it/2014/04/08/supergruppo-famosi-tranne-mr-bonamassa-rock-candy-funk-party-takes-new-york-live-at-the-iridium/ . Vogliamo aggiungere i quattro capitoli concertistici della serie Tour De Force, preceduti dal fantastico An Acoustic Evening At The Vienna Opera House.

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Bisogna ammettere che non sono pochi, medie che non si vedevano dai tempi aurei del rock, quelli a cavallo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 quando la prolificità non dico fosse considerata un punto di merito, ma non era neppure merce così rara. Come recita il comunicato stampa che annuncia l’uscita di Different Shades Of Blue, prevista per il 23 settembre, stiamo parlando del primo album di materiale originale di Joe Bonamassa da due anni a questa parte, scritto tutto a Nashville, nell’arco del 2013, anno in cui si era astenuto dal pubblicare nuovi dischi di studio, una rarità, aggiunge l’estensore di quelle note, nella frenetica attività del nostro. Brani scritti  anche con Jonathan Cain, James House e Jerry Flowers, oltre al suo collaboratore abituale, il produttore Kevin Shirley, che ancora una volta siede dietro la consolle. Non saprei dirvi quali e con chi, perché nelle informazioni che ho al momento non è riportato. Posso aggiungere che il disco, nelle intenzioni di Bonamassa, è una sorta di ritorno alle matrici blues della sua musica, ma cercando al contempo di aggiungere al lavoro un lato maggiormente “sperimentale” rispetto ai progetti precedenti https://www.youtube.com/watch?v=Ev0oreq0LIo .

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Il disco, concepito a Nashville, è stato poi registrato in quel di Las Vegas, allo Studio At The Palms, con la consueta abbondante pattuglia di collaboratori: non c’è più Arlan Schierbaum alle tastiere, sostituito dal “mitico” Reese Wynans, coronando il sogno di Joe di suonare con un componente dei Double Trouble di uno dei suoi miti di gioventù, Stevie Ray Vaughan. Solita sezione ritmica con Anton Fig alla batteria e Carmine Rojas al basso, che viene affiancato da Michael Rhodes, che lo suona in alcuni brani. La novità sostanziale è la piccola sezione di fiati, retaggio delle collaborazioni con Beth Hart, che aumenta ulteriormente la quota blues & soul, Lee Thornburg, a tromba e trombone e Ron Dziubla ai sassofoni, oltre all’immancabile Lenny Castro alle percussioni, i backing vocalists, Doug Henthorn e Michelle Williams e una sezione archi, la Bovaland Orchestra, usata con parsimonia, a occhio, anzi a orecchio, direi in un brano. In totale undici  brani, di cui uno, è un breve frammento strumentale di un minuto e venti https://www.youtube.com/watch?v=ctMIr_bNb80 .

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Vediamoli. Hey Baby (New Rising Sun), il brano appena citato, suona (e lo è) come un breve omaggio a Jimi Hendrix, un altro degli eroi del pantheon musicale del nostro. Oh Beautiful! Solo voce, con molto eco, poi parte un riff, direi circa Led Zeppelin II, un pezzo rock con l’organo di Reese Wynans che incombe sulla chitarra di Bonamassa che oscilla tra Kashmir e derive simil psichedeliche, prima di esplodere in uno dei suoi classici assoli, un misto di classe e di potenza (credo che ormai siamo tutti d’accordo che il buon Joe non sia solo un volgare picchiatore, ma uno dei migliori chitarristi dell’attuale epoca della musica rock). E qui lo dimostra, Page rimasterizza i suoi vecchi dischi, Bonamassa “rimasterizza” il passato. Love Ain’t A Love Song ricorda le collaborazioni con Beth Hart, che hanno riportato a galla il mai sopito amore di Joe per il blues e il soul, e in genere con quei tipi di musica che prevedono l’uso dei fiati, Thornburg e Dziubla, ben spalleggiati da Henthorn e Williams, rispolverano questo stile funky-blues non solo nei classici del passato, ma pure in queste nuove composizioni “ispirate” a queste coordinate. La produzione di Shirley porta tutto alla luce con un nitore sonoro che ci permette di apprezzare anche le evoluzioni sonore della solista. Living On The Moon è il primo blues puro, fiatistico, ma con un drive boogie shuffle che si apre alle continue invenzioni della solista, sempre in grande spolvero, ma utilizzata con gusto e misura. Heartache Follow Wherever I Go è una ulteriore variazione su questo canovaccio Blues fiatistico, un pezzo cadenzato, con le percussioni di Lenny Castro che aggiungono un piccolo tocco di esotismo, mentre l’organo di Wynans è sempre ben presente, fino a un ricchissimo assolo di Bonamassa, prima con il wah-wah, poi esplorando quasi con libidine trattenuta il manico della sua chitarra https://www.youtube.com/watch?v=n9V8f9fRuIw .

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Never Give All Your Heart torna alle tessiture rock più classiche del musicista newyorkese, piano acustico e chitarra lancinante a cavalcare un brano che ondeggia tra momenti riflessivi e atmosfere più rarefatte, fino all’ingresso dell’organo di Wynans e da lì va nella stratosfera del rock, con un assolo di quelli che sprizzano potenza pura e reiterata. Torna il blues, in una versione ancora più canonica, con uno shuffle ad altra gradazione fiatistica. I Gave Everything for you (‘Cept The Blues), con la solista a duettare con il piano su sonorità care ai maestri del passato. La title track, nonché singolo portante del disco, Different shades of blue, è una di quelle hard ballads malinconiche e melodiche che sono nelle corde del Bonamassa più mainstream, chitarre acustiche ed elettriche che si intrecciano con naturalezza, in un brano che piace fin dal primo ascolto, glorificato dal “solito” fluentissimo” e conciso assolo nel finale https://www.youtube.com/watch?v=Z3_GOk36JD0 . Get Back My Tomorrow è uno dei brani che cerca di sperimentare con diverse soluzioni sonore, tra strumenti elettrici ed acustici che cercano di allontanare il mood dalle classiche 12 battute, ma è anche uno di quelli che al momento mi convince meno. Trouble Town, viceversa, è un super funky fiatistico che tiene conto anche delle recenti avventure collaterali con i Rock Candy Funk Party, meno jazz e più sanguigno blues, con una bella slide. Conclude So What Would I Do, un bellissimo lento che non poteva mancare in un disco di Joe Bonamassa che si rispetti, Reese Wynans a piano ed organo, tira la volata al suo titolare che ben si comporta con una interpretazione vocale che ha quasi dei richiami allo stile di Ray Charles, anche nell’uso degli archi, nobilitata da un misurato assolo, più di finezza che di forza, a conferma della bravura di questo signore https://www.youtube.com/watch?v=BEQUo_QHqSQ . Non ancora un capolavoro ma un ennesimo lavoro solido e convincente. Esce il 23 settembre, edizione con libretto Deluxe di 64 pagine, ma senza brani extra, ovviamente più costosa, negli Stati Uniti e poi in Europa uscirà anche la versione “normale” senza libretto, più risparmiosa!

Bruno Conti       

Nel “Nido” Del Blues! Joe Louis Walker – Hornet’s Nest

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Joe Louis Walker – Hornet’s Nest – Alligator/Ird 25-02-2014

Prendete uno che suona la chitarra come una via di mezzo tra Hendrix e Stevie Ray Vaughan (sentire per credere l’iniziale Hornet’s Nest), con il “tocco” di Clapton e la crudezza di un Buddy Guy, senza dimenticare lo sconfinato amore per il Blues di uno come Michael Bloomfield, che a San Francisco, dalla fine degli anni ’60 fino alla morte, è stato, oltre che il suo co-inquilino, una sorta di mentore per il giovane Joe Louis Walker. Se aggiungete una voce che neanche il miglior Robert Cray, otteniamo un musicista che sa maneggiare rock, blues, soul e R&B, con un tocco di gospel, con la classe dei migliori e in più una “ferocia” che ha pochi riscontri nell’attuale panorama del blues nero http://www.youtube.com/watch?v=d79xn_XaQ_0 . Se poi affidiamo un tale fenomeno nelle mani di un produttore capace (nonché ottimo batterista ed autore) come Tom Hambridge, colui che ha guidato le recenti avventure di Guy, Cotton, Thorogood, e il precedente Hellfire dello stesso Walker http://discoclub.myblog.it/2012/02/01/uno-dei-migliori-bluesmen-in-circolazione-joe-louis-walker-h/ , non vi resta che schiacciare il tasto Play e godervi una cinquantina di minuti di ottima musica.

https://www.youtube.com/watch?v=8SlyZyg7xHE

Joe, discograficamente parlando ha iniziato abbastanza tardi, nel 1986, quando aveva già 37 anni, ma poi ha recuperato abbondantemente, pubblicando da allora qualcosa come 25 album, compreso questo Hornet’s nest, che è il suo secondo per la Alligator. Non vi racconterò frottole parlandovi di seconde o terze giovinezze, perché i dischi di Walker sono sempre stati, qualitativamente parlando, di valore elevato, qualcuno superiore agli altri, e quest’ultimo rientra nella categoria, ma tutti piuttosto buoni http://www.youtube.com/watch?v=bZ0RnIq-o60#t=33 . Nella tana di questo “calabrone” si sono calati anche alcuni ottimi musicisti, quelli utilizzati abitualmente da Hambridge: l’ineffabile Reese Wynans alle tastiere, che è il trait d’union con SRV, Tommy McDonald al basso e il secondo chitarrista Rob McNelley, oltre a Tom stesso, alla batteria. In All I wanted to go c’è la “nuova” Muscle Shoals Horn Section, guidata da Jim Horn al sax. Il tutto è stato registrato ai Sound Stage Studios di Nashvile, con un autentico e moderno suono sudista.

https://www.youtube.com/watch?v=0mb94JWIsD0

Detto della robustissima title-track posta all’inizio del CD, con le due chitarre che si sfidano con una cattiveria inusitata, mentre il resto della band, Wynans in testa, è indaffaratissima, anche il resto del disco ha un sound energico, come era stato per il precedente Hellfire, un po’ un marchio di fabbrica di Hambridge. La fiatistica All I Wanted To Go, ha un substrato R&B che l’avvicina al Cray più pimpante, ancora con l’organo di Wynans co-protagonista. L’ode al blues di Chicago As The Sun Goes Down, dall’andatura più lenta e maestosa, ha quel suono di chitarra lancinante che è tipico di Walker e discende dalla teoria dei grandi chitarristi elettrici della storia delle 12 battute. Stick a fork in me è un brano più normale, quasi di routine per il nostro, anche se in molti dischi di cosiddetti “fenomeni” della chitarra farebbe fuoco e fiamme, ascoltatevi che assolino ti cava dal cilindro. Don’t Let Go, la prima cover, è un bellissimo rock and roll, scritto da Jesse Stone, l’autore di Flip, Flop And Fly e di Shake, Rattle and Roll, eseguita come se invece che ai Sound Stage fossimo ai Sun Studios, e con lo spirito di Elvis che aleggia nell’aria, con i coristi di Walker che replicano lo stile dei Jordanaires (ma in effetti sono loro, Ray Walker e Curtis Young) con ottimi risultati. Love Enough sembra un brano di Clapton quando riprende un pezzo di Robert Johnson, con quel tipo di scansione ritmica ed approccio sonoro elettrico, mentre l’assolo alla slide è assolutamente delizioso.

https://www.youtube.com/watch?v=lQIIm0lwKq0

Ramblin’ Soul è il miglior brano dell’album, ancora con le due chitarre arrapate e soprattutto una lunga parte strumentale che ricorda i migliori Stones blues dell’era di Mick Taylor. Dico questo non a caso perché il pezzo successivo, la seconda cover, Ride on, baby, porta la firma Jagger/Richards, anche se questo brano che appariva su Flowers, ed era stato eseguito per primo da Chris Farlowe, non è particolarmente conosciuto. Bella versione però, sembra un brano del miglior Southside Johnny, con la sua andatura caracollante e springsteeniana. Soul City, l’ultima cover, porta la firma di Kid Andersen, il chitarrista norvegese dei Nighcats, ed è un ottimo esempio di funky rock, tra l’Hendrix dei Band Of Gypsys e Sly Stone, con una serie di assolo che vanno nella stratosfera della chitarra. Che è nuovamente protagonista nel poderoso slow blues, ancora con slide, che porta il nome di I’m Gonna Walk Onstage, non posso che confermare, questo suona! Not In Kansas Anymore, a riprova di quello spirito rockista evocato più volte, sembra un brano degli Who dei primi anni ’70, i migliori. E se, come si suole dire, tutti i salmi finiscono in gloria, quale migliore modo di concludere se non con un bel gospel come Keep The Faith, che ci permette di gustare la voce vellutata di Joe Louis Walker (e l’organo Hammond di Wynans e i Jordanaires) in tutto il suo splendore. 

Bruno Conti

Di Nuovo Lo “Smilzo”! Too Slim & The Taildraggers – Blue Heart

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Too Slim And The Taildraggers – Blue Heart – Underworld Records

In questi ultimi anni sono diventato una sorta di “cantore” delle gesta di Tim Langford, in arte Too Slim. E se il disco acustico in solitaria dello scorso anno, Broken Halo, pur non entusiasmandomi, non era poi malvagio one-man-ban-tim-too-slim-langford-broken-halo.html, i precedenti Shiver e il disco dal vivo Time To Live, avevano confermato la bontà di un personaggio in pista da più di 25 anni e con una quindicina di album al suo attivo. Ma questo Blue Heart è uno dei migliori della sua carriera e lo rilancia ai vertici qualitativi di metà anni ’90, quando vinceva parecchi premi, nelle varie classifiche blues di fine anno. Il bassista E. Scott Esbeck (già con i Los Straitjackets) e il batterista Jeff “Shakey” Fowlkes ( con Robert Bradleys Black Water Surprise, Kid Rock, Uncle Kraker) sono i nuovi Taildraggers, ma non suonano nel disco! Ohibò, e questo cosa vuol dire? Significa, come ricordo spesso, parere personale magari non condiviso, che i nomi sono importanti e ricordarli aiuta a capire cosa si ascolta. In caso contrario come farebbe uno a ricordare quei meravigliosi musicisti che suonavano, che so,  nei dischi registrati ai Muscle Shoals Studios o in quelli della Motown o della Hi Records, per citare alcuni casi eclatanti.

Ma anche oggi i nomi di produttori e musicisti sono importanti: prendiamo questo album, il produttore è Tom Hambridge che suona anche la batteria (all’opera con profitto negli ultimi anni con Eric Burdon, Joe Louis Walker, Thorogood, James Cotton, Buddy Guy) e la differenza nel sound si sente, ogni rullata o colpo di grancassa sembra una schioppettata, e anche gli altri strumenti hanno un suono ben definito da etichetta importante, anche se il tutto poi è stato registrato in quel di Nashville negli studi di una piccola label come la Underworld. Se poi aggiungiamo che anche gli altri musicisti non scherzano un c…., a partire dal bassista Tommy McDonald che suona in tutti i dischi citati prima con Hambridge, e anche nel disco Loosen Up di tale R.B. Stone, che non ha ancora avuto il tempo di sentire ma di cui ho letto ottime case (il giorno ha solo 24 ore!), all’organo c’è Reese Wynans, alla seconda chitarra Rob McNelley, dalla band di Delbert McClinton e come ospite in un paio di brani il leggendario Jimmy Hall, dai Wet Willie e Brothers of The Soutland. E il 50 % è già fatto, se niente niente, il nostro amico riesce a scrivere anche dei buoni pezzi, portiamo a casa il risultato: e i nove pezzi a nome Tim Langford, più un paio di cover di autori pochi noti confermano l’impressione, il disco è buono, se amate quel blues, sapido e ricco di rock, southern, boogie e con coloriture soul e R&B, siete capitati nel posto giusto.

Ok, anche la produzione di Hambridge non può migliorare più di tanto la voce di Langford, ma la inserisce in un ambito più adatto e la valorizza (in fondo non è che Billy Gibbons abbia una voce straordinaria) , non puoi creare un Jimmy Hall, e quando quest’ultimo canta in Good To See You Smile Again, la differenza si sente, ma la voce è un dono di natura, puoi migliorarla come hanno fatto Clapton ed altri nel corso degli anni, ma non si diventa Solomon Burke o Eric Burdon dalla mattina alla sera. Per cui accontentiamoci e godiamoci il boogie  rock “cattivo” di Wash My Hands che riffa alla ZZ Top, con la chitarra anche slide di Too Slim che comincia a fare i numeri. O l’ottimo hard slow blues di Minutes Seem Like Hours, ricco di atmosfere e di chitarre, ma anche il blues più tradizionale della title-track Blue Heart, con l’armonica di Jimmy Hall a dividersi il proscenio con la chitarra di Langford, Hambridge oltre ad essere indaffarato in fase di produzione, aggiungi un filtro alla voce qui, alza il basso di là, picchia di gusto sulla sua batteria e ottiene il risultato del titolo di una canzone, Make It Sound Happy, con il basso pompatissimo di McDonald in soccorso della solista indurita del buon Tim.

Il brano cantato da Jimmy Hall è uno slow blues di quelli Doc, con l’organo di Wynans che soffia in sottofondo. Organo che rimane protagonista anche nelle atmosfere sudiste di When Whiskey Was My Friend per lasciare spazio alla chitarra indiavolata di Langford nella hendrixiana If You Broke My Heart. Ma i blues lenti esaltano le virtù chitarristiche del nostro amico come nell’ottima New Years Blues, mentre il funky di Shape Of Blues To Come di tale David Duncan, al di là dei virtuosismi di chitarra e organo, entusiasma meno. Viceversa Preacher, di uno che si chiama Ross Sermons, è una vera “predica” su come si usa la slide e Tim Langford nel campo non ha bisogno di lezioni. Per la conclusiva Angels Are Back si torna alle atmosfere acustiche del precedente Broken Hall, piacevole e ben suonata, ma elettrico Too Slim è un’altra cosa, se avesse una bella voce, mezzo punto in più!

Bruno Conti  

Se Fosse Anche Prolifica Sarebbe Perfetta! – Iris DeMent – Sing The Delta

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Iris DeMent – Sing The Delta – Flariella CD

Uno dei “mini-eventi” discografici di questo 2012 che volge al termine è sicuramente il ritorno discografico di Iris DeMent (che come forse ricordate è anche la moglie di Greg Brown). Erano infatti ben sedici anni, cioè da The Way I Should (che all’epoca era il suo terzo album), che la brava Iris non pubblicava un disco di brani originali: in mezzo (nel 2004) era uscito il bellissimo Lifeline, che però era una raccolta di brani tradizionali (tranne uno) a sfondo gospel, oltre a qualche sparuta apparizione in colonne sonore, tributi ed ospitate per duetti in dischi altrui. Mi ero quindi quasi dimenticato della sua esistenza, in sedici anni è cambiato il mondo (non solo musicale), ma ci ha pensato la sua nuova fatica Sing The Delta a farmi di nuovo apprezzare un’artista di primissimo livello.

Sing The Delta (il titolo potrebbe far pensare ad un album di cover di blues del Mississippi, ma in realtà sono tutte canzoni nuove di zecca) è infatti un grande disco, ispirato, lirico, suonato in maniera fluida e cantato al solito molto bene dalla voce squillante e giovanile di Iris (in contrasto con la sua immagine trasandata presente sulla copertina e nel booklet del CD, stile massaia stressata), un disco musicale nel vero senso della parola con Iris davvero in forma smagliante, accompagnata da uno stuolo di musicisti di primo piano, tra cui i produttori Bo Ramsey (fedele collaboratore suo ed anche di suo marito) e Richard Bennett, il maestro della steel guitar Al Perkins e l’ex Double Trouble Reese Wynans: lei stessa si dimostra una pianista formidabile, sentire per credere (e questo particolare non lo ricordavo). Senza esagerare, penso di trovarmi di fronte ad uno dei 10-15 migliori dischi dell’anno, di sicuro il migliore in ambito femminile (più di Mary Gauthier, che è dal vivo e quindi non con brani nuovi, di Ashes And Roses di Mary Chapin Carpenter, bello ma alla lunga un po’ statico, e di Banga di Patti Smith, che mi è piaciuto solo in parte).

Dodici brani, uno meglio dell’altro, con uno stile che parte dal country, punto di partenza naturale della musica di Iris, per sfociare nel folk e nel gospel con estrema naturalezza, eccellente feeling interpretativo e grande compattezza di fondo, il tutto condito con una finezza non comune. Anche i testi riflettono questa semplicità: si parla di famiglia, lavoro, affetti, fede, ricordi di gioventù, un mix estremamente spontaneo nel quale realtà (inteso come rimembranze autobiografiche di Iris) e finzione si fondono in maniera mirabile, lasciando il dubbio su dove finisce una cosa e dove comincia l’altra. L’inizio è strepitoso: Go On Ahead And Go Home è una grandissima canzone, con un riff di piano irresistibile, una melodia coinvolgente cantata in maniera superlativa (sto già finendo gli aggettivi a disposizione…). Una delle migliori opening tracks da me ascoltate negli ultimi mesi. E poi, ribadisco, Iris al pianoforte è una goduria per le orecchie, suona quasi come Randy Newman.

Before The Colors Fade, più lenta, è buona ma non eccezionale, l’unico episodio leggermente sottotono, ma con The Kingdom Has Already Come, un country-gospel che rimanda addirittura al miglior Elton John (quello di dischi come Tumbleweed Connection e Madman Across The Water), il disco si rimette sui binari giusti e non si ferma più. La pimpante The Night I Learned How Not To Pray, dall’arrangiamento bucolico e solare, è il tipo di brani country che Emmylou Harris non fa più da una vita, mentre Sing The Delta è unosplendido slow dal sapore quasi soul, dovuto anche all’uso discreto dei fiati. If That Ain’t Love è honky-tonk deluxe, con un tocco folk (ma che pianoforte), Livin’ On The Inside è calda, fluida e ricca di sfumature country, errebi e gospel, mentre Makin’ My Way Back Home è la più country del disco, con la steel di Franklin che ricama da par suo. Le ultime quattro canzoni, la profonda Mornin’ Glory, There’s A Whole Lotta Heaven (strepitosa questa, ricorda Newman anche nello stile), le deliziose Mama Was Always Tellin’ Her Truth e Out Of The Fire, non fanno che completare nella maniera giusta un disco pressoché perfetto.

Album così in America vengono definiti instant classic: speriamo solo di non dover attendere il seguito per altri sedici anni.

Marco Verdi

E Intanto John Hiatt Non Sbaglia Un Colpo! Dirty Jeans And Mudslide Hymns

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John Hiatt – Dirty Jeans And Mudslide Hymns – New West/Ird

Il titolo del Post parafrasa una vecchia canzone di Carboni che faceva riferimento a Dustin Hoffman (e forse l’ho anche già usato, ma ne scrivo talmente tanti che non mi ricordo, forse no) e si può applicare anche a John Hiatt e a questo suo nuovo Dirty Jeans…. Si diceva che è il ventesimo album di studio del musicista di Indianapolis (oltre a Live, raccolte e ai Little Village) e la bilancia pende sempre dalla parte della qualità.

Ci saranno le solite critiche: i dischi sembrano sempre “simili” tra loro, la voce a qualcuno dà “fastidio”, da quando non fa più la vita dell’outsider con sesso, droga e rock’n’roll (ma da anni ormai) le canzoni hanno perso quella patina di vita ai limiti, borderline, si tira dietro anche la figlia nelle tournée. Ma io rispondo, meglio tanti dischi di Hiatt, tutti uguali tra loro, comunque sempre belli, che decine, anzi centinaia di album inutili che escono ogni mese. La voce, ormai, è un gusto acquisito, ruvida ma gentile, subito riconoscibile, è una sorta di marchio di fabbrica, come per Springsteen, Petty, Morrison sai subito con chi hai a che fare. Oltre a tutto, in Italia, il nostro amico John è conosciuto soprattutto per Have A Little Faith In Me, che era la musica di una pubblicità di un budino e manco nella sua versione, e peraltro rimane, a detta di Hiatt, il suo miglior brano o quello che meglio lo rappresenta, però di canzoni belle ne ha scritte tantissime nel corso degli anni, per sé e per gli altri.

Per esempio, Train To Birmingham, che in concerto esegue da parecchio tempo e di cui esiste, tra gli altri, una bella cover di Kevin Welch, potrebbe essere una delle migliori canzoni in assoluto dedicate alla cittadina dell’Alabama, insieme a Boulder To Birmingham di Emmylou Harris, When Jesus left Birmingham di Mellencamp, Birmingham di Randy Newman, tanto per citarne alcune che ricordo ma ce ne sono a decine, anche Sweet Home Alabama la cita nel testo. Ebbene, un brano così bello, non lo aveva mai inciso fino a oggi, non solo, in un’intervista ha dichiarato che risale addirittura a 40 anni fa, una canzone scritta quando aveva circa 19 anni e mai utilizzata. Per la serie che c’è gente che ucciderebbe per scrivere certe canzoni ma, sfortunamente, non può e lui le scarta, e quasi ogni anno pubblica immancabilmente un disco nuovo.  La versione incisa per questo album, con la slide di Doug Lancio in evidenza, ha la serena consapevolezza della musica attuale di John Hiatt, tra country, blues e southern roots music come nelle sue migliori abitudini. Anche un brano come la conclusiva When New York Had Her Heart Broken, che è più farina del sacco del produttore Kevin Shirley a livello musicale, e nelle sue derive ambientali ricorda vagamente certe produzioni di Lanois, è un brano scritto una decina di anni fa in occasione dell’attacco alle Torri Gemelle e poi non usato, rispolverato per l’occasione su richiesta dello stesso Shirley, che si trovava a New Yo rk con la famiglia e ha un particolare ricordo di quell’avvenimento. Non sarà bellissima, ma emoziona e ha un suo fascino particolare, diverso dallo stile abituale di Hiatt.

Il resto è il “solito” Hiatt ma averne di dischi così: dopo vari ascolti mi sembra di poter dire che siamo più o meno ai livelli del precedente The Open Road (uno dei suoi migliori in assoluto), ci mette un attimo di più a entrarti in testa ma è pieno di belle canzoni. Dal rock tirato e chitarristico dell’iniziale Damn This Town con la solita slide di Lancio in caccia di assoli, la ritmica di Patrick O’Hearn e Kenny Blevins sempre precisa e inventiva, forse la differenza è nel suono più “professionale” di Shirley con la batteria più marcata, una coloritura delle tastiere che rimangono ai limiti della percezione ma incidono nel suono, la voce in primo piano, ma non mi sembrano elementi fastidiosi e si notano nei brani più mossi. Nei “suoi” pezzi come la ballata a tempo di valzerone country ‘Til I Get My Lovin’ Back con la pedal steel di Russ Pahl in grande spolvero, torna il suo proverbiale romanticismo e il suono ti si adatta come un paio di vecchi calzini, con rispetto parlando. I Love That Girl ha l’aspetto gioioso delle canzoni più allegre di Hiatt con il call and response irresistibile dei cori che si riallaccia alle migliori tradizioni del R&B più spensierato e lui la canta con una convinzione ammirevole.

Lo spettro sonoro si arricchisce del country-folk blues acustico della deliziosa All The Way Under con il mandolino di Lancio a duettare con una fisarmonica paesana.

Don’t Wanna Leave You Now è una delle sue classiche slow songs avvolgenti, impreziosita (o appesantita, a seconda dei punti di vista) da un sontuoso arrangiamento orchestrale di Shirley, che ricorda certe canzoni del canone di Van Morrison, ascoltate il basso di O’Hearn che ricorda i giri armonici di David Hayes. Detroit Made, di nuovo rock, riporta lla mente, per certi versi, la classica Memphis In The Meantime con la band che gira alla grande e con Lancio che si conferma degno erede dei chitarristi che lo hanno preceduto nella band di Hiatt, Cooder e Landreth in primis! Hold On For Your Love è un altro di quei lenti epici, in crescendo, che appartengono alla sua migliore tradizione, forse già sentito ma si riascolta con gran piacere anche perché lui canta, mi ripeto, con decisa e ritrovata convinzione (da qualche album a questa parte) le sue storie tipicamente americane e non manca anche in questo brano l’assolo di Lancio, veramente protagonista in questo CD.

Di Train To Birmingham abbiamo detto, Down Around My Place, con l’organo di Reese Wynans che aggiunge spessore ad un brano che è tra le perle dell’album con la sua atmosfera di nuovo epica e chitarristica, quasi acida, vagamente Younghiana, conferma il momento di grazia del cantautore dell’Indiana. Manca Adios To California, di nuovo ballata ritmata di confine con la lap steel di Pahl in grande spolvero che risponde alle chitarre di Lancio per un brano ancora una volta di grande fascino e con quella bellissima voce, tra le migliori in circolazione, che ti cattura inesorabilmente

Per me, molto bello, come sempre tra i migliori dell’anno, poi fate voi, ma state attenti che vi controllo!

Bruno Conti